di p. Attilio F. Fabris
Confrontiamoci con la parabola degli invitati a nozze in Lc 14,16-24.
Ci viene mostrato un Dio che vuole farci suoi commensali. Ma sono tanti i motivi di rifiuto apposti al suo invito.
Tutti questi rifiuti si possono riassumere in due:- la preoccupazione per la famiglia e il lavoro.
Se questi motivi fossero veri allora chi potrebbe pregare? Sarebbe vera l’obiezione che il più delle volte si porta: “Non ho tempo”.
Il messaggio della parabola al contrario ci dimostra che tutti sono chiamati, nessuno escluso.
In effetti rimane pur sempre vero che la preghiera esige uno sforzo che spesso ci risulta difficile: ma questa difficoltà è normale perché non possiamo pretendere di “sentire” umanamente il mistero di Dio: si tratta di uno sforzo di fede:
“La preghiera… presuppone sempre uno sforzo: … la preghiera è una lotta. Contro noi stessi e contro le astuzie del tentatore” (CCC 2725).
La grande tentazione della nostra preghiera è la stanchezza, lo scoraggiamento. Una tentazione dalla quale Gesù stesso ci mette in guardia nelle sue due parabole: l’amico importuno in Lc 11,5-13 e la vedova e il giudice iniquo in Lc 18,1-8.
Queste due parabole sono molto chiare: “giorno e notte” “insistentemente”, a costo di importunare occorre chiedere al Padre ciò di cui abbiamo bisogno.
“L’amico importuno esorta ad una preghiera fatta con insistenza: “Bussate e vi sarà aperto”. A colui che prega così il Padre del cielo “darà tutto ciò di cui ha bisogno” e principalmente lo Spirito santo che contiene tutti i doni”.
La seconda, la vedova importuna, è centrata su una delle qualità della preghiera: si deve pregare sempre, senza stancarsi, con la pazienza della fede. “Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?”” (CCC 2613).
Il termine greco utilizzato dall’evangelista suggerisce di non prendere in maniera puramente materiale la parola “continuamente”; forse sarebbe meglio tradurla con “in ogni occasione”. Questo ridimensionerebbe il problema circa il tempo da dedicare alla preghiera.
Se la prima legge della preghiera ci dice del necessario atteggiamento di povertà e umiltà, la seconda ci insegna la continuità.
Esse sono strettamente collegate: solo il povero, che si sente realmente tale, non si dà pace sino a che non abbia ottenuto ciò di cui ha bisogno.
Quantità e/o qualità? Quali di queste due caratteristiche dobbiamo privilegiare?
La Scrittura ci insegna che non dobbiamo misurare il tempo. Dio ci aspetta sempre e in ogni luogo senza alcun istante di interruzione.
Ciò che è essenziale è mantenere viva in noi quella tensione alla pienezza alla quale il Vangelo ci invita.
“Pregate incessantemente (1Tess 5,17), rendendo continuamente grazie per ogni cosa a Dio Padre nel Nome del Signore nostro Gesù Cristo (Ef 5,20) Pregate incessantemente con ogni sorta di preghiere e di suppliche nello Spirito, vigilando a questo scopo con ogni perseveranza e pregando per tutti i santi (Ef 6,18). <Non ci è stato comandato di lavorare, di vegliare, e di digiunare continuamente, mentre la preghiera incessante è una legge per noi> (Evagrio P.). Questo ardore instancabile non può venire che dall’amore. Contro la nostra pesantezza e la nostra pigrizia il combattimento della preghiera è quello dell’amore umile, confidente, perseverante… Pregare è sempre possibile: il tempo del cristiano è quello di Cristo Risorto, che è con noi <tutti i giorni>(Mt 28,20), quali che siano le tempeste. Il nostro tempo è nelle mani di Dio: <E’ possibile, anche al mercato o durante una passeggiata solitaria, fare una frequente e fervorosa preghiera. E’ possibile pure nel vostro negozio, sia mentre comprate, sia mentre vendete, o anche cucinate> (Giovanni Cr.)” (CCC 2742s).
DIO ATTENDE IL CUORE
Pregare “continuamente” sarà impossibile se facciamo della preghiera un puro sforzo intellettuale:
“Se la preghiera dimorasse nel corpo, noi non potremmo contemporaneamente pregare e lavorare; se stesse nella sensibilità, ogni preoccupazione sensibile, la malattia, le emozioni la renderebbero impossibile, essa sarebbe succube di ogni minima variazione di umore; se essa stesse unicamente nel cervello, non potremmo pregare se non facendo della teologia. Ma la preghiera dimora anzitutto nel profondo del nostro cuore, nel profondo di noi stessi; il nostro <cuore> può sempre parlare con Dio, anche quando siamo occupati, quando la sensibilità è oppressa e la nostra testa piena di preoccupazioni. Il cuore può sempre parlare di ciò che è la sua vita e il suo amore.
