• 03 Nov

    SOLITUDINE, SILENZIO E QUIETE

    I tre stadi della vita solitaria

    Di John Chryssavgis

    Tratto da: A.A.V.V, IL DESERTO DI GAZA – Barsanufio, Giovanni e Doroteo – ed. Qiqajon

     

    La Palestina e gli Anziani di Gaza

    Grazie a una situazione storica privilegiata e a una colloca­zione geografica strategica, la regione di Gaza può fregiarsi di un’eredità propria, contrassegnata sia da continuità sia da crea­tività, in rapporto alla primitiva pratica della solitudine e del silenzio. Il facile accesso a questa regione sia per mare che per terra insieme alla sua vicinanza all’Egitto, alla Siria e alla Terra santa, da un lato, e il suo carattere remoto e desertico, dall’al­tro, avrebbero reso Gaza, a partire dalla fine del IV secolo, un rifugio unico per espressioni della vita ascetica importanti e in­novative.

    In Palestina i monaci erano generalmente coscienti delle loro radici bibliche. Un tempo i profeti avevano camminato in questi luoghi; questo era il deserto dove Gesù aveva pregato e la terra dove erano stati seminati per la prima volta i semi del mar­tirio. Al tempo stesso i monaci erano coscienti delle loro radici ascetiche e confessavano apertamente il loro debito nei con­fronti dei padri e delle madri d’Egitto.

    A Gaza e in Palestina la topografia della regione e la spiri­tualità tradizionale contribuirono in egual misura a un’intensa e feconda atmosfera di solitudine e di silenzio. Non solo, ma, come vedremo più avanti, il genere di vita dei due più noti anziani, Barsanufio il Grande e Giovanni il Profeta, produsse un retaggio di sottili variazioni della via dell’anima.

    Non sappiamo esattamente quando – o perché – Barsanufio giunse nella regione collinare di Thabatha, presumibilmente dall’Egitto, scegliendo di condurre in questa terra la vita ritira­ta del recluso in un piccola cella. Sappiamo, però, che dal suo ritiro egli offrì preziosissimi consigli a numerosi asceti che, pa­rallelamente al diffondersi della straordinaria reputazione del discernimento e della compassione del Grande anziano, si ra­dunarono attorno a lui. A un certo punto, tra il 525 e il 527, l’altro Anziano, abba Giovanni il Profeta, venne a vivere accanto a Barsanufio, condividendo lo stesso genere di vita e svolgendo il medesimo ministero.

    Forse con l’intento di imitare questo genere di vita, l’intera comunità di Thabatha assunse la forma di un raggruppamento di varie celle, in cui monaci ed eremiti vivevano gradi diversi di reclusione. A mio avviso fu l’intensità della solitudine e il posto di primaria importanza attribuito al silenzio che più tardi favo­rirono l’estendersi del monastero con la creazione di laborato­ri, case di accoglienza per gli ospiti, un’infermeriae una chie­sa per l’istruzione dei visitatori.

    Barsanufio e Giovanni rappresentavano la continuazione e, per molti versi, un’incarnazione dei principi diventati teso­ro comune nel deserto egiziano. In particolare, Barsanufio era chiaramente plasmato dalla concezione evagriana che “mona­co è colui che, separato da tutti, è unito a tutti“. Non apren­do la porta all’anziano monaco egiziano che chiedeva di veder­lo, Barsanufio in realtà lasciava la porta aperta a tutti! Alcuni aspetti del suo genere di vita sono naturalmente reminiscenze di precedenti modelli del monachesimo della Giudea che era geo­graficamente e spiritualmente abbastanza vicino a Barsanufio e a Giovanni. Cirillo di Scitopoli descrive quanto Eutimio (+ 473) desiderò una vita di solitudine, ma anche il fatto che egli si prese cura di organizzare i suoi monaci in piccole comunità, ritirandosi successivamente in una regione più lontana, dove si ripeté lo stesso processo.

    L’uso stesso di comunicare in silenzio attraverso qualcun al­tro – che è sicuramente un’importantissima dimensione del comunicare per iscritto – inteso come misura di protezione della propria solitudine, trova un precedente in abba Isaia, che du­rante i cinquant’anni della propria reclusione in questa stessa regione, comunicava regolarmente tramite Pietro l’Egiziano. Isaia comunque non raggiunse mai la misura di Barsanufio e Giovanni; questo modo di comunicazione e di conversazione con i discepoli non costituì mai un elemento centrale nel suo ministero spirituale. Ma tale modo di dare consigli non era completamente originale né del tutto eccezionale nella regione. Paradossalmente l’invisibilità e l’inaccessibilità di Barsa­nufio e di Giovanni divennero le ragioni della loro visibile no­torietà e attrazione. Il genere di vita che ambedue condussero e al quale incoraggiarono altri comporta un equilibrio di solitu­dine e di silenzio: E tu pratica la quiete per cinque giorni e incontra i fratelli gli altri due; e se il tuo stare in cella è secondo Dio, se sai cioè che cosa vuoi stando in cella, certo non cadrai nelle grinfie del demone della vanagloria. Infatti colui che sa che cosa è venuto a fare in una città, questo vuole e non svia il suo cuo­re, altrimenti verrebbe meno allo scopo che si è prefisso.

