4. LA VITA SPIRITUALE
- a. La perfezione è di tutti
Siccome tutti sono chiamati a salvezza, la vocazione alla perfezione è di tutti: “siate perfetti come è perfetto il Padre vostro che è nei cieli” (Mt 5,48). Dunque la perfezione non è privilegio di pochi. I primi monaci non vollero costituire una casta di perfetti, vollero semplicemente, alla luce del vangelo, creare le condizioni che facilitassero il cammino della perfezione.
Tutti perciò devono avere piena fiducia nella Provvidenza di Dio (obbedienza), tutti devono custodire la purezza del cuore (castità), stimare la grazia di Dio più di tutte le realtà terrene (povertà).
Non si può dunque parlare della vita religiosa come di uno stato particolare che percorre un itinerario diverso da quello che devono percorrere tutti i cristiani. Essa si deve porre nella Chiesa come un faro che indica la direzione verso cui tutti sono chiamati seppur in modalità diverse a indirizzarsi. Lo Spirito, che santitifica tutti è uno solo, uno è il Vangelo e unici sono i mezzi per raggiungere la perfezione che vengono offerti a tutti. Il tratto peculiare dei religiosi è che si obbligano con voti ad utilizzare questi mezzi in una forma specifica secondo una regola di vita approvata dalla Chiesa.
- b. Lo stato di perfezione
I religiosi venivano definiti come coloro che sceglievano lo “stato di perfezione”. L’espressione va intesa bene perché come detto la perfezione-santità è dovere di tutti i battezzati. Per il religiosi lo sforzo per la perfezione diventa l’obbligo del loro stato di vita: essi sono chiamati a far risplendere a beneficio di tutti la santità che è di tutti.
Il termine “religioso” deriva dalla “regula” ovvero il testo normativo che stabilisce mezzi e strumenti per facilitare il cammino di perfezione.
Il termine “monaco” deriva invece dal greco “monos” ovvero colui che è solo.
Nella chiesa greca esiste solo lo stato monastico che viene chiamato “vita angelica”: ovvero coloro che anticipa la realtà del regno dei cieli, il paradiso.
In questo senso i religiosi cercano già nel tempo presente di raggiungere quella perfezione alla quale debbono pervenire tutti coloro che si salveranno. È il compito di profezia escatologica riservata alla vita religiosa.
In occidente la vita religiosa si suddivide in ordini di vita attiva e contemplativa. Quelli di vita attivi sono dediti a servizi peculiari e diretti alla chiesa, quelli di vita contemplativa vivono una vita di clausura che permette loro di darsi completamente alla preghiera e alla testimonianza silenziosa. E’ una vita più strettamente legata anche al concetto di penitenza.
Il concilio vaticano II afferma: “Le società religiose, nate nella Chiesa, aiutano i loro membri a pervenire alla perseveranza e offrono loro una buona guida per raggiungere la perfezione”.
- c. I tre voti
La continenza sessuale, come scrive san Paolo (1Cor 7,33) ha come scopo che il cuore dell’uomo non sia diviso. Il marito e la moglie si concedono reciprocamente il diritto sulla propria persona e anche sul corpo. A coloro che hanno ricevuto una particolare chiamata lo Spirito suggerisce di essere segno di una totale consacrazione a Cristo sposo. Si tratta di una sorta di sposalizio spirituale che esige la stessa fedeltà della promessa matrimoniale.
La povertà religiosa assume diverse sfumature a seconda delle varie tipologie di vita consacrata. Nella sua essenza è la rinuncia a possedere qualcosa come di proprio ad immagine di Cristo che “spoglio totalmente se stesso” per farci ricchi della sua povertà. Con questa scelta il consacrato esprime concretamente il suo distacco dal mondo e nello stesso tempo la ricchezza della comunione con Dio unico vero bene.
Con il voto di obbedienza il consacrato rinuncia alla propria volontà, ad immagine di Cristo che ritiene suo cibo il “fare la volontà del Padre”. Concretamente essa si esprime nell’obbedienza ai propri legittimi superiori. Certamente è questo sacrificio della libertà il più esigente di tutti. Ma nello stesso tempo esso rientra nell’essenza stessa della struttura della Chiesa.
