Vangelo ed esistenza monastica oggi
di Ghislain Lafont *
Svolgerò il tema assegnatomi come una meditazione, da fratello verso altri fratelli e altre sorelle con cui ormai da anni mi trovo in confidenza, e lo farò per così dire, da cuore a cuore, prima di toccare l’intelligenza della mente. In questa vostra Consulta il nostro comune cuore monastico si confronta con le tre parole del titolo – il vangelo, l’esistenza monastica, l’oggi – che rappresentano tutto il proposito professato, in quanto sono la carne e il sangue della nostra vita.
1. Vangelo
La parola è semplice, ma il contenuto infinito. Per ciascuno di noi la parola «vangelo» ha una risonanza propria. Ad esempio, per Lutero la parola «vangelo» era equivalente a «giustificazione del peccatore mediante la fede in Gesù Cristo», cosicché la grazia per lui diventava il principio interpretativo di tutta la Scrittura. Altri cristiani sono colpiti dall’inizio del vangelo di Marco: «Convertitevi e credete al vangelo; il regno di Dio è vicino».
Dovendo fare anch’io la mia scelta, la parola «vangelo» mi conduce direttamente ai due comandamenti del Signore, che riprendo dal vangelo di Marco giunto ormai alla fine, prima della passione. Qui trovo la medulla di tutta la Scrittura, molto efficace nella versione di Marco dove lo scriba, che aveva fatto la domanda a Gesù su quale fosse il primo di tutti i comandamenti, è soddisfatto della risposta e la riprende quasi alla lettera, ricevendo alla fine la lode dello stesso Gesù: «Vedendo che egli aveva risposto saggiamente, Gesù gli disse: “Non sei lontano dal regno di Dio“» (Mc 12,34).
In più, solo in Marco, qualche versetto dopo, segue la storiella della povera vedova con la sua piccola offerta al tempio che rappresenta tutti i suoi quattrini. Allora Gesù dice ai suoi discepoli: «In verità io vi dico: questa vedova, così povera, ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri. Tutti infatti hanno gettato parte del loro superfluo. Lei invece, nella sua miseria, vi ha gettato tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere» (Me 12,43-44). Qui finisce la vita pubblica di Gesù con l’esempio di una donna ebrea che non sa niente di Gesù e si reca ad un tempio che di li a qualche anno sarà distrutto. Potremmo dire: una che non è sulla strada giusta, non capisce niente, ma dà tutto! Mi colpisce il vangelo di Marco che si conclude con questa donna che non ha alcuna formazione teologica e non è nemmeno un’ebrea discepola di Gesù, ma che ha capito che per il tempio di Dio deve dare tutto.
Riprendo la domanda centrale dell’intera rivelazione di Dio: che significa amare secondo il vangelo? Per Gesù nessuno ama di più di quando dà la vita propria per gli amici. Amare non è un sentimento, né una benevolenza o beneficenza, ma è qualcosa di più: un dare totale che suppone un ricevere totale. Riguarda la «propria» vita: in che senso? Stiamo tutti cercando oggi questo, cristiani battezzati o monaci?
Per cominciare a rispondere, penso che tutti noi abbiamo grandi desideri, specialmente quando mettiamo in gioco i nostri interessi umani. Ciascuno di noi ha un desiderio d’infinito che non basta tutta la vita a soddisfare (come si sperimenta quando ci si avvicina con gli anni al traguardo finale … E vi dico che non mi dispiacerebbe la reincarnazione, perché ci sono tante cose che non ho avuto il tempo di fare!). Voglio dire: un uomo senza desideri non è un uomo, perché gli manca la spinta per una vita autentica. Bisogna sempre ricominciare ad aprire il cuore e l’intelligenza, in quanto è possibile comprendere di più grazie al desiderio di una identità personale sempre più grande e ricca.
