• 21 Apr

    LA LUCE DELLA RAGIONE E L’ILLUMINAZIONE DIVINA

    A. La facoltà di conoscere

    La filosofia occidentale, sin dalla sue origini, è convinta che l’uomo sia capace di conoscere la realtà e che tutto ciò che esiste è conoscibile con l’intelletto (ens est intelligibile). Ma questo principio può essere applicato a Dio Essere Supremo?

    La risposta della filosofia scolastica[1] è semplice: Dio infinito può essere conosciuto pienamente soltanto con l’intelletto infinito, ovvero solo Dio conosce se stesso. La ragione umana, che è finita ed imperfetta, può conoscere Dio solo parzialmente. Il suo metodo può essere solo l’analogia, cioè a partire dalle cose create.

    L’apologetica è il trattato teologico che approfondisce il tema della conoscenza naturale di Dio.

    Si afferma che la dottrina mistica non predilige il percorso razionale per parlare di Dio. Ad esempio nel monachesimo troviamo scritto da san Colombano[2]: “Cerca la suprema scienza non attraverso dispute di parole, ma attraverso la perfezione dei buoni costumi; non con la lingua ma con la fede; essa nasce dalla semplicità del cuore; non vi si giunge attraverso i dotti ragionamenti che non si radicano nella pietà. Se cercherai con le argomentazioni della ragione l’Ineffabile, egli si farà  da te più lontano di quanto era; se cercherai con la fede troverai, la “Sapienza sta alle porte” (Pr 1,21), dove sempre dimora e in parte potrai vederla”. E nell’Imitazione di Cristo si elogia “più l’umile semplice che il superbo filosofo”. In effetti il sistema scolastico è troppo imperniato sulla ragione, rischiando di enfatizzare questa dimensione che non è l’unica presente nell’essere umano.

    Oggi la situazione è diversa. Vi sono pericoli di altro genere del tipo di una sorta di “sentimentalismo”, per cui è utile invitare a coltivare una sana ragione, una riflessione ben fondata anche nell’ambito della fede. Teofane il Recluso diffidente contro i troppo sentimentali dice: “La vita secondo la volontà divina è vita ragionevole… La luce della verità e la purezza della santità incoruttibile sono due aspetti della trasformazione spirituale del mio “io”. Per comprendere i comandamenti bisogna conoscere tutte le verità cristiane…A pensare sono tutti capaci. Usino, quindi questa facoltà per riflettere sulle cose serie, per conoscere la realtà”.

    B. Il senso del mondo visibile

    L’inizio della conoscenza umana è l’osservazione della realtà. Gli antichi filosofi osservando la natura cercavano di scoprire il principio che unisce la molteplicità, che dà l’unità, che crea per mezzo dei vari e ineguali fenomeni naturali, l’universo ordinato, il cosmo. Ma questi filosofi non erano d’accordo su dove cercare questo principio di unificazione (per Talete era l’acqua, Anassimandro proponeva l’Hapeiron….). Aristotele osservando che tutto ciò che esiste è destinato a decomporsi intuì che tale principio doveva essere cercato altrove, fuori della natura: scoprire la substantia, il pensiero che domina su tutto.

    I cristiani scorprono che questo logos  che soggiace a tutta la creazione è Cristo, Parola eterna di Dio. Per san Basilio Dio ha concepito tutta la creazione come una “scuola” per le anime, destinata a coloro che ricercano la sapienza divina, nascosta in tutte le cose nell’”opera dei sei giorni” (Exameron). Nemesio[3] fa un gioco di parole dicendo che non c’è nessuna cosa che sarebbe “non-logica” (alogon). Tutto ciò che esiste ha quancosa da dirci.

    Si tratta di comprendere giustamente il senso di ciò che ci circonda. Nelle canzoni spesso la gente non comprende il contenuto perché ascolta troppo il suono, la melodia, perdendo l’interesse per le parole e il cantante. Non capire il logos del creato è la stessa cosa! Si usano le cose del mondo senza aver riguardo all’intenzione divina per esse. I padri greci chiamavno questo esercizio “theoria fisica” (contemplazione naturale).

    Enrico Medi[4], astrofisico, possedeva questo sguardo contemplativo.egli scrive:Oh, voi misteriose galassie …, io vi vedo, vi calcolo, vi intendo, vi studio e vi scopro, vi penetro e vi raccolgo. Da voi io prendo la luce e ne faccio scienza, prendo il moto e ne fo sapienza, prendo lo sfavillio dei colori e ne fo poesia; io prendo voi stelle nelle mie mani, e tremando nell’unità dell’essere mio vi alzo al di sopra di voi stesse, e in preghiera vi porgo al Creatore, che solo per mezzo mio voi stelle potete adorare”.

    Potremmo aggiungere anche la testimonianza di una grande astronomo, Giovanni Keplero[5]  che compose una preghiera sullo stile dei salmi: “ Grande è il nostro Dio! Grande la sua potenza, la sua sapienza infinita. Lodatelo, cieli! Lodatelo, sole, luna e pianeti, con la lingua che vi è data per lodare il vostro Creatore. E anche tu, anima mia, canta, canta più che puoi l’onore del Signore! Da lui, in lui e per lui sono tutte le cose: quelle ancora sconosciute e quelle che già conosciamo.  A lui lode, onore e gloria, d’eternità in eternità! Ti rendo grazie, Creatore e Signore, di avermi dato questa gioia alla vista della tua creazione, questo godimento nel contemplare l’opera delle tue mani. Cerco di annunciare agli uomini lo splendore delle tue opere, nella misura che il mio spirito finito
    può cogliere l’infinito”.

    C. Senso spirituale delle cose

    Giungere ad intuire il mistero inerente alle cose creato è proprio di chi ha ricevuto il dono dell’intelletto (intus-legere). A ciascuno è dato di potervi accedere secondo la sua peculiarità scorgendo una dimensione del mistero (la totalità appartiene solo a Dio). Le vie possono essere diverse, ma sono in armonia. Provengono tutte da una sola parola, il Verbo di Dio, Gesù Cristo nel quale è la pienezza della rivelazione.

    Tutta la realtà dunque contiene in sé un senso “cristologico”. Nell’iconografia questo mistero è rappresentato dalla sapienza divina seduta in trono in mezzo ad un cerchio che rappresenta il creato. Con i suoi raggi penetra tutto, eppure rimane nascosta sotto l’iride della bellezza sensibile ed esterna. Accanto alla Sapienza coloro che la riconobbero per primi: la vergine Maria e Giovanni Battista.

    D. La “pratica”, via alla “teoria”

    Per acquisire questo senso spirituale non è sufficiente il naturale dono per la riflessione. Paolo apostolo ricorda che: “Nessuno può dire Gesù è il Signore se non nello Spirito santo” (1Cor 12,3). Il senso cristologico delle cose, la Sophia di Dio, è conoscibile solo da parte di coloro che hanno ricevuto l’ispirazione dello Spirito santo.

    Tuttavia tale illuminazione esige da parte nostra lo sforzo di purificarci, di liberarci dal peccato e dalla passioni, la purezza di cuore e la pratica delle virtù: “beati i puri di cuore perché vedranno Dio” (Mt 5,8). La purificazione dal peccato e la vita nelle virtù fu denominata dai padri greci con il termine “pratica” (praxis); la contemplazione con il termine “theoria”. Venne stabilito il principio che la “pratica” è la via alla “theoria”. In altre parole: per capire il senso del mondo e delle cose bisogna vivere bene. In questo senso gli uomini “carnali” (soggetti alle passioni) subiscono le illusioni dei sensi e dunque sono impediti a raggiungere la comprensione della verità.

    Tutto quello che incontriamo nel mondo riceve un doppio significato. La realtà è come il pane e il coltello. Chi sa tagliare riceve il nutrimento, chi non sa maneggiare il coltello non solo rimane affamato, ma anche si taglia.

     E.  Simboli spirituali

    Il significato del mondo e colto individualmente, tuttavia esistono alcune costanti che danno la possibilità di usare un linguaggio simbolico comprensibile a tutti nel parlare dell’esperienza spirituale. Nel medioevo erano amati i testi in cui si spiegavano i “simboli della natura”. Basterebbe poi leggere testi di mistici, oppure le opere di san Francesco di Sales che abbondantemente attinge alla natura per illustrare dottrine spirituali.

    Nella vita di s. Caterina da Siena si dice che ella “traduceva” tutto ciò che vedeva in linguaggio spirituale. Usiamo delle traduzioni per capire una lingua per noi incomprensibile. Il peccato e le passioni disordinate hanno reso il linguaggio del mondo parole straniere. Per mezzo della comprensione spirituale esse tornano a far parte della nostra lingua originaria. Ma la condizione è possedere uno sguardo di fede che perfezione l’intelletto.

    Una preghiera di Jacques Olier[6] esprime bene questo desiderio: “Mio Dio, io ti adoro  in tutte le tue creature, ti adoro vero e unico sostegno di tutto il mondo; senza di te nulla esisterebbe e nulla sussiste che in te. Ti amo, mio Dio, e lodo la tua maestà che appare  sotto l’esteriorità di tutte le creature. Tutto ciò che io vedo, o mio Dio, non serve che ad esprimere  la tua bellezza segreta e ignota agli occhi dell’uomo. Tu sei al fondo di tutto e ti manifesti sotto ogni cosa in qualcuna delle tue perfezioni 

    1. La fede e i suoi vantaggi

    Potremmo elencare in sei punti il valore della fede per la vita spirituale.

    1. La fede costituisce il fondamento della vita spirituale. Se il motto dei filosofi cinici[7] era “Ristampare le monete” ovvero dare un altro valore alle cose, questo vale molto di più per la fede: essa ci apre ad uno sguardo profondo, infinito ed eterno sulla realtà. Per questo di fatto la fede è l’inizio di una vita nuova.
    2. La fede ci unisce a Dio. Dio puro spirito può essere accostato solo attraverso la fede che opera nel profondo del cuore.
    3. La fede illumina l’intelletto. La mente si sviluppa con la conoscenza. Per mezzo della fede ci appropriamo della conoscenza di Colui che è la verità e la Vita (cfr Gv 14,6).
    4. La fede rafforza la volontà. Non può avere un carattere fermo chi non ha convinzioni costanti. La fede ci fa partecipare alla immutabile verità di Dio, essa si approfondisce e cresce pur rimanendo sempre la medesima. Tale diviene anche colui che vive secondo la fede.
    5. La fede è sorgente di consolazione.  La vera consolazione procede solo dalla verità. La fede è la verità che scaturisce dalla “Buona Notizia”.
    6. La fede è opera meritoria. L’insegnamento cattolico riconosce i “meriti”. La grazia è un dono di Dio che esige la nostra collaborazione. La cooperazione con Dio è un privilegio così grande che “merita” come ricompensa il regno di Dio, anche quando si tratta di una piccola opera che non necessariamente è esteriore.

    2.  Doppia concezione di fede

    Al tempo della Riforma vi furono discussioni sul rapporto tra fede e buone opere. Oggi appare chiaro che l’equivoco era dato dall’ambiguità dei concetti. Se ad un cattolico domandiamo cos’è la fede ci dirà che si tratta di aderire alle verità del credo e del catechismo, se domandiamo la stessa cosa ad un protestante dirà che la fede è un’illimitata fiducia accordata a Dio sull’esempio di Abramo. È chiaro che una tale fede in se stessa giustifica, mentre al contrario l’adesione semplicemente mentale ad un sistema di verità non ottiene la stessa cosa, essa resterebbe “morta senza le opere” (Gc 2,26).