I voti religiosi sono quindi espressione concreta delle virtù cristiane alla quali tutti, sebbene in diversa forma, sono chiamati: la fede nella provvidenza, la speranza, la purezza della mente, l’umiltà e soprattutto la carità (1Cor 13,4). Senza quest’ultima non avrebbe valore l’esercizio dei voti religiosi stessi.
- d. Il demone meridiano
La stagnazione, il disgusto di continuare, la perdita di interesse è un pericolo che si incontra in ogni scelta di vita. L’entusiasmo iniziale pur necessario e il fervore dell’inizio sembrano lentamente scemare se non scomparire.
Gli antichi monaci parlavano di questa fase come della tentazione del “demone meridiano”: pigrizia, scoraggiamento, disgusto assalgono il monaco al fine di distoglierlo dalla sua chiamata. Anche la psicologia conosce questa esperienza che viene collocata come fase tipica dei 40-45 anni. In certo qual modo può avere tratti simile alla depressione.
Ma nella vita spirituale essa assume un significato di purificazione e crescita spirituale in cui si è chiamati a fare un salto unicamente nella fede nella provvidenza di Dio non basandoci sulle nostre forze.
San Bernardo[1] scrive ad un suo monaco: “Monaco, vuoi progredire? No? Vuoi tornare indietro? No? Allora cosa desideri? Voglio restare quello che sono, né megliore né peggiore. Allora cerchi una cosa impossibile. Non può esistere a questo mondo qualche cosa che non subisca cambiamenti, tranne Dio solo in cui non vi è ombra di mutamento”. Anche san Gregorio Magno usa il paragone con il battello nel fiume che viene spinto indietro dal momento in cui il navigatore smette di remare. Giovanni Cassiano[2] scrive: “Nella virtù dobbiamo continuamente progredire e non smettere mai. Bisogna sforzarsi ogni giorno altrimenti, al momento di fermarsi, ci accorgeremo della perdita subita. Lo spirito non può rimanere fisso in un luogo, non può accorgersi dell’aumento o della diminuzione della virtù. Non guadagnare significa perdere. Se sparisce il desiderio di migliorarsi, appare il pericolo di peggiorare”.
Anche il gesuita Alfonso Rodriguez[3] esorta coloro i quali si “sono arenati sulla sabbia” dicendo: “Avete fatto, fratello, una bella corsa. Chi vi impedisce di proseguire verso la verità. Avete cominciato bene il vostro cammino e ora vi siete fermato nella virtù… Credete di essere troppo anziano o troppo stanco per farvi bastare ciò che possedete? Guarda, alzati e mangia perché la via davanti a te è ancora lunga. Ti troverai in certe occasioni in cui avrai bisogno di maggiore umiltà e pazienza, di maggiore dominio su te stesso, di maggiore mortificazione delle cose terrene. In quel momento, quando il bisogno sarà maggiore scoprirai, all’improvviso la tua miseria e arretratezza”.
- e. Fame e sete di giustizia
La beatitudine promessa a chi ha fame e sete di giustizia è indirizzata anche a tutti coloro che ricercano la perfezione, che desiderano conformarsi alla volontà di Dio.
Affinché il giusto progredire non si spenga san Gerolamo consiglia di non stare troppo a considerare il passato. Egli dice: “Ogni santo mira sempre verso ciò che gli sta davanti e dimentica il passato. Beato chi progredisce ogni giorno e non pensa a ciò che ha fatto ieri, ma, piuttosto, a ciò che deve fare oggi per andare avanti”.[4] L’esperienza ci insegna che le persone anziane parlano volentieri di ciò che hanno fatto e visto. È un segno della vecchiaia e di una senilità che non dovrebbe manifestarsi nella vita spirituale. Infatti il cammino per la perfezione è lunghissimo e mai consluso. Dice san Gregorio M.[5] :”A cosa serve percorrere un bel pezzo di strada se poi non si arriva alla fine?”.
