HO INCIAMPATO SUL MIO CAMMINO…
di p. attilio franco fabris
Nel cammino spirituale incontri ostacoli imprevisti, non voluti né desiderati.
Il normale cammino spesso, anzi sempre, è disseminato di sassi, buche e rovi con i quali ogni giorno è messa a prova la tua perseveranza e fiducia per continuare. “Nel suo cammino quaggiù la nostra vita non può sottrarsi alla prova… dal momento che il nostro progresso si realizza attraverso la prova; nessuno conosce se stesso senza essere stato messo alla prova, può essere coronato senza aver vinto, può vincere senza aver combattuto” (Agostino, Enarr. Ps).
Le prove sono “notti” di angoscia e di disperazione in cui tutto sembra incerto, inutile, offuscato, inconsistente, vuoto. E’ facile cadere nel nulla e per questo è importante cadere ai piedi del Crocifisso disceso nella sua passione in questi inferi, identificarsi col Cristo agonizzante sulla croce “senza conforto”. Le prove sono il crogiolo della purificazione di noi stessi, esperienza di deserto e di pura fede.
Ogni giorno devi fare i conti con tante realtà che tu stesso ti trovo a dover gestire senza che tu le abbia scelte; si tratta di quelle alterità che ti abitano e che sono estranee al tuo volere e al tuo desiderio: sono l’alterità dell’inconscio, l’alterità di una affettività avida e di una sessualità mai pienamente integrata, l’alterità della tua aggressività mai totalmente vinta, l’alterità della tua sete di potere e di prestigio… per giungere poi all’alterità del peccato, del momento di crisi, della malattia e della morte.
Mentre cammini non avrai mai finito di fare i conti con queste tue alterità.
Esse tuttavia, lo insegnano tutti i maestri spirituali, possono svolgere, se accolte e lette in modo giusto, un ruolo essenziale nel cammino spirituale: fanno sì che venga smantellata quell’”immagine di sé” o del “sé immaginario” che ci abita, che è essenzialmente diversa da ciò che realmente siamo e che è il più grosso ostacolo ad un autentico cammino spirituale..
Le prove, fanno appello alla tua libertà, e ti provocano all’alternativa di rifiutare e finalmente di accettare di essere diverso da ciò che pensi di essere, diverso da quello che gli altri si aspettano da te o dicono di te, nell’accettare di rinunciare a ciò che non hai e non puoi avere: Tu dici: Sono ricco, mi sono arricchito; non ho bisogno di nulla. Ma non sai di essere un infelice, un miserabile, un povero, cieco e nudo (Ap 3,17).
Ovvero l’autentico cammino spirituale ti porta a ritrovare te stesso nella verità di Dio che ti precede: una verità alla quale si accede e ci si consegna.
Alcune prove fanno parte del cammino di tutti, certamente ne esistono tante altre.
L’esperienza del peccato
Una via che ti può permettere di accedere alla verità di te è il peccato, che se vissuto in un’ottica di fede può trasformarsi in felix culpa.
Il peccato ti fa fare esperienza di una lacerazione, di una frattura in te stesso… Ti rendi conto di aver intrapreso una strada sbagliata per ricercare la vita, l’ assoluto, la felicità di cui sente sete nel profondo di te stesso.
L’esperienza di peccato ti rimanda così un’immagine povera, limitata, carente di te stesso, ma è quella vera: Allora rietrò in se stesso e disse: quanti salariati in casa di mio Padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame (Lc 15,17).
La salvezza passa per questa strada, essa non ti nasconde a te stesso. Anzi il sentirsi realmente peccatori è la base per poter fare esperienza dell’essere salvati (cfr il pubblicano al tempio, la prostituta in casa del fariseo, la samaritana, il buon ladrone…). Ti rende possibile alzare lo sguardo e attendere che sia l’Altro, che ti ama e conosce al di là di tutte le nostre pretese immagini, a rialzarti e a farti continuare il cammino. Fai la felice esperienza di essere accolto e amato proprio nel momento in cui sperimenti l’inaccettabile che è in te. Ti ritroviamo non condannato ad una perfezione impossibile ma salvato da un amore che ti precede.
