Ascolta il mio grido, mio Dio!
Lectio di Es 2,23-25; 3,7-12
a cura di p. Attilio franco fabris
Morte, disastri naturali e bellici, catastrofi, percorrono non solo le pagine dei nostri giornali e la TV ma anche le pagine della Bibbia, e raccontano il lacerante grido del povero che in ogni tempo e luogo si innalza fino al cielo invocando una risposta, un senso a ciò che la vita sembra imporre talvolta spietatamente. Questa dimensione del dolore umano è un dato così costante nella Scrittura da aver dato origine a un preciso genere letterario: quello della “lamentazione”. Il sangue di Abele grida verso Dio (Gn 4,10), Israele grida in Egitto (Gn 41,55; Es 1,23s), i profeti gridano contro i tiranni che sfruttano e schiacciano il povero, gridano i figli di Israele esiliati a Babilonia (Es 14,10; Gdt 3,9). Anche la maggior parte dei salmi sono testi di lamentazione da parte di chi è circondato da nemici, o si trova sull’orlo della morte: “A te grido, Signore; non restare in silenzio, mio Dio, perché, se tu non mi parli, io sono come chi scende nella fossa” (Sal 27,1); “Nella mia angoscia ho invocato il Signore… dal profondo degli inferi ho gridato” (Giona 2,3). Questa litania di sofferenza si prolunga con le grida del cieco Bartimeo lungo la strada polverosa di Gerico (Mc 10,47) e con quelle insistenti e quasi fastidiose della donna cananea (Mt 15,23). Per giungere alle stesse “forti grida e alle lacrime” (Ebr 5,7) di Gesù dinanzi alla prospettiva della sua morte violenta. Lo Spirito vinca ogni nostra sordità dinanzi alla voce della Parola. Intenerisca il nostro cuore rendendolo capace di compassione. Questa consiste proprio nell’aprire il nostro sguardo e il nostro orecchio a colui che ci si presenta dinanzi con tutta la sua povertà spirituale e materiale. Nel suo grido sapremo riconoscere la voce stessa di Dio che per primo l’ascolta?
Lectio
“Gemettero… alzarono grida….“: sono due verbi intensissimi per descrivere l’angoscia degli ebrei che subiscono la vessazione della schiavitù egiziana. Israele si trova in un vicolo cieco, senza scappatoie, né possibili compromessi. La sua sofferenza provoca un grido di aiuto che si configura non tanto come un’esplicita supplica a Dio, un’invocazione che esprime una preghiera, quanto piuttosto come un “gemito disperato” che diventa “grido” di dolore. E’ come il pianto di Agar l’egiziana e di Ismaele suo figlio dispersi nel deserto del Negheb che vedono dinanzi a sé solamente la prospettiva della morte (cf Gn 21,17), o come il pianto della madre vedova che a Naim sta portando l’unico figlio alla sepoltura e muove a compassione il cuore di Gesù (cf Lc 7,13).
Tutte queste grida di dolore hanno la forza di “salire a Dio” (cfr 2,23): “Giunga fino a te il gemito dei prigionieri; con la potenza della tua mano salva i votati alla morte” (Sal 78,11; Sal 55,9). È Dio che per primo “ascolta” il gemito del povero.
Il testo dell’esodo afferma che Dio “guardò” alla sofferenza del suo popolo: non ha mai distolto lo sguardo come invece faranno il levita e il sacerdote della parabola, ma come il buon samaritano egli “vede” la sofferenza del povero e se ne prende cura (cfr Lc 10,33; Sal 9,35). Anzi il testo dice che Dio “se ne prese pensiero” (2,25) il che equivale a decidere di entrare in azione, di agire in ordine alla salvezza del suo popolo schiavo.
Ma perché Dio ascolta, guarda, si prende pensiero? La risposta è racchiusa unicamente nel mistero della fedeltà di Dio alle sue promesse che non vengono meno: “Si ricordò dell’alleanza” (2,24; 1Sm 1,20; Ez 16,60; Sal 74,2.18-22; 89,51;…). “Ricordarsi” in ebraico significa non solo un richiamare alla memoria il passato ma anche un intervenire nel presente e nel futuro a motivo di una preciso impegno assunto (1Sm 25,31; Lc 1,54; cfr Sal 105,45). L’azione divina non è perciò motivata da obiettivi filantropici, o da una promozione di giustizia sociale, neppure dal fatto che Israele sia migliore degli altri popoli e meriti il suo intervento.
