Se tu squarciassi i cieli e scendessi!
Necessità del far memoria delle opere di Dio!
Is 63,7-19;64,1-11
di p. Attilio Franco Fabris
Messaggio centrale
Raccolti in preghiera i deportati rileggono attraverso la mediazione profetica la loro storia prendendo coscienza degli errori commessi: “Tu, Signore, sei adirato perché abbiamo peccato contro di te… Le nostre iniquità ci hanno portato via come il vento… Ci hai messo in balia delle nostre iniquità” (vv. 4-6). Si tratta di una amara constatazione che dovrebbe portare allo sconforto, allo scoraggiamento. Ma questo non avviene perché il profeta invita il popolo esiliato ad un nuovo atto di fiducia che si fonda unicamente sull’amore “paterno” che Dio sempre conserva per il suo popolo: “Tu però, Signore, continui ad essere nostro padre: noi siamo argilla e tu colui che ci dà forma, tutti noi siamo opera delle tue mani” (v.7).
Il popolo di Israele si trova in esilio a Babilonia: da pochi anni Gerusalemme è stata rasa al suolo e nei deportati il ricordo dell’accaduto è ancora vivo e bruciante. Hanno ancora sotto gli occhi le terribili scene della devastazione da parte delle truppe di Nabucodonosor, nel luglio del 587 a.C.: le mura demolite, il palazzo reale dato alle fiamme, il tempio distrutto e depredato, morte e violenza lungo le vie della città (“Ricordati, Signore, dei figli di Edom, che nel giorno di Gerusalemme, dicevano: «Distruggete, distruggete anche le sue fondamenta” Sal 137,7).
Difficile darsi una ragione a tutto quanto è accaduto, trovare una risposta a questa immane sciagura appare pressoché impossibile. La situazione appare ora irrimediabile perché ogni speranza preclusa: si è esiliati, lontani dalla patria migliaia di chilometri, tutto è endato perso, si è tornati schiavi come in Egitto.
In questa situazione si innalza da parte del profeta la commovente preghiera (potremmo definirlo nel suo genere letterario un salmo di lamento). Possiamo suddividerlo grossomodo in tre parti, o meglio in tre filoni che continuamente si intersecano : la prima è il ricordo dei benefici e delle grazie del Signore che non è mai venuto meno all’alleanza con il suo popolo; la seconda è la presa di coscienza del peccato di Israele causato dalla dimenticanza dell’amore di Dio; la terza è invocazione pressante a Dio perché non abbandoni il suo popolo ma ritorni a fare grazia e a dare vita e speranza.
Voglio ricordare i benefici del Signore, le glorie del Signore, quanto egli ha fatto per noi. Egli è grande in bontà per la casa di Israele. Egli ci trattò secondo il suo amore, secondo la grandezza della sua misericordia. 8 Disse: «Certo, essi sono il mio popolo, figli che non deluderanno» e fu per loro un salvatore 9 in tutte le angosce. Non un inviato né un angelo, ma egli stesso (lett. “il suo volto”) li ha salvati; con amore e compassione egli li ha riscattati; li ha sollevati e portati su di sé, in tutti i giorni del passato.
10 Ma essi si ribellarono e contristarono il suo santo spirito. Egli perciò divenne loro nemico e mosse loro guerra.
11 Allora si ricordarono dei giorni antichi, di Mosè suo servo. Dov’è colui che fece uscire dall’acqua del Nilo il pastore del suo gregge? Dov’è colui che gli pose nell’intimo il suo santo spirito; 12 colui che fece camminare alla destra di Mosè il suo braccio glorioso, che divise le acque davanti a loro facendosi un nome eterno; 13 colui che li fece avanzare tra i flutti come un cavallo sulla steppa? Non inciamparono, 14 come armento che scende per la valle: lo spirito del Signore li guidava al riposo. Così tu conducesti il tuo popolo, per farti un nome glorioso.