Eppure, il desiderio umano non può essere soddisfatto, e non solo per i limiti umani, ma perché accanto a me ci sono altri uomini e donne che hanno pure i loro desideri. Si verifica una interruzione del mio desiderio, al punto che mi piace formulare una specie di definizione (ormai alcuni di voi già la conoscono dato che la ripropongo in vari interventi!): «L’uomo è un desiderio infinito interrotto dal desiderio dell’altro». In effetti, è un’esperienza comune che non c’è posto per la soddisfazione di due desideri nello stesso momento: uno deve fare posto a quello dell’altro perché possa svilupparsi. Faccio spesso un esempio, che è riportato nel mio intervento uscito in questi giorni sul numero della vostra rivista camaldolese. Quando qualcuno chiama – e oggi il telefono funge quasi sempre da sostituto delle comunicazioni! -, significa che sono disturbato nel mio Io. Un altro, un estraneo, viene ad interrompere il mio desiderio: «Non ti aspettavo». Non so che cosa sta per dire la persona che chiama o che entra. Il cerchio dei miei desideri in cui ero contento e sviluppavo il mio essere è spiazzato. L’altro viene a manifestarmi il suo desiderio che attraversa la mia vita, perché ha bisogno di me per andare avanti.
Ho l’impressione che, in un mondo dove c’è un eccesso di comunicazioni, dire «Pronto!» al telefono, oppure «Avanti!» a chi bussa alla porta, diventino delle frasi insensate, o addirittura ipocrite se dette malvolentieri. Comunque, ogni volta che uno si rivolge all’altro, la sua parola è già una richiesta che esige la mia disponibilità ad ascoltare il suo volere, specie se dico: «Che vuoi?». Il suo desiderio mi interrompe, ancor prima che lui mi chieda, ad esempio: «Dammi una mano!». Così l’altro che si rivolge a me può farlo perché mi conosce. Ma non è sempre così, perché altre volte anche verso di me potrebbe parlare con più prudenza.
Com’è possibile tralasciare ciò che si sta facendo per ascoltare la domanda dell’altro? Più che il desiderio del mio adempimento, è in gioco una relazione più profonda: il nostro adempimento. Mediante la dinamica della parola capisco che l’altro fa parte di me e che la cosa importante è la nostra vita. Il mio desiderio è modificato nel nostro desiderio perché l’esistenza è costellata di un continuo scambio di invocazioni, di domande, di azioni comuni, giungendo finalmente alla scoperta che, mediante la rinuncia al mio desiderio, si gode insieme la pienezza del «noi». Qui nasce la comunione che costituisce la comunità.
Facendo un passo in più, possiamo dire che l’esperienza ci fa capire che l’amore è «morte», piccola se volete: abbandonando il mio desiderio, devo morire a quanto facevo per vivere ad un altro livello. Certo, una morte che non è distruzione, ma interruzione in vista, per così dire, di un «risorgere». Lo diceva anche la spiritualità classica di «morire a se stessi», ma la dinamica costante legata al desiderio riflette più la sensibilità contemporanea o, meglio, quella che vi offro io, per mettere in luce una differenza importante: mentre nel linguaggio classico morire a se stessi è ancora egotico, cioè una cura di me stesso per diventare più perfetto, nella prospettiva del desiderio interrotto dalla parola dell’altro diventa centrale l’ascolto per creare una comunione. Questa è la cellula costitutiva dell’amore.
Come già dicevo in altre occasioni, un amore di questo tipo implica un uomo e una donna ricchi di sensibilità, cioè capaci di percepire tutti gli appelli che possono provenire dall’esterno. Possiamo chiudere tutti i sensi, ma, per quanto ci sforziamo, con l’orecchio non è possibile farlo del tutto. Ciò significa che siamo fatti per ascoltare e, pur sapendo quanto sia difficile lasciare che la parola dell’altro entri davvero in me prima di rispondere, soprattutto senza aver fretta di trovare le mie parole, mi sento di affermare che l’uomo è fondamentalmente ascolto. Infatti già l’ascolto è una rinuncia: il mio orecchio, la mia intelligenza, il mio cuore è così orientato verso l’altro che è una perdita di me stesso.
Allora l’amore perfetto di cui parla Gesù nel vangelo – amare con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutta la mente, con tutte le forze – è un ascolto della parola, sostenuto da un desiderio di essere in comunione con l’altro, a qualunque prezzo. Se questo ascolto riesce, l’amore c’è, come pure la mia identità vera: finalmente scopro che non posso essere io senza l’altro e viceversa. Amare Dio secondo il vangelo significa ascoltare Lui quando per primo ci bene-dice: «Ti voglio bene». Un ascolto della parola di un Dio che dona, non che domanda o comanda.
