• 12 Mar

    Alterne vicende ancora riguardo alla discendenza:
    Abimielech e Agar

    Gn 19,30-21,21

    di p. Attilio Franco Fabris

    Il ciclo di Abramo riprende a trattare il tema della discendenza ma con sorpresa si interessa soprattutto alla discendenza di Lot.

    La discendenza di Lot: una soluzione umana: 19,30-38

    Lot dunque “salì a Zoar e andò ad abitare sulla montagna”. Si direbbe che si decida ad obbedire al primo ordine del Signore. Ma non è così: egli sale sulla montagna perché “aveva timore di restare a Zoar”. Dubita della parola del Signore che glielo aveva permesso. Lot appare un uomo assillato dalla paura.

    Egli non trova di meglio che trovare una caverna e lì prendere dimora.

    Sarà sepolto proprio in quel luogo dove ha scelto di vivere.

    Lot è un morto vivente e nella sua scelta trascina anche le sue due figlie.

    Per la paura Lot nega a sé e agli altri la gioia di vivere.

    Il problema: v.31

    Anche le due figlie sono prese dalla stessa angoscia del padre. La paura è contagiosa!

    Non hanno marito e non hanno figli: anch’esse come Abramo si vedono precluso il futuro, la speranza rappresentata da una discendenza. Rivivono la stessa angoscia della sterile Sara. Chi si prenderà cura di loro quando verrà a mancare il padre? Che senso ha la loro vita lì, in una caverna?

    Desiderano in ogni modo sfuggire a questa situazione, ma non hanno la forza e il coraggio di andarsene. Occorre trovare una soluzione, fosse anche con un sotterfugio.

    La maggiore prende l’iniziativa: “Il nostro padre è vecchio… non c’è alcun uomo di questo territorio per unirsi a noi secondo l’uso di tutta la terra”. La figlia è disperata, non ragiona più! Possibile che non ci sia un uomo a Zoar!

    La soluzione proposta: vv. 32-35

    Attraverso uno stratagemma decidono  di avere un figlio dal proprio padre. Lo scopo della loro sconcertante iniziativa non è un piacere incestuoso, ma una soluzione disperata per assicurarsi la vita. A tutto si è disposti per conservarla, tanto è forte l’ansia per essa.

    In questa situazione Lot non merita biasimo; al contrario, si è abusa di lui. Qui sono due donne che abusano di un uomo, il loro padre. L’abuso non è dunque limitato a solo uno dei due sessi.

    Il risultato: vv.36-38

    Lo stratagemma riesce. Le due figlie “concepirono dal loro padre”.

    A loro mettono nome “Moab” (= me’abh = da mio padre) e Ben’Ammì (= Figlio del mio popolo). Da loro la tradizione biblica vede gli antenati dei popoli confinanti Israele: i moabiti e gli ammoniti, guardati da Israele con disprezzo.[1]

    Da questo momento la tradizione biblica non si interesserà più di Lot figura del “padre degli increduli”.

    Che valutazione dare della vicenda?

    Lot è sempre stato preda della paura e dell’ansia per la vita. Questo l’ha portato a scelte infelici: la separazione da Abramo, la scelta di scegliere l’apparente terra migliore e di risiedere nella città, a Sodoma, a rifugiarsi per salvare se stesso in una caverna scegliendo di rimanervi per sempre.

    Dalla stessa paura e ansia sono state contagiate le figlie, che non esitano a compiere un gesto inaccettabile pur di raggiungere anch’esse il loro scopo.

    Sempre la paura e l’ansia per la vita ci portano a compiere scelte contrarie alla vita.

    Quale ruolo giocano nella nostra vita e nelle nostre scelte?

    Non siamo tentati di ricorrere a stratagemmi di qualsiasi genere per salvare noi stessi?

    L’abbandono della madre del figlio promesso: 20,1-18

    Il redattore ci sorprende ancora una volta. Ci narra una nuova situazione nella quale ancora una volta Abramo mette in pericolo la moglie e la realizzazione della promessa, facendo credere che sia sua sorella.

    Sembra che Abramo non abbia imparato nulla: ancora riaffiorano titubanze, paure, diffidenze. Realmente il cuore dell’uomo resiste ad abbandonarsi alla parola, alla buona notizia.

    Abramo discende a Gerar: v.1

    Abramo decide di spostarsi e di “prendere residenza” a Gerar, città al confine sud orientale di Canaan. Il verbo indica che Abramo vi prende residenza “come straniero”, così come già aveva fatto in Egitto. Non si sa il motivo di tale trasferimento. Ha forse timore di restare nei pressi della distrutta Sodoma?

    Abramo parla di Sara: v. 2a

    Se nel primo racconto Abramo parla a Sara per concordare l’inganno del farsi presentare come sua sorella, ora Abramo non gli chiede più nulla. Dice direttamente che è sua sorella.

    Perché lo fa? Il testo per non indica nessuna ragione (lo farà in seguito: vv 11-13).

    Abimelech prende Sara: v. 2b

    Il re Abimelech manda a prendere Sara. Il motivo, anche qui, non lo si sa. Sara ha già quasi novant’anni? Il testo non parla più della sua bellezza!

    Dio avverte Abimelech: vv.3-7

    “Dio venne da Abimelech nel sogno della notte”. Dio dunque non si rivela al solo Abramo, ma anche agli stranieri. Lo fa per rivelare la vera identità di Sara.