San Bernardo ribadisce a coloro che abbandonano il desiderio di progredire sulla via della perfezione l’esempio dei “figli di questo mondo”: “diventiamo come i commercianti del mondo. Li vedi come sono continuamente preoccupati e come lavorano per aumentare la loro fortuna. Anche i ladri e i truffatori non smettono facilmente. È davvero vergognoso per noi ch essi nutrano un desiderio per le cose dannose maggiore del nostro per le utili. Sono più costanti loro nel cammino della morte che noi su quello della vita”.
Allora quali sono i segni che in certo qual modo ci assicurano di essere in stato di grazia. Secondo san bernardo “Non vi è segno più sicuro della presenza di Dio nell’anima, che il desiderio di progredire nella grazia”. Il desiderio di progredire spiritualmente, la fame e la sete di giustizia e di perfezione, sono il riflesso dell’infinitezza di Dio che se è in noi non può non spingerci se non in questa direzione.
[1] Terzo di sette fratelli, nacque da Tescelino il Sauro, vassallo di Oddone I di Borgogna, e da Aletta, figlia di Bernardo di Montbard, anch’egli vassallo del duca di Borgogna. Studiò solo grammatica e retorica (non tutte le sette arti liberali, dunque) nella scuola dei canonici di Nôtre Dame di Saint-Vorles, presso Châtillon-sur-Seine, dove la famiglia aveva dei possedimenti. Ritornato nel castello paterno di Fontaines, nel 1111, insieme ai cinque fratelli e ad altri parenti e amici, si ritirò nella casa di Châtillon per condurvi una vita di ritiro e di preghiera finché, l’anno seguente, con una trentina di compagni si fece monaco nel monastero cistercense di Cîteaux, fondato quindici anni prima da Roberto di Molesmes e allora retto da Stefano Harding. Nel 1115, insieme con dodici compagni, tra i quali erano quattro fratelli, uno zio e un cugino, si trasferì nella proprietà di un parente, nella regione della Champagne, che aveva donato ai monaci un vasto terreno sulle rive del fiume Aube, nella diocesi di Langres perché vi fosse costruito un nuovo monastero cistercense: essi chiamarono quella valle Clairvaux, Chiara valle. Ottenuta l’approvazione del vescovo Guglielmo di Champeaux e ricevute numerose donazioni, l’Abbazia di Clairvaux divenne in breve tempo un centro di richiamo oltre che di irradiazione: già dal 1118 monaci di Clairvaux partirono per fondare altrove nuovi monasteri, come a Trois-Fontaines, a Fontenay, a Foigny, a Autun, a Laon; alla morte di Bernardo le abbazie cistercensi erano 343, di cui 66 fondate o riformate da lui stesso. Per tutta la sua vita Bernardo fu strenuo difensore dell’ortodossia religiosa, della lotta contro le eresie e dell’autorità assoluta della Chiesa. Nel concilio di Sens del 1140, si scagliò contro le dottrine di Pietro Abelardo, che furono condannate; lottò inoltre contro Gilberto Porretano e Arnaldo da Brescia. La seconda crociata del 1147 fu opera della sua predicazione. I punti fondamentali della dottrina di Bernardo consistono nella negazione del valore della sola ragione, contrapposta all’esaltazione della vita mistica, considerata come la via dell’umiltà e della rinuncia ad ogni autonomia umana. Bernardo si pronuncia senza riserve contro la ragione e la scienza: il desiderio di conoscere gli appare come «una turpe curiosità”. Inoltre Il santo nega il valore dell’uomo, spingendolo a riconoscere il proprio nulla, al fine di ottenere la liberazione da tutti i legami corporei e di abbandonare completamente la sua volontà ai voleri divini.[3] I concetti di Bernardo riguardanti la mistica e l’ascesi, come anche le tematiche politiche della plenitudo potestatis del pontefice e delle due spade, condizionarono profondamente tutto il Medioevo. Nella Lettera 1, spedita verso il 1124 al cugino Roberto, Bernardo mostra di considerare la vita monastica dei benedettini di Cluny, allora all’apogeo del loro sviluppo, come un luogo che negava i valori della povertà, dell’austerità e della santità; egli rifiuta la teoria della regola benedettina della stabilitas – ossia del legame permanente e definitivo che dovrebbe stabilirsi fra monaco e monastero – sostenendo la legittimità del passaggio da un