GESÙ FRA I DOTTORI
(Lc 2,41-52)
La famiglia di Nazareth ci viene sempre proposta come modello a cui conformare la nostra famiglia.
Leggendo questo passo molti di voi si saranno chiesti: ma come fanno a proporci questa famiglia come modello se succede una cosa di questo genere? Pensate un attimo, questi genitori sono così sbadati che perdono il figlio. Questa senz’altro è la prima impressione ma questa distrazione ci permette in effetti di capire qual è la realtà del rapporto che esiste nell’ambito di quella famiglia, sia tra i genitori che tra i genitori ed il figlio.
Innanzi tutto il racconto inizia con un’affermazione: “I suoi genitori si recavano tutti gli anni a Gerusalemme per la festa di Pasqua“. Questo è quello che veniva fatto da tutti gli ebrei osservanti e quindi Maria e Giuseppe si mettono tra coloro che sono osservanti; la cosa bella che viene sottolineata è che vanno entrambi, il che significa che pregano insieme, significa che hanno un’esperienza di preghiera insieme, che è un’esperienza esaltante. Non solo. Per gli ebrei la maggiore età si raggiunge a dodici anni; Gesù viene portato a Gerusalemme quando egli ebbe dodici anni; lo avviano, lo abituano a frequentare il tempio, la festa prima dell’età alla quale diviene obbligatoria la partecipazione al culto.
Questo ci fa notare una differenza sostanziale con quello che avviene oggi. Per gli ebrei la fede è una cosa per adulti. Chi è che va, chi è che frequenta il tempio, chi è che si impegna nella sua vita di fede? Soltanto gli adulti, bisogna avere almeno dodici anni per frequentare il Tempio, gli altri, i bambini non vanno nel Tempio, devono giocare, devono dedicarsi ad altro. Che cosa succede nella nostra società? Spesso avviene l’opposto, cioè quando i bambini sono piccoli gli facciamo fare il segno della croce, gli facciamo fare la… preghierina, li accompagniamo al Catechismo, gli facciamo fare la Comunione e spesso anche la Cresima e poi… arrivederci e grazie: forse li rivediamo al momento del matrimonio. Fondamentalmente stiamo instillando nelle nuove generazioni un’idea che è fortemente sbagliata, quella che la fede sia una cosa per bambini; una volta che si è grandi non ce n’è più bisogno. Gli ebrei ci dicono esattamente l’opposto.
La fede è qualcosa per adulti, di persone dotate della ragione.
Perché? A che cosa serve la fede? La fede dà le risposte alle nostre domande fondamentali; un bambino non si chiede: Da dove viene? Chi è? Dove va? Perché vive? Queste domande ce le facciamo noi adulti, non se le fanno i bambini. E la fede può rispondere a queste domande, certamente non anzitutto alle domande dei bambini. In effetti, se ci guardiamo intorno, quello che sta succedendo è proprio questo: li accompagniamo fino a dodici anni e poi invece di condurli al tempio li facciamo andar via.
“Ma trascorsi i giorni della festa, mentre riprendevano la via del ritorno, il fanciullo Gesù rimase a Gerusalemme, senza che i genitori se ne accorgessero“. Qui possiamo sottolineare due cose ma bisogna che prima ci soffermiamo su quelle che erano le abitudini del tempo.
Quando si viaggiava in carovana, avviene ancora da qualche parte nel mondo, si formavano due gruppi, da una parte le donne e da un’altra gli uomini. I bambini, che non avevano ancora dodici anni, potevano scegliere di stare o con la mamma oppure – visto che era un maschietto – con il papà.
Né Giuseppe né Maria si preoccupano di cercarlo: questo ci dice qual era il rapporto tra questi genitori ed il figlio: era un rapporto di serenità, di tranquillità. Gesù era un bambino obbediente, per cui se si era detto che la carovana partiva ad una certa ora Gesù sarebbe stato lì perché questa era la sua abitudine ed i genitori di questo erano certissimi, per cui non si sono posti il problema.
Maria avrà pensato che Gesù era con Giuseppe e Giuseppe viceversa. Quand’è che se ne accorgono? Quando si fa sera, la carovana si ferma ed i nuclei familiari si ricompongono. A quel punto Giuseppe chiede a Maria: “Gesù…?”. Maria dice a Giuseppe: “Gesù…?”. Però ancora non si preoccupano, come capita oggi; quando i nostri figli sfuggono al nostro controllo ci sono veri momenti di panico. Che fanno Giuseppe e Maria? Si misero a cercarlo tra i parenti e i conoscenti.
Questo ci dà un altro spaccato di quella che era la vita di allora e ci spiega che in una comunità contribuisce a guardare, ad educare i bambini anche il contesto in cui vivono, e quindi anche parenti e conoscenti per cui un bambino può benissimo stare un’intera giornata senza che i genitori l’abbiano sotto controllo perché c’è una comunità che lo segue ed è attenta a quelle che potrebbero essere le sue esigenze. Era un fatto normale.
