• 19 Mar

    C’è ancora speranza?

    Gn 11,27-32

    di p. Attilio Franco Fabris


    Il testo di capitale importanza per l’inizio del nostro discorso è Gal 3,18-29.

    Esso è infatti importante in vista dell’evangelizzazione in vista di un recupero del concetto biblico di promessa.

    Il vocabolario dell’evangelizzazione è già infatti presente in modo esplicito (es. deuteroisaia) e implicita già nell’antico testamento.

    La continuità lessicale comporta che vi sia una Buona Notizia già nell’AT. Essa si riassume nella categoria fondamentale della promessa.

    Chi è il destinatario della Buona Notizia? Ovvero qual è il retroterra antropologico (Il kerygma infatti suppone sempre delle premesse antropologiche) che suppone una promessa da parte di Dio?

    Nel NT questo retroterra è costituito da un’antropologia nella quale l’uomo appare condannato alla solitudine: è sordo, cieco, muto.

    Nell’antico testamento qual è questo retroterra?

    Per scoprirlo è fondamentale rifarsi all’esperienza di Abramo: qual è il retroterra della promessa fattagli da parte di Jhwh?

    Questo retroterra lo ritroviamo nei primi undici capitoli del Genesi, e poi in modo più distinto dal v. 24ss.

    Abramo è presentato come l’uomo sul quale il Signore fa terminare la narrazione della creazione. Nel progetto divino l’uomo è stato chiamato a completare l’opera della creazione, e per far ciò il Signore lo aveva ricolmato della sua benedizione (cfr 1,28).

    La risposta dell’uomo a questa vocazione e collocazione è stata da lui rifiutata. Nel mondo perciò si assiste ad una crescita e sviluppo di male: Adamo ed Eva (3,1-19); Caino e Abele (4,3-15); la discendenza di Caino (4,16-24); Lamec (4,23-24); corruzione degli esseri celesti (6,1-7); Cam (9,22-25); la torre di Babele (11,1-9). Questo il frutto del rifiuto della benedizione di Dio.

    In Gn 11,27ss la situazione è analoga anche se apparentemente meno drammatica. Tuttavia anch’essa appare senza via di uscita. E’ una umanità chiusa in se stessa, senza futuro e dunque senza speranza, in cui ciascuno tenta di salvare se stesso.

    Aran il figlio più giovane di Terach muore prima del padre, realtà già “scandalosa” che segna drammaticamente con una morte prematura il dominio del male, lasciando però una discendenza: Lot.

    Abram il primogenito di Terach si sposa con Sarai; egli è il primo destinatario della continuità del clan patriarcale. Il futuro del clan è legato a lui. Ma la sterilità incombe: morire è non avere figli, ovvero non poter dare continuità alla vita. Ed è la morte non solo di Abram , di Sarai, di Terach ma di tutti.

    A Terach non rimane che Lot: il futuro del clan non può essere riposto che in lui  a meno che…

    • Abram ripudi Sarai
    • Sarai accetti il servizio della schiava
    • Abram rinunci alla primogenitura
    • Terach prenda una decisione per il bene di tutti.

    Ma niente di questo accade.

    La storia ci dice che da parte di nessuno di questi  vi è la volontà di uscire da un circolo vizioso. Vi è una incapacità di assumersi le proprie responsabilità ponendo al primo posto la missione per il bene comune. Nessuno è capace di “perdersi” per il bene comune.

    Il porre prima il bene comune e poi il mio interesse si chiama gratuità.

    La via dunque appare chiara. Ma riscontriamo paure, tergiversazioni, compromessi, scarichi di responsabilità, parole senza fine per non arrivare a nulla…

    Nessuno dei tre possiede una gratuità disponibile al bene comune. E’ un circolo vizioso che conduce a quella sterilità di fondo da parte di tutti che è la mancanza di gratuità.

    Perché? Quali dinamiche impediscono queste soluzioni?…

    Terac e la famiglia escono da Ur per dirigersi a Canaan. Ma anche questo progetto è destinato a spegnersi. Terac e il suo clan si fermeranno a Carran.

    Terach muore: come?

    Tutte le sue attese sono deluse. Si sente sconfitto nella speranza

    Deluso da Abramo che non ripudia Sarai Deluso di se stesso perché incapace di aver optato per le scelte adatte al bene del clan. Al momento giusto non ha avuto il coraggio di fare quello che sentiva di dover fare. Forse cercava il consenso, per cui demandava, attendeva.