    Cos’è allora che l’anima desidera imparare attraverso la soli­tudine, il silenzio e la quiete? Quali sono le variazioni spirituali della reclusione monastica e della quiete?

    La via dell’anima

     Barsanufio e Giovanni tracciano una distinzione tra solitudi­ne, silenzioe quiete. Sebbene gli Anziani di Gaza non siano sempre precisi nella distinzione da essi delineata, sottolineano tuttavia come sia importante dedicare del tempo a esaminare i diversi aspetti dell’anima e i principi particolari che la governano. Nel nostro tempo in cui vigono una comunicazione istanta­nea e un apprezzamento immediato dei desideri, sembra che di noi stessi e delle motivazioni che si celano dietro le nostre azioni conosciamo meno che di ogni altro argomento. La conoscenza di sé è invece il cuore della solitudine, la base del silenzio e il centro della quiete.

    In un qualche momento del lungo cammino che conduce dall’infanzia alla maturità, molti di noi hanno perso il contatto con le facoltà vitali che ci permettono di conoscere noi stessi. Forse parte del problema è dovuto al fatto che ci siamo propo­sti traguardi impossibili, che possono essere raggiunti soltanto dagli angeli. La spiritualità del deserto insegnò agli anziani di. Gaza che la perfezione appartiene soltanto a Dio; noi non siamo chiamati a rinunciare alla nostra imperfezione o a dimenticarla. La stessa fragilità e vulnerabilità della vita rivela la primaria importanza di affrontare e accettare i nostri desideri interiori e le nostre personali debolezze. La verità è che la presenza di Dio si può discernere al cuore di queste tensioni e di queste prove.

    Barsanufio e Giovanni certamente comprendono le vie dell’anima e le seduzioni della tentazione. Essi hanno piena coscienza del fatto che se non compiamo la scelta radicale di rinun­ciare ai legami e al modo di pensare che ci è familiare, attraverso un atto di xeniteìa – per mezzo del quale entriamo nel territorio straniero e impariamo a parlare l’estraneo linguaggio della so­litudine – non possiamo cominciare ad articolare il linguaggio dell’anima. Gli Anziani di Gaza erano perciò consapevoli che, sebbene ci siano tante vie di conoscenza di sé quanti sono gli esseri umani, le differenze tra di noi sono di fatto molto lievi. Ancor più, essi riconoscono che la profondità della solitudine, del silenzio e della quiete è determinata da norme specifiche e da regole spirituali. Spesso le nostre vite sono complicate da re­gole e norme; siamo angosciati o spaventati dall’idea di restare soli, incapaci di ascoltare, poco propensi ad amare. Barsanufio e Giovanni propongono vie pratiche e semplici: stare seduti in cella, praticare il silenzio, cercare la quiete. La vita spirituale è una via per spezzare cattive abitudini e stabilirne di nuove al loro posto: “Per chi siede in cella, recidere la volontà è disprez­zare il sollievo della carne in tutto“.

    E Barsanufio adotta l’immagine della costruzione di una casa per descrivere la dura lottae lo sforzo continuo  richiesti dalla pratica del silenzio e della quiete: Se vuoi costruire la tua casa, dapprima prepara il materiale e tutto l’occorrente: spetta quindi all’operaio venire e co­struire. L’occorrente per la costruzione di un tale edificio consiste in una fede salda (cf. 1Pt 5,9) per costruire le mura, luminose finestre di legno che lascino entrare la luce del sole per illuminare la casa, affinché non sia trovata in essa alcuna tenebra (cf. 1Gv 15). Le finestre di legno sono i cinque sensi [spirituali], rafforzati dalla croce preziosa del Cristo, che introducono la luce del sole spirituale di giustizia (cf. Ml 3,20) e non permettono che appaia nella casa alcuna tenebra, intendo dire la tenebra del nemico e di colui che odia il bene. Poi ti occorre un tetto che ripari la casa, affinché di giorno non ti bruci il sole né la luna di notte (Sal 120 [1211,6). Il tetto indica l’amore verso Dio, che non viene mai meno (cf. 1Cor 13,8) e protegge la casa e non lascia che il sole tramonti sulla nostra ira (cf. Ef 4,26), affinché non lo troviamo nel giorno del giudizio (Mt 10,15) come accusatore che ci brucia nel fuoco della geenna (cf. Mt 5,22) e non troviamo la luna ad attestare la rilassatezza e l’indolenza delle nostre notti. Questa casa deve poi avere una porta, che lascia entrare e custodisce chi rimane dentro. Quando dico “porta”, tu, fratello, pen­sa come porta spirituale al Figlio di Dio che dice: Io sono la porta (Gv 10,9).

