Contesto
La prima parte dell’Apocalisse (ce. 1-3) presenta, attraverso le lettere alle Chiese, un cammino di discernimento e di purificazione mediante il quale la comunità esce rinnovata.�
Questa è ora invitata a fare un passo ulteriore, addirittura a salire in cielo per comprendere e valutare dal punto di vista di Dio gli avvenimenti della storia nei quali essa stessa è coinvolta (Ap 4,1). I capitoli quarto e quinto costituiscono l’apertura della seconda parte dell’Apocalisse, che è una lettura a più riprese della storia nell’ottica della Pasqua del Signore.
Il centro di questi due capitoli è occupato dal segno di un libro sigillato (Ap 5,1) tenuto in mano da «Uno seduto sul trono» (4,2ss) e da questi consegnato all’«Agnello immolato» perché sia letto.�
L’immagine si ispira alla mitologia orientale antica, secondo cui la divinità suprema possiede libri nei quali è scritto il destino del mondo; il rituale dell’intronizzazione prevede che questi libri vengano consegnati al re per indicare che egli ha ora il potere sul mondo.
Questo libro, simbolo dei significati della storia, suscita al suo comparire una domanda angosciante: «Chi è degno di aprire il libro e scioglierne i sigilli?» (Ap 5,2). L’importanza di questa domanda è sottolineata in tre modi espressi in scala ascendente. C’è dapprima il silenzio impotente del cosmo, la constatazione amara: «nessuno, né in cielo, né in terra, né sotto terra era in grado di aprire il libro e leggerlo» (Ap 5,3). Segue poi il pianto del veggente Giovanni: «Io piangevo molto perché non si trovava nessuno degno di aprire il libro e di leggerlo» (Ap 5,4). Giunge infine l’annuncio liberatore, l’indicazione di colui che è qualificato per aprire il libro rompendone i sigilli. Giovanni può volgere lo sguardo e vedere: «Vidi ritto in mezzo al trono circondato dai quattro esseri viventi e dai vegliardi un Agnello, come immolato [… giunse, prese il libro dalla destra di Colui che era seduto sul trono» (Ap 5,6-7). La storia ha in Dio l’unico Signore e nell’Agnello l’unico capace di darne l’interpretazione retta, salvifica. Proprio il simbolo dell’Agnello allude alla ragione profonda di questo.�
Dal capitolo quinto fino al ventiduesimo l’Apocalisse ricorre ben ventotto volte a questo simbolo per designare Gesù Cristo. Il suo significato va riconosciuto attraverso molteplici riferimenti: l’agnello pasquale, l’agnello del sacrificio di espiazione, il sacrificio di Isacco, il servo sofferente di Is 53, l’agnello come messia apocalittico. Il contesto fa tuttavia capire che il riferimento primo e privilegiato è la Pasqua di Gesù.
All’interno di questa visione l’inno che andiamo a leggere proclama l’identità di Dio e dell’Agnello, l’azione che le rende riconoscibili e la loro efficacia per noi.
Struttura
La scelta liturgica accosta direttamente la celebrazione di colui che, seduto sul trono, ha in mano il libro sigillato (Ap 4,1 1) e di colui che lo riceve perché è in grado di aprirlo e di leggerlo (5,9-12).
L’inno risulta così composto di tre strofe, ciascuna delle quali è costituita dalla lode, introdotta da «Tu sei degno» e dalla sua motivazione: «poiché … ». La strofa centrale è più ampia perché, oltre a dire la lode e il suo motivo, esprime anche l’efficacia dell’azione che suscita la lode. Secondo la composizione letteraria le tre strofe costituiscono tre riprese del coro celeste; secondo lo stile apocalittico è questo il modo per sottolineare che quanto la liturgia della Chiesa celebra corrisponde alla realtà ultima, quella che Dio ha davanti a sé. La liturgia non celebra un sogno che evade dalla durezza della storia, ma ne dice la realtà profonda, offerta incessantemente da Dio al suo popolo.
Commento
Passiamo ora brevemente in rassegna le tre strofe; possiamo immaginarle come tre onde che si rincorrono, salendo fino a un massimo e acquietandosi poi nella conclusione.
Tu sei degno, o Signore e Dio nostro,
di ricevere la gloria, l’onore e la potenza, perché tu hai creato tutte le cose,
e per la tua volontà furono create e sussistono.