    Allora come è possibile accordare queste posizioni? Ripartendo da una retta comprensione della realtà della fede. Il suo fondamento rimane una fiducia illimitata in Dio, la prontezza di accettare tutto ciò che egli propone. Ma proprio questa prontezza ci obbliga a raccogliere e conservare tutto ciò che Dio ci ha rivelato, la ricchezza del deposito della fede. Sono quindi ambedue aspetti inseparabili della fede: la fiducia in Dio e l’accoglienza delle verità di fede contenute nel catechismo.

    Origene bene esprime la necessità di ambedue gli aspetti della fede al fine di ottenere salvezza: Padre onnipotente, preghiamo la tua misericordia: donaci non solo di ascoltare la tua parola, ma anche di metterla in pratica. Distruggi in noi ciò che deve essere distrutto
    e vivifica ciò che deve essere vivificato. Concedici, Padre santo, di credere con il cuore, di professare con la parola, di confermare con le opere la tua alleanza con noi. Così gli  uomini, vedendo le nostre opere buone, glorificheranno te, Padre nostro che sei nei cieli

    3.La fede nella quotidianità

    La mancanza di fede si riflette in tutte le nostre relazioni con Dio: la preghiera diventa noiosa, i sacramenti vengono trascurati.

    Ma anche la relazione col prossimo viene intaccata dalla mancanza di fede: le relazioni diventano puramente umane, facilmente deteriorabili. La carità si affievolisce sino a spegnersi. Cercheremo di imporci in tutti i modi. L’umiltà scompare. La testardaggine, l’intolleranza, la sconsideratezza, la durezza nel giudizio, sono note di una fede debole.

    La fede imposta correttamente la nostra relazione anche con il creato, con le cose, il mondo e i suoi problemi. Si cammina nel mondo sapendo di non essere allo sbando di forze sconosciute, ma in mano alla Provvidenza di Dio.

    Scrive san Roberto Bellarmino[8]: Le montagne ci sembrano grandi perché sono vicine; le stelle, al contrario, anche se incomparabilmente più grandi, sembrano piccoli punti. Se fossimo in cielo, le stelle apparirebbero enormi, come infatti sono, e le montagne ci sembrerebbero granelli di sabbia. Gli uomini di questa terra, che hanno il loro cuore attaccato al mondo, considerano come enormi gli affari terreni. Quando ottengono un’eredità o raggiungono onori, sono colmi di gioia. Quando perdono una moneta, disturbano tutti coloro che sono vicini. Al contrario, colui che serve Dio, chi abita sull’alta torre della fede, è così lontano dalle cose di quaggiù, che tutti i cosiddetti grandi e importanti problemi gli appaiono come giochi di bambini. Paragonando con l’eternità tutte le sfortune del mondo, non le teme più dei morsi di una zanzara.

    Di fronte a questa testimonianza poniamone un’altra, quella di Lev Tolstoj[9], in cui si parla del processo della perdita della fede:   Persi la fede nello stesso modo in cui l’hanno perduta e continuano a perderla coloro che hanno ricevuto il nostro stesso tipo di educazione. Nella maggior parte dei casi ciò accade nel modo seguente: si vive come vivono tutti, e tutti vivono basandosi su principi che non solo non hanno nulla in comune con la fede professata, ma che anzi le sono generalmente contrari e opposti; la religione non entra nella vita, e non accade mai, sia nei rapporti con gli altri che in privato, di doverci confrontare o fare i conti con essa. Viene professata e praticata in qualche regione indeterminata, lontano dalla vita e indipendentemente da essa. Quando entriamo in contatto con la fede, la consideriamo normalmente come un fenomeno esteriore, non collegato all’esistenza.  Fondandosi sulla vita di un uomo e sulle sue azioni è assolutamente impossibile capire – sia ai giorni nostri che in passato – se costui sia credente o meno. Se vi è una differenza tra coloro che professano esplicitamente la fede e quelli che la negano, ebbene, tale differenza non va certo a favore dei primi. Sia ai giorni nostri che in passato, l’esplicita accettazione e professione della fede ortodossa si riscontra generalmente in persone ottuse, crudeli, immorali, con un alto concetto di se stesse, mentre l’intelligenza, l’onestà, la bontà, la rettitudine e il sentimento etico si ritrovano generalmente in persone che si professano non credenti.  Nelle scuole s’insegna il catechismo e si costringono gli allievi ad andare in chiesa; agli impiegati vengono richiesti dei certificati di comunione. Ma una persona del nostro ambiente, che abbia smesso di studiare e non occupi un posto nell’amministrazione dello stato, sia oggi sia – e ancor più – in passato, può vivere decine d’anni senza ricordarsi neppure una volta di vivere in mezzo a cristiani e di venir considerato egli stesso un seguace della religione ortodossa.  Quindi, sia oggi che in passato, la fede religiosa accettata passivamente e fondata su pressioni esteriori si dissolve a poco a poco sotto l’influenza delle conoscenze e delle esperienze della vita ad essa contrarie, e molto frequentemente accade che si viva a lungo immaginandosi di conservare intatta quella fede che ci è stata trasmessa sin dall’infanzia, mentre in realtà già da gran tempo in noi non ne è rimasta più traccia. Il mio amico S., uomo intelligente e sincero, mi ha raccontato come smise di credere. Aveva già ventisei anni e, trovandosi una volta a passar la notte fuori di casa durante una partita di caccia, la sera, prima di coricarsi, s’inginocchiò per recitare le preghiere secondo un’antica abitudine contratta fin dall’infanzia. Il fratello maggiore, che era a caccia con lui, se ne stava coricato sul fieno a guardarlo. Quando S. ebbe finito e si fu coricato a sua volta, il fratello gli chiese: “Così tu lo fai ancora?”.  Non si dissero altro, ma da quel giorno S. smise di recitare le preghiere e di recarsi in chiesa, e ormai da trent’anni non prega, non si comunica e non frequenta la chiesa. E questo non perché conoscesse le convinzioni del fratello e le avesse accettate, o perché avesse preso una qualsiasi decisione cosciente, ma soltanto perché le parole pronunciate dal fratello erano state come la pressione di un dito contro una muraglia che stava già per crollare sotto il suo stesso peso; quelle parole gli avevano fatto capire che là dov’egli credeva che ci fosse ancora la fede ormai da tempo c’era in realtà soltanto un vuoto, e che quindi le parole che diceva, i segni di croce e le genuflessioni che faceva durante la preghiera erano assolutamente privi di senso. Avendone riconosciuta l’assurdità, non poteva più continuare a ripeterli.  La stessa cosa è accaduta e accade – così almeno io credo – alla stragrande maggioranza delle persone. Parlo di quanti hanno ricevuto la mia educazione e sono sinceri con se stessi e non di coloro per i quali la fede è soltanto un mezzo per il raggiungimento di qualche fine temporale. (Costoro sono in realtà i più radicali miscredenti, giacché se per loro la fede è soltanto un mezzo per il raggiungimento di fini mondani, è chiaro che non può chiamarsi fede). Il mondo della scienza e quello della vita hanno ormai distrutto per loro l’edificio artificiale della fede, e qualora se ne siano resi conto hanno già sgombrato il posto vuoto, oppure non se ne sono ancora accorti. Io persi la fede trasmessami nell’infanzia più o meno allo stesso modo, ma con questa differenza: poiché avevo cominciato, appena quindicenne, a leggere opere di filosofia, la mia rinuncia alla fede religiosa fu ben presto cosciente. Fin dall’età di sedici anni per convinzione interiore smisi di pregare, di andare in chiesa e di digiunare. Non credevo in ciò che mi era stato insegnato nell’infanzia, ma credevo pur sempre in qualcosa, anche se non avrei assolutamente saputo dire in cosa. Credevo in Dio, o meglio non lo negavo, ma di quale Dio si trattasse non avrei saputo dirlo; non negavo il Cristo e il suo insegnamento, ma in che cosa consistesse questo suo insegnamento non avrei saputo dirlo.  Oggi, ricordando quei giorni, vedo chiaramente che l’unica mia vera fede – ossia quanto, escludendo gli impulsi animali, guidava la mia vita – era a quell’epoca la fede nell’autoperfezionamento. Ma in cosa consistesse e quale fosse il suo scopo, non avrei saputo dirlo. Cercavo di perfezionarmi intellettualmente, imparando tutto quel che potevo imparare e studiando tutto ciò verso cui la vita mi spingeva; cercavo di perfezionare la mia volontà ponendomi regole di comportamento che mi sforzavo di osservare; mi perfezionavo fisicamente compiendo esercizi di tutti i generi, esercitando la forza e la destrezza, abituandomi alla resistenza e alla temperanza con privazioni di ogni sorta. Era questo che io consideravo autoperfezionamento. All’inizio, naturalmente, si trattava di un perfezionamento morale, ma ben presto venne sostituito dall’autoperfezionamento in generale, ossia dal desiderio di diventare migliore non davanti a me stesso o davanti a Dio, bensì davanti agli altri. E ben presto questa aspirazione a diventare migliore al cospetto degli uomini si mutò in quella a diventare più forte, più famoso, più importante e più ricco di loro.

    d.  Mistica della luce

    Nel linguaggio della teologia spirituale si parla di “mistica della luce” e di “mistica delle tenebre”.

    Nel linguaggio dei mistici i termini “luce” e “tenebre” non hanno significato morale (bene-male): sono divenuti invece simboli della doppia via che conduce a Dio: della conoscenza intellettuale e della conoscenza intuitiva.

    Certamente a Dio andiamo per mezzo della mente intellettiva. Ma d’altra parte il cristiano non si riduce ad essere un razionalista: la mente umana afferra ben poco del mistero di Dio. Tuttavia più è purificata più viene introdotta nel mistero: dice Evagrio[10]: “La conoscenza della ss.ma Trinità è adeguata al grado di purezza e di integrità della mente”. Evagrio sa benissimo che non è facile raggiungere la meta di una mente totalmente purificata e integra. La mente ha bisogno di superare anche la sua “carnalità” rappresentata dall’immaginazione, dalla fantasia. Ora nessuna immagine prodotta dall’uomo può esprimere perfettamente Dio, per questo motivo i veri contemplativi cercano di liberarsi da tutte le immagini anche sante. Scrive Matta El Meskin: “durante la preghiera, non devi imma­ginarti nessuna forma esteriore di Dio Padre o del Figlio o dello Spirito santo, come se si tro­vassero al di fuori di te o come se il tuo occhio potesse contemplarli, perché è all’interno della tua anima che Dio si rende presente e non al­l’esterno. Senti allora la sua presenza, ma senza vederlo. «Prega il Padre tuo che è nel segreto» (Mt 6,6)”.

