Messaggio centrale
L’azione di salvezza realizzatasi nella Pasqua di Gesù è il giudizio di Dio che smaschera ogni falsa immagine di lui e dona ai credenti di partecipare della sua vittoria sulla morte.
Con il cantico di Ap 11,17-18; 12,10-12, proposto dalla liturgia del vespero ogni giovedì, siamo condotti al centro dell’Apocalisse.
I capitoli 4 e 5 riportano infatti una visione: l’Agnello che prende il libro sigillato dalla destra di colui che è seduto sul trono, che rappresenta la lettura in profondità di ciò che la liturgia celebra (la storia della salvezza).�
Il simbolo dell’Agnello immolato e ritto in piedi (Ap 5,6) è molto significativo: mentre ritrae la condizione paradossale del Crocifisso-Risorto, rivela solennemente che è proprio lui a guidare la storia, perché ne anticipa il senso ultimo consentendoci di comprenderla a fondo.
Ora, nel cantico dei capitoli 11 e 12, viene festosamente proclamato l’esito felice dell’azione del Signore Gesù, che nella Pasqua ha fatto della sua vita un dono per tutti.
Possiamo raccogliere il messaggio dell’inno situandolo rapidamente nel contesto e fermando poi l’attenzione sul testo del cantico, così come la Liturgia delle Ore lo ha assunto.
Contesto
Con il suono della settima tromba (Ap 11,15) viene introdotto il compimento del disegno di Dio, già chiaramente preparato in Ap 10,7: «nei giorni in cui il settimo angelo farà udire la sua voce e suonerà la tromba, allora si compirà il mistero di Dio, come egli aveva annunziato ai suoi servi, i profeti».�
Certo la storia umana non è abolita e la certezza del risultato non toglie la fatica della lotta. Infatti il segno della donna e del dragone (Ap 12,1-9), che sta tra la prima e la seconda strofa dell’inno, richiama ancora una volta i tratti drammatici che caratterizzano la storia degli uomini: essa è inesorabilmente segnata dal permanere del conflitto con le forze del male, ma anche dall’effettiva offerta della salvezza, che consente un esito vittorioso quando incontra accoglienza.�
La liturgia che la Chiesa celebra, e di cui gli inni dell’Apocalisse sono eco, non evade pertanto dalla storia, ma ne apre l’interpretazione profonda, quella che scaturisce dall’esito finale costituito dalla Pasqua di Gesù.
La liturgia consente di leggere il presente della Chiesa alla luce del passato e del futuro, di riconoscerlo come il momento in cui il compimento è offerto e va maturando in noi.
Struttura del testo
La prima strofa del cantico dà voce all’adorazione dei ventiquattro vegliardi, come indicava Ap 11,16: «seduti sui loro seggi al cospetto di Dio, si prostrarono faccia a terra e adorarono Dio dicendo … ». Essi appartengono stabilmente al coro che sta attorno al trono di Dio (cf. Ap 4,4; 5,8-9). Il loro numero, dodici, evoca probabilmente il popolo di Dio nella sua condizione di maturità, di pienezza (le dodici tribù d’Israele e i dodici apostoli).
Al coro dei vegliardi risponde, a modo di solenne conferma, una grande voce nel cielo (Ap 12,10), con la quale inizia la seconda parte dell’inno. Il rendimento di grazie che apre la prima strofa viene così ratificato dall’autorevole invito alla gioia che conclude la seconda.�
In tal modo le due parti risultano ben connesse tra di loro. La prima esprime il grazie e ne indica la motivazione nella «ricompensa»;la seconda racconta tale ricompensa come «salvezza compiuta».
Spiegazione
Il giudizio: gratitudine e motivazione (Ap 11,17-18)
Noi ti rendiamo grazie,
Signore Dio onnipotente,
che sei e che eri,
perché hai messo mano alla tua grande potenza, e hai instaurato il tuo regno.
Le genti ne fremettero,
ma è giunta l’ora della tua ira, il tempo di giudicare i morti,
di dare la ricompensa ai tuoi servi, ai profeti e ai santi
e a quanti temono il tuo nome, piccoli e grandi.
