• 30 Mar

    Dalla notte della schiavitù al mattino della liberazione

    Es 14

    di p. Attilio Franco Fabris


    In Esodo 14 ci troviamo di fronte ad un testo che, nel suo insieme e nella sua redazione finale è tutto un documento di fede. Ciò che interessa all’autore biblico non è tanto riportare esattamente come si siano svolti “storicamente” i fatti, ma il raccontare il significato esistenziale che Israele ha attribuito a questi fatti. Si tratta di una dimensione “storica” diversa, ma molto più profonda di una ricerca dei “nudi fatti”. Perciò il testo biblico per essere letto e compreso in tutta verità deve essere accolto come documento di fede, come un testo che riporta degli eventi che sono stati capiti alla luce del Signore da persone coscienti del fatto che tutta la storia umana si volge davanti a lui e in essa Egli va disegnando la sua storia di salvezza.

    L’evento raccontato da esodo 14 contiene un significato che si inscrive nella vicenda del popolo santo di Dio, di Gesù di Nazaret, della Chiesa, di ciascuno di noi. E’ una tappa della storia della salvezza che pur godendo della sua autonomia storica, diviene per tutti modello paradigmatico.

    Esodo 14 racconta quella che è una tappa fondamentale della storia della salvezza, una tappa che dovrà restare impressa nella memoria e nel cuore e del quale il popolo dovrà celebrarne il memoriale ogni anno nella festa della Pasqua perché quello che Israele capisce di se stesso e della sua identità e soprattutto di Dio si compie proprio nel Mare di Suf. Momento così decisivo che quando Dio si rivolgerà al popolo in seguito, lo presenterà sempre come propria carta da visita: “Voi avete visto ciò che ho fatto all’Egitto… come vi ho condotti a mano alzata e braccio teso” Es 19,4; “Io sono JHWH, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dalla terra d’Egitto, da una casa di schiavitù” (Es 20,2 inizio del decalogo); “Tu risponderai a tuo figlio: Noi eravamo schiavi del faraone in Egitto e IHWH ci ha fatto uscire dall’Egitto con mano potente” (Dt 6,21);  “Gli Egiziani ci maltrattarono, ci oppressero, ci imposero una dura schiavitù. Allora gridammo al Signore Dio dei nostri padri, ed egli ascoltò la nostra voce, vide la nostra miseria e la nostra oppressione e ci fece uscire dall’Egitto con mano forte, con braccio teso, con terrore grande, con segni e prodigi” (Dt 26,7-8).

    Un altro aspetto di cui tenere conto nella Lectio del nostro brano è il suo contesto. Un testo staccato dal suo contesto rischia di risultare incomprensibile, sicuramente risulta molto più povero di contenuto e messaggio. Il capitolo 14 di esodo risolve quella tensione che era iniziata sempre più acuendosi dal primo capitolo del libro.

    Il capitolo primo si conclude con la decisione del faraone di far uccidere tutti i figli maschi degli ebrei (v. 22).

    Nel capitolo 14-15 assistiamo al ribaltamento della situazione: il pianto si trasforma in canto di gioia, mentre l’Egitto piange la morte dei suoi primogeniti (Es 12,29-30). Israele è salvo sull’opposta riva del mare e vede i suoi nemici affogati (Es 14,30-31).

    I capitoli intermedi (7-12) descrivono i tentativi di liberazione da parte di Israele per la mediazione di Mosè e Aronne con le dieci piaghe inferte agli egiziani. Quando Dio interviene per operare la sua salvezza, il “mondo-Egitto” oppone una resistenza indicibile, perché non vuole essere salvato. C’è un combattimento, una lotta da intraprendere contro queste forze negative che si annidano nel cuore umano. Il nemico è anzitutto dentro di noi, l’uomo vecchio che ostacola l’opera di Dio. Questo male in noi si annida, si camuffa, agisce nel nascondimento facendoci costruire ad esempio un Dio a nostra misura ed immagine, che combatte il volto del vero Dio. Si deve lottare lungamente contro il peccato annidato nei punti oscuri del nostro cuore, perché si riveli il vero volto del Signore in noi e vengano abbattuti tutti i falsi dei costruiti dalle nostre mani.

