• 22 Mar

    Il fallimento del protagonismo di Mosè

    Es 2,11-22

    di p. Attilio Franco Fabris

    Siamo al secondo periodo della vita di Mosè che potremmo definire come “il tempo della generosità e dello scacco”. Diventato adulto (in Atti si afferma anche l’età simbolica: 40 anni!)  Mosé si sente animato da forti sentimenti di solidarietà nei confronti dei “suoi fratelli (2,11).

    Mosè il giustiziere

    Mosè “esce” due volte per “vedere” al fine di prendere atto della condizione dei suoi fratelli ebrei (vv.11.13: saranno i verbi che JHWH applicherà a sé sul Sinai). Egli compie dunque un primissimo “esodo”, un’ “uscita” dalla casa del potente faraone, e in fin dei conti da se stesso, dal suo prestigioso ma piccolo mondo di corte. Scorgiamo in questa decisione un grande impeto di generosità e una grande sete di giustizia. Non è poi così scontato prendere consapevolezza dell’ingiustizia e della schiavitù che ci circonda davanti alla quale rischiamo di passare comodamente accanto senza neppure accorgerci della sua esistenza.

    Effettivamente quel che ha in mente è bello, grande: vuole lottare per la giustizia e la libertà e per questo giunge ad esporsi fino a compromettersi. Questa è la forza degli ideali giovanili! Ha in mente un obiettivo preciso: ricostruire l’unità dei suoi fratelli, farne un popolo libero con una sua dignità. In questo sente di poter rivestire il ruolo di pioniere, del leader.

    Egli notò i lavori pesanti da cui erano oppressi (2,11).  Mosè crede di aver trovato il proprio campo di impegno improntato dai valori della solidarietà. E’ realmente assetato di giustizia come lo saranno i grandi profeti di Israele (cfr Is 5,1-24; Am 2,6-8; 5,10-13; Ez 22,1-16). La sua reazione è decisa, frutto di impetuosità virile, forte, addirittura  violenta. Giunge per essere coerente con i suoi ideali ad uccidere anche un egiziano (2,11).

    Quanti e quali ideali ci hanno spinto all’azione lungo la nostra vita? In quale misura la coerenza ad essi ci ha portato a decisioni e posizioni decise? Quali i risultati?

    Mosè si atteggia per due volte dinanzi all’ingiustizia di cui è spettatore in qualità di giudice. Egli ingenuamente, pensa di risolvere l’ingiustizia con la violenza, con l’eliminazione del cattivo, ma questa violenza non elimina la violenza, il male provocato anzi rende la situazione peggiore di prima perché sovrappone violenza a violenza in una catena infinita. Questa  giustizia di un Mosè che si autonomina giudice e liberatore è ancora chiusa dentro una logica di potere  umano e di forza. Ciò è molto lontano dal modo di vedere di Dio che invita a trovare in lui la sorgente e la forza della giustizia:

    Sta’ in silenzio davanti al Signore e spera in lui;

    non irritarti per chi ha successo,

    per l’uomo che trama insidie.

    Desisti dall’ira e deponi lo sdegno,

    non irritarti: faresti del male,

    poiché i malvagi saranno sterminati,

    ma chi spera nel Signore possederà la terra.

    (Sal 36,7-9)

    Dinanzi alla sua reazione in una lite tra due ebrei Mosè si sentirà rivolta una dura e risentita: Chi ti ha costituito capo e giudice su di noi? Pensi forse di uccidermi come hai ucciso l’egiziano ? (2,14). Ovvero: chi ha legittimato la tua vocazione di salvatore del popolo? Sono proprio i suoi fratelli che rifiutano la generosità del suo intervento perché avvertono che questa sua giustizia non potrà generare veri frutti di liberazione, ma soltanto altre violenze e ingiustizie. E poi questo Mosè che esce, nutrito e rispettato e ben vestito e istruito dalla corte egiziana, in quale modo può essere accolto dai fratelli schiavi ebrei? Egli non ha condiviso la loro sorte, non è sentito dei “propri”.

    C’è però di mezzo un “ma..”: il testo dice: “ma pensava…” (v. 25). Lo schema è semplice: Mosè fa i suoi progetti, elabora dei ragionamenti che presume e pretende si possano calare direttamente nella realtà ed essere da tutti accettati. Che cosa non ha funzionato? Semplicemente il fatto che Mosè non ha esperienza della resistenza e paura dei suoi fratelli dinanzi al progetto della loro libertà, non ci ha pensato perché non rientrava nel suo schema logico. È necessario che Mosè impari a proprie spese che nessun impegno umano, nemmeno il più generoso, può camuffarsi da impegno sacro, assumendo prerogative che competono soltanto alla chiamata che Dio rivolge a chi lui vuole.