    Ma neppure questo sembra bastare. Noi pensiamo attraverso concetti e categorie mentali. Ma Dio nel quale tutto esiste non può essere contenuto in nessun nostro concetto.  Allora cosa rimane? Evagrio vede la soluzione in un intelletto totalmente liberato da immagini e concetti e ritornato perciò allo stato originale, illuminato perciò dalla grazia dello Spirito: qui allora vede Dio nella pura luce.  Questa è la direzione in cui si muove la mistica della luce

    l.     Mistica delle tenebre

    L’esperienza di Dio attraverso tenebre oscure è conosciuta dalla scrittura (cfr Es 19,9). Dio si rivela nella “nube”. Anche noi usiamo l’intelletto per avvicinarci a Dio, ma facciamo l’esperienza che questa luce è debole e non raggiunge mai realmente il mistero: si esaurisce prima. Con la ragione allora comprendiamo che Dio è sempre l’al-di-là-di-tutto: questa consapevolezza fu definita nel medioevo come “dotta ignoranza”.

    Allora bisogna accontentarsi? No. Il contemplativo continua il suo cammino, ma su un percorso diverso. Abbandona l’intelletto e va a Dio per la via dell’amore. I mistici orientali come san Gregorio di Nissa o lo PseudoDionigi areopagita parlano di ex-stasis,  ovvero di una uscita dallo stato intellettuale nelle tenebre dell’amore. L’ascesa mistica si svolge dunque in due tappe: prima l’intelletto sale per la montagna della conoscenza fino al termine delle sue possibilità, fino alla vetta. Ma non trovandovi ancora Dio, l’uomo prende le ali dell’amore per volare più in alto.

    In questo desiderio immenso mai appagato qui in terra, l’anima giunge alla conoscenza dell’immensità di Colui che lo ha suscitato. L’anima conosce Dio nella grandezza del proprio amore per lui.

    Via della luce e via delle tenebre non sono contraddittorie. La conoscenza del mistero di Dio esige l’operazione intellettiva, l’intelletto deve essere “illuminato” ci ricorda Evagrio, e Gregorio di Nissa è convinto che la vera “illuminazione” avviene tramite l’esercizio della carità che supera ogni intelletto. Nella mistica delle tenebre viene quindi messo in rilievo che Dio è carità (cfr 1Gv 4,8), e che può essere dunque conosciuto più perfettamente da coloro che lo amano.

    Come testo emblematico di questa corrente teologica possiamo riprendere un brano di san Gregorio di Nazianzio[11]: “Tu, l’al-di-là di ogni cosa, come chiamarti con un altro nome? Quale inno può cantarti? Nessuna parola può esprimerti. Quale spirito può afferrati? Nessuna intelligenza può immaginarti. Solo tu sei ineffabile, tutto ciò che si dice è uscito da te. Solo tu sei in conoscibile, tutto ciò che si pensa è uscito da te. Tutti gli esseri ti celebrano, quelli che parlano e quelli che non parlano. Tutti gli esseri ti rendono omaggio, quelli che pensano come quelli che non pensano. Il desiderio universale, il gemito di tutti aspira a te. Tutto ciò che esiste ti prega, e verso di te ogni essere che sa leggere il tuo universo, fa salire un inno di silenzio. Abbi pietà, Tu l’al-di-là d’ogni cosa,  come chiamarti con un altro nome?”.