    Sentendo tutto questo come maledizione da parte degli dei.

    Come Abramo vive la sua situazione?

    Abramo vive con un profondo senso di colpa nei confronti del padre e del clan, è un capo di nome ma non di fatto. Sarà un capo migliore di Terach?

    Date le premesse si direbbe di no: il futuro del clan è lasciato al gioco delle convenienze. Il clan ha coscienza di essere un popolo senza speranza, incapace di costruire il suo futuro.

    Questa sterilità è di tutti: ed è l’incapacità di perdersi per gli altri. .

    Ancora: quale sarà stata l’esperienza religiosa di Abramo prima di questa Parola? Sarà stata forse caratterizzata dall’esperienza religiosa della contemplazione del creato, dell’ascolto della propria coscienza, dell’indagine dell’intelligenza, da un deposito culturale legato alla sua tradizione. Un Dio legato alla ciclicità della natura, alle stelle che non riserva sorprese.

    Potremmo dire che nei vv. 11,27-32 sono racchiusi tutti i presupposti dell’antropologia veterotestamentaria e della promessa.

    1.      La realizzazione dell’uomo è il suo futuro. Ciò che dà senso alla vita è la speranza, l’attesa.

    2.      Questa tensione viene tranciata dall’inevitabile confronto con la morte. La proiezione verso il futuro è stroncata drammaticamente

    3.      Il futuro dell’uomo sta nel generare la vita. Il futuro, la continuità,  si realizza nel generare la vita .

    4.      L’amore umano non è capace di garantire all’uomo questo futuro. Giacché non basta generare figli. Terach, Abramo e Sarai esprimono questa incapacità dell’uomo e dell’amore di farsi carico del futuro non solo proprio ma di tutti.

    A questo assunto si può giungere solo attraverso una presa di coscienza e di ascolto, non basta l’enunciazione (che viene il più delle volte rifiutata!).

    L’uomo è libero di decidere totalmente della sua vita nella gratuità? L’esperienza dice di no.

    A questo punto occorre invitarci all’ascolto della nostra coscienza per scoprire nella mia esperienza questo retroterra antropologico. Non si può infatti presumere una coscienza di fede che prescinda da una seria coscienza antropologica.

    La presunta “fede” non deve portare a dribblare la coscienza che deve portare a porci dinanzi alle autentiche problematiche che attraversano il cuore dell’uomo e la sua esistenza. Una fede che prescindesse da tale retroterra sarebbe una fede teista, impermeabile alla promessa e alla sua verifica.

    La preistoria dell’umanità (Gn 1-11) termina dunque in un vicolo cieco. Logico allora domandarsi al termine di questa presentazione: Ma per l’umanità c’è ancora speranza? A questa domanda risponde il racconto della vocazione di Abramo.

    Dio non può abbandonare l’umanità in una situazione di morte: lui l’ha creata e voluta per la vita. Egli vuole in un certo senso ripartire da capo, con una nuova creazione.

    Per far questo ha bisogno di un uomo e di una donna. Un uomo concreto al quale riproporre il suo progetto di benedizione, costituito dalle sue promesse.

    E’ scelto un uomo umile e oscuro, un pastore arameo, un beduino che vive in Mesopotamia nel XVIII sec. a.C. Non è scelto un re forte, un impero potente, un sapiente o un veggente. Sono le stranezze delle scelte di Dio! “Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto per confondere i forti e ridurre al nulla le cose che sono” dice Paolo.

    Un uomo che sperimenti a nome di tutti la fedeltà e la gratuità delle promesse di Dio. Egli è scelto perciò a nome e a beneficio di tutti noi. Ha un compito da svolgere, un servizio da adempiere, essere strumento della continuazione-riinizio della creazione come “storia di salvezza“.

    – Abramo come è la tua vita prima dell’incontro con la Parola? Come vivi la tua situazione … gli anni passano, sei senza figli, hai mancato di responsabilità nei confronti del tuo clan… Probabilmente vivi male dentro di te anche se non ti manca nulla. Quante volte ti sarai detto: “Ma qui cosa ci faccio? Che senso ha la mia vita?”… provo a far risuonare in me queste risonanze.

    –         Speranza nel futuro assicurato dalla vita: un’esperienza che nella vicenda di Abramo e del suo clan viene meno: è una situazione che si riaggancia a tanti aspetti della nostra vita e della nostra situazione culturale. Siamo anche noi in un circolo vizioso? C’è bisogno di un “Abramo” per riiniziare?

    Posted by attilio @ 07:54

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