L’apertura «Tu sei degno» sottolinea come ciò che la lode proclama corrisponde davvero all’identità di colui al quale è diretta. Questa identità è riconoscibile nella relazione che egli ha instaurato con noi (Dio nostro, che ti sei rivolto a noi). In essa è possibile riconoscere come la sua presenza è efficace e feconda per noi (gloria) ed è tale per cui appare del tutto adeguato riconoscerne la vitalità (onore) e l’energia operativa (potenza).
L’espressione «Tu sei degno» era tipica dei rituali di corte: apparteneva all’enfasi dei cortigiani. Collocata qui contiene una sottile contestazione: in un contesto in cui è facile cadere nell’adulazione falsa o interessata diretta ai potenti di turno, la liturgia della Chiesa dà voce all’unica lode pertinente.
La ragione di tale pertinenza è l’azione creatrice di Dio, che il testo invita a riconoscere in tutta la sua pregnanza: il mondo non è lasciato a se stesso, né è in mano a potenze antagoniste; esso viene dalla volontà di Dio che fa esistere e custodisce. Il Dio che ha creato rimane fedele alla sua creazione, ne è il garante e il custode permanente. Nonostante tutti i turbamenti della storia e le pretese dei potenti, il mondo non è abbandonato al caos, ma è tenuto saldamente in mano dal suo Creatore.
[o Signore], di prendere il libro e di aprirne i sigilli,
perché sei stato immolato e hai riscattato per Dio con il tuo sangue
uomini di ogni tribù, lingua, popolo e nazione
e li hai costituiti per il nostro Dio un regno di sacerdoti e regneranno sopra la terra.
In questa seconda strofa l’espressione «Tu sei degno» viene indirizzata all’Agnello in quanto è in grado di prendere il libro e scioglierne i sigilli. La storia, con tutti i suoi enigmi e le sue contraddizioni, la storia sigillata ha la sua chiave di lettura nella Pasqua di Gesù. Il simbolo dell’Agnello rimanda a Gesù in quanto compie il significato della pasqua antica, la liberazione offerta da Dio. La grande novità, che permette di leggere la storia, è che la liberazione offerta da Gesù avviene attraverso il suo dono, il «sangue». Non libera imponendosi su altri, ma attraverso la sua incondizionata disponibilità. Per salvare, il Signore Gesù non ha avuto bisogno di umiliare nessuno; anzi, attuando la salvezza, la offre anche a chi si era opposto ad essa, anche a coloro dai quali aveva subìto la violenza della condanna e della uccisione.
Questo riscatto avviene senza discriminazioni; raggiunge uomini di «ogni tribù, lingua, popolo e nazione» e li riunisce in un’assemblea capace di vivere nel riconoscimento dei doni di Dio e nella sua lode. Lasciarsi coinvolgere dalla regalità di Dio significa imparare a vivere dei suoi doni facendoli fruttificare, secondo la logica che è loro propria.
In tal modo la liberazione diventa anche vita sacerdotale, vita contrassegnata dalla familiarità con Dio, dall’accesso alla sua disponibilità per noi che rende possibile la nostra disponibilità per lui. L’espressione «un regno di sacerdoti» è citazione di Es 19,6. Questo testo presenta Dio che, dopo aver fatto uscire il suo popolo dalla schiavitù, ne proclama il nuovo statuto, lo costituisce popolo di re e sacerdoti. I due termini sono strettamente connessi, benché non sinonimi. La regalità si manifesta nel vivere del dono di Dio, della situazione che la sua azione di liberazione ha instaurato, ossia nel vivere una condivisione oblativa; questa costituisce la condizione di familiarità con Dio, la possibilità di accesso a lui che è proprio la condizione sacerdotale.
Nella Pasqua di Gesù tutto questo ha il suo compimento e la liturgia cristiana lo celebra. L’Agnello è in grado di decifrare la storia perché la sua azione non produce scarto, non ha bisogno di rifiutare nessuno. Mentre la storia in mano agli uomini è incapace di valorizzare tutti e procede lasciando sempre dietro di sé degli esclusi, la Pasqua di Gesù mostra che Dio sa agire in modo innovativo, sa fare storia recuperando anche gli scartati, offre la salvezza anche a chi non ha saputo riconoscerla.
L’impresa dell’Agnello è talmente inedita che il canto in suo onore è qualificato come «nuovo» (v. 9). Tre volte nell’Apocalisse si fa cenno di un canto nuovo (Ap 5,9; 14,3; 15,3) e sempre in riferimento all’opera dell’Agnello. E’ lui la novità assoluta che compare nella storia.