La crisi
E’ fare esperienza del naufragio nel proprio cammino. Tutto appare perduto irrimediabilmente. “Istintivamente, come avviene per i naufraghi, uno si guarda attorno alla ricerca di un qualcosa a cui aggrapparsi, e quell’occhiata tragica e ansiosa, assolutamente sincera perché è in gioco la vita stessa, farà sì che uno cominci a mettere ordine nel caos della propria vita. Le sole idee genuine sono quelle che germogliano nella testa del naufrago. Tutto il resto è retorica, posa e farsa. Chi non si sentirà almeno una volta davvero perduto è irrecuperabile, perché non ritroverà mai se stesso, e non potrà sollevarsi per fronteggiare la propria realtà” (Ortega Gasset, La rivolta delle masse).
E’ una fase di destrutturazione di sé, e della propria immagine. Le proprie certezze crollano: ci si sente mancare la terra da sotto i piedi. Tutto appare inutile e falso. Devi rinunciare alla pretesa di condurre la tua vita secondo te, a modo tuo, sotto il tuo controllo.
Essa è strada maestra di purificazione. Essenzialmente dall’illusione religiosa stessa. Si intraprende infatti un cammino che va dal mio Dio a Dio. E’ morte di un Dio visto al specchio. Soltanto che morto questo Dio non rimane più niente. A cosa agganciare la propria vita? Scegliere il ripiegamento? La crisi mette in causa la mia pretesa di condurre la vita secondo me, a modo mio, sotto il mio controllo.
Essa apre alla necessità dell’autenticità. Riconduce la vita alla sua autenticità di esistenza umana. E’ esperienza dello scendere nell’abisso dello scheol. Ma questo abisso è il luogo dell’evangelo in “presa diretta”: è il varco attraverso il quale può entrare il risorto.
Chi passa per questo fuoco sa che non può più far finta di niente, che continuare a vivere come prima, a camminare come prima e sulle strade di prima, sarebbe mentire a se stessi, anche se rimane forte la tentazione di farlo, di tornare indietro agganciandosi di speratamente a qualche certezza crollata che si cerca in tutti i modi di rianimare inutilmente. Non ci si accontenta più di ripetere e ripetersi, si sa’ che in questo cammino di purificazione occorre andare fino in fondo. Vincendo l’angoscia di una soluzione immediata.
Occorre stare attenti: “a causa di quel che ha di prova, della crocifissione che vi avviene, si può esser tentati di respingere questa esperienza, in cui la fede è come bruciata al fuoco d’una esigenza implacabile di verità, senza che si sia padroni di quel che ne uscirà. Si può respingerla da sé, rifiutarla in altri, farsi sordi a tutto ciò che potrebbe venirne fuori. E sarebbe, naturalmente in nome della fede, per mantenerla, difenderla, confortarla presso i deboli, farla parlare alto e forte… Ma la rigidezza di questa fede così sicura di se stessa, la sua intolleranza, la sua durezza verso coloro che sono nella prova del fuoco, danno da pensare alla segreta paura che l’abita. Credo di vedere o capire, qui o là, una sicurezza di questa specie; temo che prepari solo duri risvegli”.(Billet).
La malattia
Tutta la scrittura ci presenta la malattia come fase difficile, pericolosa per la fede (cf Giobbe). Essa può tramutarsi in sasso d’inciampo, in scandalo sul cammino. La sofferenza va sempre in senso contrario alle nostre aspettative, essa sembra bloccare l’itinerario della vita. E’ una vera prova perché né prevista né programmata. E’ una strada che non si vuole e che si ignora. Ma vi ci siamo costretti, come Simone di Cirene è costretto a a portare la croce sulla via del Calvario.