    [1] Il carattere fondamentale della filosofia scolastica consisteva nell’illustrare e difendere le verità di fede con l’uso della ragione, verso la quale si nutriva un atteggiamento positivo. A tal fine, essi privilegiarono la sistematizzazione del sapere già esistente rispetto all’elaborazione di nuove conoscenze. L’intento degli scolastici era quello di sviluppare un sapere armonico, integrando la rivelazione cristiana con i sistemi filosofici del mondo greco-ellenistico, convinti della loro compatibilità, e anzi vedendo nel sapere dei classici, in particolare dei grandi pensatori come Socrate, Platone, Aristotele, Plotino, una conferma dei dogmi cattolici. Sulla base del rapporto tra fede e ragione che essi intravedevano nei testi greci, essi erano convinti di poter contrastare le tesi eretiche e cercavano di convertire gli atei. Dallo studio dei testi greci nasce il problema degli universali (cioè del logos, della forma) che viene sviluppato in modi differenti per tutta la scolastica. forma ante rem: l’essenza è prima della realtà (o della materia) come ritenevano Platone e Agostino d’Ippona; forma in re: l’essenza al di fuori della materia non ha alcun senso, come insegnava Aristotele; forma post rem: un semplice nome, ovvero convenzione che deduciamo dall’analisi delle caratteristiche di una serie. Tommaso, sulla scorta di Boezio, riteneva che gli universali esistessero sia ante rem come Idea nella mente di Dio, sia in re come forma delle varie realtà, sia post rem come concetto formulato nella mente dell’uomo. A Tommaso, sostanzialmente fautore di un indirizzo filosofico realista, si contrapposero i sostenitori del nominalismo, secondo cui l’universale era solamente un flatus vocis,[1] cioè appunto un nome e nient’altro. Poiché del resto la scolastica si sviluppò in varie scholae europee e quindi in realtà diverse, era inevitabile che in ogni schola, avendo esse differenti esigenze e finalità, i pensieri e i metodi acquistassero caratteristiche diverse. Vi erano quindi scholae più vive e attive dove spesso si accendevano contrasti tra gli intellettuali più conservatori e i maestri d’arte, i più innovativi. Gli scolastici svilupparono in tal modo un peculiare metodo di indagine speculativa, noto come quaestio,[2] basato sul commento e la discussione dei testi all’interno delle prime università. I vari dibattiti, tuttavia, dovevano seguire delle regole e dei riferimenti precisi, tra i quali vi era in particolare la logica formale di Aristotele.[3] Valevano poi le auctoritas, che erano rappresentate dagli scritti dei Padri della Chiesa (filosofia patristica), dai testi sacri, e da scritti della tradizione cristiana. Le auctoritates erano, in sostanza, la decisione di affidarsi ad una voce ufficiale e decisa dai concili, per cui esisteva l’auctoritas in campo medico (Galeno), quella in campo metafisico (Aristotele) e quella in campo astronomico (Tolomeo). Come già aveva fatto notare Scoto Eriugena, però, non era la ragione a fondarsi sull’autorità, ma l’autorità a fondarsi sulla ragione: gli Scolastici così mantennero sempre una forte coscienza critica verso le fonti del loro sapere.[4] Sarà il declino della fiducia nella ragione, a partire da autori come Guglielmo di Ockham, che porterà alla fine della Scolastica e dello stesso Medioevo. La Scolastica e la scienza. La  filosofia scolastica era particolarmente incentrata sullo studio del dogma religioso cristiano ma non solo. Gli scolastici diedero infatti un forte impulso anche allo sviluppo della scienza. Roger Bacon, ad esempio, pur restando fedele al metodo aristotelico, si occupò di filosofia della natura, basandosi sulle osservazioni degli eventi, e contestando alcuni elementi anti-scientifici del pensiero greco. Nel XII – XIII secolo, nell’ambito degli studi teologici che si tenevano nelle prime Università europee come Bologna, Parigi, Oxford, si svilupparono così diverse ricerche sulla natura, ovvero sul creato considerato opera di Dio, che avrebbero dovuto portare all’intelligibilità dell’opera di Dio creatore. Per i filosofi della natura del XII – XIII secolo la creazione era come un libro che andava letto e compreso, un libro che conteneva leggi naturali immutabili decise da Dio al momento della creazione. Tali studiosi pensavano che conoscere quelle leggi naturali avrebbe portato ad una conoscenza capace di avvicinare sempre più a Dio. In quest’ambito valevano come auctoritas anche filosofi dell’epoca greca e persino pensatori di origine islamica.[5] Oltre alla scienza, il metodo scolastico venne anche applicato agli studi di diritto, almeno a partire da Raniero Arsendi in avanti.
    [2] Colombano nacque tra il 540 e il 543 nella cittadina di Navan, nel Leinster (Irlanda centro-orientale).  Secondo la leggenda agiografica della sua vita, la madre, in attesa della sua nascita, avrebbe visto un sole uscire dal suo seno per recare al mondo una grande luce.  Colombano andò a scuola presso un maestro laico (fer-lèighin), apprendendo a leggere e a scrivere. Come gli altri giovani si occupava inoltre dei lavori della famiglia (allevamento del bestiame, conciatura delle pelli, caccia e pesca) e apprese anche a cavalcare e ad usare l’arco e la spada.  A quindici anni decise di farsi monaco, nonostante l’opposizione della madre. Abbandonò la famiglia e si recò al monastero di Clinish Island (Cluane Inis, in gaelico), sull’isola di Cleen dei laghi Lough Erne, dove venne accolto dall’abate Sinneill, che aveva studiato nel monastero di Clonard con Columba di Iona (Columcille). Qui Colombano studiò le Sacre Scritture e apprese il latino.  Terminati gli studi si trasferì presso il monastero di Bangor (Irlanda del Nord), dove sotto la guida dell’abate Comgall si praticava una stretta disciplina ascetica e la mortificazione corporale. Secondo la tradizione monastica irlandese, Colombano decise di seguire la peregrinatio pro Domino, partendo per fondare altri monasteri e diffondere la fede cristiana. Partito da Bangor verso il 590, all’età di 50 anni, si imbarcò con 12 monaci suoi compagni nel monastero di Bangor: Gall (san Gallo), Autierne, Cominin, Eunoch, Eogain, Potentino, Colum (Colomba il giovane), Deslo, Luan, Aide, Léobard, e Caldwald).  Visitò l’isola di Man e la piccola isola di San Patrizio, che secondo la leggenda custodiva la tomba di Giuseppe di Arimatea. Sbarcato quindi in Cornovaglia, visitò il monastero di Bodmin Moor fondato da san Gonion. Percorrendo l’antica strada romana che collegava Padstow con Fowey e Lostwithiel, visitò anche Tintagel e arrivò a Plymouth, da dove si imbarcò nuovamente per la Bretagna.  Approdò nella Francia merovingia nei pressi di Saint-Malo e di Mont-Saint-Michel, nel luogo dove in seguito venne posta una grande croce. Si recò quindi a Rouen, Noyon e Reims in Austrasia e passò in Burgundia dove regnava il re Gontrano. Grazie alle concessioni del re fondò tre monasteri (Annegray, Luxeuil-les-Bains e Fontaine-Chaalis).  Ad Annegray san Colombano e i suoi compagni riadattarono un antico castello diroccato, ed edificarono un monastero tra il 591 ed il 592, con una chiesa dedicata a san Martino. All’inizio i monaci vivessero di elemosina e questue, ma in seguito si dedicarono anche alla coltivazione dei campi. San Colombano si ritirava nelle grotte dei dintorni per vivervi da eremita.  La comunità monastica si ingrandì e fu presto necessario creare un nuovo centro monastico a 8 miglia verso sud-est, presso le rovine della città termale di Luxeuil, dove venne costruito un monastero con una chiesa dedicata a San Pietro. Un altro monastero, con una chiesa dedicata a San Pancrazio, venne fondato anche a Fontaines.  San Colombano si trasferì nel 593 a Luxeuil e vi eresse un nuovo monastero, da dove diresse i tre comunità con i suoi priori. Vi scrisse due regole, la Regula monachorum e la Regula cenobialis, e il Paenitentiale. La vita monastica era basata su pratiche ascetiche e sulla penitenza e comprendeva inoltre la pratica della lettura e scrittura quotidiane dei monaci, per alimentarne lo spirito: nei monasteri vennero anche fondati scriptoria.  I monasteri entrarono in conflitto agli inizi del VII secolo con l’episcopato francese: Colombano desiderava seguire le tradizioni della propria terra di origine ed ebbe particolare rilievo il differente calcolo della data della Pasqua. Colombano entrò in conflitto per questo motivo con il re merovingio della Burgundia Teodorico II, mentre Brunechil, nonna del re, fu fortemente irritata dalle sue critiche sul proprio comportamento. Nel 609 Colombano fu espulso da Luxeuil e fu messo in carcere a Besançon, da dove però, allentatasi la sorveglianza riuscì a fuggire per tornare a Luxeuil. Nuovamente arrestato, nel 610 fu condotto in barca lungo la Loira verso Nantes, da dove avrebbe dovuto ritornare per mare verso l’Irlanda con i suoi dodici compagni.  Secondo la leggenda agiografica durante il viaggio, giunti presso Tours, essendogli stato negato dai soldati il permesso di visitare la tomba di san Martino, il battello si diresse miracolosamente verso l’approdo, dove si incagliò e i soldati riuscirono a muoverlo di nuovo solo dopo che gli fu concesso quanto desiderava. A Nantes l’assoluta mancanza di vento impedì la partenza verso l’Irlanda e quando la scorta si fu miracolosamente addormentata, Colombano, sfuggì di nuovo alla sorveglianza.  Sfuggito al re burgundo, Colombano passò quindi in Neustria, verso Rouen, Soissons e Parigi. Qui regnava Clotario III, che gli concesse la sua protezione.  In Neustria santa Fara (Borgundofara), figlia di amici di Colombano, fondò l’abbazia femminile di Faremoutiers, mentre il santo e i suoi compagni e seguaci fondarono altri monasteri, tra i quali Remiremont, Rebais, Jumièges, Noirmoutier-en-l’Île, Saint-Omer (Passo di Calais).  Colombano si spostò quindi nel 611 alla corte di Teodeberto II, re d’Austrasia, passando per le città di Coblenza, Magonza, Strasburgo, Basilea e Costanza. Il re lo invitò ad evangelizzare le terre ancora pagane dei Sassoni e degli Alemanni lungo il fiume Reno e Colombano fondò un nuovo monastero a Bregenz, sulla riva del lago di Costanza, l’eremo di Sant’Aurelia.  Nel 612 Colombano decise di recarsi a Roma, per ottenere l’approvazione della propria regola da parte del papa Bonifacio IV. Lungo il cammino il suo discepolo san Gallo fu costretto a fermarsi perché ammalato e fondò in quel luogo l’abbazia di San Gallo.  Secondo la leggenda agiografica per essersi voluto fermare in seguito alla malattia, Colombano avrebbe imposto al discepolo di non celebrare più messa fino alla sua morte. Nel momento della morte di Colombano, Gallo avrebbe avuto in sogno la visione di Colombano che in forma di colomba bianca saliva al cielo e avrebbe celebrato dunque la sua prima messa in suo onore.  Giunto a Pavia, Colombano si pose sotto protezione del re longobardo Agilulfo, che era tuttavia ariano, e della regina Teodolinda, che gli chiesero un suo intervento nella spinosa questione tricapitolina. In cambio il santo ottenne la possibilità di creare sul suolo demaniale un nuovo centro di vita monastica. Il luogo, segnalato da un certo Giocondo, venne esaminato dalla stessa regina Teodolinda, salita sulla vetta del monte Penice, la quale chiese al santo di dedicare alla Madonna la piccola chiesetta in cima alla vetta, futuro santuario di Santa Maria.  L’area si trovava nel cuore dell’Appennino in una zona fertile e molto produttiva, dove abbondavano acque correnti e c’era pesce in quantità. Nella zona si trovavano anche antiche terme e sorgenti, sia termali che saline da cui si traeva il sale. La scelta del luogo ne faceva un avamposto religioso e politico controllato dal regno longobardo verso le terre liguri, ancora bizantine. Con il documento del 24 luglio del 613 che donava a Colombano il territorio per fondarvi il nuovo monastero, vennero attribuiti a questo anche la metà dei proventi delle saline del luogo, che appartenevano in precedenza al duca Sundrarit.  Colombano giunse a Bobbio nell’autunno del 614 con il proprio discepolo Attala, riparò l’antica chiesa di San Pietro (situata dove ora vi è il castello malaspiniano) e vi costruì attorno delle strutture in legno, che costituirono il primo nucleo dell’abbazia di San Colombano.  Secondo la leggenda agiografica, nonostante la presenza di una fitta boscaglia, che ostacolava il trasporto dei materiali da costruzione, san Colombano avrebbe sollevato i tronchi come fuscelli, facendo il lavoro di trenta o quaranta uomini. La leggenda riferisce anche dell’episodio dell’orso e del bue, che fu in seguito numerose volte raffigurato nell’arte: un orso uscito dalla foresta avrebbe ucciso uno dei due buoi aggiogato all’aratro di un contadino, ma san Colombano avrebbe convinto l’orso a lasciarsi aggiogare all’aratro per terminare il lavoro al posto del bue ucciso.  Nella quaresima del 615 Colombano si ritirò nell’eremo di San Michele presso Coli, lasciando a Bobbio come suo vice Attala, e tornando al monastero solo alla domenica. Qui gli giunse la visita di Eustasio, suo successore a Luxeuil, inviato dal re Clotario II, il quale aveva nel frattempo riunito sotto il suo dominio i tre regni merovingi precedentemente esistenti e desiderava il suo ritorno in Francia.  Colombano morì a Bobbio, nell’abbazia che aveva fondato, all’età 75 anni, la domenica 23 novembre del 615. Come secondo abate del monastero gli succedette Attala (615-627). La sua tomba si trova tuttora nella cripta dell’abbazia insieme a quelle degli abati suoi successori (Attala, Bertulfo, Bobuleno e Cumiano e di altri diciotto monaci e di tre monache.  Giona, monaco nell’abbazia di San Colombano a Bobbio, fu incaricato dall’abate Attala di scrivere una biografia in latino del santo che è la fonte principale per le vicende della sua vita.  