L’adorazione dei vegliardi dice insieme lo stupore e la gioia per l’impresa di Dio, davvero sorprendente per i nostri modi correnti di vedere le cose. Essa trova espressione adeguata attraverso il rendimento di grazie.�
Il soggetto di questa azione di grazie («noi») indica il popolo di Dio, che si riconosce espresso nella riconoscenza a Dio. Si tratta qui del «Signore Dio Onnipotente» che raccoglie il passato («che eri») in un presente compiuto («che sei»). Non è più, cioè, il Dio nel suo essere veniente (cf. Ap 1,8: «Colui che è, che era e che viene»), perché tutto ormai è da lui raccolto e portato a compimento nel presente.�
Il «grazie» è divenuto possibile per questa «compiutezza», la quale mostra a sua volta come Dio non sia diventato rinunciatario, non abbia cioè abdicato alla sua azione di salvezza, nonostante gli ostacoli che la nostra storia gli ha opposto. Se nel corso degli avvenimenti Dio poteva. sembrare indifferente, persino assente, ora finalmente la sua assoluta non indifferenza, il suo coinvolgimento nella storia, la sua presa di posizione forte o, per dirla con il linguaggio biblico la sua ira, è venuta del tutto allo scoperto. L’«ira di Dio» nell’Antico Testamento significava proprio questa reazione suscitata dall’agire dell’uomo infedele, questa irriducibile opposizione al male, che è l’altra faccia di un amore reale, perché Dio non è un Dio dell’ira ma il Dio della misericordia. Essa ha una funzione pedagogica, per cui non paralizza il peccatore terrorizzandolo, ma lo invita a convertirsi all’amore. Per questo Israele prega di essere liberato dall’ira, particolarmente da quella che caratterizza i giorni della fine, il «giorno del Signore». Ciò è avvenuto definitivamente con Gesù (1Ts 1,10; 5,9). Nella sua morte egli ha anticipato l’ira della fine dei tempi per liberarne per sempre chiunque crede in lui, in attesa della vittoria finale di Dio. La sua «ira» viene espressa nel cantico con tre azioni, indicate con tre verbi all’infinito: giudicare, dare la ricompensa ai servi, annientare i distruttori. Il terzo verbo (Ap 11,18b: «e di annientare coloro che distruggono la terra») è lasciato cadere dalla recensione liturgica del cantico, probabilmente per rendere il testo di preghiera più immediatamente comprensibile, perdendo però un po’ del rilievo dato alla drammaticità del conflitto tra bene e male nella storia.
Il giudizio di Dio ristabilisce la giustizia e mostra l’inconsistenza di ciò che contrasta il suo amore espresso nella Pasqua di Gesù, ove Dio ha realizzato la sua singolarissima regalità. L’essersi coinvolti nel suo disegno di salvezza (i servi), testimoniandone i tempi e i modi di attuazione (i profeti), l’aver riconosciuto solo a Dio il posto di Dio (i santi), tutto questo mostra ora la sua fecondità (la ricompensa). Non si tratta di una sorta di rivincita, di rovesciamento delle parti, ma dell’esperienza della costruttività, della forza maturante del servizio del Signore, degli atteggiamenti e delle azioni che esso suscita. Il lasciarsi coinvolgere dal suo modo di guidare la storia, espresso e attuato definitivamente nella Pasqua di Gesù, mentre può esporre alle prove, umanizza, conduce a maturità, a piena realizzazione.
Il risultato: salvezza e gioia (Ap 12,10-12)
Ora si è compiuta la salvezza, la forza e il regno del nostro Dio e la potenza del suo Cristo,
poiché è stato precipitato l’accusatore dei nostri fratelli,
colui che li accusava davanti al nostro Dio giorno e notte.
Ma essi lo hanno vinto per mezzo del sangue dell’Agnello
e grazie alla testimonianza del loro martirio;
poiché hanno disprezzato la vita fino a morire.
Esultate, dunque, o cieli, rallegratevi e gioite,voi che abitate in essi.
Dio non è indifferente rispetto alla storia umana, rispetto al male che la aggredisce, e pertanto interviene decisamente in essa. La sua azione regale produce la salvezza ed essa raggiunge il suo compimento.
I termini salvezza, forza, regno, potere, come già il contrapporsi dei popoli e dell’ira di Dio nella prima strofa (cfr Ap 11,18), si ispirano al Salmo 2, letto in chiave messianica dalle prime comunità cristiane (cf. At 4,25-26).
uesto risultato viene ora esplicitato prima in negativo e poi in positivo.
In negativo, l’accusatore dei fratelli è messo fuori gioco, «è stato precipitato» (v. 10). Il termine «accusatore» qualifica la suggestione tipica del male (cf. Gb 1,6-12; 2,1-7; Zc 3,1; Gen 3), che tende a creare contrasto tra noi e Dio insinuando che non è conforme a Dio preoccuparsi di noi (siamo troppo piccoli, irrilevanti per lui!), oppure che non è bene per noi un Dio troppo grande, che rischia di opprimerci con la sua grandezza (un Dio tanto grande non ci conviene!). L’azione pasquale del Signore Gesù ha messo fuori campo il tarlo che corrode la storia umana dall’interno, vale a dire ogni suggestione che porta a pensare che Dio, seppure c’è, è troppo grande per occuparsi delle nostre questioni, o anche che Dio è fuori dalla nostra misura, ha esigenze spropositate rispetto a noi. Secondo questo modo di vedere, la sua grandezza rischierebbe di ricondurci all’insignificanza o alla sudditanza. Ogni insinuazione di questo genere è svelata come falsificazione, viene allo scoperto come priva di qualsiasi fondatezza.
