Amore che mai s’arrende
Un’infedeltà scandalosamente perdonata:
Osea 11,7-9;14,2-9
di p. Attilio Franco Fabris
Messaggio centrale
L’ultima parola sulla storia non sarà quella dell’uomo contrassegnata da ripetute infedeltà. Essa sarà unicamente quella di Dio il quale, nella sua gratuità, rimane instancabilmente fedele alla sua Promessa di Alleanza con l’uomo.
Dinanzi all’insistente infedeltà da parte dell’uomo, Dio risponde “scandalosamente” stendendo sempre per primo la mano e offrendo la riconciliazione. Questa rivelazione viene ci viene data attraverso il ministero profetico di Osea.
Osea si è sposato su indicazione di Dio stesso (cfr 3,1) con Ghomer, una prostituta molto attraente e leggera, la quale forte del suo fascino non esita, anche dopo il suo matrimonio, a concedere i suoi favori ai suoi innumerevoli amanti. Questa donna infine non trova di meglio che abbandonare il povero marito Osea dandosi nuovamente alla sua attività precedente. Osea rimane solo, abbandonato, umiliato nella sua dignità di uomo e di marito.
Al suo dramma di uomo si aggiunge, per lui, anche il dramma del profeta: Dio tace. Passano gli anni e anche l’affascinante Gomer invecchia, la sua bellezza decade, i suoi successi amorosi iniziano a declinare. Ella inizia a ripensare agli anni trascorsi con il marito Osea (cfr 2,9) e a valutare la prospettiva di un ritorno a lui; pensa tra sé: “Ritornerò al mio marito di prima perché ero più felice di ora” (cfr Lc 15,18). Così decide di riprendere i contatti col suo vecchio marito. Osea è nel contempo contento e turbato: esitante tra un amore che sussiste ancora e un amore offeso e ferito. E’ proprio in questa situazione che Dio finalmente gli rivolge la sua parola: la richiesta del Signore è sconcertante: “Riprendi Gomer con te e amala nuovamente!”. Il che sta a significare in altre parole: “Vedi Osea se mi si dimentica quando tutto va bene e non ci si ricorda di me che nei momenti difficili, credi tu che io possa accettare questo? Credi che io non ne soffra? Eppure guarda: ogni volta io riaccolgo il mio popolo: Dunque anche tu Osea, abbi il coraggio di riprendere con te la tua donna, proprio quella che ti ha tradito! Questo sarà un segno per Israele del mio amore che rimane fedele nonostante le sue ripetute infedeltà e abbandoni”.
Il testo che ora ascolteremo ci presentano delle parole, pronunciate da Dio, che aprono uno spiraglio preziosissimo nel mistero insondabile sul suo cuore: in esse risuona una sbalorditiva e appassionata dichiarazione d’amore per il “suo” popolo, un amore che giunge a lasciarsi ferire e uccidere pur di non venir mai meno alla promessa:
Il mio popolo è duro a convertirsi:
chiamato a guardare in alto
nessuno sa sollevare lo sguardo.
Come potrei abbandonarti, Efraim,
come consegnarti ad altri, Israele?
Come potrei trattarti al pari di Admà,
ridurti allo stato di Zeboìm?
Il mio cuore si commuove dentro di me,
il mio intimo freme di compassione.
Non darò sfogo all’ardore della mia ira,
non tornerò a distruggere Efraim,
perché sono Dio e non uomo;
sono il Santo in mezzo a te
e non verrò nella mia ira. (11,7-9)
Di fronte al tradimento dell’alleanza da parte dell’uomo la sentenza di condanna sarebbe di per sé già inappellabile. Eppure al tradimento Dio non risponde con la vendetta ma con una sconcertante disponibilità ad offrire un perdono incondizionato di cui lui solo è protagonista. Un uomo o una donna cederebbero naturalmente alla collera dinanzi ad un tradimento ripetuto della persona amata appassionatamente; eppure Dio reagisce in modo diverso: “Non sfogherò – come sarebbe “normale” umanamente – il bollore della mia ira”.
Israele allontanatosi da Dio “prostituendosi” ad altre divinità si ritrova ora in una situazione di fallimento: le false speranze e attese riposte altrove si sono rivelate illusorie e inconsistenti. La reazione di Dio lascia allibiti: “Come abbandonarti?….Come?”: egli si rivolge al suo popolo in termini di tenerezza e dolcezza misti a dolore. Egli non può distruggere ( come fece con le città di Zeboim e Adma: cfr. Gn 19,25) ciò che con tanto amore ha creato e amorosamente fatto crescere; non lo può fare perché il suo cuore “si commuove” cosicché l’amore prevale sulla punizione: “Il mio intimo freme di compassione”. Questo intimo sono le viscere materne di Dio, quelle stesse a cui i vangeli faranno riferimento parlando della compassione di Gesù per l’umanità ferita che lo circonda (cfr Mc 1,41; Mt 9,36).
Sorge spontanea la domanda: tutto questo perché? Infatti Israele non ha alcun “merito” da rivendicare presso Dio. Il motivo dell’intervento salvifico di Dio sta unicamente nella sua “santità”: “Perché sono Dio e non uomo, sono il Santo in mezzo a te”. Affermare la “triplice santità” di Dio è affermare la sua essenziale diversità dall’uomo, e questa si rivela eminentemente nell’amore a fondo perduto, incondizionato e gratuito che è unicamente suo. Paolo apostolo un giorno ribadirà questa certezza nella fedeltà dell’amore del Padre: “se noi manchiamo di fede, egli però rimane fedele, perché non può rinnegare se stesso” (2Tm 2,13).
