Una prima constatazione che possiamo fare è che non sappiamo pregare; è un’esperienza fatta dagli stessi apostoli:
“Un giorno Gesù si trovava in un luogo a pregare e quando ebbe finito uno dei suoi discepoli gli disse: Signore, insegnaci a pregare” (Lc 11,1)
E’ importante per la verità di noi stessi e di conseguenza per la preghiera, accorgerci di questa difficoltà: “io non so pregare”. Affermare questo implica già una spinta a cercare, a non fermarci.
Se la preghiera è dialogo, incontro, essa è difficile perché il più delle volte non percepiamo il nostro interlocutore. Egli rimane nascosto, apparentemente assente. Se è incontro essa deve perciò essere caratterizzata dalla spontaneità.
Ma allora è giusto parlare delle leggi della preghiera senza rischiare l’artificiosità, l’inautenticità, la non spontaneità?
Se la preghiera è incontro, dialogo con Dio, dobbiamo imparare il linguaggio nascosto di Dio:
“Chi conosce i segreti dell’uomo se non lo Spirito dell’uomo che è in lui?
Così anche i segreti di Dio nessuno li ha mai potuti conoscere se non lo Spirito di Dio” (1Cor 2,11)
“Nessuno può dire: “Gesù è Signore” se non sotto l’azione dello Spirito Santo” (1Cor 12,3)
“Lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza perché nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare, ma lo Spirito stesso intercede con insistenza per noi, con gemiti inesprimibili” (Rm 8,26)
E’ vero: non sappiamo pregare. Da noi stessi non potremmo parlare il linguaggio di Dio; ma il dono dello Spirito fattoci da Gesù nella Pasqua, ci rende capaci ormai anche di questo.
All’inizio della nostra preghiera non deve mai mancare l’invocazione allo Spirito che abita in noi, perché ci suggerisca pensieri secondo il cuore di Dio:
“Nessuno può dire: “Gesù è Signore” se non sotto l’azione dello Spirito Santo” (1 Cor 12,3).
Ogni volta che incominciamo a pregare Gesù è lo Spirito Santo che, con la sua grazia preveniente, ci attira sul cammino della preghiera… Ecco perché la Chiesa ci invita ad implorare ogni giorno lo Spirito Santo, soprattutto all’inizio e al termine di qualsiasi azione importante: Vieni Spirito, riempi il cuore dei tuoi fedeli e accendi in essi il fuoco del tuo amore”” (CFC 2670s)
Una delle prime difficoltà che incontriamo nel cammino della preghiera è: “Devo preoccuparmi delle formule?”.
Anzitutto consideriamo come Gesù nella parabola del fariseo e del pubblicano (Lc 18,9-14) ci mostra che l’essenziale della nostra preghiera è presentarci come poveri, “mendicanti di Dio”.
S. Giovanni della Croce ci offre le ragioni per cui alle formule dobbiamo preferire l’atteggiamento interiore:
“La ragione per cui è meglio per colui che ama presentare le sue necessità piuttosto che domandare di soddisfarle è per tre motivi: il primo perché il Signore sa meglio di noi stessi ciò di cui abbiamo bisogno; il secondo perché l’amico è preso da compassione più vedendo la necessità di colui che l’ama; il terzo perché l’anima è più protetta dal rischio dell’amor proprio e dalle pretese presentando ciò che le manca, più che domandando ciò di cui le sembra di aver bisogno” (lettera alle carmelitane di Becs).
Tutto quanto detto è confermato dagli esempi tratti dalla Scrittura.
Maria a Cana non dice: Protesti dare loro del vino?; ma “Non hanno più vino” (Gv 2,3).
Marta e Maria implorano: “Il tuo amico Lazzaro, colui che ami, è malato” (Gv 11,3).
Così il centurione a Cafarnao (Mt 8,6) e la donna cananea (Mt 15,22ss).
Anche nell’antico testamento troviamo un esempio significativo: è la storia di Mosè. Ciò che ottiene la liberazione del popolo non sono né i miracoli, né le assicurazioni, né l’eloquenza. Questi strumenti non hanno che un risultato: l’indurimento del cuore del faraone. Ma è quando Mosè sperimenta tutta la sua debolezza ed è scoraggiato che egli innalza la sua vera preghiera: “Ma chi sono io?” (Es 3,11; 4,10; 5,21-23).
Mosè stesso sperimenta la paura; ma è attraverso la sua paura e la sua debolezza che impara a parlare con Dio.
Così anche Elia, quando scoraggiato nella fuga implora di morire (1Re 4,5); così Geremia, al momento della sua chiamata e nelle difficoltà e sofferenze della sua missione (Gr 20,7).
Soprattutto abbiamo ancora l’esempio di Gesù nell’orto del Getsemani, e il suo grido sulla croce.
Nel momento dell’estrema debolezza e povertà Dio interviene, quando è impossibile ingannarsi su colui che veramente può portarci in salvo.