    [3] Nemesio (Νεμέσιος; IV secoloV secolo) è stato un filosofo greco antico e fu vescovo di Emesa. Della sua produzione ci è pervenuta l’opera Περὶ φύσεως ἀνθρωπου (Della natura dell’uomo). Si tratta di un’opera apologetica di ispirazione neoplatonica, importante per le testimonianze che dà sulle eresie e sulla filosofia greca.
    [4] Servo di Dio Enrico Medi (Porto Recanati, 26 aprile 1911Roma, 26 maggio 1974) è stato un scienziato e politico italiano, grande figura di scienziato cattolico italiano, unì al sapere scientifico una grande Fede. Direttore dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vicepresidente dell’Euratom, fu un grande divulgatore di temi scientifici in assoluto e di temi scientifici correlati alla Fede cattolica. Fece parte dell’Assemblea Costituente e fu deputato del primo Parlamento della Repubblica Italiana. Si diplomò al liceo classico Istituto Massimo dei Gesuiti, divenendo il primo presidente della “Lega Missionaria Studenti“, da lui fondata insieme a Gabrio Lombardi.  Allievo di Enrico Fermi, si laureò in fisica pura nel 1932, a soli ventuno anni, con una tesi sul neutrone. Ottenne la libera docenza in fisica terrestre nel 1937 e nel 1942 vinse la cattedra di fisica sperimentale dell’Università di Palermo. Nel 1949 ottenne la cattedra di fisica terrestre all’Università di Roma.  Nel 1946 Medi fece parte dell’Assemblea Costituente ed in seguito fu deputato al parlamento nella prima legislatura della Repubblica Italiana.  Dal 1949 fu direttore dell’Istituto Nazionale di Geofisica e nel 1958 divenne Vicepresidente dell’Euratom. Negli anni cinquanta condusse uno dei primi programmi televisivi di divulgazione scientifica, Le avventure della scienza. Il 20 luglio 1969 commentò e partecipò alla lunga diretta dello sbarco sulla Luna da Roma insieme a Tito Stagno, Andrea Barbato e Piero Forcella.  La sua carriera politica giunse al culmine nel 1971, risultando primo degli eletti al Consiglio Comunale di Roma, con 75.000 voti.  Tra i suoi lavori, ricordiamo le prime esperienze con il radar e l’ipotesi di fasce ionizzanti nell’alta atmosfera, oggi note come fasce di Van Allen, entrambi stroncati dal regime fascista e successivamente confermati da studiosi stranieri.  Venne nominato membro della Consulta dei laici per lo Stato della Città del Vaticano nel 1966[1].  Ricevette sepoltura nella tomba di famiglia nel cimitero di Belvedere Ostrense. È in corso presso la Diocesi di Senigallia la fase diocesana del processo di canonizzazione, che è stata aperta il 26 maggio 1996 introdotta dal Vescovo Mons. Odo Fusi-Pecci, per cui la Chiesa cattolica gli riconosce il titolo di Servo di Dio[1]..  
    [5] Nel 1591 intraprese lo studio della teologia a Tubinga, università protestante, dove insegnavano alcuni seguaci del copernicanesimo; tra questi vi era Michael Maestlin, che convinse Keplero della validità delle teorie di Niccolò Copernico. Nel 1594 Keplero divenne insegnante di matematica a Graz (Austria) e accettò un posto di matematico degli stati di Stiria. Tra le sue mansioni c’era quella di fare “pronostici”; gli capitò così di prevedere un inverno molto rigido, le rivolte contadine e la guerra con i Turchi. Anche negli anni a seguire non si sottrasse alla stesura di oroscopi, che si configurano come ritratti dal forte tratto psicologico. Nell’aprile 1597 sposò Barbara Mühleck, che gli dette due figli, ma morì prematuramente nel 1611. Sempre nel 1597 pubblicò l’opera Mysterium Cosmographicum, nella quale tentò una prima descrizione dell’ordine dell’Universo. Nel 1599 Tycho Brahe gli offrì un posto come suo assistente, che accettò l’anno dopo. Nel 1601, dopo la morte di Brahe, ne divenne il successore nell’incarico di matematico ed astronomo imperiale a Praga. Nel 1604 osservò una supernova che ancora oggi è nota col nome di Stella di Keplero. Le basi per le sue scoperte astronomiche furono gettate nel 1609, quando pubblicò Astronomia nova, in cui formulò le sue prime due leggi. Alla morte dell’imperatore Rodolfo II (1612), Keplero divenne “matematico paesaggistico” (Landschaftsmathematiker) a Linz (Austria). Il 15 maggio 1618 scoprì la terza legge che prende il suo nome, che rese nota l’anno dopo nell’opera Harmonice mundi. Nell’agosto 1620 la madre di Keplero venne accusata di stregoneria dalla Chiesa protestante e rilasciata solo nell’ottobre 1621. Lo scienziato morì a 58 anni a Ratisbona e venne qui sepolto. La sua tomba si perse nel 1632 quando le truppe di Gustavo Adolfo (impegnate nell’invasione della Baviera durante la guerra dei trent’anni) distrussero il cimitero; rimane però la lapide dove ancora oggi si può leggere l’epitaffio da lui stesso composto: “Mensus eram coelos, nunc terrae metior umbras. Mens coelestis erat, corporis umbra iacet”. (Misuravo i cieli, ora fisso le ombre della terra. La mente era nella volta celeste, ora il corpo giace nell’oscurità). 
    [6] Jean-Jacques Olier de Verneuil nacque a Parigi il 20 settembre 1608 in una nobile famiglia appartenente all’alta magistratura. Dopo gli studi di teologia in Sorbona, maturò la vocazione religiosa sotto la guida spirituale di san Vincenzo de’ Paoli, e venne ordinato sacerdote il 21 maggio del 1633. Dopo aver predicato per qualche tempo le missioni popolari in Alvernia, nel 1641 fondò a Vaugirard un seminario destinato alla formazione sacerdotale della gioventù: quando, nel 1642, Olier venne nominato parroco di Saint-Sulpice, la sede del suo istituto fu trasferita nei pressi della parrocchia, dove diede vita ad una compagnia di sacerdoti (detta di Saint-Sulpice) destinata alla direzione dei seminari. Nel 1652 lasciò il ministero pastorale per motivi di salute, pur mantenendo la direzione del seminario parigino. Morì a Parigi il 2 aprile 1657. Fu autore di numerosi scritti spirituali e mistici. 
    [7] I cinici (dal greco κύων, “cane”, soprannome di uno dei loro esponenti maggiori, Diogene) sono i seguaci della scuola filosofica di Antistene, una delle scuole socratiche minori, così chiamate per essere in qualche modo ispirate alla filosofia di Socrate. Il loro esponente più importante è Diogene di Sinope. Il nome sembra derivare o dal Cinosarge, l’edificio ateniese che fu la prima sede della scuola, o dalla parola greca per “cane”, appellativo che fu dato in senso dispregiativo ai cinici dalle correnti filosofiche avversarie. I cinici professavano una vita randagia e autonoma, indifferente ai bisogni e fedele al rigore morale. Dopo un periodo di declino per la scuola cinica, essa ebbe una ripresa in concomitanza alla corruzione del potere imperiale: si fece appello allora alla libertà interiore e all’austerità dei costumi. L’interesse della scuola fu prevalentemente etico, e il concetto di “virtù” assunse un nuovo significato in una vita vissuta secondo natura; l’ideale era divenuto l’autosufficienza (l’autosufficienza del saggio, condotta fino all’assoluta indipendenza dal mondo esterno, secondo il termine greco autàrkeia, ovvero autarchia, capacità di detenere il totale controllo su se stesso), portando alle estreme conseguenze il pensiero individualistico e utilitaristico proprio della sofistica. La tesi fondamentale di questa corrente di pensiero è la ricerca della felicità come unico fine dell’uomo; una felicità che è una virtù, e al di fuori di essa sussiste un disprezzo per ogni cosa che richiama comodità e agi. Comunemente il termine “cinismo” è stato associato in termini di sinonimia alla sfacciataggine, all’indifferenza. 
    [8] Era figlio di Vincenzo Bellarmino, magistrato e gonfaloniere di Montepulciano, e di Cinzia Cervini, sorella del papa Marcello II, molto pia e religiosa.  Nacque in una famiglia numerosa, terzogenito di cinque figli; di nobili origini poliziane, sia per parte paterna che materna, ma in via di declino economico. Fu battezzato dal cardinale fiorentino Roberto Pucci al quale probabilmente deve l’onore del suo primo nome, mentre il secondo è in riferimento a San Francesco d’Assisi, il santo onorato il 4 ottobre giorno della sua nascita; Romolo fu dato in onore di un antenato della famiglia.  Fin da piccolo ebbe una salute precaria e una forte vocazione religiosa. Dopo una iniziale educazione in famiglia, fu inviato per gli studi, insieme al cugino Ricciardo Bellarmino, a Padova secondo il desiderio del padre e con il permesso di Cosimo I granduca di Toscana come era obbligo a quel tempo, per chi volesse in età molto giovane studiare fuori del granducato di Toscana. A diciotto anni, proseguendo con questa sua vocazione al sacerdozio, ed affascinato dalla figura di Sant’Ignazio di Loyola, al carisma del quale legò poi tutta la sua vita, decise di far parte della Compagnia di Gesù. Insieme al cugino Ricciardo che condivise queste aspirazioni giovanili, ma che morì quattro anni dopo, entrò nel Collegio Romano il 20 settembre 1560 e il giorno dopo fece la sua prima professione religiosa; tutto questo però solo dopo che suo padre concesse il permesso a seguito delle pressioni materne, poiché egli avrebbe preferito, per suo figlio, una carriera politica laica.  Nonostante la sua parentela con papa Marcello II, si dimostrò sempre umile e studioso, tanto da essere in breve tempo elogiato da tutti coloro che lo conoscevano.  Fin da giovanissimo mostrò le sue ottime doti letterarie ed ispirandosi agli autori latini come Virgilio, compose diversi piccoli poemi sia in lingua volgare che in lingua latina. Uno dei suoi inni, dedicato alla figura di Maria Maddalena, fu inserito poi per l’uso nel breviario.  Studiò nel Collegio Romano dal 1560 al 1563, e fu condiscepolo di Cristoforo Clavio. Iniziò successivamente ad insegnare materie umanistiche prima a Firenze e poi a Mondovì, sempre in scuole del suo ordine religioso. In questa cittadina piemontese, si distinse come predicatore, nonostante non fosse ancora ordinato sacerdote, e si applicò allo studio del greco.  Nel 1567 iniziò a studiare in modo sistematico teologia a Padova, dove approfondì la teologia di San Tommaso d’Aquino. Dopo aver visitato Genova per un incontro di confratelli, avendo dimostrato ottime qualità di predicatore, fu inviato nel 1569 da San Francesco Borgia Preposito Generale dell’Ordine dei Gesuiti, a Lovanio nelle Fiandre, allora facente parte dei Paesi Bassi spagnoli; qui aveva sede una delle migliori università cattoliche e il giovane Bellarmino vi completò gli studi teologici, trovando inoltre l’ambiente adatto per acquisire una notevole conoscenza sulle eresie più importanti del suo tempo.  