    Nella casa dell’anima, poi, la qualità fondamentale della soli­tudine è l’attenzione o la vigilanza; la qualità essenziale del silen­zio è l’ascolto o l’obbedienza, e la qualità essenziale della quiete è la comunione o l’amore. Non c’è obbedienza senza vigilanza e non vi può essere comunione senza solitudine. Quando queste tre qualità coesistono, la lotta ascetica ci consente di scoprire l’anima profonda e di prendere con noi la nostra anima ovun­que andiamo: “E se giungerai a praticare la quiete, troverai ri­poso e grazia dovunque tu viva questa quiete”.

    La solitudine: la porta dell’anima

    La solitudine è ciò che ci accorda il tempo e lo spazio per di­ventare attenti agli altri e a noi stessi. È un prerequisito nella via del progresso spirituale. In risposta a un tale che gli chiedeva preghiere, Barsanufio scrive: “Fratello, non costringermi a par­lare poiché io desidero abbracciare quiete e silenzio “.

    E con un monaco che gli chiedeva se doveva accettare de­naro per nutrire i poveri, abba Giovanni è parimenti radicale, apparentemente privo di carità: devi evitarlo a tutti i costi “an­che se tu vedessi davanti alla tua cella un uomo strangolato“. Ambedue gli Anziani avvertono con quanta facilità la carità e il servizio sono utilizzati come giustificazione per sfuggire al la­voro interiore di conversione. Riconoscono che perfino la pre­ghiera può diventare un pretesto per evitare il difficile lavoro della solitudine e del silenzio. E’ per questo motivo che abba Giovanni stabilisce: “Trattandosi di elemosina, non tutti sono in grado di comprendere l’argomento, ma solo quelli che hanno raggiunto la quiete e l’afflizione per i propri peccati”.

    Barsanufio spiega in che cosa anzitutto consista la solitudi­ne: “Entrare nella cella significa entrare nella cella dell’anima ed esaminarla e raccogliere il nostro pensiero distaccandolo da ogni uomo“. E Giovanni aggiunge: “Stare in cella è ricordar­si dei propri peccati e piangerli e affliggersi (cf. Gc 4,9); vigilare perché la mente non sia fatta prigioniera. Ma, se lo fosse, ricon­durla in fretta nel suo luogo”.

    Purtroppo, tuttavia, noi tendiamo a confondere la conoscen­za di sé con il ripiegamento su se stessi. Ma in realtà la conoscenza di sé ci conduce dal ripiegamento su di sé all’oblio di se stessi: Fratello, odia perfettamente per amare perfettamente; allontanati perfettamente, per avvicinarti perfettamente; aborrisci l’adozione, per ricevere l’adozione (cf. Gal 4,5); rinuncia a fare la tua volontà, e fa’ la volontà di Dio; taglia te stesso e lega te stesso; fa’ morire te stesso e fa’ vivere te stesso (cf. 1Pt 3,18); dimentica te stesso, e conosci te stesso. Ed ecco che hai le opere del monaco.

    Curiosamente, mentre promuoviamo la necessità di conoscere e amare gli altri, in cambio tralasciamo spesso di conoscere noi stessi nella solitudine. Barsanufio ripete la ferma convinzione di abba Alonio: “Io e Dio siamo soli al mondo”. Barsanufio afferma: “Che tu sia solo e ti affatichi un pò, ti giova più che avere un altro“. Davvero, non siamo mai meno soli di quando siamo soli: “Mentre lottate in questa lotta non siete soli, ma anche molti altri lottano insieme a voi con le loro preghiere (cf. Col 4,12)”.

    Essere consapevoli delle ragioni per cui facciamo quello che facciamo facilita la consapevolezza delle ragioni per cui gli altri fanno quello che fanno e infine l’accettazione degli altri per quello che sono. Il narcisismo non è tanto conoscenza di sé, quanto piuttosto insufficiente conoscenza del vero io. Le persone ripiegate su se stesse e centrate su di sé normalmente soffrono per un io troppo piccolo piuttosto che per un io troppo grande.