convento cluniacense a uno cistercense, essendovi in quest’ultimo professata una regola più rigorosa e più aderente alla Regola di San Benedetto, pertanto una vita monastica perfetta. La polemica fu da lui ripresa nell’ Apologia all’abate Guglielmo, sollecitata da Guglielmo, abate del monastero di Saint-Thierry, che ebbe una risposta dall’abate di Cluny, Pietro il Venerabile, nella quale l’abate rivendicava la legittimità della discrezione nell’interpretazione della regola benedettina. Nel 1130, alla morte di Onorio II, furono eletti due papi: uno, dalla fazione della famiglia romana dei Frangipane, col nome di Innocenzo II e un altro, appoggiato dalla famiglia dei Pierleoni, con il nome di Anacleto II; Bernardo appoggiò attivamente il primo che, nella storia della Chiesa, per quanto eletto da un minor numero di cardinali, sarà riconosciuto come autentico papa, grazie soprattutto all’appoggio dei maggiori regni europei (Anacleto II verrà considerato un antipapa). Numerosi furono i suoi interventi in questioni che riguardavano i comportamenti di ecclesiastici: accusò di scorrettezza Simone, vescovo di Noyon e di simonia Enrico, vescovo di Verdun; nel 1138 favorì l’elezione a vescovo di Langres del proprio cugino Goffredo della Roche-Vanneau, malgrado l’opposizione di Pietro il Venerabile e, nel 1141, ad arcivescovo di Bourges di Pietro de La Châtre, mentre l’anno dopo ottenne la sostituzione di Guglielmo di Fitz-Herbert, vescovo di York, con l’amico cistercense Enrico Murdac, abate di Fountaine. Il 15 febbraio 1145, a Roma, nel convento di san Cesario, sul Palatino, il conclave eleggeva papa Eugenio III, abate del convento romano dei Ss. Vincenzo e Anastasio; il nuovo papa, Bernardo Paganelli, conosceva bene Bernardo, per averlo incontrato nel concilio di Pisa del 1135 e per essere stato ordinato cistercense proprio a Chiaravalle nel 1138. Bernardo, felicitandosi per l’elezione, gli ricordava curiosamente che si diceva «che non siete voi a essere papa, ma io e ovunque, chi ha qualche problema si rivolge a me» e che era stato proprio lui, Bernardo, ad «averlo generato per mezzo del Vangelo». Eugenio III incaricò Bernardo di predicare a favore della nuova crociata che si stava preparando, e che avrebbe dovuto essere composta soprattutto da francesi, ma Bernardo riuscì a coinvolgere anche i tedeschi. La crociata fu un completo fallimento che Bernardo giustificò, nel suo trattato La considerazione, con i peccati dei crociati, che Dio aveva messo alla prova. Questo trattato, finito di comporre nel 1152, si occupava anche dei compiti del papato e Bernardo lo mandò a papa Eugenio che si dibatteva con le difficoltà procurategli dall’opposizione dei repubblicani romani, guidati da Arnaldo da Brescia. Le sue condizioni di salute cominciano a peggiorare alla fine del 1152: ebbe ancora la forza di intraprendere un viaggio fino a Metz, in Lorena, per mettere fine ai disordini che travagliavano quella città. Tornato a Chiaravalle, apprese la notizia della morte di papa Eugenio, avvenuta l’8 luglio 1153 e morì il mese dopo. Rivestito con un abito appartenuto al vescovo Malachia, del quale aveva appena finito di scrivere una biografia, venne sepolto davanti all’altare della sua abbazia.
[2] Si sa poco di lui: pare che il suo nome originario fosse semplicemente Cassianus; il nome Johannes gli sarebbe stato aggiunto in onore a San Giovanni Crisostomo. Soggiornò lungamente in Terrasanta, a Betlemme, e in Egitto, prima di venir ordinato presbitero dal Crisostomo. Dopo un breve soggiorno a Roma si trasferì nelle Gallie, a Marsiglia. Quivi fondò a nel 415 due monasteri: uno per gli uomini, l’abbazia di San Vittore, l’altro per le donne, sull’esempio di quelli egiziani. Visse in Provenza per il resto della sua vita, scrivendo i suoi due libri: De institutis coenobiorum, e le Collationes, che San Benedetto da Norcia raccomandò come autorevoli trattati per la formazione dei monaci. I suoi scritti ebbero una notevole influenza su Cassiodoro. Morì nel 435. Le sue spoglie erano nel monastero di San Vittore, da lui fondato, e andato distrutto durante la rivoluzione francese.