La malattia è un’esperienza, non solo di dolore fisico ma soprattutto di sofferenza interiore spirituale (non è mai solo sofferenza fisica!), talmente profonda e sconvolgente che spesso risulta difficile da integrare: la rivendicazione, il rimpianto, il ripiegamento, la ribellione sono risposte comuni… ma sono sforzo inutile e indefinito di restauro, di provocazione paranoica di un’immagine di noi stessi che non è più. Ci si sente forse inconsciamente colpevoli di non corrispondere all’immagine che avevamo di noi stessi. Essa domanda a noi un atteggiamento di accettazione della vita, di una volontà di “rimanere” nonostante il grigiore e l’impotenza.
Tuttavia questa esperienza può rimandarci a quella parte di noi stessi che era nascosta dall’immagine. Il nostro lato nascosto, il più vero, viene svelato dalla lacerazione provocata dal dolore.
Questa lacerazione può permettere di recuperare la vera immagine di se stesso nella propria totalità: essa può trasformarsi in ritrovamento felice.
In mezzo al mutare delle immagini con le quali ci identificavamo ci viene rivelato, provocatoriamente ma provvidenzialmente, il luogo della permanenza della nostra vera identità e luogo in cui ci è reso possbile l’incontro con Dio. “Quando sentirò che vengo meno e me stesso, assolutamente passivo nelle mani delle grandi forze sconosciute che mi hanno formato, in tutte queste ore oscure dammi, mio Dio, di comprendere che sei tu che scosti dolorosamente le fibre del mio essere per poter penetrare fino al midollo della mia sostanza, per trasportarmi in te” (Theillard del Ch.).
La malattia non è pausa nel cammino: “La sofferenza non è più qualcosa di accidentale, un ulteriore peso fastidioso che s’aggiunge sulle nostre spalle: ma si trasforma in via” (Yves de Montcheuil). “”Lontano dal lavoro che è l’oppio dell’ansia nascosta dell’esistenza d’oggi, lontano dal moto quotidiano e dalla salute spiegabile per se stessa; si procede verso qualcosa che è solo un passaggio e non una meta stabile, verso il dolore, l’impotenza, la disposizione su di noi da parte di un estraneo sconosciuto” (K. Ranher).
La morte
Negli schemi di itinerari spirituali passati, preoccupati della dimensione ontologica dell’uomo, si è tralasciata l’esigenza di inserire il termine dell’itinerario dell’esistenza umana terrena che è la morte. In un certo senso la vita spirituale veniva ad essere identificata non col naturale e logico sviluppo della persona destinata a far esperienza della morte, ma con una vita solamente interiore che raggiunta la pienezza e la perfezione non avere più nulla da attendere. Forse si potrebbe parlare di una “de-escatologizzazione” della vita spirituale.
Ma è importante alla luce di una comprensione dell’uomo come “viator”, anzi è indispensabile che la vita spirituale si confronti con la morte, con quella “fine” tragica del suo cammino umano e spirituale.
La morte, come l’anzianità, fa parte reale, concreta di ciascuno di noi. E queste realtà sono chiamate ad essere interpellate dall’esperienza di fede, e devono essere integrate e rientrare nel cammino spirituale.
La vecchiaia, la morte… si presentano come logorio, peggioramento, degradazione del processo biologico e psicologico. Questo aspetto negativo è reale: il cammino della crescita umana e cristiana subisce una lenta flessione e infine una violenta rottura. La pienezza, quindi, era provvisoria, instabile, relativa, non era ancora in possesso dell’uomo. La pienezza vera è al di là, non è normale continuazione del processo regolare: giunge più tardi per puro dono di Dio che sottopone a un cambiamento radicale di qualità tutte le antecedenti realizzazioni dell’uomo” (F.R.Salvador).