    Spesso cerchiamo la comunione in una direzione sbagliata. Invece di guardare dentro di noi, ci volgiamo fuori di noi, verso gli altri. Per questa via il movimento di separazione della so­litudine non diventa affatto il primo passo verso la comunione con gli altri: “Fratello, scruta il tuo cuore da solo nella tua cella e troverai donde ti è venuta la durezza del tuo cuore“. La comunione si sviluppa a partire dall’interno e riflette il mondo interiore dell’anima. Essa costituisce il solido fondamento a partire dal quale possiamo raggiungere gli altri, perfino Dio stesso. Dice un detto apocrifo attribuito a Gesù nel Vangelo di Tommaso: 

    Quando di due farete uno,  allorché farete la parte interna come l’esterna,  la parte esterna come l’interna  e la parte superiore come l’inferiore allora entrerete nel Regno.

    La solitudine allora è ciò che dona stabilità. È come una bussola segreta nella nostra relazione con Dio, con gli altri e con noi stessi. Ci mette in grado di distinguere tra coinvolgimento personale e desiderio di piacere agli altri (anthroparéskeia) che deve essere rigorosamente confessata. La solitudine conduce al silenzio, che altro non è «se non chiudere il proprio cuore al dare e al ricevere (cf. Fil 4,15), al cercare di piacere agli uomini, e a ogni altra attività».

    La solitudine concerne la dimensione dell’essere e non semplicemente quella del fare. Essa rende l’anima attenta e recettiva, disposta semplicemente a chiedere e attendere umilmente: “Se non ti scoraggi per la fatica, troverai l’umiltà; e se troverai l’umiltà, riceverai anche il perdono dei peccati… Se ti lasci umiliare, riceverai la grazia e la grazia ti aiuterà“.

    Barsanufio e Giovanni affermano chiaramente che la preghiera non è mai esaudita per le vie che ci attendiamo: “Dio regolerà la cosa in un modo che non conosci“. In realtà la preghiera è esaudita per vie che trascendono – e forse addirittura annientano – una fiducia in se stessi che cerca risultati immediati o mete prestabilite. Allora la solitudine non può essere identificata con l’egoismo; la solitudine dissolve l’autoreferenzialità, conduce a considerarsi un nulla, a ciò che Barsanufio e Giovanni chiamano apséphiston: Sii libero da ogni sollecitudine e allora sarai completamente libero per Dio; muori ad ogni uomo; questo è il vivere da stranieri; tieni alla disistima di te stesso e troverai il tuo pensiero imperturbato.

    Barsanufio e Giovanni si muovono costantemente sul filo del rasoio tra l’importuno demone della vanagloria da un latoe il tenebroso abisso della disperazione: Fratello, quanto più l’uomo sprofonda nell’umiltà, tanto più progredisce. Rimanere nella tua cella ti è inutile, perché così tu resti senza afflizione; e se sei senza sollecitudine prima del tempo, il nemico ti prepara un turbamento maggiore – della quiete in cui credi di essere, così da condurti a dire: Magari non fossi mai nato (Gb 3,3; Ger 20,14).

    Spesso è raccomandato l’equilibrio: «Non camminare né dentro, né fuori, ma nel mezzo delle due cose, comprendendo qual è la volontà del Signore“. E ancora: “Il non presumere riguardo al ritiro, né disprezzare la distrazione degli affari, questa è la via di mezzo“.

    Il progresso nella via dell’anima richiede però fatica e tempo. Non cambiamo all’improvviso, divenendo in modo magico persone nuove e dimenticando tutte le nostre colpe passate. Non possiamo mai fuggire da ciò che siamo; non possiamo mai sfuggire alle tentazioni e alle passioni, al nostro carattere, alla vanità, alla paura, all’invidia, alla delusione o all’arroganza. Barsanufio ci ammonisce a non entrare in cella “a motivo della viltà”, ma solo “a motivo della preghiera”. Giovanni aggiunge: “Quando ricorri al silenzio per ascesi, allora è buono; quando invece non è così ma taci temendo il turbamento, allora è dannoso”.

    In ultima analisi, il grado di comprensione e accettazione dell’altro sarà proporzionato al grado di comprensione e tolleranza di noi stessi. Siamo uniti l’uno all’altro più dalla nostra debolezza e dai nostri fallimenti che dalla nostra forza e dai nostri successi. Nella solitudine della cella, attraverso tentazioni e tensioni, l’asceta diventa dolorosamente cosciente di ciò che gli manca. Allora l’asceta è tormentato dall’assenza di amore e aspira a una comunione profonda. La cella simbolizza il porto sicuro dell’anima, che nessuno lascia e al quale ciascuno può sempre volontariamente fare ritorno per scoprire sempre di più l’io profondo, senza temere la prova dolorosa o la lotta fino al sangue che ciò può portare con sé. Tale scoperta attraverso la solitudine può diventare una fonte di salvezza. Abbracciare la solitudine nel deserto della cella o dell’anima significa conoscere che cosa pensi, capire come stai e infine accettare gli altri senza il bisogno di difendere te stesso. Significa ancora diventare responsabile senza la minima ombra di autogiustificazione. Ciò è fonte di vulnerabilità e di apertura.