Ma come Dio interviene? Non usa la strada del “miracolo”, quasi che con una bacchetta magica si ribalti le situazioni! Questo è il dio del nostro immaginario! La sua azione invece si avvale sempre di una mediazione e collaborazione umana: in questo caso Mosè. Dio costruisce la storia della salvezza non malgrado l’uomo, ma insieme all’uomo.
Mosè, dopo il fallimento dei suoi ideali giovanili di liberazione, è fuggito dall’Egitto, ha messo su famiglia, è divenuto pastore delle greggi del suocero. In questi lunghi anni di pausa Dio lo sta preparando alla missione che Mosè un tempo credeva sua. Questo Mosè è ormai ben diverso da quello degli anni giovanili: ha conosciuto la sconfitta, l’esilio, il mistero. Ora è solo un anonimo pastore di greggi e capre in mezzo al deserto, un povero emigrato, non è più di certo un emergente della società, un uomo di palazzo, un “e-gregio”! Ha preso coscienza finalmente della sua povertà che lo rende capace, ora sì, di udire realmente e in modo diverso il grido dei suoi fratelli perché è nella loro stessa condizione di esilio.
Nel dialogo tra JHWH e Mosè, sul monte Sinai alla luce del roveto che brucia e non si consuma, ad un certo punto Dio dice: “Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sorveglianti. Conosco infatti le sue sofferenze, sono sceso per liberarlo dalla mano dell’Egitto e per farlo uscire da questo paese, verso un paese bello e spazioso, dove scorre latte e miele. Ora il grido degli Israeliti è arrivato fino a me ed io stesso ho visto l’oppressione con cui gli egiziani li tormentano”. È Dio dunque che per primo ha “visto”, ha “udito” e “conosce” le sofferenze del popolo ebreo. L’opera della salvezza è già iniziata con questo dialogo, il verbo infatti è al passato “sono sceso per liberarlo (la traduzione più esatta sarebbe “per strapparlo” che indica un’azione faticosa e impegnativa, quasi Dio dovesse “faticare”. Ma questa fatica è dovuta alla resistenza dell’uomo non solo del faraone ma dello stesso Israele).
Attraverso queste parole Dio vuole chiarire a Mosé un aspetto importante della missione che sta per affidargli: “Finora hai pensato di essere stato solo tu a udire il grido del tuo popolo, di dovertene prendere cura e di volerlo salvare. Credevi che l’iniziativa fosse tua con l’illusione forse di volermi poi coinvolgere in essa. Mosè non avevi capito che i tuoi progetti invece provenivano da me e perciò hai sbagliato metodo e sei andato incontro al fallimento: adesso comprendi che sono io per primo che vedo, sento, provo compassione per il grido del mio popolo. Se in te ora vi è la stessa compassione sono io che te l’ho suscitata, se c’è in te il desiderio della libertà per i tuoi fratelli, sono ancora io che te l’ho posto nel cuore”. Il primato, l’iniziativa, della missione spetta dunque sempre a Dio ed è stolto colui che crede di essere lui il protagonista e l’interprete principale.
E’ solo a questo punto che Dio può affidare ufficialmente la missione a Mosè: “Ora va!”. Mosè è scelto da Dio come suo mediatore proprio per quell’opera che tanti e tanti anni prima aveva creduto fosse sua e si era trasformata perciò in terribile fallimento: “Ora và! Io ti mando dal faraone; fa uscire il mio popolo dall’Egitto”. Nel discorso dinanzi al sinedrio Stefano proclama il suo stupore per questa inusuale e umanamente incomprensibile inventiva di Dio: “Questo Mosè che avevano rinnegato dicendo: Chi ti ha nominato capo e giudice? proprio lui Dio aveva mandato per esser capo e liberatore, parlando per mezzo dell’angelo che gli era apparso nel roveto” (At 7,35).
L’incontro con il Signore nella vita di un uomo non lascia spazio ad intimismi inutili o illusori protagonismi: ogni esperienza di Dio si trasforma sempre in una chiamata ad una missione di annuncio e liberazione nei confronti dei “poveri”. Sarà la scelta fatta da Gesù stesso: “Egli allora chiamò a sé i Dodici e diede loro potere e autorità su tutti i demòni e di curare le malattie. E li mandò ad annunziare il regno di Dio e a guarire gli infermi” (Lc 9,1).