    Tutta la scena di Es 14 si colloca in una precisa dimensione spazio temporale. Israele è accampato presso il mare. Lo spazio della vicenda è contrassegnato dal mare e dall’asciutto. Il testo poi è costruito perché tutta la vicenda si svolga nell’arco di una nottata, comprese la sera precedente e la mattina seguente.

    E’ sera quando gli egiziani raggiungono Israele in riva al mare, e il popolo grida di terrore.

    E’ notte quando il mare viene attraversato.

    Ed è mattina quando Mosè e tutto Israele contemplano ciò che Dio ha operato per loro ed esplodono nel canto di gioia (Es 15).

    Il mare, la notte, il giorno sono tutte realtà cariche di valore simbolico. Perciò occorre farne una lettura che tenga conto del valore emblematico e paradigmatico dell’evento che viene narrato.

    E’ possibile suddividere il capitolo in tre grandi atti, tre atti del grande dramma che si svolge nel Mare di Suf.

    L’angoscia di trovarsi senza vie di uscita: vv. 1-14

    Es 14,2 «Di’ ai figli d’Israele di ritornare e di accamparsi di fronte a Pi-Achirot, tra Migdol e il mare, di fronte a Baal-Zefon: vi accamperete davanti a quel luogo, ai bordi del mare.

    La parola “mare-acque” è ripetuta con insistenza in tutto il capitolo. Il mare è simbolo del male, di forze minacciose che richiamano potenze infernali, è simbolo dunque di morte. In Gn 1,2 prima della creazione esisteva un abisso tenebroso di acque, un caos primordiale, informe, senza vita. Sarebbe interessante un richiamo alla vicenda di Giona inghiottito dal pesce che lo trascina nelle profondità tenebrose del mare. In questa situazione di angoscia e di morte egli prega: Nella mia angoscia ho invocato il Signore ed egli mi ha esaudito; dal profondo degli inferi ho gridato e tu hai ascoltato la mia voce. Mi hai gettato nell’abisso, nel cuore del mare e le correnti mi hanno circondato; tutti i tuoi flutti e le tue onde su di me sono passati… Le acque mi hanno sommerso sino alla gola, l’abisso mi ha avvolto… Ma tu hai fatto risalire dalla fossa la mia vita”: Il tema è molto ricorrente sia nell’AT come nel NT: Perciò ti circondano i lacci e sei turbato da un repentino spavento, oppure un’oscurità non ti fa vedere, e una piena d’acqua ti sommerge. (Gb 22,10-11): Estraimi dal fango, che io non sprofondi, che sia strappato da quelli che mi odiano, e dagli abissi delle acque. Non mi sommerga la corrente delle acque, non m’inghiottisca il pantano e la voragine non chiuda su di me la sua bocca. (Sal 69,15-16); “Nel frattempo si sollevò una gran tempesta di vento e gettava le onde nella barca, tanto che ormai era piena.(Mc 4,37): Sbattuti violentemente dalla tempesta, il giorno seguente cominciarono a gettare a mare il carico; (At 27,18). Il mare dunque è uno dei protagonisti del dramma, è nemico dell’antico e del nuovo Israele.

    Il v. 9 ci presenta gli israeliti accampati “presso il mare”.

    Il faraone li sta inseguendo “a mano alzata” (v. 8): spavaldo e arrogante, certo della sua vittoria e forte del suo esercito: Il faraone allora attaccò il cocchio e prese con sé i suoi soldati. Prese poi seicento carri scelti e tutti i carri di Egitto con i combattenti sopra ciascuno di essi (vv. 6-7)

    Israele è senza vie d’uscita: il mare davanti, il faraone e il suo esercito dietro, il deserto ai lati: Quando il faraone fu vicino, gli israeliti alzarono gli occhi: ecco, gli egiziani muovevano il campo dietro loro! Allora gli israeliti ebbero grande paura e gridarono al Signore (v. 10).  Quindi urla di paura, di terrore all’indirizzo non tanto di Mosè quanto di Dio stesso. L’angoscia lo attanaglia: Israele circondato dal pericolo, dimentica Dio, implicitamente accusandolo di non averlo realmente liberato, ma di averlo fatto uscire dalla schiavitù solo per farlo morire nel deserto.