    In questo senso, cioè come fonte di vulnerabilità, la solitudine ci mette in rapporto con la croce di Cristo. Giovanni scrive: “Allora sarà solitudine, perché ha portato la croce“. Chi è stato spinto – da sofferenze personali o da condizioni di vita difficili – a un “punto di rottura” possiede spesso una visione della realtà estremamente ricca, che appare molto meno in chi non ha conosciuto conflitti. In verità la realtà del conflitto come parte costante e cruciale della vita è difficile da accettare. Il modo in cui noi viviamo le tensioni e le difficoltà influenza il nostro modo di accettare noi stessi e gli altri. La solitudine ci ricorda che l’anima non è una regione libera da conflitti dove possiamo evadere o ignorare i pericoli del mondo e le tentazioni dell’anima: Entrare nella cella significa entrare nella cella dell’anima ed esaminarla e raccogliere il nostro pensiero distaccandolo da ogni uomo: allora sentiamo dolore e compunzione. Ciò che impedisce la compunzione è la tua volontà propria; se infatti l’uomo non taglia la sua volontà, il cuore non sente dolore.

    La solitudine, insomma, possiede la capacità di assorbire ogni sorta di dolore e di trasformare ogni genere di tentazione e di tensione in speranza e gioia: “La tentazione porta l’uomo a pro­gredire; dove c’è il bene, là scoppia la lotta. Non temere dunque le tentazioni ma gioisci, poiché ti portano a progredire”. Non c’è da meravigliarsi che gli Anziani di Gaza ripetano insistentemente la necessità di gioire nel Signore: Gioisci nel Signore; gioisci nel Signore; gioisci nel Signore! Il Signore custodirà la tua vita, il tuo corpo, il tuo spirito da ogni male, da ogni attacco diabolico, da ogni fantasia angosciosa

    E ancora: Non possiamo essere senza tentazioni. D’altra parte esse ci insegnano la pazienza … Il nostro Maestro ha sopportato ogni patimento per amor nostro; e come mai noi, ricordandoci di lui, non sopportiamo, per divenire suoi compartecipi (cf. 1Cor 9,23)? Guarda che noi abbiamo ricevuto il comandamento di rendere grazie in tutto (cf. 1Ts 5,18).

    È qui che la solitudine incontra il servizio agli altri e la cella si apre al mondo intero: “Per raccogliere il proprio spirito non ci sono momenti fissi, né ore, né tanto meno giorni; si deve invece sopportare, con rendimento di grazie … Questa è la compassione“.

    Il silenzio: la via dell’anima

     Se la solitudine ci fa dono della consapevolezza e della vigilanza, il silenzio ci educa all’arte dell’ascolto e dell’attenzione. Nella solitudine è importante lo spazio tra le persone; nel silenzio quello tra le parole. Questo spazio è sempre necessario; “il silenzio è più ammirabile e più glorioso“, è sempre migliore, “bello e meraviglioso più di ogni altra cosa“, “bello in ogni caso“, “più necessario e utile di ogni altra cosa“. Il contatto fisico e la comunicazione verbale sono unite alla comunione e all’amore quanto il silenzio. È questo il motivo per cui Barsanufio afferma che il silenzio ci è chiesto da Dio; non dirà mai questo della quiete, che è un dono. La solitudine offre lo spazio e la possibilità di ascoltare e di assumere quello che l’altro sta dicendo e comunicando. Questo avviene perché nella relazione noi portiamo quello stesso io con cui noi siamo o non siamo in rapporto a quando restiamo soli. Gli Anziani infatti rim­proverano severamente quelli che si lamentano di aver perduto, nell’incontrare i fratelli, i doni spirituali conseguiti nella solitudine, come ad esempio, il silenzio.

    Il silenzio è una qualità che ci porta ad avere coscienza che ciò che sta accadendo nel mondo degli altri è importante. Al contrario, il canale di congiunzione tra l”‘io” e il “tu” può accrescere la “consapevolezza” della forza dei miei desideri e dei miei pregiudizi, nella mia mente e nel mio cuore. Quale risultato, io creo la mia versione del “tu”, con infima o nulla possibi­lità di contatto o comunicazione con l’altro. Domanda. Mi accade, mentre mi intrattengo con qualcuno, di distrarmi improvvisamente, al punto sia di sembrare al di là di me, sia di dimenticare l’argomento in corso, non perché la mente sia trasportata verso qualcos’altro, ma perché è fuori di se… Risposta. Questa è una guerra del diavolo, che vuole confondere l’uomo davanti ai presenti. Ma se manifesti loro la cosa con libertà, dicendo: “Perdonatemi, il diavolo mi ha distratto”, è lui a restare confuso e la guerra cessa. Parla dunque con sobrietà.