Il primo invito insistente da parte del profeta, che d’altronde si ripeterà più volte lungo il testo, è quello di “fare memoria” dei benefici del Signore (v.7: “Voglio ricordare i benefici”; v.11 “si ricordarono dei giorni antichi”; v.4 “si ricordano delle tue vie”; v.8 “non ricordarti per sempre dell’iniquità”), e delle sue gesta salvifiche (“le glorie del Signore”). Tutto il discorso di speranza che il profeta pronuncia trae forza e fondamento unicamente da questo saper “far memoria”! Il verbo “ricordare” in ebraico implica infatti non solo un ricordarsi dei tempi andati, bensì contiene la certezza che ciò che è accaduto nel passato possa in qualche modo ripetersi, rinnovarsi (da cui il concetto di “memoriale”) a motivo della fedeltà di Dio a se stesso e alla sua promessa.
Il “memoriale” fondante, di cui ogni israelita è chiamato a far perenne memoria (=la celebrazione della pasqua) permane l’esperienza salvifica della liberazione dalla schiavitù egiziana(vv. 12-14): il passaggio del Mar rosso occupa come paradigma fondamentale un posto rilevante nella fede biblica in quanto rappresenta ogni altra forma di tribolazione o pericolo che il popolo e il singolo credente debba attraversare.
E’ pressante perciò l’invito: “Ricordati… Non dimenticare!” (cfr Dt 8,11-14) perché ciò che fa esistere Israele è la “memoria” della sua particolare relazione con Dio. Ma il rischio della dimenticanza è sempre dietro l’angolo e con esso l’allontanamento dal Dio dell’alleanza, il che porta come conseguenza un consegnarsi alle forze disgregatrici e schiavizzanti dei nemici.
Con amarezza il profeta riconosce che proprio questo è accaduto: Israele si è dimenticato della “bontà-hesed” (verbo tipico dell’alleanza: “il mio popolo” v. 8) di Dio nei suoi confronti. Israele ha “contristato il santo spirito” – espressione rara nell’AT – che sta a significare una resistenza alla Parola, un non affidamento e fiducia accordata ad essa preferendo seguire propri progetti di autosufficienza.
Ora è il tempo di tornare a “ricordare”: “Ricorda!”. Occorre riandare alla propria storia, ritrovarvi la presenza e l’azione di Dio per trarre da lì ragione e fondamento per una nuova speranza “contro ogni speranza”.
Il popolo mentre ricorda già inizia a supplicare. Come può Dio non intervenire nuovamente se è “Salvatore” (v. 8; cfr Es 3,9) dei suoi “figli”? “Fu per loro un salvatore in tutte le angosce” (v.8s). Come può un padre dimenticare il suo figlio nonostante questi abbia mancato? (cfr Os 11; Is 1,2.4; Ger 31,9.20)
15 Guarda dal cielo e osserva dalla tua dimora santa e gloriosa. Dove sono il tuo zelo e la tua potenza, il fremito della tua tenerezza e la tua misericordia? Non forzarti all’insensibilità 16 perché tu sei nostro padre, poiché Abramo non ci riconosce e Israele non si ricorda di noi. Tu, Signore, tu sei nostro padre, da sempre ti chiami nostro redentore. 17 Perché, Signore, ci lasci vagare lontano dalle tue vie e lasci indurire il nostro cuore, così che non ti tema? Ritorna per amore dei tuoi servi, per amore delle tribù, tua eredità. 18 Perché gli empi hanno calpestato il tuo santuario, i nostri avversari hanno profanato il tuo luogo santo? 19 Siamo diventati come coloro su cui tu non hai mai dominato, sui quali il tuo nome non è stato mai invocato.
