“Presto! Andate a dire: E’ risorto!”
Lectio di Mt 28,1-10
di p. Attilio Franco Fabris
Nel suo trattato “De resurrectione carnis”, Tertulliano scrive: “Fiducia christianorum resurrectio mortuorum; illam credentes, sumus – La risurrezione dei morti è la fede dei cristiani: credendo in essa siamo tali”. Ciò che appare sconcertante è la dimenticanza di questo dato fondante che contraddistingue la fede cristiana e ne è il suo nucleo essenziale. Alla domanda: chi è il cristiano? La risposte, anche di praticanti – e talvolta anche di consacrati! – è la tragica riduzione dell’avvenimento cristiano, ovvero del mistero pasquale, a una morale del “comportarsi bene”: essere cristiani equivale ad amare il prossimo, credere che Dio c’è, non far del male a nessuno, osservare i comandamenti, ottemperare ad alcuni prescrizioni rituali, anche rispettare il creato… tutte risposte in sé anche vere ma certamente insufficienti e secondarie che non toccano la ragione fondamentale del fatto cristiano. Così alla fine la pratica religiosa si riduce a un impianto religioso senza fondamenta destinato a crollare come purtroppo stiamo constatando non solo nelle parrocchie ma anche forse nelle stesse comunità religiose. La resurrezione di Cristo il crocifisso,ovvero il kerygma, non appare nella sua evidenza originaria di un annuncio sconvolgente destinato a sconvolgere totalmente la vita e la storia.
Lo Spirito ci vuole “convincere” a questa verità, ci spinge a riscoprire e ad arrenderci alla Buona Notizia dell’amore incondizionato con cui Dio in Cristo ci ha amato e ama vincendo in noi ogni morte come la vinse nel Figlio. Perciò lo invochiamo: “Lo Spirito vi ricorderà ogni cosa”. O Spirito fammi ricordare la parola di Gesù, ma non perché essa discenda nel computer della mia memoria e vi immagazzini una quantità smisurata di dati. È il mio cuore che deve essere destato perché riscopra nella Buona Notizia la parola che salva, la parola che consola, la parola che traccia una strada, la parola che mi strappa al buio del non senso. È il mio cuore che deve essere condotto sui passi di Gesù per contemplare da vicino il suo amore e la sua misericordia. Per imparare a scorgerlo presente, vivo, accanto a me, proprio lui che desidera donarmi per sempre la sua stessa vita divina.
Lectio
Le donne che si recano al sepolcro nel vangelo di Matteo sono Maria di Magdala e una non ben identificata “altra Maria”. La scena è collocata “all’alba del primo giorno dopo il sabato”, ovvero al sorgere del sole del “kyriakè hemera” (cfr Ap 1,10), il “giorno del Signore”. Matteo allude all’alba del giorno senza fine promesso dai profeti in cui Dio avrebbe portato a compimento le sue promesse: “Il tuo sole non tramonterà più né la tua luna si dileguerà, perché il Signore sarà per te luce eterna; saranno finiti i giorni del tuo lutto (Is 60,20; cfr Ap 22,5). Questa nuova alba è portatrice di una luce intramontabile perché il buio della morte è ormai irrimediabilmente sconfitto.
Le due donne nel silenzio e nel dolore si recano al sepolcro per una visita, il loro atteggiamento è simile al nostro quando ci rechiamo al cimitero a visitare la tomba dei nostri cari potendoci solo limitare a fissare una fredda lastra di marmo, facendo scorrere nella mente i ricordi pronunciando qualche preghiera. Il verbo “visitare” suggerisce però anche un “osservare con attenzione”, gesto che idealmente prolunga il loro essere “state a guardare” il dramma del Calvario (27,55). Testimoni della morte ignominiosa del loro rabbì, saranno da ora testimoni della sua resurrezione.
La loro visita assume le caratteristiche di un’esperienza sconvolgente: ecco un terremoto, un apparire di angeli, di vesti bianche e di una luce. E’ il linguaggio simbolico attraverso il quale nella sacra Scrittura si vuole narrare una teofania, ovvero una manifestazione della presenza e dell’agire di Dio dentro la storia. La resurrezione di Gesù appartiene alla categoria delle teofanie, ovvero è una manifestazione potente della presenza e dell’azione di “Dio che lo ha risuscitato, sciogliendolo dalle angosce della morte, perché non era possibile che questa lo tenesse in suo potere” (At 2,11).[1]
L’angelo svolge alcune importanti funzioni.