Di conseguenza: se il nostro cuore sarà occupato da altre cose più che da Dio, la preghiera tacerà in noi” (P. Chevignard).
Sul piano concreto è evidentemente impossibile essere in “costante” esercizio di preghiera, ma la tensione che sta nell’amore è una realtà viva che perdura anche quando non ne siamo coscienti.
L’educazione della preghiera sarà allora una tensione a far s^ che si tenda a dialogare con Dio in ogni occasione, trasformando ogni avvenimento, ogni circostanza in una possibile apertura a Dio, in ricordo costante della sua presenza.
Distinguiamo perciò l’”esercizio” dallo “stato” di preghiera: si diceva di s. Francesco “Franciscus non orabat, factus enim oratio”.
Non facciamo perciò dipendere la nostra preghiera da stati, luoghi od orari: essa è sempre possibile in quanto essa dimora nel profondo di noi stessi, nel nostro cuore, come realtà interiore indipendente:
“Lo Spirito, quando abita in un uomo, non lo lascia dal momento in cui quest’uomo è divenuto preghiera, perché lo Spirito stesso non smette di pregare in lui. Che quest’uomo dorma o vegli, che mangi o beva o faccia qualsiasi altra cosa, e fin nel profondo sonno, il profumo della preghiera si innalza senza fatica nel suo cuore. La preghiera non lo abbandona più. In tutti i momenti della sua vita, anche quando sembra cessare, essa è segretamente attiva in lui di continuo” (Isacco di N.)
Questa fedeltà ed apprendistato interiore non si può raggiungere se non consacrando ogni giorno un tempo alla preghiera:: per poter offrire tutto il proprio tempo, bisogna imparare a donare un tempo preciso:
“La preghiera è la vita del cuore nuovo. Deve animarci in ogni momento. Noi invece dimentichiamo colui che è la nostra vita e il nostro tutto. Per questo i Padri della vita spirituale, nella tradizione del Deuteronomio, insistono sulla preghiera come “ricordo di Dio”, risveglio frequente della “memoria del cuore”: <E’ necessario ricordarsi di Dio più spesso di quanto respiriamo> (Gregorio Niss.). Ma non si può pregare in ogni tempo se non si prega in determinati momenti, volendolo: sono i tempi forti della preghiera cristiana, per intensità e durata” (CCC 2697).
Troppo spesso invece, delusi, lasciamo andare la barca alla deriva scoraggiati, e la dimenticanza di Dio rischia di permeare il nostro cuore:
“La nostra lotta deve affrontare ciò che sentiamo come nostri insuccessi nella preghiera: scoraggiamento dinanzi alle nostre aridità, tristezza di non dare tutto al signore, poiché abbiamo <molti beni>, delusione per non essere esauditi secondo la nostra volontà, ferimento del nostro orgoglio che si ostina sulla nostra indegnità di peccatori, allergia alla gratuità della preghiera ecc…: la conclusione è sempre la stessa: perché pregare? Per vincere tali ostacoli, si deve combattere in vista di ottenere l’umiltà, la fiducia e la perseveranza” (CCC 2728).
Abbiamo dunque bisogno, come necessità, di tempi precisi perché si faccia calma in noi stessi e si possa ricomporre un certo ordine interiore:
“La scelta del tempo e della durata dell’orazione dipendono da una volontà determinata, rivelatrice dei segreti del cuore. Non si fa orazione quando si ha tempo: si prende il tempo di essere per il Signore, con la ferma decisione di non riprenderglielo lungo il cammino, qualunque siano le prove e l’aridità dell’incontro… sempre si può entrare in orazione, indipendentemente dalle condizioni di salute, di lavoro o di sentimento” (CCC 2710)
Da questa fedeltà nasce la capacità e l’esercizio ad un’apertura più vasta di fede.
Allora non è tanto il tempo che manca, ma la fede. Quando saremo convinti dell’importanza della preghiera troveremo di certo anche il modo per farle sempre più posto nella vita. Dovrà avere la stessa importanza del mangiare e del dormire, del respirare: non potremo vivere più senza di essa:
“La tentazione più frequente, la più nascosta, è la nostra mancanza di fede. Si manifesta non tanto in una incredulità dichiarata, quanto piuttosto in una preferenza di fatto. Quando ci mettiamo a pregare, mille lavori o preoccupazioni, ritenuti urgenti, si presentano come prioritari; ancora una volta è il momento della verità del cuore e del suo amore preferenziale…. In tutti i casi la nostra mancanza di fede palesa che non siamo ancora nella disposizione del cuore umile: <Senza di me non potete far nulla>(Gv 15,5)” (CCC 2732).
Prendiamo sempre atto che il fatto stesso di pregare è sempre una grazia unita ai nostri sforzi (Dio lavora l’uomo suda), ed è grazia da domandarsi continuamente.