In origine non c’è dunque l’interruzione del mio desiderio, ma l’offerta di un dono da ricevere, il che è per noi sempre faticoso, perché è ancora una morte a noi stessi: accettare che l’altro mi ricordi il mio limite, una mia relativa incapacità, per aprirmi a lui e diventare una comunione. Se Dio Padre dona tutto invitandoci a dargli tutto, noi possiamo avere le vertigini, immersi in una circolazione infinita dove nessuno possiede niente, ma tutto è ricevuto e scambiato.
Finora non ho introdotto la parola «peccato». Potremmo pensare che il discorso sia troppo «paradisiaco»: nel giardino di Eden l’uomo e la donna si volevano bene prima del peccato, quando le rinunce non costavano e l’armonia era sempre goduta. In questo stesso paradiso Dio pronuncia una parola di domanda, che, come le vere domande, sono una sorpresa, perché non sono mai ragionevoli: «Non toccare quell’albero perché ti farà male». Se l’uomo non l’avesse toccato, il rapporto con Dio sarebbe stato libero, avrebbe amato secondo la dinamica di morte-risurrezione, che in tal modo non è legata al peccato, come vado dicendo da un po’ di tempo. È importante infatti non vedere dappertutto il male e il peccato, ma capire che le persone, anche quando sono esigenti, lo sono in vista di una comunione, da ritrovare persino dietro quelle parole di domanda che non sono sempre gradevoli.
Da tutto ciò anche la morte-risurrezione di Gesù non è prima di tutto legata al peccato, ma all’amore. Gesù era una persona che sapeva amare, in ascolto di ogni parola del Padre e di ogni uomo, sempre pronto a rispondere. Ma siccome il peccato ha portato un disordine che ferisce profondamente tutti, la dinamica di morte-risurrezione diventa molto più temibile, senza tuttavia perdere la sua essenza originaria di comunione che Gesù ha vissuto anche prima della passione. E se diciamo con san Giovanni che «Dio è amore», ci riferiamo ad un Dio trinitario che è Dono, dove il Padre genera sempre tutti e tutto, il Figlio è rendimento di grazie (il «Si» al Padre, secondo san Paolo) e lo Spirito Santo è il desiderio permanente che spinge alla comunione. Dicendo Dono, vuol dire che in Dio non c’è alcuna proprietà.
Provando a concludere questo primo punto, la parola amore significa che l’identità si trova nella perdita e che il «se stesso» si trova «nell’altro», Dio o il prossimo. Il vangelo dunque come buona novella è la rivelazione dell’amore che possiamo offrire a tutti per entrare in dialogo (comunitario, ecclesiale, interreligioso … ). È la prima e ultima parola che dà senso a tutto, sempre ché sia intesa sul modello di morte-risurrezione. Un proverbio dell’Africa meridionale dice che l’amore è come l’acqua calda: se non mettiamo la legna sul fuoco, si raffredda, cioè il sentimento di generosità non basta se non c’è la legna del dare-ricevere.
2. Esistenza monastica
Ciò che ho detto finora vale per la vita cristiana e quindi anche la vita monastica è governata dal principio-amore che si ritrova nelle beatitudini come programma di vita per tutti. Ora, per cercare lo specifico della vita monastica, bisogna ricollegarsi al fatto che, rispetto al tempo in cui io sono diventato monaco più di sessant’anni fa, la Chiesa del concilio Vaticano II e dell’immediato periodo successivo ha modificato il posto, diciamo, della vita religiosa. La Costituzione dogmatica Lumen gentium, semplificando un poco, tratta i religiosi dopo i laici, cosicché, dentro il cap. 2 sul popolo di Dio, c’è il seguente ordine: gerarchia → laici → religiosi, mentre in passato c’era una scala discendente: gerarchia → religiosi → laici. Sappiamo quanto è ancora difficile far seguire un cambiamento di mentalità, specialmente sulla figura del laico che rischia di essere definito secondo il «non»: non è un prete, non è un religioso.