La prima è quella di aprire il sepolcro facendo rotolare via la pietra rotonda che ostruisce l’ingresso. Su di essa poi siede nella posa del vincitore: la morte è definitivamente sottomessa. L’angelo rimane fuori dal sepolcro, egli lo apre solo perché le donne possano entrando constatare che esso ormai è vuoto: ““Non è qui! – annuncia alle donne -… venite a vedere il luogo dove era deposto”. Gesù è già risorto! La resurrezione in se stessa non è descritta. Nelle teofanie all’uomo è dato di vedere ciò che circonda e accompagna il mistero, ma gli è impedito di afferrarlo in se stesso: esso rimane in-dicibile e in-comprensibile! All’evangelista interessa annunciare alla chiesa l’essenziale del mistero: all’alba di quel primo giorno della settimana vi fu l’intervento salvifico più grande e sconvolgente di Dio nella storia umana!
Veniamo alla presenza delle guardie: si tratta di un elemento peculiare del vangelo di Matteo. Non soltanto la pietra chiudeva il sepolcro, ma essa era anche sigillata e attentamente sorvegliata. La manifestazione di Dio sconvolge però le guardie. Il testo riferisce che queste rimasero come “cadaveri” (gr. nekroi), esse “tremano” (letteralmente “furono terremotate”; “scosse” trad. CEI) dinanzi all’imprevedibile. Le guardie, di allora e di sempre, sono testimoni impotenti della potenza di Dio, della sua libertà sovrana che non può certamente essere impedita da miseri calcoli politici umani. Sono ancora figura dell’incredulità e della menzogna, di allora e di sempre, a cui essa si aggrappa non accettando i fatti e costringendosi di conseguenza a manipolarli (28,11-15).
Anche le donne sono spaventate da ciò che accade, ma l’ammonimento dell’angelo è: “voi non abbiate paura”. È un invito ad aprirsi con fiducia all’ascolto e alla novità di Dio.
Arriviamo alla seconda funzione dell’angelo che potremmo definire “kerigmatica” nel senso che egli annuncia alle due donne il significato di ciò che vedono. Sempre le azioni di Dio necessitano infatti di una “parola” che le interpreti, che le “riveli” affinché l’ascoltatore possa farne esperienza. Alle due donne non era sufficiente il terremoto, e neppure il sepolcro vuoto per aprirsi al mistero della resurrezione. L’assenza del morto va spiegata! Non è il sepolcro vuoto che rende plausibile la resurrezione, ma è la resurrezione che rende plausibile il sepolcro vuoto. Ecco allora sulla bocca del messaggero – di allora e di sempre! – l’annuncio della pasqua: “Non è qui! È risorto! (egherthe!)”. Siamo al cuore della fede della Chiesa. Occorre per comprendere far memoria delle parole stesse di Gesù: “Come aveva detto”. Alla luce dell’annuncio possono iniziare a comprendere che ciò che è avvenuto in qualche modo era già contenuto nelle parole e nella vita di Gesù. Tutta la sua esistenza era stata vissuta nella certezza che il Padre suo non l’avrebbe abbandonato. Sarà questa l’evangelizzazione che il risorto stesso farà ai due discepoli diretti ad Emmaus (Lc 24).
A questa seconda funzione subentra la terza: il messaggero invita le due donne a divenire a loro volta evangelizzatrici nei confronti dei discepoli. Esse non devono, né possono, fermarsi a quella tomba vuota. E allora “presto, andate a dire ai suoi discepoli: È risorto dai morti” perché la Buona Notizia non tollera indugi.
L’appuntamento con tutti i discepoli da parte con il Risorto è dove tutto era iniziato: “vi precede in Galilea là lo vedrete”. È sempre lui il Signore, il buon pastore, che prende l’iniziativa e che apre la strada dove e quando lui vuole. Il “vedere” dei discepoli non dobbiamo ridurlo a una semplice esperienza ottica, fisica: sarà contrassegnato invece da un vivere l’incontro con il Vivente con un’apertura del cuore diversa: quella della fede capace di scorgerlo ormai ovunque. E’ questo il senso del “ritorno in Galilea”, quasi un ripercorrere in compagnia del Risorto, tutto il precedente cammino, potendone comprendere solo ora il pieno significato.