Meditatio
Mi piace introdurre la nostra meditazione con un breve passaggio tratto dalle “Lettere” di san Vincenzo de’ Paoli, l’apostolo della carità (1581-1660). Egli scrive alle sue Figlie: “Sforziamoci di diventare sensibili alle sofferenze e alle miserie del prossimo. Preghiamo Dio, per questo, che ci doni lo spirito di misericordia e di amore, che ce ne riempia e ce lo conservi. Il servizio dei poveri deve essere preferito a tutto. Non ci devono essere ritardi. Se nell’ora dell’orazione avete da portare una medicina o un soccorso a un povero, andatevi tranquillamente. Offrite a Dio la vostra azione, unendovi l’intenzione dell’orazione. Non dovete preoccuparvi o credere di aver mancato, se per il servizio dei poveri avete lasciato l’orazione. Non è lasciare Dio, quando si lascia Dio per Iddio”. Il nostro santo invita le sue religiose a non essere sorde, insensibili al grido del povero. Il motivo è che in esso devono riconoscervi la stessa voce di Cristo ultimo e povero che con questi si identifica: “Quel che avete fatto al più piccolo dei miei fratelli l’avete fatto a me”.
Essere, come dice il nostro santo, “sensibili alle sofferenze e alle miserie del prossimo” oggi sta diventando difficile. Sembra che nella cultura occidentale così precaria e violenta ciascuno tenti in modo egoistico anzitutto di “salvare se stesso”. Non è senza significato se diminuisce ad esempio il numero delle persone che dedicano parte del loro tempo al volontariato. Anche il livello e la qualità di ascolto vicendevole sembra diminuire sempre di più: non ci si ascolta, non si ha tempo di fermarsi di ascoltare l’altro (qualche volta anche nelle nostre comunità cristiane!) si corre con l’orologio in mano perché si hanno i propri impegni sempre guarda caso improrogabili. Assistiamo ad una sorta di massiccio ripiegamento nel privato, ad un rincorrere soprattutto nel mondo giovanile una virtuale piazza di incontro – le “migliaia” (sic!) di amici in Facebook! – rifugiandosi dinanzi allo schermo del PC o del cellulare dove il volto e la voce la presenza dell’altro si smaterializza nel gelido linguaggio informatico, dove in verità la comunicazione si consuma ma non si ascolta.
È una società violenta la nostra che vorrebbe mettere a tacere il grido dell’ammalato terminale e dei disoccupati che non sanno come far fronte alla vita, le grida silenziose di milioni di innocenti bambini a cui è negato il diritto alla vita. Una società dove si mettono a tacere le grida di tante popolazioni che vivono nella guerra, nella fame e di cui i mass media non parlano per non suscitare uno scomodo problema…facendo così il gioco sfruttatore delle nazioni potenti.
E ancora quante solitudini nascoste e grida inascoltate si annidano nelle vie delle nostre città. Trascrivo un brano significativo: “Solo, come solo ha passato tutta la sua esistenza, andava lento sotto la pioggia. Quell’andatura ciondolante di chi ormai da troppo tempo ha imparato che la pioggia che cade lava e disseta la terra, che il sole scalda e da vita, che i suoi unici problemi sono quelli di vivere in un mondo che non lo guarda. In un mondo che lo considera un problema. Invisibile agli occhi della gente. Che quando per sbaglio gli sbatte davanti gli da quasi noia perché la obbliga a vederlo, a pensare, a fargli un gesto…magari solo un cenno con la mano. La macchina inarrestabile lo sorpassa e lo lascia indietro. Lo cerco ancora nello specchietto retrovisore, ma ormai la pioggia e la notte lo hanno risucchiato. Ed io mi riimmergo nei miei piccoli e insignificanti problemi quotidiani”.
Urge diventare persone capaci di ascolto. Sono necessari luoghi, le nostre comunità, le nostre famiglie, in cui ritrovare il calore del contatto della mano, della voce, di un viso che sorride e accoglie, perché vi possa nascere un ascolto vero e fecondo di gioia e di speranza.
Se ciò ancora non accade è perché il cuore si è indurito e di conseguenza si è indurito l’orecchio. E ogni indurimento è segno della presenza del male, del peccato che ci rende estranei e nemici gli uni gli altri. Caino replicherà indispettito alla domanda di Dio: “Sono forse io il guardiano di mio fratello?” (Gn 4,9).