    Così il salvatore può assumere nell’immaginario dettato dall’angoscia la fisionomia distorta di un aguzzino, mentre il nemico può apparire improvvisamente come l’unica ancora di salvezza. La paura getta nella menzogna, da cui si è assolutamente incapaci di uscire da soli:            Forse perché non c’erano sepolcri in Egitto ci hai portato a morire nel deserto? Che hai fatto portandoci fuori dall’Egitto? Non ti dicevamo in Egitto: Lasciaci stare e serviremo gli egiziani, perché è meglio per noi servire l’Egitto    che morire nel deserto? (vv. 11-12). Appare evidente nel testo l’antitesi Egitto/deserto: un’alternativa di fronte alla quale Israele si sente posto. E la vita da schiavi sembra migliore della morte nel deserto. L’Egitto, terra di schiavitù, diviene oggetto di nostalgia. Il deserto appare alternativa che trascina nella morte. Per due volte le parole deserto-morire sono congiunte.

    A questo punto la parola di Mosè è decisiva per ricondurre la coscienza del popolo alla verità: Non abbiate paura! Siate forti e vedrete la salvezza che il Signore oggi opera per voi; perché gli egiziani che oggi vedete, non li rivedrete mai più! Il Signore combatterà per voi, e voi state fermi e in silenzio (v. 14). Mosè domanda fiducia e capacità di attesa, e questo in una situazione altamente drammatica di cui ne va di mezzo la vita.(“Destatosi, sgridò il vento e disse al mare: «Taci, calmati!». Il vento cessò e vi fu grande bonaccia. Poi disse loro: «Perché siete così paurosi? Non avete ancora fede”. Mc 4,39-40)

    Si tratta di aprirsi alla “speranza contro ogni speranza” (Rm 4,18 “Abramo credette, al di là di ogni speranza”). Una capacità di “vedere” l’Altro mentre istintivamente saremmo portati a ripiegarci su noi stessi e le nostre paure.

    Ma occorre fare attenzione: le parole di Mosè, non significano che, nelle situazioni terrificanti della nostra vita, Dio viene a metterci una mano sulla spalla per consolarci, dicendoci: “Coraggio, adesso vengo io, ti prendo e sarai salvo!”. Dio ci salva facendoci passare attraverso la morte! (E diceva: «Abbà, Padre! Tutto è possibile a te, allontana da me questo calice! Però non ciò che io voglio, ma ciò che vuoi tu» Mc 14,36)

    Così si chiude il primo atto: con l’angoscia e il terrore che percorre il popolo e con l’invito di Mosè ad aprirsi alla fiducia in Dio.

    Se dovessimo poi domandarci il senso di quest’angoscia potremmo rispondere che esso  diviene in qualche modo indispensabile affinché Israele  sperimenti fino in fondo la sua debolezza e precarietà, la sua radicale incapacità a salvarsi con le proprie mani.

    Tutto questo Dio lo opera perché non intende salvarci senza di noi. La promessa contenuta in Es. 14,4 non viene mantenuta da Dio automaticamente, perché la sua salvezza non si opera quasi mai come per un atto magico, bensì suppone e include l’adesione della mia libertà. Io, con la percezione del mio bisogno di essere salvato e con la convinzione della mia totale incapacità a operare la salvezza con le mie mani, so che devo lasciarmi salvare dall’unico Salvatore. Il Signore non opera miracoli senza di noi. Forse anche per questo, prima di questo evento prodigioso di salvezza, che trova espressione piena in Es 15, tutta una lunga serie di fatti ha dovuto precedere: la chiamata di Mosè e di Aronne, la loro mediazione, le dieci piaghe… Un lungo cammino perché il popolo, che ha iniziato così a sperimentare che il Signore salva davvero dal momento che l’ha già fatto uscire dall’Egitto, capisca che, anche quando è preso nella morsa del terrore più cupo e ha davanti a Sé solo la morte, in realtà, prima di tutto, si trova pur sempre di fronte al Signore, il quale ancora lo salverà attraverso la via dell’impossibile.