Ecco allora le due donne “correre con timore e gioia grande a dare l’annunzio ai suoi discepoli”. Gioia immensa che le superano incutendo nel medesimo tempo gioia e timore. Timore e gioia che, paradossalmente insieme, contraddistinguono sempre una grande esperienza di amore.
Ma è una corsa che improvvisamente si interrompe. Non più un angelo ma Gesù stesso si fa incontro alle donne. E’ la prima apparizione del Risorto, ed è narrata in termini quanto mai sobri, soprattutto se la paragoniamo con l’apparizione precedente dell’angelo. Potremmo definirla come un incontro informale tra due persone che si incontrano casualmente per strada. Gesù non aggiunge nulla di nuovo a quanto detto dall’angelo e ciò fa rimanere un po’ stupiti, ci si aspetterebbe qualche novità! Il motivo è che l’essenziale è già stato detto, non occorre aggiungere altro.
E la prima parola che il Risorto rivolge alle donne è: “Salute a voi”. La traduzione è un po’ banale; “chairete” non ha solo il valore di un saluto convenzionale del tipo “buongiorno” ma è anche il verbo dell’invito alla gioia: “gioite, rallegratevi!”. L’invito alla festa è la prima parola del risorto all’umanità!
Le donne si avvicinano a Gesù, si prostrano in adorazione abbracciando i suoi piedi. La scena è qui tutta pervasa dalla fede che nel corpo del Crocifisso Risorto si manifesta la gloria di Dio: non rimane che gioire ed adorare. Questi gesti dicono molto più di tante parole, sono come il gesto silenzioso della donna che cospargeva con l’olio di nardo i piedi di Gesù (cfr Mc 14,1ss). Il gesto d’abbracciare i piedi è fortemente sottolineato: il verbo (ekratesan) esprime l’afferrare saldamente, lo stringere con forza: è il gesto istintivo di una gioia sconfinata che abbracciando stringe talmente fino a far male. Gesù non si sottrae a questo abbraccio di adorazione.
Ma una novità, a dir del vero, c’è: Gesù chiama per la prima – e unica – volta i “suoi” discepoli “miei fratelli”: “Andate ad annunciare ai miei fratelli”. I credenti non devono più rapportarsi a Gesù semplicemente come discepoli nei confronti del Maestro; la risurrezione ha ormai aperto la possibilità di una relazione nuova e intima con il Padre al quale Gesù ci introduce come “fratelli suoi”. Egli ci ha fatto dono della sua stessa vita e della sua obbedienza filiale. Siamo perciò ormai “figli nel Figlio” per usare l’espressione cara ai padri.
Le due donne sono divenute testimoni, non sono solo messaggere: hanno “visto, udito, toccato” (cfr 1Gv 1). Prime apostole ed evangeliste della buona Notizia affidata alla Chiesa!
Collatio
Leggo oggi sul giornale la notizia: “In Olanda, tre neonati sepolti nel giardino di una casa a Geleen: arrestata una donna”. È una notizia tra le tante dello stesso tono che sentiamo quasi ogni giorno. Se nell’’82 lo scrittore Kundera scriveva il romanzo “L’insostenibile leggerezza dell’essere”, la sensazione che avvertiamo ora dietro questi terribili fatti la potremmo definire come “l’insostenibile leggerezza del vuoto”. Una vita vuota colma di una angoscia, spesso inconscia e senza nome, che si trasforma, proprio perché “insostenibile” alla ragione, in violenza più o meno esplicita su di sé o su altri. Assistiamo a un crescente disprezzo della vita perché l’esistenza umana appare priva di valore, e lo è perché percepita senza senso, spalancata sull’assurdo di una libertà senza scopo e sospesa nel vuoto, destinata al nulla. Per tanti la vita diventa, come per Giobbe, una condanna più che un dono: “Perché dare la luce a un infelice e la vita a chi ha l’amarezza nel cuore, a quelli che aspettano la morte e non viene,che la cercano più di un tesoro, che godono alla vista di un tumulo, gioiscono se possono trovare una tomba…” (Gb 3,20-22).