Invece brilla ora, in positivo, il risultato straordinario, la vittoria (v. 11), di chi ha accordato fiducia alla via tracciata dall’Agnello, cioè dal Signore che ha fatto dono della propria vita («per mezzo del sangue»), e in questa via si è inserito, mettendone in risalto il valore con la propria personale testimonianza.�
L’espressione «grazie alla testimonianza del loro martirio» (v. 11) significa infatti letteralmente: grazie alla parola, al messaggio, al significato del loro martirio. Il sangue dei martiri tiene alto nella storia il valore della Pasqua di Gesù, ne dice il perenne significato. Chi aderisce al Signore Gesù, chi sposa la sua causa, è nella condizione di fare anche della propria morte un atto di vita, precisamente un dono perché nessuno, nemmeno il proprio oppositore, si trovi relegato nel rifiuto, nello scarto. In questo poter fare persino del proprio morire un dono per la vita, brilla in anticipo, ma già secondo la sua pienezza, la salvezza, la ricchezza della vita offerta dal Signore. In tal modo la comunità ecclesiale, che celebra nella liturgia la Pasqua del Signore e vi riconosce nuovamente la salvezza per noi, viene disincantata dalle suggestioni delle logiche mondane della riuscita e del successo e viene rassicurata dalla fecondità dell’«agape», di quell’amore maturante rivelato nella Pasqua di Gesù e che essa già può sperimentare nella testimonianza alla quale viene abilitata.
Così il grazie della Chiesa raccoglie veramente l’esperienza e la comprensione di ciò che il Vangelo consente di vivere tra gli uomini e per gli uomini, dono questo che anticipa ad ogni credente la garanzia del compimento. Il grazie trapassa nella gioia, già fin d’ora intravista, e sollecita la fedeltà, la ripresa del cammino come azione di grazie, come servizio alla vita, secondo la ricchezza dell’amore del Signore e per spontanea gratitudine.
Significati per la nostra vita
Per noi credenti, che viviamo la conflittualità della storia, nella quale non sempre ci è facile discernere il corretto orientamento della nostra vita, il cantico dell’Apocalisse diventa motivo di speranza.�
Esso ci pone di fronte al compimento riuscito che il Signore Gesù ha già attuato e ci consente di contare su una risorsa che è più grande delle nostre capacità e delle nostre stesse realizzazioni. Soprattutto nei momenti in cui abbiamo l’impressione che le strettoie della storia soffochino gli slanci positivi nel cammino dell’umanità, il poter alzare lo sguardo all’«Agnello immolato e ritto» ci ridona fiducia: percorrere la stessa strada, per quanto faticoso e apparentemente fallimentare possa talvolta sembrare, significa in realtà raggiungere la stessa meta.
Il testo del cantico descrive inoltre il modo in cui Dio opera la salvezza nella storia: il dono incondizionato. La nostra esistenza cristiana vive di questa stessa logica, per cui la nostra testimonianza della salvezza, realizzata da Gesù e disponibile a tutti, diventa effettiva nella misura in cui a nostra volta sappiamo assumere le condizioni concrete che viviamo, con il limite e le possibilità che comportano, come luogo in cui possiamo fare dono della nostra vita. Piuttosto che fuggire dalle situazioni o subirle passivamente o aspettare con rassegnazione che le difficoltà si risolvano, la fede cristiana ci consente di viverle attivamente. Non c’è alcuna circostanza in cui non ci sia possibile il gesto nuovo e rigenerante dell’amore gratuito. I martiri sono l’esempio più alto di questa possibilità positiva anche dentro la negatività dell’esperienza patita.
Questo stile di vita, espresso nell’adorazione e nel rendimento di grazie, ci rende consapevoli di come l’adesione al Signore Gesù è motivo di continua crescita e maturazione. Proprio il poter vivere sotto il segno del dono anche le condizioni problematiche dell’esistenza diventa il cominciare già a gustare la ricchezza della Pasqua che Gesù ha compiuto per tutti. Essa ci rende capaci di affrontare l’esistenza con atteggiamenti e azioni costruttive e, in tal modo, di saper leggere la nostra storia in profondità, a partire dal dono pasquale del Signore che ci matura continuamente.�
Di conseguenza, l’attrattiva delle soluzioni illusorie di tipo mondano viene disinnescata e per la comunità ecclesiale, sempre esposta alla tentazione di assumere logiche di potere o di successo, resta disponibile la realtà efficace e maturante dell’amore pasquale (crocifisso e risorto) del Signore Gesù, che purifica e rigenera.