    Attraversare il mare…di notte:  vv. 15-25

    Il secondo atto comincia con un nuovo ordine dato da Dio a Mosè perché Israele riprenda il cammino. Israele si trova così ad affrontare una paura ancor più angosciosa: passare il mare con tutto quello che significa: Il Signore disse a Mosè: «Perché gridi verso di me? Di’ ai figli d’Israele di partire. Tu alza il tuo bastone e stendi la tua mano sopra il mare e si separi, e i figli d’Israele passino in mezzo al mare all’asciutto. (vv.15-16)

    Il passaggio avviene di notte e in silenzio. Dio fa percepire la sua presenza in una colonna di nube. Il Signore c’è, ma è nascosto dalla nube. Il v. 20 letteralmente andrebbe tradotto: Ci fu la nube e l’oscurità; ed essa rischiarò la notte. Una notte stranamente rischiarata dalla nube. Simbolo di sofferenza, terrore e morte, la notte è illuminata da “un’altra notte” la quale è però quella della nube, che nasconde la presenza di JHWH. Quindi la notte, pur tenebrosa, piena di forze oscure e mortali può diventare il luogo della presenza salvifica di JHWH per chi ha occhi per riconoscerla: Allora ho detto: «Almeno le tenebre mi potrebbero coprire, la notte mi potrebbe racchiudere». Ebbene, non sono oscure per te le tenebre, e la notte risplende come il giorno, come le tenebre così è la luce (Sal 139,11-12). A un certo punto la nube passa alla retroguardia, sì da illuminare gli israeliti e da oscurare gli egiziani. Per gli uni luce, per i nemici notte: è la luce della fede che solo il credente riesce a scorgere!

    Ormai Israele, che ci vede, non può più tornare indietro e non sono più possibili ripiegamenti nostalgici; il passato di schiavitù è finito per sempre. Dio non permette che il suo popolo ritorni indietro; egli ha frapposto la sua Shekhinah tra Israele e l’Egitto. Dio diviene scudo e schermo tra il nemico ed Israele: Anche se camminassi in una valle oscura, non temerei alcun male, poiché tu sei con me; il tuo bastone e il tuo vincastro sono essi la mia difesa. Una mensa tu prepari davanti a me di fronte ai miei avversari, hai unto con olio il mio capo e la mia coppa è traboccante (Sal 23,4-5).

    Allora Mosè stese la mano sul mare. E il Signore, durante tutta la notte, risospinse il mare con un forte vento d’oriente, rendendolo asciutto; le acque si divisero. Gli israeliti entrarono nel mare sull’asciutto, mentre le acque erano per loro una muraglia a destra e a sinistra (vv. 21-22). Israele avanza in mezzo al mare che sembra inghiottire da un momento all’altro ogni cosa. Eppure quella strada così pericolosa è via di salvezza: tutto è nelle sue mani e tutto serve per salvare. Solo JHWH può servirsi del vento-ruach-Spirito per rendere il mare terra asciutta, la morte vita. Ma si deve avere il coraggio di entrare nel mare, nell’acqua, nella morte, rischiando tutto e fidandosi completamente di lui: Pietro gli disse: «Signore, se sei tu, comanda che io venga da te sulle acque». Ed egli disse: «Vieni!». Pietro, scendendo dalla barca, si mise a camminare sulle acque e andò verso Gesù. (Mt 14,28-29)

    Il canto della liberazione: vv. 26-31

    Il terzo atto del dramma contiene l’ultimo comando di Dio: Il Signore disse a Mosè: “Stendi la mano sul mare: le acque si riversino sugli egiziani, sui loro carri e i loro cavalieri”. Mosè stese la mano sul mare e il mare, sul far del mattino, tornò al suo livello consueto, mentre gli egiziani, fuggendo, gli si dirigevano contro. Il Signore li travolse così in mezzo al mare (vv. 26-27). Il Signore combatte e distrugge il nemico di Israele. Cosa significa questo combattimento? Se un combattimento c’è stato, questo non è stato combattuto né da Dio, né da Israele, ma i nemici dell’uno, e quindi anche dell’altro, si sono affrontati distruggendosi tra di loro. Le acque vengono qui quasi personificate e diventano un soggetto che prende l’iniziativa di travolgere gli egiziani: Le acque ritornarono e sommersero i carri e i cavalieri di tutto l’esercito del faraone, che erano entrati nel mare dietro a Israele: non ne scampò neppure uno (v. 28).

    Gli egiziani si dirigevano contro il mare: sono andati essi stessi a buttarglisi tra le braccia per farsi travolgere. In una lettura dell’Antico Testamento risulta sempre che i nemici di Israele sono i nemici di Dio e viceversa. Poiché Israele è il popolo di Dio, il sacramento della strategia della salvezza escogitata da Dio per tutti i popoli, l’appartenenza a JHWH lo costituisce nella sua identità profonda. Coloro che attentano alla vita dell’eletto, implicitamente od esplicitamente attentano al disegno salvifico di Dio, non vogliono lasciarsi salvare da lui.