L’Agnello che fu immolato
è degno di ricevere potenza e ricchezza, sapienza e forza,
onore, gloria e benedizione.
La terza strofa ha la funzione riassuntiva e di conclusione.
La frase “che fu immolato” si può leggere anche in funzione causale: “poiché fu immolato”: vine dunque ribadito il motivo della lode: l’opera compiuta da Gesù. Si applicano sette qualifica: segno di perfezione.
La “potenza” rivela l’identità del Signore della pasqua: è energia efficace, sconfinata, capace di venire incontro alla condizione dell’uomo e della storia.
La gioia della benedizione ci giunge tramite l’umanità di Gesù: essa ci rivela la verità di Dio sull’uomo e la sua storia. E’ storia di salvezza senza pentimento e senza misura.
Nella sua liturgia la Chiesa proclama la novità dell’evento pasquale: Dio si offre a noi senza difesa, non schiaccia nessuno. E’ disponibilità verso tutti senza imporsi e senza nascondersi. La sua verità è la sua infinita fedeltà, la sua capacità di riscattare l’uomo e di farlo riuscire.
Così il triplice “Tu sei degno” (Ap 4,11; 5,9.12). esprime la fondatezza della fede della comunità ecclesiale, messa alla prova dalle pressioni a cui si trova esposta e dalle tentazioni di chiusura che questa possono indurre.
Incontrando il suo Signore nella liturgia che celebra, la Chiesa apprende che l’apparente debolezza del vangelo nel mondo è in realtà un risvolto della sua novità, della sua eccedenza. E’ segno dell’amore gratuito e fedele come qualifica fondamentale di Dio, che si è esposto alla prova della storia nell’umanità e nella Pasqua di gesù e ne ha mostrato la sorprendente efficacia.
Nel “Tu sei degno” brilla la gioia della libertà cristiana di partecipare a edificare una nuova storia, storia di salvezza, perché non più intristita dallo scarto degli sconfitti di turno. E’ la lettura ultima dei segreti del libro della storia operata dal Signore della Pasqua.
Significati per la nostra vita
La lode che questo inno dischiude diventa stile di una comunità che è impegnata a vivere riconoscendo i doni di Dio nella sua vita e nella storia intera. Ciò che mantiene in vita la comunità è anzitutto la gratitudine: l’atteggiamento di chi riconosce di esistere in forza del dono continuo che viene da Dio. Questo non disimpegna dalla storia, al contrario permette di liberare le energie migliori perché non le consuma nell’affannosa ricerca di accaparrarsi il sostentamento in una vicenda umana che appare come insostenibile gara di sopravvivenza. Chi si sa garantito da Dio vive la gratitudine a lui mostrando come la propria esistenza è trasparenza della stessa logica.
La comunità dei credenti non solo vive dei doni di Dio ma può riconoscerne anche la qualità; sa infatti che il senso della storia è aperto dalla Pasqua di gesù, la liberazione che avviene nel dono della sua vita, fonte di ogni benedizione.
Questo a un tempo permette e domanda di guardare a ogni avvenimento con speranza. Se nella Pasqua del signore Gesù, il Padre libera senza fare scarti ciò significa che possiamo vivere senza escludere nessuno dalla nostra attenzione. Questa possibilità diventa immediatamente impegno per la comunità cristiana a stare nella storia come testimone di questo stile. Gesù ci garantisce e ci insegna che è possibile mantenerlo se non perseguiamo logiche di potere, se realmente incominciamo ad attuarlop partendo dai piccoli e poveri, coloro che per primi sono scartati dalla cattiva volontà o dalla cinica rassegnazione con cui è ricercata la salvezza nei percorsi della storia umana.
L’assemblea può mantenere viva la speranza di fronte alla prova e alla tentazione di chiusura che sempre minacciano la vita della Chiesa. Pur nella prova contempla la salvezza già avvenuta. Può superare ogni scoraggiamento di fronte alla difficoltà, alle resistenze, agli insuccessi.�
Neppure è costretta a irrigidirsi per difendere i valori che custodisce; sa che sono salvaguardati da Dio stesso e dalla sua disponibilità per cui ogni atteggiamento di rigida chiusura sarebbe contraddizione con ciò che si vuole testimoniare.