    Questi anziani riconoscono che dove l’io è impoverito, anche la relazione è compromessa. Ora, Barsanufio e Giovanni sono ben consci che per giungere alla conoscenza di sé abbiamo bisogno di fidarci almeno di un’altra persona: Domanda del medesimo allo stesso. Ti prego, padre, di dirmi come posso sapere se sono nella sottomissione e se abbandono la mia volontà… Risposta. Da questo puoi sapere se vivi da cenobita: se non fai niente di tua volontà, né il mangiare da solo, né con i fratelli, ma se fai senza discutere le cose che ti vengono ordinate. Domanda dello stesso. Quando faccio una carità ai fratelli, mi viene la tentazione di vantarmene; è male se lo faccio di nascosto per mezzo dell’igumeno, piuttosto che personalmente? …Risposta. Tu devi fare attenzione in tutti e due i casi, perché entrambi offrono un’occasione alla vanagloria. Tuttavia, farlo per mezzo dell’igumeno è più leggero, perché il tuo cuore ci trova una sola occasione di lotta: contro se stesso. Se invece lo fai direttamente, il combattimento è duplice: non solo con il tuo cuore, ma anche con gli uomini.

    L’obbedienza è essenzialmente un atto di attento ascolto; è l’arte di ascoltare profondamente (hypakoé). Barsanufio è cer­to che ogni volta che si fa silenzio di propria iniziativa, quel si­lenzio viene dal diavolo e produce turbamenti e ire. Insomma, l’ammonimento fondamentale è una sorta di reminiscenza dell’educazione ricevuta in una buona scuola elementare: “Non parlare mai prima di essere interrogato”. Ma lo scopo che ci si prefigge non è quello di soffocare o reprimere la volontà, bensì di rafforzare e rinsaldare la volontà: “Non esaltarti se il tuo di­scorso è accettato, né affliggerti se non lo è”.

    L’obbedienza è la misura e il criterio dell’autentica solitudine e del silenzio: “Se vuoi sapere se è dannoso o vantaggioso stare in cella per conto proprio, considera questo segno: se ci stai per obbedienza, sappi che è vantaggioso “.

    Naturalmente il delicato equilibrio tra solitudine e comunio­ne non può essere veramente raggiunto senza la grazia divina. Il vero silenzio e la vera quiete sono un riflesso della quiete che esiste nella santa Trinità: Se hai preparato così la tua casa [nel silenzio] … ecco che [il Figlio di Dio] viene col Padre benedetto e con lo Spirito santo e pone la sua dimora presso di te (cf. Gv 14,23) e ti insegna cos’è la quiete e illumina il tuo cuore (cf. Ef 1,18) di gioia ineffabile (cf. 1Pt 1,8).

    Ma ancora, è difficile reggere il sottile equilibrio tra solitudine e comunione senza l’aiuto di un padre spirituale. Grazie a qualcun altro che ha fiducia in noi, cominciamo fiduciosamente – cioè attraverso la fiducia e l’apertura del cuore – a riscoprire il solido terreno interiore. Condividere apertamente i nostri pensieri e le nostre tentazioni con almeno un’altra persona, ci porta a conoscere i desideri e i conflitti che guidano il nostro comportamento. E l’essere preparati ad ascoltare e ad accettare la realtà della nostra natura e noi stessi, ci rende più consapevoli e più attenti agli altri. La nostra capacità di entrare in noi stessi per imparare e crescere è in definitiva anche la possibilità che noi abbiamo di diventare consapevoli della presenza degli altri e attenti ai pesi degli altri.

    Una ragione valida per condividere con gli altri i propri pensieri è che la maggior parte di noi sono critici severi verso se stessi; noi ci ergiamo contro noi stessi con durezza, proprio quando più avremmo bisogno di tolleranza e di compassione, virtù proprie degli Anziani di Gaza. E benché l’obbedienza sia un concetto in contrasto con le contemporanee nozioni di liberazione e di indipendenza, è vero che quando si è incapaci di costruire anche un piccolo pezzetto di terreno solido, termini come libertà e volontà hanno scarsa risonanza.