Dopo l’ordinazione sacerdotale avvenuta a Gand il 25 marzo del 1570, Domenica delle palme, guadagnò rapidamente notorietà sia come insegnante sia come predicatore; in quest’ultima veste era capace di attirare al suo pulpito sia cattolici che protestanti, persino da altre aree geografiche. Gli fu conferito l’insegnamento della teologia a Lovanio nel 1570, e qui rimase per sei anni, fino al 1576. Distintosi in questi anni per la sua dotta eloquenza e sorprendente capacità di controbattere efficacemente le tesi calviniste, che si diffondevano ampiamente nei Paesi Bassi spagnoli, fu richiamato a Roma da papa Gregorio XIII che gli affidò la cattedra di “Controversie”, cioè di Apologetica, da poco istituita nel Collegio Romano, attività che svolse fino al 1587. Da poco tempo si era concluso il Concilio di Trento e la Chiesa cattolica, attaccata dalla Riforma protestante aveva necessità di rinsaldare e confermare la propria identità culturale e spirituale. L’attività e le opere di Roberto Bellarmino si inserirono proprio in questo contesto storico della Controriforma. Egli si dimostrò adeguato alle difficoltà del compito. Gli studi che intraprese per applicarsi nell’insegnamento e nelle lezioni, confluirono successivamente nella sua grande e più famosa opera di più volumi: Le controversie, cioè “Disputationes de controversiis christianae fidei adversus hujus temporis haereticos”. Questa monumentale opera teologica rappresenta il primo tentativo di sistematizzare le varie controversie teologiche dell’epoca, ed ebbe un’enorme risonanza in tutta Europa; senza sviluppare nessuna aggressione polemica nei confronti della Riforma ma solo usando gli argomenti della ragione e della tradizione, Bellarmino espose in modo chiaro ed efficace le posizioni della Chiesa cattolica.  Presso le chiese protestanti in Germania ed in Inghilterra furono istituite specifiche cattedre d’insegnamento per tentare di fornire una replica razionale agli argomenti dell’ortodossia cattolica difesi da Bellarmino. A tutt’oggi non esiste altra opera di tale completezza nel campo apologetico anche se, come si può facilmente intuire, l’avanzamento degli studi critici ha diminuito il valore di alcuni degli argomenti storici.  L’instancabile azione di Bellarmino a difesa della fede cattolica, gli valse l’appellativo di “martello degli eretici”.  Nel 1588 Roberto Bellarmino fu nominato direttore spirituale del Collegio Romano. In questo periodo collaborò intensamente con l’autorevole papa Sisto V nella riedizione di tutte le opere di Sant’Ambrogio, anche se non sempre ben compreso dal pontefice. Sembra che Sisto V non avesse simpatie per l’Ordine dei Gesuiti e per lo stesso Bellarmino. Nel 1590 fu inviato, e qualcuno suppone per essere allontanato da Roma, con la legazione guidata dal cardinal legato Enrico Caetani che papa Sisto V aveva inviato in Francia per difendere la Chiesa cattolica nelle difficoltà scaturite dalla guerra civile tra cattolici ed ugonotti subito dopo l’assassinio del re Enrico III.  Mentre si trovava in Francia fu raggiunto dalla notizia che Sisto V, che aveva in precedenza calorosamente accettato la dedica della sua opera “Le controversie”, stava ora per proporre di metterne il primo volume all’Indice.  Il motivo era che nell’opera si riconosceva alla Santa Sede un potere indiretto e non diretto sulle realtà temporali; Bellarmino, la cui fedeltà alla Santa Sede era intensa e autentica, ne fu profondamente amareggiato.  Tale imminente condanna fu evitata solo per l’improvvisa morte di Sisto V il 27 agosto 1590, a seguito di complicanze di una malattia infettiva, forse malaria. Tale malattia infettiva colpì Roma in quel periodo molto pesantemente causando molti decessi. Anche il pontefice successivo, Urbano VII, morì per la stessa malattia dopo pochi giorni dall’elezione pontificia. Circa “Le controversie” invece il nuovo papa Gregorio XIV fu francamente entusiasta di quest’opera, tanto che concesse ad essa, persino l’onore di una speciale approvazione pontificia.  Quando la missione del cardinale Enrico Caetani era oramai al termine, Bellarmino riprese nuovamente il suo lavoro come insegnante e padre spirituale. Ebbe la consolazione di guidare negli ultimi anni della sua vita san Luigi Gonzaga, che morì appena 23enne al Collegio Romano nel 1591 dopo aver contratto un male per salvare un uomo affetto da peste ed abbandonato per strada. Bellarmino assistette Luigi Gonzaga fino al trapasso; e di lui negli anni successivi egli stesso ne promosse il processo di beatificazione presso la Santa Sede. Si augurò inoltre di poter avere la propria tomba vicino a quella del giovane e grande gesuita; cosa che effettivamente si realizzò.  In questo periodo egli fece parte della commissione finale per la revisione del testo della Vulgata. Questa revisione era stata oggetto di una specifica richiesta del concilio di Trento, per controbattere le tesi protestanti i papi post-tridentini avevano operato per questo compito alacremente, portandolo quasi a realizzazione completa.  Sisto V per quanto non dotato di competenze specifiche in materia biblica, aveva introdotto delle modifiche al Sacro Testo in modo eccessivamente leggero e rapido, con vistosi errori. Per accelerare i tempi aveva comunque fatto stampare questa edizione e in parte la fece distribuire con il proposito di imporne l’uso con una sua bolla.  Tuttavia morì prima della promulgazione ufficiale e i suoi immediati successori procedettero subito a togliere dalla circolazione l’edizione errata. Il problema consisteva nell’introdurre un’edizione più corretta senza però screditare inutilmente il nome di Sisto V. Bellarmino propose che la nuova edizione dovesse portare sempre il nome di Sisto V, con una spiegazione introduttiva secondo la quale, a motivo di alcuni errori tipografici o di altro genere, già papa Sisto aveva deciso che una nuova edizione dovesse essere intrapresa.  La sua dichiarazione, dal momento che non c’era prova contraria, dovette essere considerata come risolutiva, tenendo conto di quanto serio e responsabile egli fosse stimato dai suoi contemporanei.  In tal modo la nuova edizione corretta non poteva essere rifiutata in quanto non macchiava la reputazione dei membri della commissione preposta alla nuova stesura, i quali accolsero il suggerimento di Bellarmino. Lo stesso pontefice Clemente VIII, si trovò pienamente d’accordo con tale risoluzione, e concesse il suo “imprimatur” alla prefazione del Bellarmino nella nuova edizione.  Questa bozza, alla quale quella del Bellarmino fu preferita, è tuttora esistente, allegata alla copia dell’edizione Sistina in cui sono segnate le correzioni della Clementina, e può essere consultata nella Biblioteca Angelica di Roma.  Nel 1592 Bellarmino divenne Rettore del Collegio Romano, incarico che svolse per circa due anni fino al 1594. Nel 1595 divenne Preposito dell’Ordine gesuita per la provincia di Napoli.  Nel 1597 papa Clemente VIII lo richiamò a Roma dopo la morte nel settembre 1596 del suo consultore teologo pontificio il cardinale gesuita Francisco de Toledo Herrera. Bellarmino fu allora nominato consultore teologo, oltre che “Esaminatore per la nomina dei Vescovi” , “Consultore del Sant’Uffizio” e teologo della sacra Penitenzieria.  Sempre nel 1597 dopo la morte del duca Alfonso II d’Este, non avendo questi eredi e con l’appoggio del re francese Enrico IV, lo Stato della Chiesa rientrò in possesso dei territori del ducato di Ferrara. In tale occasione Bellarmino accompagnò il papa in visita al ducato, nuovo territorio dello Stato della Chiesa.  Nel concistoro del 3 marzo 1599 il papa lo fece cardinale presbitero e il 17 marzo gli consegnò la berretta rossa con il titolo di Santa Maria in Via, indicando la motivazione di questa nomina con le parole: La Chiesa di Dio non ha un soggetto di pari valore nell’ambito della scienza. Si racconta che Bellarmino tentò in tutti i modi di far cambiare idea al papa, non volendo ricevere questa carica, ma il pontefice alla fine glielo impose con la superiore autorità.  Negli anni successivi Bellarmino fu bonariamente descritto come “il gesuita vestito di rosso”, in relazione all’abito cardinalizio che contrastava con la tonaca nera dei gesuiti. Nonostante questa nomina, egli non cambiò il suo austero e sobrio stile di vita e tutte le sue rendite e gli introiti economici conseguenti alla sua nomina e alle sue attività, furono massimamente devolute per i poveri.  Il caso di Giordano Bruno, filosofo e frate domenicano condannato al rogo per eresia, fu un evento che scaturì dalla reazione dura controriformista ai tentativi di modificare i temi della fede religiosa iniziati alcuni decenni prima con la riforma protestante. Il frate domenicano condannato per le sue idee anche dalla chiesa luterana e da quella calvinista, si era fatto promotore di nuove idee religiose e filosofiche che si ponevano in netta antitesi con quella della Chiesa di cui tra l’altro faceva parte integrante. L’istruzione dell’inchiesta e del processo ebbe luogo nel 1593 e la sentenza fu emessa nel 1600: coinvolse Bellarmino dal 1597, da quando cioè fu nominato consultore del Santo Uffizio. Il Bellarmino ebbe alcuni colloqui con il frate domenicano e durante questi, egli tentò di fare abiurare le molte tesi francamente eretiche del frate domenicano, con l’intento di salvargli la vita, poiché la condanna per eresia era inevitabilmente capitale. La lunga durata del processo fu causata dal fatto che Giordano Bruno non ebbe un comportamento lineare nell’ammettere l’eresia delle proprie posizioni. Durante i venti interrogatori a cui Giordano Bruno venne sottoposto, gli inquisitori ricorsero anche alla tortura.  Durante la fase processuale la Congregazione fece esaminare da Bellarmino una dichiarazione di Giordano Bruno su otto proposizioni che gli erano state contestate come eretiche. Il 24 agosto 1599 il cardinale Bellarmino riferì alla Congregazione che, nello scritto, Giordano Bruno aveva ammesso come eretiche sei delle otto proposizioni, mentre sulle altre due la sua posizione non appariva chiara: “videtur aliquid dicere, si melius se declararet”. La completa ammissione avrebbe risparmiato la condanna a morte. Ma alla fine Giordano Bruno preferì mantenere le precedenti posizioni francamente eretiche decidendo di affrontare la condanna a morte. A condanna ormai prossima all’imputato venne concesso di affrontare una morte meno straziante, ma Giordano Bruno preferì affrontare la pena prevista, cioè il rogo, che ebbe luogo a Roma in piazza Campo de’ Fiori il 17 febbraio 1600.  Galilei ebbe due processi presso il Santo Uffizio: uno nel 1616 e l’altro nel 1633. I processi ebbero luogo fondamentalmente poiché la teoria eliocentrica era considerata eretica dai teologi. Infatti, sostenendo che il sole fosse fisso al centro dell’universo si smentivano alcune frasi contenute nella Bibbia dove si cita o che Dio fermò il sole, o che la terra è immobile al centro dell’universo. La dottrina prevalente in quel tempo era infatti che l’infallibilità della bibbia comprendesse anche il significato letterale, e non solo quello simbolico.  Comunque il Galilei non fu mai condannato per eresia, avendo egli obbedito ai precetti del Sant’Uffizio. Ed egli non rinnegò mai la fede cattolica, anzi fino alla sua morte si professò cattolico praticante ottenendo l’indulgenza plenaria in prossimità della sua morte. Era del resto intimo amico con molti cardinali e in particolare con Maffeo Barberini futuro papa Urbano VIII oltre che con lo stesso Bellarmino.  Inoltre a differenza di quanto alcuni pensano, il Galilei non fu mai sottoposto a tortura, e non proferì mai la famosa frase: “Eppur si muove”, che invece gli fu attribuita circa un secolo dopo dal giornalista Giuseppe Baretti nel 1757 a Londra. Anche nel processo contro Galileo Galilei, alcuni storici hanno voluto vedere una partecipazione decisiva del cardinale Bellarmino e su una posizione oscurantista. Bellarmino fu coinvolto solo nel primo processo poiché nel secondo, quando Galilei fu condannato al carcere, egli era già deceduto. Tutti i documenti oggi in nostro possesso dimostrano chiaramente che il cardinale Bellarmino ebbe rapporti molto cordiali se non amichevoli con lo scienziato, sia epistolari che diretti, anche dopo la denuncia di Tommaso Caccini davanti al Santo Uffizio nel 1615. Durante la prima inchiesta su Galilei, nell’anno 1616, si ebbe l’esame presso il Santo Uffizio della teoria eliocentrica e durante tale valutazione fu ascoltato il Galilei stesso che giunse a Roma. Questi ebbe colloqui diretti anche con il papa Paolo V che invitò il cardinale Bellarmino, che faceva parte del Santo Uffizio, sempre in relazione alla frase della Bibbia, ad ammonire il Galilei di non insegnare le due tesi principali sull’eliocentrismo. In tale occasione la teoria eliocentrica copernicana fu condannata dal Santo Uffizio che si espresse in modo definitivo nel marzo 1616. Essa fu condannata come falsa e formalmente eretica, lasciando la possibilità di fare riferimento ad essa come semplice modello matematico.  