[3] L’umile Alfonso Rodriguez abbracciò la vita religiosa dopo varie traversie. Fu educato in un collegio gesuita ad Alcalá, che abbandonò per prendere il posto del padre come mercante di tessuti, attività in quel momento fiorente. A 27 anni si sposò e dal matrimonio nacquero due figli. Nel 1567 dapprima la morte della moglie poi quella dei due figli provarono duramente Alfonso. A queste tremende sventure fecero seguito anche quelle finanziarie, gettandolo nelle ristrettezze. Tornò a studiare frequentando un corso di grammatica e retorica all’università di Valencia, con scarso successo. Trovò allora conforto nei libri di devozione. Decise di entrare, come fratello coadiutore, dai Gesuiti. Dopo il noviziato venne inviato nel collegio di Monte Sion a Palma di Majorca, dove rimase fino alla morte, avvenuta il 31 ottobre 1617. La fama della sua santità e i carismi di cui Dio l’aveva dotato (visioni, preveggenza, miracoli) avevano attratto alla scuola dell’umile frate, che aveva dovuto interrompere gli studi universitari per scarso profitto, un folto gruppo di discepoli, fra i quali il futuro grande missionario, San Pietro Claver, a quel tempo studente di filosofia, del quale aveva predetto la vasta attività apostolica. Il santo è indicato dalla Chiesa come esempio di tenera devozione mariana, espressa con la recita quotidiana del Rosario e dell’Ufficio dell’Immacolata, devozione che spesso otteneva amabili e straordinari interventi della Vergine nella sua vita. Questa dedizione e questi doni ne fecero un grande mistico della Spagna del suo tempo. Tra i suoi molti scritti ricordiamo le memorie autobiografiche scritte per ordine dei suoi superiori dal 1604 al 1616, e alcuni scritti che trattano argomenti di ascetica di lucida penetrazione, frutto di una sapienza non attinta dai libri. La sua memoria liturgica si celebra il 31 ottobre.
[4] Studiò a Roma, nel 379, ordinato presbitero dal vescovo Paolino, si recò a Costantinopoli dove poté perfezionare lo studio del greco sotto la guida di Gregorio Nazianzeno (uno dei “Padri Cappadoci“). Risalgono a questo periodo le letture dei testi di Origene e di Eusebio. Dopo tre anni di vita monastica tornò a Roma nel 382 dove divenne segretario di Papa Damaso I e conseguì un notevole successo personale, ma alla morte del Papa il suo prestigio scemò e Girolamo tornò in Oriente, dove fondò alcuni conventi femminili e maschili, in uno di questi trascorse gli ultimi anni. Morì nel 420. Le sue reliquie sono conservate nell’urna di porfido dell’altare papale della Basilica di Santa Maria Maggiore in Roma. I resti pervennero alla Basilica nel XII secolo e furono riposti all’ingresso dell’ Antrum Praesepi; nel 1409 la famiglia Guaschi li fece collocare in un altare appositamente costruito. Nel 1424, per mezzo di un lascito del cardinale Pietro Morosini, le ossa furono riposte in una cassetta d’argento del costo di 100 fiorini. Per la costruzione della cappella Sistina o del Santissimo Sacramento, papa Sisto V fece demolire la precedente, dedicata a San Girolamo, al cui altare quattrocentesco si veneravano i resti. Secondo una leggenda il canonico Ludovico Cerasola, per evitare un’eventuale loro traslazione alla chiesa di S. Girolamo degli Schiavoni, li nascose nel pavimento a destra del presbiterio. In seguito il cardinale Domenico Pinelli riesumò la cassa d’argento contenente il corpo di San Girolamo e la pose sotto la confessione. Rinvenuta la cassetta nel 1747 fu collocata definitivamente all’altare del Papa. Una sua reliquia si espone nella chiesa di Sant’Onofrio al Gianicolo.[1]