E’ la linea logica dell’esperienza battesimale. La morte fisica è esperienza ultima e radicale del proprio battesimo. E’ il coronamento ultimo, anche se ripugnante e doloroso, dell’itinerario spirituale che attende solo da Dio il raggiungimento della meta, la massima realizzazione della nostra crescita. e conformazione a Cristo
La morte si presenta quale punto di convergenza di tutta l’esistenza, punto di chiusura in cui le coordinate di tempo e spazio si annullano per aprirsi immediatamente all’infinito e all’eterno di Dio, in una esplosione di vita. “Proprio per penetrare definitivamente in noi, Dio deve, in qualche modo, scavare dentro di noi e crearsi un vuoto che diventerà il suo posto. Per poterci assimilare, Egli deve rimaneggiare, rifondere, spezzare le molecole del nostro essere. La morte ha il compito di praticare, fin nel più intimo di noi stessi, il varco necessario. Ciò che per natura era vuoto, la cuna, ritorno alla pluralità, può diventare, in ogni esistenza umana, pienezza e unità in Dio” (Theillard de Ch., Ambiente divino).
Comprendiamo l’importanza ascetica data al memento mori. Il ricordo costante della morte fa sì la quotidianità della mia esistenza assuma il carattere di grandezza, densità, pienezza, senza le quali mi ridurrei a “fiacco, esangue, osceno, capace solo di digerire” (Sartre).
SCHEDE
Nel mio cammino ho incontrato ed incontro innumerevoli ostacoli e difficoltà.
Come vivo la mia esperienza di peccatore? Avverto il peccato come inciampo o forse con indifferenza In che senso esso è per me inciampo?
Vi possono essere stati o esserci momenti di crisi. Se sì: come mi pongo di fronte ad essi? Quali sentimenti suscitano in me? Che incidenza hanno sul mio cammino? Che lettura do ad essi? Che insegnamenti di vita ne ho ricavato?
Di fronte all’esperienza della malattia e al pensiero della morte che cosa avverto in me? Quali sentimenti? Come vivo l’esperienza della mia fragilità di essere umano destinato alla morte? Il pensiero della morte che ruolo riveste nella mia vita, che portata ha?
Lettura
Un momento inevitabile
C’è durante la traversata del tempo, durante l’esistenza di ogni uomo normale, un momento inevitabile e direi quasi desiderabile. Sì, è il momento di una scoperta abbastanza sgradevole: io non sono che questo, l’uomo non è che questo, e la terra e la vita. E’ la manifestazione dei limiti, della precarietà dei mezzi, della relatività dei valori, delle ferite forse inconfessabili, del peccato del mondo, della terribile tragicommedia della storia profana o sacra e dell’incarnazione di questa “vocazione”, la mia, che decisamente non si realizzerà affatto come sta scritto nei libri… E’ un intorpidimento, una sclerosi, un indurimento dell’essere, un pessimismo oppure un impeto di collera che isola, trincera o divide: la disperazione di quelli che sono o si credono imbrogliati… Occorrerebbe prima di rendersi conto della “normalità” di un’esperienza del genere. Il fanciullo che eravamo, l’adolescente dei grandi sogni, il giovane che si realizzava sono diventati poco a poco quest’uomo, questo adulto. Allora avviene come una nuova nascita, fisiologica, psichica o anche spirituale. Tutto quello che era stato conosciuto e accettato o creduto in una maniera speculativa, teorica, diventa problema vitale che tormenta la carne e il cuore: la mia famiglia, il mio lavoro, la mia fede, l’attaccamento alla mia chiesa e, per un religioso, questi voti pronunciati nell’entusiasmo dei vent’anni che ora prendono il loro vero volto, il loro vero valore. Eppure quel momento non è tragico; oserei dire anzi che può essere un’ora benedetta poiché l’uomo diventa finalmente se stesso, quest’essere dalle dimensioni infinite e così limitate, questo pellegrino dell’assoluto in cammino sulla terra, alle prese con il relativo, con il resto, con le apparenze dorate della vita. Egli arriva cioè al punto in cui la speranza teologale deve assumere tutta la sua portata, spiegare le sue ali in tutta la loro larghezza per sperimentare a fondo l’universale povertà. Questo non significa affatto che l’uomo diventi distaccato, indifferente, relativista, ma la prova a cui viene sottoposto è un’offerta: “Accetterai che il tuo cuore si riposi solo entrando nella sala del banchetto?”. (A. Lassus, I nomadi di Dio, Torino 1976, pagg. 71ss.)