    Citando frequentemente Gal 6,2 – “Portate i pesi gli uni degli altri” – Barsanufio e Giovanni sottolineano che la responsabilità per “i pesi degli altri” è un punto critico per la crescita spirituale. Assumere e riconoscere la propria responsabilità dinanzi agli effetti dei pensieri e delle azioni implica rinunciare ad accusare gli altri, che di conseguenza divengono meno minac­ciosi per noi: Il medesimo aveva letto nei detti dei padri che colui che vuole davvero essere salvato, deve anzitutto, vivendo insieme agli uomini, sopportare oltraggi, ingiurie, danni, disprezzo, perché i suoi sensi siano liberati e così si innalzi alla quiete perfetta … Disse dunque a se stesso: “Io miserabile non ho fatto nemmeno una di queste cose ma, scandalizzando tutti a motivo della mia infermità, mi sono separato dagli uomini. Devo forse allora ritornare in mezzo agli uomini? E, con l’aiuto di Dio, fare come dicono i padri e così giungere alla quiete perché la mia fatica non sia vana (cf. 1Ts 3,5)

    Il silenzio poi è l’alfabeto del linguaggio della tolleranza e dell’amore. La comunione è spesso travolta sotto il rullo compressore delle nostre parole! Barsanufio preferisce il silenzio; Giovanni invece confessa di amare la conversazione: “Se la persona che mi interroga fosse come me, la mia loquacità non mi lascerebbe star zitto senza rispondergli, perché la mia lingua non si lascia trattenere“. E afferma: “Poiché noi, per la nostra debolezza, non siamo giunti a percorrere la via dei perfetti, parliamo“. Dopo tutto, come osserva a un certo punto: Quanto al silenzio di cui parlano i padri, tu non sai che cos’é, e sono molti a non saperlo. Questo silenzio infatti non è tacere con la bocca: ci può essere un uomo che dice migliaia di parole utili, e questo gli viene contato come silenzio; e un altro che dice una sola parola inutile, e gli viene contata come trasgressione degli insegnamenti del Salvatore.

    Questo equilibrio tra solitudine e comunione caratterizza il monastero di Serido. Le celle avevano finestre che permettevano la conversazione con i visitatori; e i monaci erano incoraggiati a rispondere ai bisogni degli ospiti, inclusi i laici e i parenti, “non per compiacere gli uomini, né come chi cerca lode, ma con cuore puro” (cf. 1Tm 1,5). Infine abba Giovanni parla di “non-silenzio” ( asiòpeton o tò mé siopàn) quando uno è si silenzioso, però non manifesta sinceramente i suoi pensieri e perciò non ottiene la guarigione. Ambedue, parola e silenzio, possono essere falsi. Quando la nostra teologia è disgiunta dagli altri, quando essa non ha relazione con questo mondo, allora è un falso linguaggio, è cattiva comunicazione. Barsanufio e Giovanni sono poco tolleranti verso le chiacchiere spiritualiche riducono Dio a un oggetto piccolo e maneggevole. Non ci offrono un libro di ricette per la nostra guarigione e salvezza, per quanto seducente possa essere il “rattoppo”. Barsanufio e Giovanni sanno che l’essere umano è imprevedibile; è troppo complesso perché un tale procedimento possa portare benefici duraturi. Più diventa possibile fare previsioni su qualcuno, meno tale persona è reale. Stiamo in guardia dalle persone che hanno sempre la risposta pronta!

    La quiete: la risurrezione dell’anima

    La solitudine e il silenzio sfociano infine nel mistero della quiete. Questo è il momento in cui percepiamo che Dio è il fondamento del nostro essere, “la solida pietra”della nostra costruzione, davanti alla quale non siamo più spaventati della nostra debolezza o della nostra piccolezza. Abba Giovanni dice: “Dove c’è quiete, mitezza e umiltà, abita Dio”. E Barsanufio afferma che la quiete è un dono spirituale, dato da Dio “nei tempi opportuni”.

    La quiete è strettamente legata alla morte. Essa riflette la nostra attesa del mondo a venire. Sii vigilante, ammonisce Barsanufio: “vigila, fratello: sei mortale e sono brevi i tuoi giorni”. Dice ancora: “La cella nella quale uno è sepolto come in una tomba, per il nome di Gesù, è un luogo di riposo … è diventata un santuario, dato che contiene la dimora di Dio (cf. Ef 2,22).

    La quiete può in certo senso rassomigliare alla morte, è simile alla lenta crescita silenziosa di germogli seminati profondamente nel terreno: crescita nascosta, ma reale. Barsanufio paragona “la quiete perfetta“a una nave che giunge nel porto; dapprima essa “è sbattuta e agitata dalle onde e dai flutti; ma quando giunge nel porto, si trova in una grande calma“.