Se alla comunità dei credenti è dato di superare l’atteggiamento di chi si chiude in difesa è perché attivamente possa testimoniare l’agire di Cristo nella storia mantenendo aperta la propria disponibilità anche di fronte al rifiuto. Gesù è l’umanità compiuta perché non ha avuto bisogno di sconfiggere nemici per salvare gli uomini. Proprio guardando alla Pasqua di Gesù la comunità cristiana può affrontare il rifiuto che la storia degli uomini sempre le farà incontrare senza dover vedere in ciò la necessaria conferma della propria autenticità; come chi ha sempre bisogno di confermarsi nella propria identità per contrappunto e scarto nei confronti di chi gli si oppone. Neppure sentirà questo rifiuto come inesorabile realtà, di fronte alla quale non resta che rassegnarsi; sarà invece sempre impegnata a cercare vie che testimonino come la salvezza del Signore Gesù può realmente raggiungere tutti.
Questo inno ci apre alle prospettive che abbiamo indicato proprio nel celebrare la lode di Dio per il dono della salvezza in Cristo Gesù. E’ così un invito a riscoprire il valore del celebrare e a maturare una partecipazione alla liturgia capace di rimotivare la fedeltà quotidiana. La consapevolezza di trovarsi di fronte a «colui che è degno», la capacità di mostrare celebrando lo spiraglio della gloria futura che già accompagna il nostro presente può a un tempo rianimare le nostre assemblee liturgiche e fare di queste la sorgente che alimenta la quotidianità della testimonianza cristiana.
Preghiera finale
Tu sei risorto.
Nella tua risurrezione la nostra vita risultò eterna.�
Da quel momento, la speranza cristiana è la forza dell’uomo
cui il credente deve portare testimonianza.�
La gioia e l’amore sono lo spirito dominante del tuo Vangelo.
Tu fosti la nostra Vita,
«l’inizio di una nuova creazione».�
Dopo la tua risurrezione la nostra vita di fede non può più naufragare.
Davanti a te, non c’è smarrimento, peccato, o infermit�
che il tuo amore non possa risolvere in una situazione di grazia.�
E cosi si apre, mio Dio,
nella realtà spesso così dura,
una nuova possibilità di resistere,
comprendere e sopportare cristianamente. (Ladislaus Boros)
A partire dall’esperienza
«Mi hai resa così ricca, mio Dio, lasciami anche dispensare agli altri a piene mani. La mia vita è diventata un colloquio ininterrotto con te, mio Dio, un unico grande colloquio. A volte, quando me ne sto in un angolino del campo, i miei piedi piantati sulla tua terra, i miei occhi rivolti al cielo, le lacrime mi scorrono sulla faccia, lacrime che sgorgano da una profonda emozione e riconoscenza. Anche di sera, quando sono coricata nel mio letto e riposo in te, mio Dio, lacrime di riconoscenza mi scorrono sulla faccia e questa è la mia preghiera.�
Sono molto, molto stanca, già da diversi giorni, ma anche questo passerà, tutto avviene secondo un ritmo più profondo che si dovrebbe insegnare ad ascoltare, è la cosa più importante che si può imparare in questa vita….
A volte mi ritrovo prontamente con una parola sola: Dio, e questa parola contiene tutto e allora non ho più bisogno di dire quelle altre cose. E la mia forza creativa si traduce in colloqui interiori con te, e le ondate del mio cuore sono diventate qui più lunghe, mosse e insieme tranquille, e mi sembra che la mia ricchezza interiore cresca ancora».
Da: Hetty Hillesum, Diario 1941-1943, Adelphi, Milano 1990, 253-254.
Hetty Hillesum, autrice del brano soprastante, nacque nel 1914 in una famiglia ebrea e mori ad Auschwitz nel novembre 1943. Era una donna di ventisette anni che, nel periodo in cui l’Olanda fu segnata dalla guerra e dall’oppressione, visse un itinerario di crescita e di maturazione spirituale che la portò a scoprire la preghiera e a vivere grazie ad essa nel contesto della persecuzione. Scrisse questa preghiera a Dio il 18 agosto 1943, in una lettera a un’amica, dal campo di concentramento di Westerbork.
Magistero
La lode nasce dalla contemplazione e dalla meraviglia avanti alle opere di Dio e a Dio stesso. Esprime amore dinsinteressato e gioia. E’ il culmine a cui tende la preghiera. Non per niente la liturgia conclude ogni salmo con la dossologia: “Gloria al Padre e al Figlio e allo Spirito santo, come era nel prencipio, e ora e sempre nei secoli dei secoli. Amen” (Dal catechismo degli adulti, La verità vi farà liberi, 978)