Il cardinale Bellarmino aveva espresso una posizione aperta, almeno in linea di principio, nei confronti dello scienziato, senza comunque mai rinnegare le decisioni del Santo Uffizio, in particolare non ammettendo eccezioni alla infallibilità della bibbia, nemmeno nel senso letterale della scrittura. Tale posizione è espressa in una lettera inviata il 12 aprile 1615 a padre Paolo Antonio Foscarini, cattolico sostenitore dell’eliocentrismo ed amico di Galilei, nella quale sosteneva di non potere escludere a priori l’attendibilità della teoria eliocentrica, ma rimandando qualsiasi tentativo di proporla come descrizione fisica solo dopo che si avesse avuta la prova concreta e definitiva.  Inoltre poco dopo la condanna dell’eliocentrismo presso il Santo Uffizio del 1616, Galilei stesso chiese ed ottenne un colloquio privato con il cardinale Bellarmino. Il 24 maggio 1616 il cardinale Bellarmino firmò su richiesta dello stesso Galilei, una dichiarazione nella quale si affermava che non gli era stata impartita nessuna penitenza o abiura per aver difeso la tesi eliocentrica ma solo una denuncia all’Indice.  Quel colloquio fu poi ricomposto in modo inventato ad arte e successivamente divulgato, da un grande nemico di Galilei, padre Segneri. In questo verbale apocrifo si diceva che Bellarmino ammoniva Galilei, pena il carcere, di non persistere sulla tesi eliocentrica; cosa niente affatto vera. Questo documento falsificato fu poi utilizzato anni dopo nel secondo processo contro Galilei, ma il cardinale Bellarmino era ormai morto e non poteva più testimoniare in favore di Galilei e smentire la veridicità di tale verbale.  Poco tempo dopo la sua elezione a cardinale, Bellarmino venne nominato, insieme al cardinale e vescovo della Diocesi di Ascoli Girolamo Bernerio domenicano, assistente dei cardinali Ludovico Madruzzo e Pompeo Arrigoni, presidenti della Congregazione “De Auxiliis Divinae Gratiae”, congregazione istituita nel 1597 dal papa Clemente VIII per ricomporre una controversia sorta tra Tomisti guidati dal domenicano Domingo Bañez e Molinisti a proposito della natura dell’armonia tra grazia efficace e libertà umana. In tale diatriba che si trascinerà per diversi decenni, si contrapponevano gesuiti molinisti e domenicani tomisti. I primi accusavano di eresia calvinista i tomisti, mentre questi ultimi accusavano di eresia pelagiana i molinisti.  Il parere di Bellarmino sin dall’inizio fu che tale questione di natura squisitamente dottrinale non dovesse essere risolta con un intervento autoritativo, ma lasciata ancora alla discussione tra i diversi indirizzi e che ai contendenti di entrambi i campi fosse seriamente proibito di indulgere a censure o condanne dei rispettivi avversari. Pur conciliante, Bellarmino prese però apertamente le difese di un suo discepolo, frate Leonardo Leys gesuita, coinvolto nella diatriba scoppiata all’Università di Lovanio; e in tale occasione scrisse una bozza, “De Controversia Lovaniensi” che indirizzò ai cardinali Mandruzzo e Arrigoni, presidenti della Congregazione “De Auxiliis Divinae Gratiae”. In questa disputa Bellarmino si confrontò tramite altri scritti con un famoso teologo spagnolo dell’Università di Salamanca, padre Domingo Bañez a sua volta direttamente in disputa con il padre gesuita Luis Molina. Clemente VIII all’inizio si mostrò propenso ad accettare questa idea conciliante di Bellarmino, ma successivamente cambiò idea, e decise di dare una più precisa definizione dottrinale in favore della tesi tomista. La Congregazione “De Auxiliis” condannò quindi le tesi di Luis Molina come eretiche. La presenza del cardinale Bellarmino nella Curia Romana in tal senso, forse divenne imbarazzante, ed egli probabilmente anche per tale motivo lo nominò il 18 marzo 1602 arcivescovo di Capua, sede resasi proprio allora vacante.  Clemente VIII volle comunque consacrarlo con le sue mani, un onore che abitualmente i papi concedono come segno di stima speciale. Il nuovo arcivescovo partì subito per la sua sede, e si distinse degnamente nel suo ministero.  Nel marzo 1605 Clemente VIII morì e gli succedette prima Leone XI che regnò solo ventisei giorni, e poi Paolo V. Nel primo e nel secondo conclave, ma soprattutto in quest’ultimo, il nome di Roberto Bellarmino fu spesso dinanzi alle intenzioni degli elettori, specialmente a motivo delle afflizioni subite, ma il fatto che fosse un gesuita costituì un impedimento secondo il giudizio di molti cardinali. Racconta Ludwig Von Pastor, storico vaticanista, che nei primi giorni del secondo conclave del 1605 un gruppo di cardinali tra i quali Baronio, Sfondrati, D’Acquaviva, Farnese, Sforza e Piatti si adoperarono per far eleggere il cardinale gesuita Bellarmino; ma questi era contrario tanto che saputo della sua candidatura rispose che avrebbe volentieri rinunciato anche al titolo cardinalizio; invece il suo appoggio durante il conclave fu rivolto verso il cardinal Baronio con il quale condivideva una reciproca stima ed una sincera amicizia. Del resto si accertò in seguito che il re spagnolo Filippo II aveva espresso un vero e proprio veto nei confronti di entrambi i cardinali Baronio e Bellarmino, ritenuti troppo intransigenti e quindi poco inclini a favorire qualsiasi parte politica. In conclave si trovò poi l’accordo sul cardinale Camillo Borghese.  Il nuovo papa Paolo V, eletto quindi con l’accordo delle maggiori potenze cattoliche, insistette nel tenere Bellarmino con sé a Roma, e il cardinale chiese che almeno egli fosse esonerato dal ministero episcopale, le cui responsabilità egli non era più in grado di adempiere. Fu nominato allora, membro del Santo Uffizio e di diverse congregazioni, e successivamente consigliere principale della Santa Sede nel settore teologico della sua amministrazione.  La disputa “De Auxiliis”, che alla fine Clemente non aveva avuto modo di portare a termine, fu conclusa con una decisione che ricalcò le linee dell’originaria proposta di Bellarmino.  Il 1604 segnò l’inizio della contesa tra la Santa Sede e la Repubblica di Venezia, che senza consultare il Papa e versando in cattive condizioni finanziarie, aveva abrogato la legge di esenzione del clero dalla giurisdizione civile e tolto alla Chiesa il diritto di possedere beni immobili. La disputa portò ad una guerra di libelli durante la quale le difese della parte repubblicana furono sostenute da Giovanni Marsilio e dal frate servita Paolo Sarpi, che si erano posti in netto contrasto con la Chiesa cattolica. In questa disputazione la Santa Sede fu difesa nobilmente dal cardinal Bellarmino e dal cardinal Baronio. A tal proposito alcuni contemporanei descrivono chiaramente l’atteggiamento di profonda e non celata stima che Bellarmino aveva per il frate servita, nonostante la netta contrapposizione.  Contemporaneamente alle dispute con la Repubblica Veneziana, ci furono quelle concernenti il Giuramento inglese di lealtà. Nel 1606, in aggiunta alle vessazioni già imposte ai cattolici inglesi dai monarchi inglesi, fu chiesto, sotto pena di prœmunire, di prestare un giuramento di fedeltà abilmente formulato con tale astuzia che un cattolico, nel rifiutarlo, sarebbe potuto apparire come un cittadino che si sottraeva ai suoi doveri civili e quindi perseguibile, mentre, se lo avesse effettuato, avrebbe non solo rifiutato ma persino condannato come empio ed eretico l’insegnamento sul potere di deporre, ossia, del potere di deporre un sovrano che, giustamente o erroneamente, la Santa Sede aveva rivendicato ed esercitato per secoli con la piena approvazione della cristianità, e che, anche in quel periodo, la stragrande maggioranza dei teologi continuava a sostenere. Poiché la Santa Sede aveva proibito ai cattolici di prestare questo giuramento, il re inglese Giacomo I d’Inghilterra, divenuto re dopo la morte di Elisabetta I ed essendo re di Scozia, di fede protestante, scrisse la difesa di tale giuramento in un libro intitolato Tripoli nodo triplex cuneus; Bellarmino replicò al monarca con il suo Responsio Matthei Torti.  Altri trattati seguirono dall’uno e dall’altro campo, e risultato di uno di essi, fu lo scritto a confutazione del potere di deporre i sovrani da parte di William Barclay, famoso giurista scozzese, residente in Francia, al quale si contrappose la replica di Bellarmino. Le confutazioni del giurista scozzese furono poi utilizzate dal Parlamento parigino, di orientamento regalista.  La conseguenza fu che, a seguito della dottrina della via media del potere indiretto di deporre i sovrani, Bellarmino fu condannato nel 1590 come troppo incline alle posizioni regaliste e nel 1605 come eccessivamente papista. Tali posizioni antiregaliste di Bellarmino si rifletteranno nei secoli successivi sulla sua causa di beatificazione. Altro argomento di contrapposizione fu, proprio agli inizi del Seicento, la diffusione in Francia del gallicanesimo. In sostanza si verificò nella Chiesa francese un progressivo distacco dall’autorità centrale della Santa Sede, con profusioni di scritti e opere teologiche che appunto portavano ragioni per tale distacco. Si giunse a non riconoscere nella figura del papa la massima autorità teologica, con un contemporaneo riconoscimento della grande autorità del re anche sulla chiesa stessa.  Anche in questa disputa si inserì l’opera di Bellarmino, che nel 1610, in risposta alle tesi del gallicanesimo, scrisse Tractatus De Potestate Summi Ponteficis in rebus temporalibus, nel quale si esponevano chiaramente i motivi della supremazia dell’autorità papale su quella monarchica.  Negli ultimi anni il cardinale Roberto Bellarmino continuò il suo austero modo di vivere che aveva sempre praticato, dedicando molto del suo tempo alla preghiera e ai digiuni, nonostante la sua salute piuttosto precaria. Continuò a fare molte elemosine ai poveri, ai quali lasciò praticamente tutti i suoi averi, tanto che fu sempre molto amato dai romani; contribuì a far concedere l’approvazione pontificia alla fondazione del nuovo Ordine della Visitazione di San Francesco di Sales; si impegnò per la beatificazione di San Filippo Neri; inoltre portò a termine la stesura di un “grande catechismo” e di un “piccolo catechismo”, quest’ultimo in particolare ebbe notevole successo e fu ampiamente utilizzato fino a tutto il XIX secolo; infine compose un piccolo e anch’esso famoso testo “De arte bene moriendi” oltre che una sua “Autobiografia”. Fu nominato Camerlengo del Sacro Collegio dal 9 gennaio 1617 all’8 gennaio 1618. Successivamente fu Prefetto della Sacra Congregazione dei Riti e poi della Sacra Congregazione dell’Indice.  Egli visse ancora per assistere ad un altro conclave, quello che elesse Gregorio XV nel febbraio 1621. La sua salute stava rapidamente declinando e nell’estate dello stesso anno gli fu permesso di ritirarsi a Sant’Andrea al Quirinale, sede del noviziato dei gesuiti, per prepararsi al trapasso. Qui spirò il 17 settembre 1621 tra le ore 6 e le 7 del mattino.