    Si vive la vita in pienezza solo quando ci si è posti di fronte alle cose ultime, cioè alla mancanza di senso e alla morte. Dal modo con cui noi ci confrontiamo e ci sottraiamo a queste cose ultime, derivano profonde conseguenze per la nostra esperienza di solitudine, di silenzio e di quiete. Il ricordo della morte è fondamentale nella vita spirituale, è una memoria quotidiana e tangibile della nostra debolezza e imperfezione. Se vogliamo uscire dalla vita nella bellezza e nella luce, dobbiamo semplicemente pensare alla morte. A fatica si può trovare, in case di cura e ospedali, un senso di perfezione, che per giunta è solo apparente. Il ricordo della morte permette alla debolezza di essere rivelata in verità; allora la falsità può essere apertamente svelata e la guarigione può cominciare.

    La quiete tuttavia non è soltanto qualcosa che fa paura; è anche qualcosa di sacro. La quiete è strettamente legata al desiderio della “vita in abbondanza (cf. Gv 10,10), al di là della “mera sopravvivenza“. La maggior parte di noi tende a negare la relazione tra la morte e la quiete entrando nel turbine dell’attivismo che fa della morte una realtà improbabile o forse impossibile. La quiete è come un’attesa rispettosa e riverente. Essa e un rinnovato senso di anticipazione, un’apertura alla risurrezione in cielo. Nella quiete siamo consapevoli di essere vivi e non morti, di avere bisogni e tentazioni e di essere capaci di affrontarli e di assumerli senza fuggire. Nella quiete non siamo vuoti, non siamo soli, non siamo timorosi. Nella quiete sappiamo che Dio è (cf. Sal 45 [46],11); quest’esperienza può accadere in un istante oppure occupare tutta una vita.

    Infine la quiete introduce un elemento apofatico nella via della comunione e dell’amore. Perché attraverso la quiete giunge il consolante invito ad avvicinare gli altri tramite la “non-conoscenza”. Se restiamo fermi alle nostre precomprensioni o alle nostre paure dell’altro, non potremo mai godere di un perfetto silenzio. Quando “conosciamo” qualcuno, finiamo per chiudere subito gli occhi al processo continuo di cambiamento e di crescita dell’altro. Noi limitiamo noi stessi quando fissiamo gli altri unicamente nel passato e non sappiamo gioire della loro potenzialità. Nell’isolamento della solitudine possiamo rischiare di essere quello che siamo; nell’eco prodotta dal silenzio possiamo rischiare di porci davanti agli altri come essi sono; e nella comunione della quiete possiamo accogliere gli altri nella loro interezza, nella loro dimensione eterna, al di là di quello che possiamo comprendere, sopportare o semplicemente sfruttare.

    Conclusione

    Secondo una leggenda conservata nella Storia ecclesiastica di Evagrio Scolastico, al tempo in cui Evagrio scrive (593 ca.) circa cinquant’anni dopo la data presunta della morte di Barsanufio, si credeva che il Grande anziano fosse ancora vivo. Quando il patriarca di Gerusalemme diede ordine di aprire la porta della sua cella, ne uscì una fiamma di fuoco. Il silenzio di Barsanufio fu una dimostrazione più forte della sua stessa morte.

    Solitudine, silenzio e quiete sono valori monastici che presentano sottili, ma significative, variazioni dell’anima. Per molti aspetti esse costituiscono un equivalente della triplice distinzione evagriana tra praktiké, theorìa e theologhìa. Tuttavia, con la loro particolare distinzione delle variazioni dell’anima, che aprirà la via al pensiero monastico delle generazioni successive, Barsanufio e Giovanni offrono una nuova prospettiva alternativa di questo mondo, e non un’occasione di fuggire la realtà del mondo. Definendo i tre stadi della vita solitaria essi sottoli­neano il fatto che noi possiamo essere veramente uniti quando siamo veramente separati. Questa è essenzialmente l’esperienza di lasciare la presa e di affidarsi. È la capacità di dimenticare se stessi nello sforzo di raggiungere l’altro. Solitudine, silenzio e quiete riguardano veramente “ogni pensiero, ogni affare e condotta e preoccupazione“della nostra vita. Ogni relazione richiede la stessa prossimità e la stessa separazione, la stessa accoglienza e la stessa distanza.

    In questo senso i tre stadi della vita solitaria rappresentano una sfida per la paradossale o ideologica collisione che talvolta è messa in luce nella tradizione del deserto tra l’ideale del silenzio e la realtà della verbosità. Questa era la via dei padri del deserto trasmessa attraverso Evagrio Pontico e abba Zosima. Era l’insegnamento ricevuto e ripetuto da Barsanufio e Giovanni che dichiara che uno può essere con gli altri anche quando non è presente. Questa è l’idea che ispira la poesia australiana di Michael Leunig intitolata Sedendo sul muretto:

                “Vieni a sederti accanto a me”
    ho detto a me stesso;
    e, anche se non ha senso,
    mi sono tenuto per mano
    come un piccolo segno di fiducia
    e insieme sedevo [solo] sul muretto.

     

     

    Posted by attilio @ 19:23

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