Ora, per tornare al compito assegnatomi, in base a questi presupposti mi chiedo che cos’è la vita monastica. Riprendendo l’immagine del paradiso, là ci sarebbe stato posto per dei monaci? Una domanda del genere non se la ponevano i miei confratelli negli anni in cui ero novizio, in quanto tutto ruotava attorno al peccato, quale eredità dello spirito medievale, che vedeva nella vita monastica una scelta per ritrovare la strada giusta, diciamo in modo sicuro, rispetto al cammino secolare considerato molto pericoloso. La mia risposta alla domanda sul posto dei monaci nel paradiso terrestre è chiara: «Si, è possibile!». Lo è perché un/a monaco / a è chiamato/ a dedicare direttamente la propria vita a Dio e ai fratelli e alle sorelle, senza sentirsi attratto/ a dal matrimonio, ove, sempre con la stessa qualità dell’amore secondo il vangelo, c’è la mediazione del corpo in vista di una famiglia. È possibile che nel paradiso, dove tutti obbediscono alla parola di Dio e si ascoltano a vicenda, ci sia qualcuno chiamato ad un dono esclusivo per Dio solo, restando disponibili per tutti gli altri, non già per negare alcunché. Ci troviamo in entrambi i casi, matrimonio e verginità, nel mistero di Dio: ci crediamo e basta. Se ci sono troppe spiegazioni, si può perdere di vista la medesima direzione di comunione universale.
Con questa risposta positiva per Dio solo e per i fratelli, si comprende meglio la dialettica tra l’eremita e il cenobita, da sempre presente nella tradizione monastica, ma che è proposta con forza nell’esperienza camaldolese. Nella vita di solitudine viene ancor più sottolineata l’esclusività per Dio solo, il che è molto difficile perché non si deve spegnere la spinta al dono verso gli altri; c’è il rischio infatti che l’eremita diventi egoista oppure perda l’equilibrio umano. Per questo oggi il silenzio viene proposto in forme diverse, più mitigate, per salvaguardare l’ascolto della parola di Dio insieme con alcuni fratelli o sorelle con cui si fa comunità. Poi, oggi, la stessa vita fraterna, rispetto a cinquant’anni fa, si apre molto di più all’accoglienza e all’ospitalità.
Questa visione della vita monastica secondo i tre livelli di amore – solitudine, cenobio, ospitalità – è molto semplice, nel senso che non ci sono tante cose da fare oltre che stare con Dio, con i fratelli e con quanti bussano alle nostre porte. Auspico di ritrovare nelle nostre comunità una specie di «grado zero» della vita cristiana. Ovviamente, si tratta di una linea di tendenza che attraversa lo spessore della tradizione e delle varie forme istituzionali e che richiede molto discernimento su che cosa conservare e su che cosa tralasciare, anche quando si è accettata la diversità di linguaggi e di culture.
3. L’oggi
In Europa il calo delle vocazioni religiose maschili in quarant’anni (1965-2005) risulta del 34%. In pratica siamo un terzo in meno, e credo che almeno la metà di coloro che rimangono siano oltre i sessant’anni di età. Le previsioni non sono rosee, perché nel giro di vent’anni si rischia di diminuire, se si va di questo passo, ancora di un altro terzo. Che significa tutto ciò, almeno in Occidente?
Di solito si fa il confronto con il resto del mondo dove non si registra il calo, specialmente dove la civiltà europea non ha prevalso. Dovremmo concludere che la scelta religiosa è legata al tipo di civiltà e che quindi la modernità non è il terreno adatto per lo sviluppo di certe scelte? Domande complesse per risposte difficili, almeno per me! L’eventualità di una morte potrebbe affacciarsi, anche per la situazione attuale del mondo sotto ogni profilo. Condivido l’opinione di coloro che dicono che siamo ad un momento un po’ cruciale della storia, quando qualcosa sta morendo e qualcos’altro sta nascendo.
Che cosa sta morendo? La cultura occidentale, fin dalla filosofia platonica, è stata contrassegnata più dal paradigma della verità che da quello dell’amore (ma la cosa si trova anche nella civiltà indiana e altrove). Se il mondo deve tornare sotto il segno della verità, vuol dire che i sensi c’ingannano e ci conducono ad una vita falsa, non autentica. Quindi la vera vita va cercata altrove, sempre «al di là», perché altrimenti siamo nella menzogna o nella sofferenza. La fuga dal mondo e dai desideri del corpo diventa il cardine di questo modello che sostanzialmente conduce alla staticità e alla atemporalità.
L’inizio del cristianesimo ha visto l’assorbimento di questa cultura per troppi aspetti, soprattutto per trovare la stabilità e l’identità vera combattendo strenuamente contro «ciò che è» a favore di «ciò che dovrebbe essere». Lo scopo è stato di passare dall’imperfetto, sempre colpevole, al perfetto. Ma già in santa Teresa d’Avila, secondo la quale Dio è dappertutto ma non altrove, possiamo vedere l’invito a correggere la concezione precedente: Dio è qui non solo come Padre misericordioso che manda il Figlio a correggere tutti i nostri difetti, ma come colui che dona una persona vera al nostro essere personale, comunitario, politico. Invece di cercare la verità al di là, siamo chiamati a trovarla qui, ora.