    Il male che emerge dal confronto col Signore è smascherato, esso si rivela nella sua inconsistenza, ancor più alla fine è potente solo per distruggere se stesso. I nemici di Dio si autodistruggono o si distruggono tra loro a motivo dell’inevitabile autoannientamento a cui il male è destinato: Il valore quindi è per voi che credete; per coloro che non credono, la pietra scartata dai costruttori è diventata la pietra angolare, sasso d’inciampo e pietra di scandalo. Essi inciampano disobbedendo alla parola e a questo inciampo sono destinati (1Pt 2,7-8). Così il mare, nemico di Israele e di Dio simbolo di arroganza e di morte, annienta l’altro nemico del Signore e d’Israele, cioè l’Egitto: Invece gli israeliti avevano camminato sull’asciutto in mezzo al mare, mentre le acque erano per loro una muraglia e destra e a sinistra (v.29).

    La sconfitta definitiva del nemico è annunciata nell’Apocalisse: Poi vidi un cielo nuovo e una terra nuova. Infatti, il cielo e la terra di prima erano scomparsi; neppure il mare c’era più  (Ap 21,8).(cfr  Cfr. Gs 6: la caduta delle mura di Gerico Gdc 6-7: la battaglia di Gedeone contro i filistei 2Cr 20: la distruzione degli ammoniti e moabiti)

    Dio è creatore di tutti, ama tutte le sue creature e non si darà pace finché non avrà manifestato la sua salvezza anche agli egiziani (cfr. 14,4.18; 25b). Vi è un bellissimo midrash a comment di questo: “Gli angeli del servizio divino vollero allora dinanzi alla distruzione degli egiziani intonare un cantico di lode davanti al Santo, egli sia benedetto. Allora il Santo, egli sia benedetto, disse loro: L’opera delle mie mani annega nel mare, e voi vorreste intonare un cantico davanti a me?”.

    Israele ha attraversato il mare di notte, in silenzio. Si è trovato sulla riva opposta, è passato come in un sogno:                 Quando il Signore ricondusse i prigionieri di Sion ci sembrava di sognare (Sal 126,1) (Oltrepassato il primo posto di guardia e il secondo, vennero alla porta di ferro che metteva in città. Essa si aprì da sola davanti a loro. Uscirono e si avviarono per una strada e improvvisamente l’angelo si dileguò da lui. Allora Pietro, rientrato in sé, disse: «Ora capisco davvero che il Signore ha mandato il suo angelo e mi ha liberato dalla mano di Erode e ha reso vana l’attesa del popolo dei Giudei» (At 12,10-11)

    La paura si è trasformata in timore e canto di lode: E il popolo temette il Signore e credette nel signore e nel suo servo Mosè (v 31). Timore reverenziale e umile di chi, trovandosi davanti alla maestà di Dio, confida in lui con tutto il suo cuore. La stessa radice che indica la “paura” è ora utilizzata per il “timore”.

    Infine sottolineiamo l’aspetto comunitario: è fondamentale. Il capitolo 14 è costruito in modo tale che si giunga al 15 risolvendo una solitudine: quella di Mosè. Il popolo appare distante, recalcitrante, subisce più che credere a quello che sta accadendo. Solo dopo che Dio avrà operato l’impossibile l’atteggiamento del popolo cambia radicalmente nei confronti di Dio e di Mosè: Israele vide la mano potente con la quale il Signore aveva agito contro l’Egitto e il popolo temette il Signore e credette nel Signore e nel suo servo Mosè (v. 31). Nessuno può accapparrarsi la salvezza per sé solo: il cuore del Signore non ha pace finché tutti i suoi figli non vivano in una comunione di gioia piena. La lode è gradita quando è elevata da tutti insieme.

    E’ una situazione ben diversa da quella descritta nel primo atto del dramma, dove il popolo era paralizzato dal pensiero di dover morire. Ora non è più preoccupato per la propria vita, perché ha visto che la vera vita è stare dalla parte del Signore. Ha capito, paradossalmente, che sono proprio la sofferenza e la morte quelle che ci fanno vivere, perché ci consegnano totalmente a lui, e a lui ci rendono più simili e vicini. E’ il modello della nostra conversione, in cui accogliamo il paradosso del passaggio di Dio attraverso la storia.