Pensate invece quello che succede oggi se non ci sono i nonni che ci controllino i figli, che siano a disposizione, siamo completamente isolati, cioè non c’è comunità; oltretutto siamo talmente ossessionati da tutto quello che sentiamo e leggiamo, che veramente pensare a un bambino comunque lontano da noi ci terrorizza. Ma non è questo il concetto della famiglia!
Qui possiamo quasi immaginare una parrocchia ideale: una parrocchia ideale è fatta da una comunità di famiglie, che non solo educano i propri figli ma partecipano della vita comune aiutando gli altri, dandosi reciprocamente una mano: forse è una società idilliaca, ma certamente questo è possibile se c’è un’apertura verso gli altri e non c’è quella che oggi si sta consolidando, cioè la famiglia mononucleare, dove esistono solo genitori e figli e tutto il resto non conta più niente. C’è un certo recupero dei nonni nel periodo in cui i bambini sono piccoli dopo di che anche i nonni cominciano ed essere pesanti perché possono essere invadenti.
Il Vangelo ci rappresenta una situazione completamente diversa ed è una situazione in cui si può essere tranquilli. Esaurita questa ricerca, tornano indietro. Non è che vanno a cercare da un’altra parte; questo mostra che sono molto attenti, sanno già Gesù dov’è. Se Gesù non c’è sanno già dov’è.
Infatti il testo dice: “Dopo tre giorni lo trovarono nel tempio“. L’idea dei “tre giorni” ci vuole richiamare altri “tre giorni” in cui Gesù non è stato a disposizione dei suoi genitori, è sparito dalla loro vista; sono i tre giorni della passione; Cristo muore, sparisce, per ritornare “risorto” il terzo giorno. Questi tre giorni sono da contare alla stessa maniera; gli ebrei non contano i giorni sulle 24 ore, ma per la presenza del sole; quindi i tre giorni indicati sono il primo, di andata – visto che avevano viaggiato tutto il giorno – un altro giorno per tornare e la mattina del terzo giorno, così come la mattina del terzo giorno Cristo risorge, vanno direttamente al tempio perché sanno di trovarlo lì.
E lì lo trovano, ma come lo trovano? Seduto in mezzo ai dottori, mentre li ascoltava e li interrogava. Che idea vi fate di Gesù che in mezzo ai dottori li ascolta e li interroga? Che cosa fa Gesù? La prima interpretazione che viene data è che Gesù sia in mezzo ai dottori ad insegnare. Ma un insegnante prima spiega e poi interroga. Invece Gesù prima ascolta e poi interroga. Di chi è la funzione di chi ascolta e poi interroga? Chi ascolta e poi interroga è il giudice, che ascolta la deposizione, interroga e poi dà la sentenza. È questo, forse, il punto centrale di questo racconto.
Chi giudicherà il mondo di oggi? Chi ci giudicherà? Saranno i nostri figli! I nostri errori, le nostre scelte, se buone o cattive, non le giudicheremo noi ma i nostri figli. Questo ci dice che cosa dobbiamo fare. Gesù dice E tutti quelli che l’udivano – quando il giudice dice è la sentenza, quando dice qualcosa è la conclusione del processo, di quello che ha ascoltato ed interrogato – erano pieni di stupore per la sua intelligenza e le sue risposte.
Al vederlo restarono stupiti e sua madre gli disse: “Figlio, perché ci hai fatto così? Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo”. Tutti quelli che sentivano erano stupiti, anche i genitori.
Questa è una cosa grande: i nostri figli ci stupiscono! Perché ci stupiscono? Perché i nostri figli non sono la nostra copia, essi hanno la loro autonomia, sono liberi; ci stupiscono perché le loro scelte vanno in direzioni diverse. Ed allora che cosa significa far nascere un bambino, mettere al mondo un figlio? Certamente non significa averne la gestazione per 9 mesi, ma significa farlo diventare uomo, educarlo, far sì che sia un uomo autonomo e libero. Restarono stupiti!
È la fatica di credere al mistero che cresce nella concretezza della vita coniugale e familiare, carica di gioie e di problemi.
Gesù adolescente crea problema, progressivamente si rivela nella sua divinità. Maria e Giuseppe “si stupivano delle cose che si dicevano di lui”, con trepidazione si chiedevano: che sarà di Gesù?
Lo accettano nella sua alterità divina ma devono entrare negli orizzonti di un disegno più grande. Prendono coscienza del divario tra il progetto di Dio ed il progetto che essi avevano sognato.
E sua madre gli disse. I genitori erano due, sua madre parla anche per conto del padre, quindi la loro intesa, il loro comunicare non era un prevaricare di uno sull’altro: erano profondamente uniti come erano uniti nella preghiera: infatti le parole che dice sono: “Figlio, perché ci hai fatto così? Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo“. Tuo padre ed io! Maria sapeva che Giuseppe non era il padre, non è che lo ignorasse ed allora perché dice “tuo padre ed io“? Perché Giuseppe era veramente il padre di Gesù; Gesù lo chiamava papà, ma perché? Perché per essere padre non bastano i dieci minuti che sono necessari per concepire un bambino; si è padri tutti i giorni perché tutti i giorni si dà la vita, tutti i giorni si aiuta il figlio a crescere, a diventare uomo: allora si è veramente padre, questa è la vera paternità al di là di quella strettamente biologica.