La supplica rivolta a Dio è anzitutto di “guardare”: “Guarda dal cielo e osserva dalla tua dimora”. Invocare lo sguardo equivale ad implorare l’attenzione, l’intervento, in questo caso si chiede a Dio di riprendere in mano la storia del suo popolo come fece al tempo del primo esodo: “Il Signore disse: «Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto” (Es 3,7-8).[1]
Israele domanda di poter nuovamente constatare la qualità di questo intervento connotato da una quaterna di qualità: lo zelo, ovvero il suo amore appassionato, la potenza, ovvero l’energia che sprigiona dal suo amore, la sua tenerezza e le sue “viscere materne” ovvero la sua “misericordia” con cui Egli ama. Che Dio si manifesti nuovamente nella drammatica situazione storica attuale perché sicuramente è questa la sua volontà ultima che deve vincere alla fin fine su un’ira transitoria che non è “da Dio”: “Non forzarti all’insensibilità”.
Perché Dio dovrà far questo? “Perché tu sei nostro padre, poiché Abramo non ci riconosce e Israele non si ricorda di noi. Tu, Signore, tu sei nostro padre, da sempre ti chiami nostro redentore” (v.16): è questa la profonda motivazione per cui Israele è certo dell’intervento divino a suo beneficio. Per la prima volta nell’AT qui JHWH viene chiamato con il raro appellativo di “padre”; in effetti per la fede ebraica “padre” dovrebbe essere solo Abramo e gli altri patriarchi: “guardate ad Abramo vostro padre” si diceva in Is 51,2. Ma occorre prendere atto che ora essi ora nulla possono: scesi nello scheol essi non hanno possibilità d’intervenire a beneficio del loro popolo, figlio nato dalle loro viscere. Ancor più come rivolgersi ai “padri-patriarchi” nella vergogna causata dal peccato e dalla situazione attuale? Essi avrebbero tutte le ragioni di vergognarsi dei loro figli degeneri: “Abramo non ci riconosce e Israele (=Giacobbe) non si ricorda di noi” (Is 63,16). A questo punto a chi rivolgersi? E’ proprio in questo contesto che per la prima volta JHWH viene chiamato con timore con l’appellativo di “padre”, il che comporta ovviamente il doversi prender cura del figlio bisognoso (cfr Es 4,22s).
Il popolo ha ancor bisogno di un redentore (= go’el). Nella cultura semitica era il titolo dato al parente più stretto tenuto in forza della legge alla responsabilità di riscattare un membro della famiglia che avesse perduto la libertà, o fosse stato fatto prigioniero, o fosse oberato da debiti insolvibili. Questo inderogabile dovere del “redentore” poteva essere adempiuto in due modi: raccogliendo la somma richiesta per il riscatto, oppure consegnando se stesso o i suoi beni in sostituzione. Ora la situazione di Israele esiliato e re so schiavo è disastrosa: quale “redentore” attendere ora che tutti hanno perso diritti e libertà? Non rimane che appellarsi a Dio supplicandolo di assumere lui stesso il compito di “redentore”. Solo lui può nuovamente riscattare (come fece in Egitto!) il suo popolo riconsegnandolo alla libertà.
Dopo l’invocazione è la volta del lamento: “Perché Signore ci lasci vagare lontano dalle tue vie e permetti che il nostro cuore si indurisca?” (v.17). L’ “indurimento del cuore” (sclerocardia) è la radice di ogni peccato: esso sta a dire la resistenza della coscienza dell’uomo a piegarsi alla volontà di Dio. Qui il profeta sembra quasi incolpare Dio stesso di questa situazione: in effetti non sperimentiamo una radicale incapacità a compiere il bene che vorremmo mentre facciamo il male che non vorremmo? (cfr Paolo apostolo: Rm 7,14-24). Non potrebbe Dio con un solo suo accenno risolvere questo male radicale che ci abita? E’ ancora indiretta supplica che corre su un nuovo registro!
Se la “colpa”, chiamiamola così, è di Dio allora che egli “ritorni” (verbo della conversione!) sui suoi passi, alla sua fedeltà “per amore dei suoi servi” (non di certo per il merito di quest’ultimi).