A questo punto Osea può rivolgere il suo accorato invito al popolo perché abbandoni le strade che lo conducono lontano dal suo Signore e sposo, ritorni a JHWH che da sempre lo ha amato e perdonato:
Torna dunque, Israele, al Signore tuo Dio,
poiché hai inciampato nella tua iniquità.
Preparate le parole da dire
e tornate al Signore;
ditegli: «Togli ogni iniquità:
accetta ciò che è bene
e ti offriremo il frutto delle nostre labbra.
Assur non ci salverà,
non cavalcheremo più su cavalli,
né chiameremo più dio nostro
l’opera delle nostre mani,
poiché presso di te l’orfano trova misericordia»
(14,1-4)
“Ritornare” è il verbo tipico della conversione; si tratta di un volgersi indietro prendendo atto di aver smarrito la strada: “Tu ritorna al tuo Dio, osserva la bontà e la giustizia e nel tuo Dio poni la tua speranza, sempre” (12,7). Il tornare a Dio implica evidentemente un riconoscere il proprio errore attraverso un pentimento sincero che fuoriesca non solo delle labbra bensì del cuore: “Preparate le parole da dire” (cfr Lc 15,18). In questo cammino interiore di “ritorno” non saranno sufficienti solo alcuni atti di culto esterni che non intaccano la durezza del cuore: “Sia il tuo sacrificio a Dio la confessione del tuo peccato… confessare il peccato è il sacrificio che mi onora” (Sal 50,14.23; cfr Is 1,11).
Dopo tale invito generale Osea porta alcuni esempi concreti di questi atti di pentimento: anzitutto il rifiuto di ricercare sicurezze all’infuori di Dio: “Assur non ci salverà, non cavalcheremo più cavalli”. Soprattutto Israele dovrà riconoscere la stoltezza e l’abominio del suo essersi prostituito facendosi schiavo di altri dei: “non chiameremo più Dio nostro l’opera delle nostre mani”.
A questa umile confessione di pentimento e ai seri propositi di emendamento risponde ora Dio sempre per bocca del profeta:
Io li guarirò dalla loro infedeltà,
li amerò di vero cuore,
poiché la mia ira si è allontanata da loro.
Sarò come rugiada per Israele;
esso fiorirà come un giglio
e metterà radici come un albero del Libano,
si spanderanno i suoi germogli
e avrà la bellezza dell’olivo
e la fragranza del Libano.
Ritorneranno a sedersi alla mia ombra,
faranno rivivere il grano, coltiveranno le vigne,
famose come il vino del Libano (14,5-8).
Israele ha portato dinanzi al Signore l’unico frutto che poteva offrire: l’umile confessione della propria infedeltà che è malattia incurabile causata da una insanabile durezza di orecchio e di cuore resi incapaci di ascolto della Parola e di affidamento alla Promessa. Da questa malattia si può essere tuttavia guariti solo dalla mano di Dio: “Io li guarirò dalla loro infedeltà”, e questa azione “terapeutica” è frutto di un amore che prende da se stesso l’iniziativa: “li amerò di vero cuore”.
E’ un amore straordinario quello di Dio, capace di ricreare una nuova vita (si parla di: “rugiada… fiorire… mettere radici… germogli….”). La sposa infedele sentendosi amata, senza alcun suo merito, di un amore eterno può ora ravveduta riposare tranquilla all’ombra dello sposo. La festa può aver inizio (cfr Lc 15,23):
“Ti farò mia sposa per sempre, ti farò mia sposa nella giustizia e nel diritto, nella benevolenza e nell’amore, ti fidanzerò con me nella fedeltà e tu conoscerai il Signore” (Os 2,21-22).
Per la riflessione
Osea ci annuncia un Dio appassionato e pazzamente innamorato della sua creatura, nonostante i ripetuti tradimenti. Ma il suo è un amore che non vacilla perché non si misura in base alla nostra risposta, che non vive di contraccambio: un amore che si lascia ferire, e uccidere pur di non distruggere l’oggetto della sua benevolenza.
E’ un annuncio che ci prepara ad accogliere la stoltezza dell’amore crocifisso: “Infatti, mentre noi eravamo ancora peccatori, Cristo morì per gli empi nel tempo stabilito… Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi” (Rm 5,6.8).
Preghiera conclusiva
Voglio ricordare le mie passate sozzure,
le oscurità della mia anima,
non perché le ami, ma per amare te, Dio mio.
Lo faccio per amore del tuo amore,
rievocando le mie vecchie strade perverse.
Il ricordo è amaro, ma spero che mi riesca dolce tu,
dolcezza che non inganna, dolcezza felice e sicura.
E per amore del tuo amore,
tendo a raccogliere me stesso
dalla dispersione in cui mi trovai,
frantumato in mille pezzi,
quando, allontanandomi da te,
che sei l’Uno, mi ridussi a un nulla,
sperdendomi nei molti. (Agostino di Ippona, Confessioni)