Quindi Giuseppe è veramente padre anche se non lo è sul piano biologico.
Angosciati! Che cosa è l’angoscia? I figli ci fanno angosciare. Come prima abbiamo parlato di stupore, che è qualcosa di positivo, perché c’è dentro la meraviglia della sorpresa, ora parliamo di angoscia, che ha invece una connotazione negativa perché la nostra angoscia non è tanto quella che ci viene dai figli ma quella che ci viene da noi stessi quando scopriamo di non essere adeguati per il nostro compito. Molto spesso non siamo capaci di essere genitori; genitori non si diventa per caso, sul piano biologico lo si può essere anche per caso, ma per essere genitori veramente ci si costruisce tutti i giorni. Si commettono degli errori, certamente, ma dobbiamo fare in modo di cercare di essere adeguati a quelle che sono le attese dei figli. Quindi è scoprile la nostra inadeguatezza la vera angoscia. Non è per il fatto che non sapevano dove fosse Gesù, non era il suo smarrimento o la sua perdita la causa dell’angoscia di Maria e Giuseppe.
La vera angoscia era che il figlio li aveva stupiti, li aveva sorpresi e quindi si erano accorti di essere inadeguati per questo figlio.
Ed egli rispose: “Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?“. Se un nostro bambino di dodici anni, di fronte alla domanda dei genitori che dicono di essere angosciati e che lo cercano perché sono angosciati, rispondesse in questa maniera, che cosa saremmo portati a fare? È abbastanza immediato pensare: adesso gli do un bel ceffone e così impara a rispondere come si deve un’altra volta! Però, anche questo fa parte di quella che è la sorpresa perché Gesù perché non dovevano farlo: “Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?“. Qui Gesù non parla di Giuseppe, qui sta parlando di Dio; ma quello che dice lo dice ad ognuno di noi: i figli non sono nostri, non sono nostra proprietà, non sono un possesso.
C’è un proverbio cinese che dice che noi ai nostri figli diamo due cose: le radici e le ali, le ali sono tanto più forti e robuste quanto più le radici sono profonde, quindi quanto più il terreno nel quale li abbiamo fatti crescere è fecondo, è ricco, non è arido. Quindi su questo ci giudicheranno i nostri figli, sul terreno che abbiamo messo loro a disposizione, su come li abbiamo aiutati, li abbiamo sostenuti nella loro crescita, li abbiamo aiutati a diventare uomini.
Però non è facile come ci dice il Vangelo: “Ma essi non compresero le sue parole“.
Tante volte noi i figli non li capiamo, tante volte capita ancora oggi; che cosa si fa quando non si capisce? Ecco, se leggiamo appresso ora che Gesù ha fatto la lezione, ora che ha detto che le cose per cui è venuto sono altre, che li ha messi a posto, da questo momento in poi in casa comanda lui! No.
Partì dunque – sembra una continuazione del discorso precedente – con loro e tornò a Nazareth e stava loro sottomesso“. Ecco, Gesù sa qual è la sua missione, glielo dice, però cresce: la sua crescita è perché impara innanzi tutto ad ubbidire, ad essere umile, ad essere sottomesso.
Quando noi ci abituiamo ad obbedire sapendo quali sono i nostri limiti e quali i nostri compiti, questo ci aiuta a crescere, non con la prepotenza, non battendo i pugni, non facendo i capricci, non vincendo con i capricci; sono cose che sappiamo.
Gesù stava loro sottomesso. Giuseppe è una grande figura di padre vicino e presente ma “Sua madre serbava tutte queste cose nel suo cuore.” Il verbo serbare ci fa pensare al momento più bello del rapporto tra una madre ed il figlio, che è il rapporto prima della nascita, quando il figlio viene serbato nel proprio corpo, e quindi continua questo rapporto con il figlio anche quando il figlio ha una età diversa; non si smette di essere genitori quando i figli sono grandi; si è genitori anche quando i figli raggiungono la maggiore età e seguono la loro strada.
“E Gesù cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini. Ecco Gesù è Dio, però cresceva in sapienza, che cosa significa? Che Gesù come uomo si è fatto carico della nostra limitatezza; non sapeva della sua missione, non era a conoscenza di quello che sarebbe stato il suo compito come uomo e quindi come tale, lui come tutti noi, ha sopportato il peso della crescita, il peso di apprendere, di studiare, di approfondire: “cresceva in sapienza, età …” – cosa questa normale, ma soprattutto cresce “…in grazia davanti a Dio e agli uomini.
Cresce il suo rapporto di uomo che riconosce in Dio il vero Padre.