È importante l’argomento che Isaia usa per convincere Dio: non si rifà in primo luogo ad una ferma volontà di conversione da parte del popolo del tipo: abbiamo capito il nostro sbaglio e non lo rifaremo mai più, oppure “Adesso ci impegniamo, siamo migliorati e così non meritiamo più la tua punizione”. Isaia fa leva in primo luogo a Dio stesso e ai suoi sentimenti: “Tu sei nostro padre, da sempre ti chiami nostro redentore; noi siamo argilla e tu colui che ci dà forma” (cfr Is 63,16; 64,7).
L’intervento di Dio è necessario ed urgente, non si può procrastinare ancora a lungo: tutto sta cadendo nella desolazione e distruzione: Gerusalemme e il Tempio disfatti tra le fiamme e le rapine, Israele in esilio si sente abbandonato come tutti gli altri popoli: l’antica elezione sembra un ricordo lontano, un miraggio irraggiungibile: “Siamo diventati come coloro su cui tu non hai mai dominato, sui quali il tuo nome non è stato mai invocato” (v.19). La salvezza riposa unicamente nella fedeltà di Dio al suo amore!
Se tu squarciassi i cieli e scendessi! Davanti a te sussulterebbero i monti.
64:1 Come il fuoco incendia le stoppie e fa bollire l’acqua,
così il fuoco distrugga i tuoi avversari,
perché si conosca il tuo nome fra i tuoi nemici.
Davanti a te tremavano i popoli, 2 quando tu compivi cose terribili
che non attendevamo, 3 di cui non si udì parlare da tempi lontani.
Orecchio non ha sentito, occhio non ha visto che un Dio, fuori di te,
abbia fatto tanto per chi confida in lui.
4 Tu vai incontro a quanti praticano la giustizia e si ricordano delle tue vie.
Ecco, tu sei adirato perché abbiamo peccato contro di te da lungo tempo
e siamo stati ribelli. 5 Siamo divenuti tutti come una cosa impura
e come panno immondo sono tutti i nostri atti di giustizia:
tutti siamo avvizziti come foglie,
le nostre iniquità ci hanno portato via come il vento.
6 Nessuno invocava il tuo nome, nessuno si riscuoteva per stringersi a te;
perché tu avevi nascosto da noi il tuo volto,
ci hai messo in balìa della nostra iniquità.
7 Ma, Signore, tu sei nostro padre; noi siamo argilla e tu colui che ci dà forma,
tutti noi siamo opera delle tue mani.
8 Signore, non adirarti troppo, non ricordarti per sempre dell’iniquità.
Ecco, guarda: tutti siamo tuo popolo.
9 Le tue città sante sono un deserto, un deserto è diventata Sion,
Gerusalemme una desolazione.
10 Il nostro tempio, santo e magnifico,
dove i nostri padri ti hanno lodato, è divenuto preda del fuoco;
tutte le nostre cose preziose sono distrutte.
11 Dopo tutto questo, resterai ancora insensibile,
o Signore, tacerai e ci umilierai sino in fondo?