L’uomo è costretto, prima o dopo, a visitare il sepolcro della sua vita: un sepolcro non solo che prima o dopo chiuderà il suo cadavere, ma che già ora rinchiude delusioni, insuccessi, insoddisfazione, rabbia, incapacità di dare risposte al senso della bellezza e del dolore, e soprattutto della morte. Sempre buone le parole del cupo Foscolo per descrivere questo stato d’animo: “Anche la Speme, ultima Dea, fugge i sepolcri: e involve tutte cose l’obblío nella sua notte” (I sepolcri). Senza speranza “ultima dea” perché non raggiunti dall’annuncio della Buona Notizia della Risurrezione del Crocifisso ci recheremmo tutti, come le due donne, in visita al sepolcro del nazareno e nostro con il cuore sprofondato in una nostalgia di una vita diversa nella quale sia lei e non le nostre innumerevoli “morti” a trionfare sul nulla avvertito dalla ragione come “contro natura”.
Anche il credente non è esonerato da un quotidiano cammino di visita “a quel sepolcro” che spesso attanaglia la sua stessa esistenza e la sua fede. Anch’egli fa sue le parole del salmista e di Gesù sulla croce: “Salvami dal fango, che io non affondi, liberami dai miei nemici e dalle acque profonde. Non mi sommergano i flutti delle acque e il vortice non mi travolga, l’abisso non chiuda su di me la sua bocca” (Sal 68,15s). Anche il credente, come ogni uomo e donna sulla faccia della terra, ha bisogno di udire e risentire incessantemente le parole del messaggero evangelista che annuncia: “Non è qui! È risorto!”.
La liturgia della Chiesa non è altro che un continuo aiutarci a fare memoria di questo annuncio celebrandolo come cuore sempre palpitante della nostra speranza che ossigena continuamente il cammino della vita di ciascuno, della Chiesa, dell’umanità intera: “Annunciamo la tua morte Signore, proclamiamo la tua risurrezione”. Attraverso la Chiesa, angelo che sta sempre seduto sulla pietra tombale ormai rovesciata per sempre, l’annuncio della pasqua continua a risuonare al mondo intero: “Ci rendiamo conto che si tratta di un annuncio sconvolgente, che cambia la vita? Se Cristo non è risorto, la croce non ci salva, la causa del regno è sconfitta e la chiesa non ha più nulla da dire. Ma il nostro Dio è grande nell’amore e non finisce di stupire: ridona agli uomini come salvatore il proprio Figlio che essi hanno rifiutato e ucciso. Mediante il Crocifisso Risorto il Padre si fa definitivamente vicino ai peccatori, ai poveri, agli ammalati, ai falliti della storia, ai morti inghiottiti dalla terra” (Cei, Questa è la nostra fede, 11).
Se Cristo è risorto allora tutto cambia! Se la prospettiva della mia vita è la mia resurrezione, il vivere in un’eternità di luce e di gioia, di comunione eterna con Dio e i miei fratelli che mi hanno preceduto e seguiranno, allora tutta la vicenda mia e dell’umanità, la mia storia e quella dell’umanità, cambiano radicalmente prospettiva. Non siamo più condannati all’assurdo, all’incapacità di dare risposta all’enigma dell’esistenza. Siamo definitivamente liberati dall’angoscia di un Leopardi che, facendosi voce dell’angoscia dell’uomo privo di fede affermava: “Pare che l’essere delle cose abbia per suo proprio e unico obbietto il morire. Non potendo morire quel che non era perciò dal nulla scaturiscono le cose che sono” (Operette morali). Finalmente all’uomo è donata una parola, o meglio un “avvenimento”, capace di abbattere un muro impossibile e di offrire una luce inaspettata.
Chiaramente un tale annuncio non può non provocare un “terremoto” nella coscienza di chi lo ascolta. Di fronte ad esso i colti ascoltatori dell’apostolo Paolo ad Atene reagirono non certo con entusiasmo: “Quando sentirono parlare di risurrezione di morti, alcuni lo deridevano, altri dissero: «Ti sentiremo su questo un’altra volta»” (At 17,32). La vita, alla luce della resurrezione, viene infatti radicalmente riletta nelle sue premesse. Le guardie e le donne sono raggiunti dagli stessi segni: le donne vengono, guardano, si spaventano, gioiscono, corrono ad annunciare, dall’altra le guardie sono ferme, bloccate, rigide nella loro cadavericità, disposte a manipolare i fatti per cercare di tarpare la verità. La differenza è chiara: non basta essere lì nei pressi del sepolcro, tutto dipende dal “come” si è lì perché questo divenga annuncio di vita. Si tratta di lasciarsi “terremotare” dalla Parola!