JHWH risponde a Mosé: “Io sarò con te”; l’angelo dirà a Maria: “Non temere”. Gesù nella sua agonia sperimenta la vicinanza del Padre: “Venne allora una voce da cielo: L’ho glorificato e lo glorificherò ancora” (Gv 12,28).
Le formule della nostra preghiera non si esprimono necessariamente a parole o rappresentazioni intellettuali. La preghiera, talvolta, potrà solo consistere in un grido del cuore, uno sguardo supplice rivolto a Dio:
“Che la vostra preghiera ignori ogni molteplicità: una parola bastò al pubblicano e al figliol prodigo per ottenere il perdono… Nessuna ricercatezza nelle parole della vostra preghiera: quante volte i semplici e monotoni balbettamenti dei bambini inteneriscono il loro padre! Non abbandonatevi a lunghi discorsi per non dissipare il vostro spirito nella ricerca delle parole. Una sola parola del pubblicano ha commosso la misericordia di Dio, una sola parola piena di fede ha salvato il ladrone” (G. Climaco, Sc. Par.).
Sarà tuttavia utile esprimere la preghiera attraverso la nostra parola. E’ la cosiddetta preghiera vocale:
“Con la sua Parola Dio parla all’uomo. E la nostra preghiera prende corpo mediante parole, mentali o vocali. Ma la cosa più importante è la presenza del cuore a colui al quale parliamo nella nostra preghiera: Che la nostra preghiera sia ascoltata non dipende dalla quantità delle parole ma dal fervore delle nostre anime” (Giov. Crisost.)”
“Il bisogno di associare i sensi alla preghiera interiore risponde ad un’esigenza della natura umana. Siamo corpo e spirito, e quindi avvertiamo il bisogno di tradurre esteriormente i nostri sentimenti. Dobbiamo pregare con tutto il nostro essere per dare alla nostra supplica la maggior forza possibile” (CFC 2701s)
Riassumendo: la preghiera è una realtà molto semplice. Il dialogo con Dio non è complicato. Prima preoccupazione non è cercare delle formule, né sapere che cosa dobbiamo ottenere: la cosa indispensabile è imparare a parlare a Dio con la nostra
debolezza:
“Che la mente non si sparpagli in cerca di parole…Le molte parole nell’orazione sovente riempiono la testa solo di idee e distrazioni, mentre la brevità e talora una parola sola può conciliare il raccoglimento. Quando in una parola dell’orazione ti senti pervadere di dolcezza o di compunzione, fermati in essa” (G.Climaco, Sc Par).
Non bisogna spaventarsi se Dio nella sua pedagogia inizia col smascherare tutte le nostre illusioni, al fine di collocarci nella verità. Infatti, se egli veramente ci ama, non può sopportare che noi ci sbagliamo sulla nostra vera felicità.
Accettare l’amore di qualcun altro è permettergli di esercitare su di noi una certa gelosia: Dio ha per noi la gelosia della verità.
Dio purifica così il nostro desiderio, trasformandoci in uomini dell’attesa: “Siate vigilanti” (Mt 24,42). Dio ha sempre agito così, in modo da condurre l’uomo a preferirlo a tutto il resto.
La preghiera è vera nella misura in cui ci spinge a ri-cercare Dio, se diviene testimonianza che preferiamo Dio a tutto il resto.
La scoperta della nostra povertà è la modalità attraverso cui l’immensa ricchezza di Dio ci è data da condividere, a cui siamo invitati ad aderire:
“Tutto posso in colui che mi dà la forza”
“Nulla è impossibile a Dio”
“Mi glorierò della mia debolezza perché possa risplendere in me la potenza di Dio”
Nella vita di Mosè, come in quella dei santi, le prove e le sconfitte superano il loro senso immediato: esse testimoniano che l’opera di Dio si è manifestata e rivelata come unicamente sua, un’opera dettata dall’amore per la sua creatura:
“Ad Efraim io insegnavo a camminare tenendolo per mano, ma essi con compresero che avevo cura di loro. Io li traevo con legami di bontà, con vincoli di amore; ero per loro come chi solleva un bimbo alla sua guancia; mi chinavo su di lui per dargli da mangiare” (Os 11,3-4).
Nella nostra vita Dio non può rivelarci il suo amore se non passiamo l’esperienza che Lui solo può liberarci, e in lui solo possiamo riporre ogni nostra speranza.
Ripeteva Gandhi: “Pregare è un’ammissione quotidiana della nostra debolezza”.
Sa Paolo scriveva: “Quando sono debole è allora che sono forte” (2Cor 12,9-10).
Accettare la povertà non comporta allora la gioia per una mancanza, ma una gioia in quanto essa può essere occasione di rivelazione del nostro dipendere da un altro. E’ il senso del verbo”credere” nella Scrittura: lasciarsi portare da un altro.