E’ così che anche la nostra partecipazione alla liturgia comunitaria non diventa una fuga dalla storia, ma precisamente la possibilità di interpretarla alla luce della Pasqua, centro dell’anno liturgico. Nell’azione liturgica riconosciamo a Dio il suo posto nella storia, celebrando con gioia e gratitudine la sua capacità di salvare nonostante tutto. A nostra volta ci consegniamo al suo amore liberante e ci apriamo alla sua offerta di salvezza. Il legame tra la liturgia e la vita non lo raggiungiamo appiattendo la celebrazione sul ritmo delle azioni quotidiane, spegnendone la forza innovativo, ma proprio interrompendo il quotidiano per accogliere ciò che nella vita di ogni giorno è presente e operante, ma non ancora manifestamente.�
L’azione regale di Dio che opera salvezza si visibilizza nell’azione simbolica della liturgia e il nostro celebrare ci suggerisce gli atteggiamenti e i gesti più adeguati per farle spazio nella vita di tutti i giorni.
L’evocazione nel cantico del «giudizio di Dio» e dell’«ira di Dio» ci consente di adeguare la nostra comprensione di queste espressioni al significato che assumono nel contesto della rivelazione cristiana per assimilarne le esigenze nel nostro vivere da cristiani. Il «giudizio di Dio» non è mai paragonabile alla sentenza di un giudice umano. Infatti il giudizio definitivo di Dio sulla storia del male è la Pasqua (la morte e la risurrezione di Gesù), certamente come denuncia critica, ma soprattutto come rivelazione dell’amore assoluto del Padre (Gv 3,16-17), che riscatta l’ignominia del crocifisso, approvando l’esistenza fino alla morte di Gesù. Dio non è passivo e inerte, ma prende posizione nella storia di Gesù.�
Così la sua «ira», il suo «giudizio» vengono da noi sperimentati come condanna senza appello del male, ma soprattutto come opera di amore misericordioso e di salvezza. Quest’opera è già compiuta nella Pasqua, che ci rende testimoni di una esistenza che vince il peccato e il male e che tende al recupero dell’uomo nell’amore. Questo percorso di testimonianza lo viviamo in un sofferto cammino di lotta contro tutte le resistenze, interne ed esterne. Una comprensione pagana dell’ira e del giudizio di Dio rende paurosi e paralizzati. La comprensione cristiana provoca invece l’accoglienza dell’amore che salva dalla morte e l’azione coraggiosa della testimonianza critica e maturante.
Preghiera finale
Gesù, Signore di verità, nostra roccia,
venuto a salvare i peccatori.�
Non fai differenza quando salvi:
insegnaci a non giudicare,
insegnaci a lasciar penetrare in noi i nomi di Dio:
bontà, pazienza, generosità.
Libera il nostro cuore dalla durezza.�
Questo cuore di pietra diventi, grazie allo Spirito,
un cuore di carne pieno d’amore.�
Salvaci, e fa’ che riposiamo in te:
tu solo puoi liberarci!
Sì, liberaci, Signore,
dalle nostre meschinità.
Trascinaci nel flusso del tuo amore,
che è regno dato per grazia e tenerezza.�
Vieni ad attraversare le nostre vite:
anche se il tuo messaggio non sarà senza sorprese.
Vieni a condurci nella tua libertà;
e scuotici come spighe, fino a che abbandoneremo la nostra sufficienza
per desiderare con un cuore di carne il tuo regno che apre alla festa! (Pierre Griolet)
IL GIUDIZIO
Il giudizio di Dio opera già adesso, nella storia delle persone e delle comunità, per promuovere il bene e liberare dal male. La Bibbia lo vede compiersi nei confronti dell’Egitto, di Israele, di Babilonia e delle nazioni pagane; poi, in modo decisivo, nella passione e risurrezione del Cristo: «Ora è il giudizio di questo mondo; ora il principe di questo mondo sarà gettato fuori» (Gv 12,31). Ogni incontro con il Signore ha carattere di giudizio, in quanto provoca l’uomo a decidersi per lui o contro di lui e a manifestare il segreto del proprio cuore. (Dal Catechismo degli adulti La verità vifarà liberi, n. 1197).