[5] Gregorio nacque verso il 540 dalla famiglia senatoriale degli Anici e alla morte del padre Gordiano, fu eletto, molto giovane, Prefetto di Roma. Grande ammiratore di San Benedetto da Norcia, decise di trasformare i suoi possedimenti a Roma (sul Celio) e in Sicilia in altrettanti monasteri e di farsi monaco, quindi si dedicò con assiduità alla contemplazione dei misteri di Dio nella lettura della Bibbia. Non poté dimorare a lungo, nel suo convento del Celio poiché il Papa Pelagio II lo inviò come nunzio, presso la corte di Costantinopoli, dove restò per sei anni, e si guadagnò la stima dell’imperatore Maurizio I, di cui tenne a battesimo il figlio Teodosio. Al suo rientro a Roma, nel 586, tornò alla quiete del monastero sul Celio, vi rimase però per pochissimo tempo, perché il 3 settembre 590 fu chiamato al soglio pontificio dall’entusiasmo del popolo e dalle insistenze del clero e del senato di Roma, dopo la morte di Pelagio II di cui era stato segretario. In quel tempo Roma era afflitta da una terribile pestilenza. Per implorare l’aiuto divino, Gregorio fece andare il popolo in processione per tre giorni consecutivi alla basilica di Santa Maria Maggiore. Roma fu liberata dal morbo e più tardi si disse che, durante la processione, era apparso sulla mole Adriana l’arcangelo Michele che rimetteva la spada nel suo fodero come per annunziare che le preghiere dei fedeli erano state esaudite. Da allora la tomba di Adriano mutò il nome in quello di Castel Sant’Angelo, e una statua dell’angelo vi fu posta sulla cima. Come papa si dimostrò uomo di azione, pratico e intraprendente (chiamato “l’ultimo dei Romani”), nonostante fosse fisicamente abbastanza esile e la sua salute fosse sempre cagionevole. Fu amministratore avveduto ed energico, sia nelle questioni sociali e politiche per provvedere alle popolazioni bisognose di aiuto e di protezione, sia nelle questioni interne della Chiesa universale. Ebbe a trattare con molti paesi europei; con il re visigoto Recaredo di Spagna, convertitosi al Cattolicesimo, Gregorio Magno fu in continui rapporti e fu in eccellente relazione con i re franchi. Con l’aiuto di questi e della regina Brunchilde il pontefice riuscì a tradurre in realtà quello ch’era stato il suo sogno più bello: la conversione della Britannia, che affidò a Sant’Agostino di Canterbury, priore del convento di Sant’Andrea. A questo proposito si racconta che un giorno, scendendo dal suo convento sul Celio e vedendo sul mercato alcuni giovani schiavi britannici esposti per la vendita, bellissimi di aspetto ed ancora pagani, esclamasse rammaricato: “…Non Angli, ma Angeli dovrebbero esser chiamati…”. In meno di due anni diecimila Angli, compreso il re del Kent, Edelberto, si convertirono. Era questo un grande successo di Gregorio Magno, il primo della sua politica che mirava ad eliminare i naturali avversari della Chiesa e ad accrescere l’autorità del Papato con la conversione dei barbari. Si dedicò con sollecitudine anche ai problemi dell’Italia provata da alluvioni, carestie, pestilenze, amministrando la cosa pubblica con puntigliosa equità, supplendo all’incuria dei funzionari imperiali. Organizzò la difesa di Roma minacciata da Agilulfo, re dei longobardi, coi quali poi riuscì a stabilire rapporti di buon vicinato e avviò la loro conversione. Ebbe cura degli acquedotti, favorì l’insediamento dei coloni eliminando ogni residuo di servitù della gleba. Riorganizzò a fondo la liturgia romana, ordinando le fonti liturgiche anteriori e componendo nuovi testi, e promosse quel canto tipicamente liturgico che dal suo nome si chiama gregoriano. L’epistolario (ci sono pervenute 848 lettere) e le omelie al popolo ci documentano ampiamente sulla sua molteplice attività e dimostrano la sua grande familiarità con la Sacra Scrittura. Morì il 12 marzo 604.