Applicando tale visione alla vita religiosa, essa è da intendere non quale rimedio ai difetti del tempo, ma quale ricerca dei valori positivi che permettano al mondo di vivere cosi come è. Testimoni di questo cammino di morte-risurrezione quali sono stati Dietrich Bonhoeffer (pastore evangelico) e Etty Hillesum (ebrea non praticante), partono dal presupposto che il mondo è buono, anche se poi i difetti vanno osservati. Ma è diverso se lo si fa nella prospettiva di un ottimismo di base: per esempio, ci sono delle lettere inviate da entrambi dal lager (segnalo anche quelle di Etty Hillesum che sono meno note … ), in cui, pur vedendo tutto il male atroce dello sterminio, è conservata la meraviglia per la bellezza-bontà del mondo.
Come dicevo all’inizio, se Dio è amore, è molto più che un essere di misericordia, che è ancora troppo legata alla miseria umana. Prendiamo la Messa. Tutto quanto viene offerto è già segno della grazia in me e negli altri se proviene dall’amore. Il rendimento di grazie eucaristico comincia qui, non dal peccato che purtroppo nelle nostre preghiere conserva ancora il primato. Si tratta dunque di mettere un ordine diverso in cui la preoccupazione per il peccato e per la penitenza sia vissuta alla luce dell’amore, che è la sorgente dell’atto di fede.
Anche la presenza di Dio è messa in questione dato che Lui non si vede, come pure il bene, che non fa notizia nei mass media, troppo pieni di informazioni su catastrofi, disgrazie, guerre. Ma se invece guardo con occhi diversi a ciò che le persone fanno per stare al mondo con dignità, lottando anche contro tante difficoltà, allora posso trovare il modo di ringraziare Dio perché la gente fa quello che può e quindi va incoraggiata. La speranza può sorgere e risorgere come primato dell’amore qui, oggi: mentre in altri tempi ci si rifugiava nell’al di là, nel cielo, oggi si cerca il futuro perché nell’indomani è sempre possibile fare qualcosa. Non lo penso solo come teologo; infatti anche nella cultura filosofica, sociale e politica le previsioni più catastrofiste hanno avuto il contrappeso di altre visioni più aperte ad una discussione sulle potenzialità che tengono in piedi il mondo.
Le conseguenze per la vita religiosa, o meglio per la vita monastica, quali potrebbero essere? La forma attuale dei monasteri sparirà, forse all’80%, e non so quale sarà quella che verrà perché non ci sarò più … Comunque, pur in questa morte, i giovani hanno bisogno di sentirsi incoraggiati, dentro e fuori la vita religiosa, a costruire una civiltà basata sul principio-amore che, come dicevo nel primo punto, è il Dono di un Dio unico sempre in comunicazione. E nel pensare alla riforma a largo respiro dei nostri eremi e cenobi, il cardine deve essere la manifestazione della bontà del mondo, mediante, da un lato, una conversione dei singoli ad una visione della vita non più angosciata dal peso del peccato e della morte, e dall’altro, un’attenzione premurosa di tipo umanistico ai fermenti culturali, alimentata dalla speranza di scoprire «se stessi come un altro» (Paul Ricoeur).
Una sfida grossa per la vita religiosa che, radicandosi nell’immagine di Dio Amore presente in tutti, si pone al servizio di tutto ciò che è buono del mondo, senza più lamentarsi del male e della miseria. Sarebbe forse la prima volta nella storia dell’umanità!
* Monaco dell’abbazia francese di La Pierre-qui-Vire, è professore emerito di teologia dogmatica al Pontificio Ateneo Sant’Anselmo e alla Pontificia Università Gregoriana di Roma. Per desiderio dell’A., che ha rivisto il testo tratto dalla registrazione magnetica, l’articolo mantiene il tono colloquiale dell’intervento tenuto a Camaldoli il 3 ottobre 2008, in occasione della Consulta della Congregazione camaldolese dell’Ordine di san Benedetto.
(da Vita Monastica, n. 243, luglio-dicembre 2009)