La fede accordata all’annuncio, l’incontro con il risorto, non scaturiscono di certo dagli “effetti speciali” di qualche prodigio, ma richiedono una disponibilità all’ascolto e il coraggio di un cammino da percorrere che non tutti sono disposti a compiere. È un annuncio che si offre nella debolezza e stoltezza della predicazione e della testimonianza il più delle volte umile e nascosta: “infatti nel disegno sapiente di Dio il mondo, con tutta la sua sapienza, non ha conosciuto Dio, è piaciuto a Dio di salvare i credenti con la stoltezza della predicazione” (1Cor 1,21). Lo stile di Dio e dei suoi testimoni non è quello di stupire, ma di donarsi alla libertà dell’uomo. Penso alla grande e umile testimonianza di Teresa di Calcutta: la sua vita fu annuncio straordinario di risurrezione con il suo semplice e materno chinarsi sull’ultimo lebbroso emarginato, sul moribondo abbandonato ai margini della strada! Come è possibile questo se non nella consapevolezza della dignità e della bellezza di ogni vita chiamata all’eterno? Il Risorto si fa ancora presente sotto le sembianze del pellegrino, dell’ortolano o del pescatore. Occorrono occhi trasfigurati per incontrare il Trasfigurato! Ed incontrarlo sarà sempre una grazia. Quando lo incontreremo di fatto scopriremo che Lui era già presente, presente nella sua Parola, presente nell’eucarestia, presente nel sacramento del perdono, presente nella mia comunità di discepoli benché povera e scalcinata, presente nel volto del mio fratello, del povero che bussa alla porta o nel sorriso del bambino che incontro per strada. Presente nel cantico della creazione nella bellezza e trasfigurazione a cui è destinata.
Quale la prova che ci dirà che è avvenuto l’incontro con il Risorto? Semplice. Se il cammino delle due donne verso il sepolcro è segnato dalla tristezza, dallo sconforto, da un senso impotente di vuoto, quello del loro ritorno al Cenacolo è una corsa straripante d’una incontenibile gioia che non attende altro che d’esser comunicata. La gioia dell’incontro non potrà essere trattenuta per sé. Saranno nostre le parole di Geremia: “nel mio cuore c’era come un fuoco ardente, chiuso nelle mie ossa; mi sforzavo di contenerlo, ma non potevo” (20,9).
Concludendo possiamo affermare che solo a condizione che l’annuncio del kerygma ritorni ad essere il cuore palpitante della chiesa la proposta cristiana potrà superare gli insufficienti ambiti in cui la si è voluta rinchiudere o che abbiamo noi stessi preferito ridurla: penso ad una presentazione di essa in termini di semplice dottrina religiosa, di una proposta morale, di un insieme di valori atto a facilitare la convivenza umana, o di vaga salvezza in un “qualcosa” riservata all’aldilà. La fede del cristiano è incontro non con qualcosa ma con Qualcuno, con un volto e un nome: Gesù di Nazareth il crocifisso risorto! Solo a questa stessa condizione potrà rinascerà l’anelito oggi affievolito di un’autentica missione non ridotta a meschina “propaganda religiosa”. Essa sarà comunicazione di un’esperienza! Che l’incontro con Gesù risorto conduca tutti noi a dire con l’apostolo Giovanni che “ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita… quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi… perché la vostra gioia sia perfetta” (1Gv 1,1-4).
Oratio
“Ancora una volta veniamo, o Signore, ancora una volta per cantare la Pasqua.
Che ostinazione!
Per sfidare con te le forze delle tenebre e per gridare,
per credere ancora che la notte non può impedire a Dio
di far levare la luce.
Ancora una volta veniamo per raccogliere da te la speranza,
per trovare la gioia che si innalza nonostante i dubbi e le paure,
per accogliere da te la gioia capace di far fronte a conflitti e difficoltà,
per ricevere da te la vita che nulla può schiacciare,
neppure la pietra del sepolcro.
Ancora una volta veniamo per vedere all’opera te, Signore Dio nostro,
il cui lavoro, fin dall’inizio dei tempi,
consiste nel donare senza posa la vita per sempre. Amen”.
(Charles Singer).