    La lettura con Cristo

    Questa vicenda del passaggio attraverso il mare è anticipazione di quello che avverrà nella passione e morte di Gesù (cfr Mt 14,25-33…). In questo “passaggio” anche Gesù si trova totalmente solo, in una sensazione di fallimento completo, una nudità totale. Il Padre gli chiede di continuare ad avere fiducia e di entrare nell’oscurità del mare della morte, discendendo negli abissi dello Scheol.

    Sull’altra sponda è il Padre stesso che lo attende, lo Spirito soffia potentemente perché le acque di morte si riaprano per lui alla vita risorta. E’ questa l’ultima pasqua del Signore, il suo passaggio, che ha vinto l’ultima e più vera paura dell’uomo: la morte: “Uomini d’Israele, ascoltate queste parole: Gesù di Nazaret – uomo accreditato da Dio presso di voi per mezzo di miracoli, prodigi e segni, che Dio stesso operò fra di voi per opera sua, come voi ben sapete -, dopo che, secondo il prestabilito disegno e la prescienza di Dio, fu consegnato a voi, voi l’avete inchiodato sulla croce per mano di empi e l’avete ucciso. Ma Dio lo ha risuscitato, sciogliendolo dalle angosce della morte, perché non era possibile che questa lo tenesse in suo potere. Dice infatti Davide a suo riguardo: contemplavo sempre il Signore innanzi a me; poiché egli sta alla mia destra, perché io non vacilli. Per questo si rallegrò il mio cuore ed esultò la mia lingua; ed anche la mia carne riposerà nella speranza,  perché tu non abbandonerai l’anima mia negli inferi, né permetterai che il tuo Santo veda la corruzione. Mi hai fatto conoscere le vie della vita, mi colmerai di gioia con la tua presenza. Fratelli, mi sia lecito dirvi francamente, riguardo al patriarca Davide, che egli morì e fu sepolto e la sua tomba è ancora oggi fra noi. Poiché però era profeta e sapeva che Dio gli aveva giurato solennemente di far sedere sul suo trono un suo discendente, previde la risurrezione di Cristo e ne parlò:questi non fu abbandonato negli inferi, né la sua carne vide corruzione. Questo Gesù Dio l’ha risuscitato e noi tutti ne siamo testimoni. Innalzato pertanto alla destra di Dio e dopo aver ricevuto dal Padre lo Spirito Santo che egli aveva promesso, lo ha effuso, come voi stessi potete vedere e udire. Davide infatti non salì al cielo; tuttavia egli dice: Disse il Signore al mio Signore: siedi alla mia destra, finché io ponga i tuoi nemici come sgabello ai tuoi piedi. Sappia dunque con certezza tutta la casa di Israele che Dio ha costituito Signore e Cristo quel Gesù che voi avete crocifisso!» (At 2,22-36).

    Con Cristo, il cristiano anticipa questo passaggio nel battesimo, Una salvezza e un passaggio che si opera già in noi sacramentalmente mediante il dono del battesimo: Fummo dunque sepolti con lui per il battesimo per unirci alla sua morte, in modo che, come Cristo è risorto dai morti per la gloria del Padre, così anche noi abbiamo un comportamento di vita del tutto nuovo (Rm 6,4). Sapendo che il battesimo è prefigurazione di quella Pasqua definitiva che ci verrà chiesto di celebrare il giorno della nostra morte, quando con Cristo passeremo anche noi da questo mondo al Padre, per entrare nella terra dei viventi.

    L’analogia tra geografia e teologia è completata dal deserto egiziano e sinaitico. Tra lì Egitto e la terra-dono di Canaan c’è un deserto , un lungo cammino da percorrere. La parabola geografica della redenzione è completa: il passaggio dalla schiavitù alla grazia, dalla morte alla vita, non si compie in un sol giorno, ma si snoda in un succedersi di tappe. I quarantanni di peregrinazione, un numero simbolico che indica il tempo necessario per consumare un’esperienza spirituale compiuta.

    Posted by attilio @ 09:40

Leave a Comment

Please note: Comment moderation is enabled and may delay your comment. There is no need to resubmit your comment.