L’intervento auspicato di Dio ricorda il Sal 17,10: “Abbassò i cieli e discese, fosca caligine sotto i suoi piedi”. E Gdc 5,4-5: “Signore, quando uscivi dal Seir, quando avanzavi dalla steppa di Edom, la terra tremò, i cieli si scossero, le nubi si sciolsero in acqua. Si stemperarono i monti davanti al Signore, Signore del Sinai, davanti al Signore, Dio d’Israele”. Isaia invoca una teofania simile se non più grande di quella del Sinai: che i cieli dimora di Dio si squarcino affinché la presenza e l’azione del Dio Altissimo si manifestino con evidenza, ciò provoca tremore e spavento, la gloria di Dio è manifestata come nell’esodo dal fuoco distruttore (è un’immagine classica per descrivere ogni teofania e la salvezza di Israele e la distruzione dei nemici ne sono le conseguenze). “Orecchio non ha sentito, occhio non ha visto che un Dio, fuori di te, abbia fatto tanto per chi confida in lui” (v.3): solo Dio può operare questa salvezza perché nessun altro è “fuori di te” ! Questa fiducia è essenziale affinché JHWH possa operare nuovamente prodigi (cfr Is 30,8; Sof 3,8).[2]
Ai vv. 4-6 torna di nuovo il lamento che presenta tuttavia un tratto nuovo. Al v. 17 si parlava di una insondabile volontà divina circa la triste situazione di Israele si trova, qui invece la riflessione cade sulla responsabilità dell’uomo: è il suo peccato che ha causato l’allontanamento di Dio e l’attuale situazione: “tu sei adirato perché abbiamo peccato contro di te da lungo tempo e siamo stati ribelli”. L’infedeltà – la ribellione – all’alleanza è la causa di tutte le sventure. D’altronde di fronte alla santità di Dio l’uomo non può che costatare e riconoscere la sua radicale incapacità di una sua “giustizia”: “come panno immondo sono tutti i nostri atti di giustizia” (v.5 cfr Rm 3,5; 3,20).
A causa di questo stato “immondo” l’uomo avverte se stesso lontano da Dio: “tu avevi nascosto da noi il tuo volto” (v.6). Dio ha interrotto la sua relazione con il suo popolo abbandonandolo alla mercè della sua colpa! (cfr Ap 2,23).
Ma dopo questa amara constatazione ancora una nuova svolta preannunciata da un “ma-wau” (v.7) viene offerta all’ascoltatore della profezia. Il profeta richiama ancora, come punto fermo e di forza maggiore, la realtà della paternità di Dio nei confronti di Israele: malgrado tutti i peccati il popolo appartiene sempre al “suo” Dio e Creatore! Si usano infatti immagini plastiche come quelle dell’argilla e del vasaio (chiaro riferimento al racconto della prima creazione) per implorare da Dio quasi una nuova creazione per Israele.
Infine il profeta richiama ancora l’attenzione di Dio sulla desolazione della terra promessa ad Abramo, sulla desolazione di Gerusalemme, sulla distruzione del Tempio: Dio non può rimanere insensibile dinanzi a tutto questo sfacelo che sembra testimoniare l’abbandono di Dio e dunque l’inaffidabilità della sua promessa! Dio non può stare in silenzio e non può rimanere insensibile! (cfr 63,15).
Per la riflessione
La storia dell’esilio è la storia di chiunque, come il figlio minore della parabola, intraprenda direzioni lontane dalla verità di Dio: alla fine non troverà che delusione, solitudine, vuoto, disorientamento, disperazione… E’ il castigo, ovvero le conseguenze che il peccato porta già con sé come suo salario: “Perché il salario del peccato è la morte” (Rm 6,23).
In questa situazione è facile accusare Dio o cercare capri espiatori sui quali far ricadere la colpa.
Il processo di redenzione passa attraverso un” far memoria” dell’opera di Dio in noi per ritrovare la certezza che sempre l’amore suo per la sua creatura “è forte come la morte e le sue vampe sono vampe di fuoco” (Ct 8,6). Dio non si rassegna mai, ma non può imporsi, non può sopraffare la nostra libertà ma Egli tuttavia rimane incontenibile nella sua passione per l’uomo che, sosteneva Edith Stein, è “infinitamente inverosimile” che egli possa uscirne sempre sconfitto.
Preghiera conclusiva
Come la peccatrice all’ombra del tuo vestito
possa io rifugiarmi e abitarvi per sempre.
Come colei che nella sua paura
trovò forza e guarigione,
guariscimi dalla mie fughe per paura;
che io un te trovi forza!
Che dal tuo mantello mi lasci condurre
fino al tuo corpo,
perché possa cantarti meno indegnamente.
Il tuo mantello, Signore, è continua medicina,
la tua forza nascosta nella veste risiede.
Basta un po’ di saliva dalle tue labbra
e meraviglia di luce si opera nel fango. (Sant’Efrem il Siro, De Fide, 10)