    Mosè è certamente generoso, ma egli è forse ancora succube di una visione astratta e intellettualistica della propria chiamata. Egli soprattutto non ha capito una cosa: non basta sentirsi animati da furori rivoluzionari o da idealismi solidaristici per ritenersi depositari di una vocazione da parte di Dio. Finché Dio non chiama, ogni nostro impegno è destinato a sfumare miseramente nell’inefficacia dell’idealismo spesso di breve durata.

    Quanti furori idealistici di libertà, giustizia e coerenza si sono scontrati nella nostra esistenza con il rifiuto e il fallimento? Quanti e quali nostri progetti ritenuti buoni si sono scontrati con un “ma…” che li ha vanificati?

    Un uomo in fuga

    Per i suoi atti di giustizia violenta Mosè si ritrova con una condanna a morte sulle spalle e ricercato dalla polizia (2,15). Se ci si misura con la forza dinanzi alla vita vincerà sicuramente il più forte, il più dotato, e si rimarrà perennemente sconfitti. Mosè ha fatto fiasco con i suoi fratelli ebrei e anche dinanzi al faraone dal quale deve fuggire tagliando tutti i ponti con un mondo aristocratico prestigioso. Ma fa fiasco soprattutto nei confronti di se stesso: ora non è più nessuno: “Fuggì Mosè all’udire questa parola e divenne straniero nella terra di Madian” (v. 29).

    Ritorno ai “fiaschi” della mia vita… esperienza di fallimento e di vuoto, disorientamento perché improvvisamente ci vengono tolti quegli ideali per i quali credevamo di dover spendere la vita. Come li ho vissuti? Cosa hanno provocato nella mia coscienza?

    A Mosè non resta che fuggire. Egli deve conoscere la via della ritirata e del fallimento completo, con le umiliazioni e i silenzi che essa comporta. Prende improvvisamente consapevolezza di non essere che un uomo tra i tanti, senza tutti i suoi privilegi e ideali che sembrano non contare più nulla. La sconfitta lo mette con le spalle al muro riconducendolo a quello che realmente è. Il Mosè forte e coraggioso è scomparso, rimane un uomo in fuga invaso dalla paura.

    Importantissima la sottolineatura del testo: Mosè “divenne straniero” e sappiamo cosa significhi questo nelle culture antiche e non solo: è perdere tutti i propri diritti di uomo.  Teniamo presente che il tema della fuga è ricorrente nella sacra scrittura come situazione in cui dio può “riacciuffare” finalmente l’uomo: essa  è sempre in relazione ad un fallimento, ad un crollo di ideali umani e magari illusoriamente spirituali.
    Caino vagabondo e ramingo sulla terra (Gn 4); Giacobbe  in fuga da Esaù (Gn 27); La fuga di Elia da Getzabele (1Re 9); Giona in fuga da Dio stesso; gli apostoli nel Getsemani. Anche Mosè, uomo in fuga tra i tanti, non sarà altro che un esemplare esponente di quell’umanità sbandata, frastornata e piena di contraddizioni, che nella sua sconfitta è tuttavia disponibile a Dio, a collaborare con lui.

    Dico: «Chi mi darà ali come di colomba,

    per volare e trovare riposo?

    Ecco, errando, fuggirei lontano,

    abiterei nel deserto.

    Riposerei in un luogo di riparo

    dalla furia del vento e dell’uragano» (Sal 54,7-9)

    L’esperienza della “fuga” che può esprimersi in tanti modi fa parte dell’esperienza umana, probabilmente anche la mia. Vi sono state probabilmente situazioni che mi hanno visto in “fuga” dopo una sconfitta, un fallimento… una fuga che forse tuttavia ha permesso di andare incontro alla mia vera identità dalla quale in realtà fuggivo.

    E’ importante riflettere su questo mistero di emarginazione e persecuzione che inaugura la vicenda di Mosè e caratterizzerà la storia stessa di Israele. Qui Mosè troverà realmente e concretamente per esperienza propria e non per sentito dire il filo che lo lega al suo popolo. Questa fuga gli permette di sperimentare non in modo astratto, ma sulla sua pelle, cosa significa essere straniero, perseguitato, emarginato.

    Troppo spesso le nostre azioni, proclami, asserzioni non scaturiscono da una reale condivisione ma semplicemente da nostri costrutti mentali. Tendere la mano all’uomo comporta non elucubrare sulle varie modalità di salvataggio ma la disponibilità a scendere, a sporcarsi, a “toccare” la stessa situazione, a camminare insieme. E’ questo il metodo salvifico scelto da Dio attraverso l’incarnazione: “Infatti non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia compatire le nostre infermità, essendo stato lui stesso provato in ogni cosa, a somiglianza di noi, escluso il peccato” (Ebr 4,15)

    Un lungo cammino nel deserto

    Questa esperienza di fallimento può avere un duplice sbocco: spingere Mosè a scomparire, a ritirarsi definitivamente dichiarandosi sconfitto, oppure potrebbe permettergli, come effettivamente avverrà, di ritrovare la sua giusta collocazione.  Sempre il momento della crisi pone l’uomo dinanzi ad un bivio in cui è chiamato a scegliere in ordine al suo futuro.