    [9] La vita di Tolstoj fu lunga e tragica, nell’accezione più vera del termine, ossia nel senso che essa fu dominata da una profonda, segreta tensione: la si potrebbe definire una tragedia dell’anima Tolstoj ebbe un’incessante, tormentosa evoluzione interiore, lottò con se stesso e con il mondo, e questa lotta, talora impetuosa, alimentò senza sosta l’impulso creativo.  Lev Nikolaevič Tolstoj nasce il 28 agosto 1828 nella tenuta Jasnaja Poljana nel distretto di Ščëkino (governatorato di Tula). I genitori sono d’antica nobiltà: la madre, di cinque anni maggiore del marito, è la principessa Marja Nikolàevna Volkonskaja (Jasnaja Poljana era la sua dote di matrimonio), mentre il padre Nikolàj Il’ìč è discendente di Pëtr Andreevič Tolstoj, che aveva ottenuto il titolo di conte da Pietro il Grande.[5] La madre, di cui Lev non conserverà alcun ricordo, muore quando egli ha appena due anni. Dopo qualche anno gli muore anche il padre (corse voce che l’avessero avvelenato i suoi due servi prediletti; Lev lo ricorderà come mite e indulgente)[5] lasciandolo precocemente orfano. Fu così allevato da alcune zie molto religiose e da due precettori, un francese e un tedesco, che diventeranno poi personaggi del racconto Infanzia.  Nel 1844 si iscrive all’università di Kazan’ (nell’attuale Tatarstan), prima alla facoltà di filosofia (sezione di studi orientali, dove supera gli esami di arabo e turco), poi, l’anno dopo, a quella di giurisprudenza, ma per via dello scarso profitto non riuscirà mai ad ottenere la laurea; provvede quindi da solo alla propria istruzione, ma questa formazione da autodidatta gli provocherà spesso un senso di disagio in società.[5] La giovinezza dello scrittore è disordinata, tempestosa: a Kazan passa le serate tra feste e spettacoli, perdendo grosse somme al gioco d’azzardo (circa dieci anni dopo, a Baden-Baden, perderà ancora rovinosamente al gioco e lo salverà l’amico Turgenev concedendogli un prestito) ma intanto legge molto, soprattutto filosofi e moralisti.[5] Particolare influenza ha su di lui Jean-Jacques Rousseau. Non a caso, l’opera della conversione di Tolstoj, scritta trent’anni dopo, si intitolerà appunto – similmente all’autobiografia roussonianaLa confessione (1882). Autori come Rousseau, Sterne, Puskin, Gogol insegnano allo scrittore in erba un principio fondamentale: in letteratura sono importanti soprattutto la sincerità e la verità. Proprio sotto questi influssi nascono le opere letterarie di Tolstoj: nel 1851 avviene la prima redazione del racconto Infanzia (che uscirà sulla rivista di Nekrasov Il Contemporaneo nel 1852, firmato con le sole iniziali)[5] e la stesura di un altro racconto, incompiuto, Storia della giornata di ieri. Lo scopo di quest’ultimo, secondo le parole dell’autore, era estremamente semplice ed insieme complicatissimo, quasi irrealizzabile: «descrivere una giornata, con tutte le impressioni e i pensieri che la riempiono». Da questo germe si può già intravedere lo sviluppo della possente pianta: tendenza all’introspezione e alla vita reale. Tolstoj resterà fino alla fine un incrollabile realista. L’immaginazione slegata dalla realtà è quasi inesistente nei suoi libri. L’unica possibilità di utilizzare la fantasia consiste nell’elaborazione di qualche particolare, di qualche sfumatura che appartiene però ad un oggetto assolutamente reale. Anche il successivo racconto, pubblicato sempre sul Contemporaneo, è ispirato a criteri di verità quasi naturalistici: L’incursione (1853), che nasce dal ricordo di un’autentica scorribanda compiuta da un battaglione russo in un villaggio caucasico. Tra il 1851 e il 1853 Tolstoj, seguendo il fratello maggiore Nikolaj, partecipa alla guerra nel Caucaso, prima come volontario, poi come ufficiale d’artiglieria. Nel 1853 scoppia la guerra russo-turca e – dietro sua richiesta – Tolstoj viene trasferito in Crimea, a Sebastopoli, dove si combatte sul famoso quarto bastione.[5] Qui conduce la vita del soldato, combatte coraggiosamente, affronta rischi d’ogni sorta, osserva tutto con attenzione, guarda in faccia il pericolo, e tuttavia gli avvenimenti più tragici avvengono dentro di lui: si sente inquieto, costantemente in bilico tra la vita e la morte, ma col desiderio di dedicare la propria esistenza a nobili ideali. Nel Diario del 1854 – anno in cui pubblica Adolescenza (Отрочество [Otročestvo]) – annota: «La cosa più importante per me è liberarmi dai miei difetti: la pigrizia, la mancanza di carattere, l’irascibilità». Nel marzo del 1855 decide finalmente riguardo al proprio destino: «La carriera militare non fa per me, e prima me ne tirerò fuori, per dedicarmi totalmente alla letteratura, tanto meio sarà»[7]. La guerra di Crimea – cruenta e rovinosa per l’esercito russo – lascia un solco profondo nel giovane Tolstoj e gli offre, d’altra parte, abbondante materiale per una serie di racconti: il ciclo dei tre Racconti di Sebastopoli (Севастопольские рассказы [Sevastolpol’skie Rasskazi], 1855) e poi Il taglio del bosco (1855), La tempesta di neve (1856) e I due ussari (1856). Ispirate alle violenze della guerra, queste opere sconvolgono la società russa per la spietata verità e l’assenza di qualsiasi forma di romanticismo guerriero o di patriottismo sentimentale. Nessuno prima di lui ha descritto la guerra in quel modo: è una voce nuova nell’epoca d’oro della letteratura russa. Nel gennaio del 1856, Fëdor Dostoevskij scrive dalla Siberia ad un corrispondente, parlando di Tolstoj: «mi piace molto, ma secondo me non scriverà molto (ma del resto, chissà, forse mi sbaglio)»[11]. La censura esita ad autorizzare la pubblicazione dei tre Racconti di Sebastopoli: cerca di vietare il secondo «per l’atteggiamento derisorio nei confronti dei nostri coraggiosi ufficiali», ma alla fine lascia correre, pur imponendo tagli e modifiche. Nel 1856 vengono raccolti in un unico volume con il titolo Racconti di Guerra. Nel 1856 Tolstoj assiste il fratello Dmitrij, che muore di tisi. Si interessa poi per migliorare le condizioni dei contadini di Jasnaja Poljana, ma questi sono diffidenti e rifiutano le sue proposte, come accade al protagonista de La mattinata di un proprietario terriero, racconto che Tolstoj pubblica in quell’anno,[5] e come accadrà anche al protagonista di Resurrezione, romanzo di molti anni più tardi, di ispirazione parzialmente autobiografica. Si apre per Tolstoj un periodo ricco di riflessioni, con ricerche, viaggi, un crescente interesse per l’istruzione popolare e l’attività di giudice di pace nelle contese tra proprietari e contadini – proprio a cavallo dell’abolizione della servitù della gleba (1861) – che stimolano in lui lo svilupparsi di una particolare sensibilità verso le ingiustizie sociali.[12] Sul versante della produzione letteraria, nei nove anni che vanno dai Racconti di guerra alla prima parte della grandiosa epopea Guerra e pace (1865), lo scrittore pubblica diversi altri racconti: Giovinezza (Юность [Junost’], 1857, ultimo della trilogia comprendente Infanzia e Adolescenza), Tre morti (1858), Al’bèrt (1858), Felicità familiare (1859), Idillio (1861) e Polikuška (ПоликушкаIl 1863 è anche l’anno di pubblicazione de I cosacchi (Казаки [Kazaki]) – opera ispirata ai ricordi del Caucaso e lungamente rielaborata nel corso di un decennio – in cui sono evidenti gli echi della lettura rousseauiana ed in cui si esprime, con entusiasmo, la nostalgia per la vita a contatto con la natura, semplice e felice. Intanto, lo scrittore viaggia per l’Europa, dove ha modo di conoscere Proudhon, Herzen, Dickens. Ma, non di meno, lo angoscia la vita russa, specialmente quella dei contadini. In questi anni comincia così a manifestarsi, in maniera sempre più evidente, una caratteristica fondamentale della personalità tolstoiana: l’insoddisfazione di sé stesso, della propria esistenza, della propria opera. Come Olenin – l’eroe dei Cosacchi, che rifiuta la società falsa ed ipocrita per rifugiarsi nel Caucaso – anche Tolstoj, all’inizio degli anni sessanta, decide di abbandonare gli impegni mondani, compresi quelli letterari, per rifugiarsi nella propria tenuta, con l’intento di dedicarsi – nella scuola da lui stesso fondata – all’istruzione dei bambini del villaggio. Il 23 settembre 1862, dopo appena una settimana di fidanzamento, sposa la diciottenne Sof’ja Andrèevna, seconda delle tre figlie del medico di corte Bers. Lo scrittore, non volendole nascondere nulla, le fa leggere, alla vigilia delle nozze, i suoi diari intimi. La madre di Sof’ja, Ljubòv’ Islàvina, era stata amica d’infanzia di Tolstoj.[5] Avranno tredici figli, cinque dei quali morti in età precoce:[15] 
    [10] Evagrio Pontico, in (latino: Evagrius Ponticus, in greco: Εὐάγριος ὁ Ποντικός) (Ibera nel Ponto, 346Egitto, 399), è stato un monaco e scrittore ecclesiastico turco, appartenente alla cerchia dei Cappadoci. Rielaborò in modo autonomo il patrimonio di idee mistiche di Gregorio di Nissa, formulando la terminologia dell’ascetica e della mistica greca in uso fino al medioevo.  Ordinato lettore da Basilio il Grande e diacono da Gregorio Nazianzeno visse una sconvolgente vicenda amorosa. Dapprima si ritirò a Gerusalemme presso Rufino poi si trasferì nel deserto egiziano di Nitria, presso San Macario, dove condusse una intensa vita di preghiera di studio e di penitenza fino alla morte.  Evagrio scrisse molto, quasi sempre in forma di aforismi e sentenze sull’esempio della letteratura filosofica. Prese l’abitudine di riunire le sue sentenze in gruppi di cento, le Centurie appunto, inaugurando così un tipo di composizione che avrà lunga vita nella tradizione bizantina. Le sue opere coinvolte nella condanna contro Origene sono andate in massima parte perdute nell’originale greco. Alcune sono pervenute in traduzione siriaca e armena.  L’opera principale di Evagrio si intitola “Problemi gnostici” ed è composta di sei centurie. In essa risulta evidente l’origenismo di questo pensatore che ripropone i temi fondamentali della cosmologia e dell’ antropologia di Origene.  La dottrina di Evagrio afferma la preesistenza delle anime, ossia delle creature razionali, rispetto ai corpi. Concepisce il susseguirsi di più mondi, la loro distruzione e rigenerazione insieme a tutte le creature razionali. Afferma inoltre, la distruzione dei corpi di cui erano state fornite le creature razionali in conseguenza del peccato. Tutte queste teorie furono condannate dal V Concilio ecumenico.  A lui si deve una prima classificazione dei vizi capitali e dei mezzi per combatterli.  
    [11] Nacque a Arianzo, cittadina presso Nazianzo, attuale Güzelyurt in Cappadocia. Figlio di Gregorio e Nonna. Il padre, che era ebreo della setta degli Hypsistiani, fu convertito dalla moglie al cristianesimo e divenne vescovo di Nazianzo. Il fratello Cesario (†;368) fu dottore presso la corte dell’Imperatore Giuliano e governatore di Bitinia. Gregorio, nato qualche anno dopo il concilio di Nicea nel quale si condannò l’eresia ariana, fu fortemente condizionato per tutta la vita dalle lotte che si scatenarono attorno alla definizione della vera natura della Trinità. Studiò prima a Cesarea in Cappadocia, dove conobbe e divenne amico di Basilio, poi a Cesarea in Palestina e ad Alessandria presso il Didaskaleion, infine, tra il 350 e il 358, ad Atene, sotto Imerio; qui conobbe il futuro imperatore Giuliano. Raggiunse poi l’amico Basilio nel monastero di Annisoi, nel Ponto. Ma abbandonò presto questa esperienza per tornare a casa, dove sperava di condurre una vita ancora più ritirata e contemplativa. Nel 361 fu ordinato sacerdote suo malgrado, dal padre, Vescovo di Nazianzo. Dapprima reagì fuggendo, ma poi accettò di buon grado la decisione paterna. “Mi piegò con la forza”, ricorderà nella sua autobiografia. Nel 372 l’amico Basilio, allora Vescovo di Cesarea, costretto dalla politica ariana dell’Imperatore Flavio Valente a moltiplicare il numero delle diocesi sotto la sua giurisdizione per sottrarle all’influenza ariana, lo nominò vescovo di Sasima. Gregorio non raggiunse mai la sua sede vescovile in quanto solo con le armi in pugno sarebbe potuto entrarvi. Morto il padre, tornò a Nazianzo, dove diresse la comunità cristiana. Nel 379, salito al trono Teodosio I, Gregorio fu chiamato a dirigere la piccola comunità cristiana che a Costantinopoli era rimasta fedele a Nicea. Nella capitale dei cristiani di Oriente pronunciò i cinque discorsi che gli meritarono l’appellativo di “Teologo”. Fu lui stesso a precisare che la “Teologia” non è “tecnologia”, essa non è un’argomentazione umana, ma nasce da una vita di preghiera e da un dialogo assiduo con il Signore. Nel 380 Teodosio lo insediò vescovo di Costantinopoli e lo fece riconoscere come tale dal II Concilio Ecumenico nel maggio del 381. Le discussioni conciliari furono quanto mai accese e lo stesso Gregorio fu accusato di occupare illegittimamente, in quanto vescovo di Sasima, la sede di Costantinopoli. infine, confessandosi incapace di mediare tra le opposte fazioni, abbandonò il concilio nel giugno del 381.  Nell’autunno del 382 divenne vescovo di Nazianzo per poi, dopo un anno, ritirarsi in solitudine ad Arianzo, dove morì nel 390.

    Posted by attilio @ 13:12

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