SOLITUDINE E “SOLITARIETA’”
A cura di p. Attilio Franco Fabris
Solitudine
Per dire TU occorre prima saper dire IO.
L’accettazione del “mistero” dell’altro consegue la scoperta e l’accettazione del mistero di noi stessi. (Cfr. il bambino e la madre).
Occorre perciò se si vuole instaurare una vera relazione con l’altro discendere nel medesimo tempo alla propria intimità, alla relazione con noi stessi.
Mi percepisco anzitutto unico e differente dagli altri e dalle cose: è il mistero della persona.
Scrive san Gregorio di Nazianzio nel suo trattato “Della creazione dell’uomo”: L’immagine non è veramente immagine se non possiede tutti gli attributi del suo modello… La caratteristica della divinità è di essere inafferrabile, anche questo l’immagine lo deve esprimere. Se l’essenza dell’immagine si potesse comprenderla mentre il suo modello sfugge ad ogni comprensione, una tale differenza la annullerebbe in quanto immagine. Ma noi non arriviamo a definire la natura della nostra dimensione spirituale, proprio a immagine del nostro creatore… significa dunque che noi portiamo l’impronta dell’ineffabile divinità nel mistero che è in noi”.
La mia unicità, il mio mistero direbbe Gregorio, è anche l’unicità e il mistero di coloro che mi vivono accanto.
Questa unicità genera un sentimento: l’uomo si coglie, allorché diviene cosciente di sé, essenzialmente unico e dunque solo.
Il filosofo austriaco di discendenza ebreo Martin Buber (1875-1965), sostenitore della concezione dialogica nella relazione tra Dio e l’uomo, afferma: Ogni persona che viene a questo mondo costituisce qualcosa di nuovo, qualcosa che non è mai esistito prima. Ogni uomo deve sapere che non c’è mai stato nel mondo nessuno uguale a lui perché se ci fosse stato un altro uguale a lui, non sarebbe stato necessario che lui nascesse. Ogni uomo è un essere nuovo nel mondo, chiamato a realizzare la sua particolarità.
Duns Scoto, filosofo e teologo inglese (1266-1308), francescano che concepì la metafisica come scienza rigorosa e deduttiva e sostenne la dimostrabilità razionale delle verità soprannaturali, dava anch’egli una definizione di persona: La persona è l’ultima solitudine dell’essere.
Ovvero il nostro centro costituisce la nostra unicità, ovvero la nostra solitudine.
SOLITARIETA’
Viviamo in un contesto culturale che favorisce la superficialità.
Tante volte non si ha il coraggio di affrontare il proprio mistero, la propria solitudine esistenziale. Chiudiamo gli occhi, affrettiamo il passo, fuggiamo da noi stessi… cerchiamo altrove la nostra “identità”, ci dissolviamo nel “gruppo”.
Nella misura in cui viviamo nell’esteriorità tanto meno cogliamo il nostro essere “persona”.
Dobbiamo perciò sempre fare i conti con i nemici della nostra interiorità: la paura, la distrazione, la dispersione, la superficialità…
Chi fugge da se stesso non si incontra né tanto meno incontrerà e amerà gli altri…
teniamo presente che “la misura con cui penetriamo nel cuore del nostro mistero è la stessa misura della nostra apertura verso i fratelli” (Larranaga).
Altra attenzione: si può fuggire fuori di sé, o anche dentro di sé. In questo caso è il rinchiudersi nel proprio mondo impedendo a se stessi e agli altri di entrare in relazione.
E. Fromm, psicanalista tedesco (1900-1980), dice: Sentirsi completamente isolato e solitario porta alla disgregazione mentale.
La bibbia dice: Non è bene che l’uomo sia solo (Gn. 2)
Se è proprio dell’essenza della persona il percepirsi solitudine, fa parte altresì della sua stessa essenza essere in relazione.
E’ l’isolamento che è negativo, che porta con sé tristezza, angoscia, visione negativa della realtà. Essa se esiste, può avere molteplici cause interne ed esterne.
Quando fuggiamo da noi stessi e dagli altri siamo così vuoti, insoddisfatti, qualcosa ci manca: iniziamo a vacillare. Non sappiamo più perché esistiamo (è il “vuoto esistenziale” di cui parla ad es. V. Frankl).
UN’ESISTENZA DA VIVERE
L’uomo si vede “gettato” in un mondo incomprensibile (cfr Haidegger). La paura lo può assalire: lo spettro della morte ci sta costantemente alle spalle. La mancanza di senso provoca angoscia.
Occorre un senso, un significato: la sofferenza e la paura della morte si superano solo con questo.
Per noi questo senso, questa ragione: è la relazione con una Persona, anzi Tre, Dio.
Ci siamo lasciati attrarre da quel “quaerere Deum” che ha caratterizzato la vita di tanti prima di noi.
Ci siamo lasciati attrarre dall’invito evangelico a seguire Gesù… Ci siamo avventurati.
Dio è divenuto Rupe su cui porre saldamente il mistero del nostro essere perché non vacilli nel vuoto.
Rimane evidente che per la nostra esistenza è indispensabile che Dio rimanga sempre interlocutore, compagno vivo: Di te ha sete l’anima mia come terra deserta, arida senza acqua.
Questa “solitudine” mi è stata data con la vita. L’esistenza mi è stata data, donata, non l’ho richiesta io. Posso disprezzarla, disperderla o addirittura distruggerla. (Giobbe dirà: Maledetto il giorno in cui nacqui, maledetta quella notte nella quale si disse: E’’ stato concepito un uomo”); oppure benedirla (Il salmista dirà: Benedici il Signore anima mia quanto è in me benedica il suo santo nome).
Non ho scelto la vita, come non ho scelto la sofferenza e la morte. Mi ci trovo indipendentemente dalla mia volontà.
Tocca a me però assumermi la responsabilità di questa mia vita, perché non mi è stata data bell’e fatta e rifinita. La vita la devo vivere, deve essere vissuta da me: solo per l’uomo la vita allora è problema non per l’animale dotato di istinti.
Pur nel mondo limitato percepiamo guardando gli spazi infiniti che il nostro essere è infinito: cogliamo lo “sprazzo di divinità” che è in noi.
Grandi, infinite aspirazioni unite a grandi pesanti e inevitabili limiti.
E’ l’assurdo dell’esistenza umana che fa sì però che l’uomo si collochi in cammino, in progressione in ricerca inesausta, insieme ai suoi fratelli.
Con uno sguardo all’infinito del Creatore fatto debole carne come la mia mi è dato di poter dare risposta all’enigma dell’esistenza umana. E’ questo è grazia.