Imparare ad obbedire – “ob-audire” – al grido del fratello è obbedire –“ob-audire” alla Parola che ci spinge a farcene carico. Per i profeti e per Gesù questa è la condizione della vera religione: “Quando stendete le mani, io allontano gli occhi da voi. Anche se moltiplicate le preghiere, io non ascolto. Le vostre mani grondano sangue…imparate a fare il bene, ricercate la giustizia, soccorrete l’oppresso, rendete giustizia all’orfano, difendete la causa della vedova” (Is 1,15.17). Perché troppo spesso “il grido del povero sale fino a Dio, ma non arriva alle orecchie dell’uomo” (Felicité-Robert de Lamennais).
“Ora va!” dice JHWH a Mosè sul Sinai. La missione è opera di Dio, è lui che manda, e ciò non nasce dai nostri ideali, ma dal cuore stesso di Dio. Il nostro rispondere al grido del povero è sorretto dal fondamento della fede: ci riconosciamo non estranei gli uni agli altri ma fratelli di uno stesso Padre, figli amati da sempre e in egual modo e per ciascuno dei quali Gesù ha donato la sua vita: non ci è permesso, se viviamo in questa consapevolezza, di “passare oltre” come il sacerdote e il levita facendo finta di non vedere né udire.
Certo è una decisione scomoda, pericolosa, spesso comporta ostilità, persecuzione, talvolta il dare la stessa vita. E’ dell’ottobre dello scorso anno la notizia dell’assassinio di padre Fausto Tentorio, missionario del PIME, ucciso perché scomodo “ascoltatore” della povertà di intere popolazioni indigene delle Filippine. Così fu ed è di tanti e tante altri. Costoro come Mosè si sono lasciati mettere in gioco da Dio, che per primo, attraverso loro, ascolta il grido del suo popolo e manda i suoi collaboratori.
Che il nostro farci capaci di ascolto del grido dell’uomo non sia elemosina fatta a denti stretti, con un sorriso forzato chiedendoci in cuore se ne val la spesa, che sia invece pura, anche se talvolta faticosa, gioia di una condivisione della vita stessa che nasce dalla fede di un Dio che non ci vuole indifferenti ma fratelli gli uni agli altri. La salvezza che Dio opera in questo nostro povero mondo inizia quando ciascuno diventa attento al grido di colui che gli sta a fianco (a volte è più facile essere attenti a grida lontane e sconosciute!), quando ha il coraggio di aprire la sua porta al malato, al pellegrino e allo straniero, quando sfama l’affamato, quando nella preghiera porta davanti a Dio tutto il grido dell’umanità!
Una frase del teologo e martire luterano Dietrich Bonhoeffer potrebbe concludere e riassumere quanto sinora detto: “Il primo servizio che si deve al prossimo è quello di ascoltarlo. Come l’amore per Dio comincia con l’ascoltare la sua Parola, così l’inizio dell’amore per il fratello sta nell’imparare ad ascoltarlo” (La vita comune).
Oratio
Udire il grido del povero, raccoglierlo facendolo nostro, “farcene carico” non è facile. Siamo presi dalla paura perché temiamo di dover confrontarci con il nostro stesso grido spesso nascosto, la nostra povertà, il nostro limite, il nostro peccato. La paura ci può bloccare e irrigidire rischiando di renderci insensibili al grido dell’uomo fatto anch’esso di speranze, sofferenze, miserie, peccato. Preghiamo perché soprattutto i consacrati divengano “icona dell’orecchio di Dio” che con tenerezza porge il suo orecchio al grido dell’ultimo, facendosi loro stessi ultimi. Non è questa la strada tracciata per noi dal Signore nostro Gesù?
È veramente giusto renderti grazie, Padre misericordioso: tu ci hai donato il tuo Figlio, Gesù Cristo, nostro fratello e redentore. In lui ci hai manifestato il tuo amore per i piccoli e i poveri, per gli ammalati e gli esclusi. Mai egli si chiuse alle necessità e alle sofferenze dei fratelli. Con la vita e la parola annunziò al mondo che tu sei Padre e hai cura di tutti i tuoi figli. Per questi segni della tua benevolenza noi ti lodiamo e ti benediciamo, e uniti agli angeli e ai santi cantiamo l’inno della tua gloria (Preghiera eucaristica V/C).