    Per Mosè, fuggito nel deserto, si apre un lungo e necessario tratto di strada caratterizzato dall’ascolto e dall’attesa di cui il deserto è il luogo emblematico e privilegiato. Mosè in qualche modo percorre lui per primo le vicende che saranno del suo popolo: anche Israele dovrà fuggire nel deserto dopo l’uscita dall’Egitto e per quarantenni imparare a camminare con Dio e sulla sua parola. Per la prima volta vive lui stesso per primo l’esperienza del deserto, della vita nomade, e ritrova con questo le radici del proprio popolo che lo ricollegano con l’esperienza di Abramo e degli altri patriarchi e lo preparano nello stesso a condurvi un giorno Israele.

    Durante questa fuga nel deserto che è luogo di morte Mosè giunge ad un’oasi dove è un pozzo. Il pozzo è ricco di rimandi archetipici importanti: rappresenta la ricerca della profondità del proprio sé, dello scendere per ritrovare le sorgenti della propria “anima”. E’ un tema ricorrente anche nella sacra Scrittura.  Proprio a partire dal “pozzo” nel deserto Mosè inizia a ricostruire la propria vita su nuove dimensioni. “Fuggito dall’Egitto portandosi il vuoto terribile della sconfitta, Mosè sta andando in cerca di se stesso e di qualcosa che gli renda comprensibile il mistero della sua vita. Presso il pozzo Mosè non trova ancora la soluzione della sua ricerca, ma lì la sua fuga si arresta, perché ormai ha capito che in realtà egli sta fuggendo proprio da se stesso e dal suo mistero” (Stancari).

    Presso il pozzo incontra le figlie di Reauel delle quali si erge ancora in un impeto di generosità e questa volta con successo difensore e giustiziere. Da notare come egli è da queste chiamato con l’appellativo di “egiziano” non di ebreo: questo fatto è importante perché spinge Mosè ad una consapevolezza sempre più profonda di sé che lo porta a considerare come l’impostazione data alla sua vita fino a quel momento e il modo di intenderla faceva di lui realmente un “egiziano” (ovvero un “lontano”),  e proprio mentre egli pretendeva di farsi liberatore e interprete dei suoi fratelli ebrei. “L’essere ebreo, un fratello di quel popolo di schiavi appare quasi nella vicenda di Mosè più una conquista che un fatto assodato o garantito dalla generazione” (Spreafico, 30).

    Reuel-Jethro, presso il quale Mosè trova una casa, è pastore e sacerdote: da lui il nostro impara a conoscere il Dio dei suoi padri, El Shaddaj. Si tratta addirittura infatti di una famiglia che sembra discendere da Abramo (Gn 25,2).

    Nella terra di Madian Mosè abita a lungo ( ancora ben “quarant’anni” annotano gli Atti): è un tempo come già detto necessario di purificazione e di ricerca della propria vera identità. Egli ne ha bisogno per spogliarsi (a livello psicologico per strutturare nuovamente una persona occorre molto tempo ed energie talmente è arduo e impegnativo il compito) di tutto ciò che finora aveva fatto di lui un “egiziano”. Il compito che in questi anni si impone a Mosé verte dunque sull’affrontare anzitutto se stesso, la propria coscienza, il proprio passato, i propri errori, le proprie aspirazioni e desideri. Lo chiameremmo quasi un “noviziato”, un tempo di “iniziazione”!

    L’ultimo versetto è interessante: “Mosè si rifugiò in Madian dove ebbe due figli”: cosa c’entra questa annotazione? Mosè aveva infatti sposato nel frattempo Zippora, figlia di Raouel, dalla quale nasce un primo figlio al quale impone il nome di “Gherson” che significa: Sono un emigrato in terra straniera (2,22). Nel nome del figlio l’autore sacro offre una chiave interpretativa della presa di consapevolezza di Mosè circa la sua identità che lo rende vicino all’esperienza dei suoi fratelli ebrei. Probabilmente sta a dire che Mosè si è seduto e ha detto: Basta con le grandi idee e progetti, tutto è finito! Ho diritto anch’io a farmi una vita.  Mosè ha cercato a questo punto, dopo le sue esperienze disastrose, un angolo tranquillo al fine di dimenticare il passato e l’amarezza che lo hanno contrassegnato. Mosè rientra in un ambito di vita “normale”, ha cessato di sognare grandi imprese credendosi protagonista.

    Solo ora, crollato il suo protagonismo, può essere disponibile, su indicazione di Dio,a compiere il cammino inverso.

    La nostra riflessione può vertere sulla considerazione del mio cammino nel deserto, nella mia rinuncia finalmente alla fuga, per ritrovare la mia vera identità senza più illusori protagonismi. Questa esperienza ha toccato la mia vita?

    Posted by attilio @ 09:10

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