    Abimelech che non si è accostato a Sara presenta la sua difesa e giustificazione: le sue intenzioni erano rette. Abimelech non si è unito a Sara, Dio aggiunge: “Fui ancora io a  preservarti dal peccato contro di me; perciò non ho permesso che tu la toccassi.

    Si ribadisce un dato importante: il Signore vuole che Sara partorisca il figlio della promessa, e non un figlio di Abimelech

    Abimelech emerge dal racconto, a differenza di Abramo, come uomo “integro” (cfr. Gn 6,9; 17,1). E’ una vera ironia il fatto che Abramo sarebbe potuto diventare la causa dei peccati di Abimelech, lui che era stato esortato ad essere “integro” (17,1) e ad insegnare alla sua discendenza “la giustizia e il diritto” (18,19).

    Tocca ad Abimelech fare la sua scelta: “Ora restituisci la moglie di quest’uomo: egli è un profeta e pregherà per te, sicché tu conservi la vita”. E’ l’unico testo in cui Abramo riceve l’appellativo di profeta: Abramo è chiamato a svolgere il suo ruolo di mediatore di benedizione.

    Abimelech avverte i suoi servi: v. 8

    La risposta di Abimelech non si fa attendere. Convoca “tutti” i suoi servi e riferisce “tutte queste cose (parole)”.

    Tutti “si impaurirono”. Il verbo è ripetuto più volte nel ciclo di Abramo ed è usato per indicare il timore di Dio, ovvero il rispetto dinanzi alla grandezza e al mistero: tale timore si traduce in un atteggiamento “giusto” davanti a Dio che implica a sua volta obbedienza.

    Abimelech rimprovera Abramo: vv. 9-13

    L’accusa del re è formulata in diverse  domande: “Che cosa ci hai fatto?”.

    Il faraone aveva detto: “Che cosa mi hai fatto?”. Costui si preoccupava solo di se stesso, Abimelech al contrario si prende cura di tutti i suoi.

    Passa poi ad una nuova domanda: “Che colpa ho commesso io contro di te?”

    In questo caso il re Abimelech dimostra molto più senso morale del faraone e dello stesso Abramo: “Cose che non si devono fare tu hai fatto a mio riguardo!”.

    Alle accuse del faraone Abramo non aveva risposto. Adesso egli prende la parola. Ma la sua spiegazione diventa una autocondanna. Dice diverse cose il che lascia intendere che si rende conto che nessuna delle ragioni addotte è sufficiente.

    Dice: “Io mi son detto: forse non c’è timore di Dio in questo luogo… mi uccideranno per causa di mia moglie”. Abramo ha paura: ma paura degli uomini non di Dio. La paura gli fa distorcere la realtà, a rileggerla a partire dalla sua ansia.

    Aggiunge un’altra spiegazione: Sara è davvero sua sorella perché “figlia di mio padre ma non figlia di mia madre”. Ma questo non è un matrimonio incestuoso condannato poi dalla legge? (Lv 18,9.11; Dt 27,22). Abramo comunque ha taciuto sempre una parte di verità.

    Abramo continua: lui stesso ha chiesto a Sara di dire che è suo fratello. La colpa è scaricata in parti uguali. Ma questo non è vero! Abramo non ha chiesto nulla a Sara.

    Altra giustificazione: lui si è comportato così “in ogni luogo” in cui sono andati da quando “Dio mi fece errare lungi dalla casa di mio padre”. A questo punto sembra che Abramo sottintenda un rimprovero a Dio che lo ha reso insicuro facendolo “errare”. E se Abramo lo ha fatto in ogni luogo ammette allora di aver ingannato dovunque la gente. Chi si scusa si accusa.

    Questi sono tutti sotterfugi per sfuggire alla verità di se stessi che risuona nel profondo della coscienza.

    Perché Abramo resiste al riconoscersi umilmente e secondo verità colpevole? Perché volersi nascondere dietro mille scusanti?

    Come mi muoverei io al posto di Abramo?

    Abimelech resituisce Sara: vv. 14-16

    Il faraone aveva detto ad Abramo: “Vattene!”. Abimelech fa il contrario: “Ecco davanti a te il mio territorio; dimora dove ti piace!”. Per lui la coabitazione è possibile. Poi consegna mille pezzi d’argento ad Abramo (una somma enorme) come risarcimento del torto fatto a Sara: la somma attesta che è rimasta fedele al marito, e che non vi è stato adulterio.

    Veramente Abimelech da questo racconto ne esce come persona retta e generosa, ben diversamente da colui che è il depositario della promessa.

    Quanta rettitudine a volte scorgiamo in persone da noi dichiarate “lontane”, e quante meschinità da coloro che si definiscono “praticanti”!

    Abramo intercede: vv. 17-18

    Ora Abramo può mettere in atto la sua intercessione affinché la casa di Abimelech sia guarita dall’impotenza e dalla sterilità. Questo non era stato un castigo ma azione preventiva “per il fatto di Sara moglie di Abramo”.

    Concludendo: se nel primo racconto della discesa di Abramo in Egitto il tema predominante era quello della terra. In questo secondo racconto l’accento è posto sul tema della discendenza. Non manca però un accenno al tema del paese e della benedizione.

    Anche in questa situazione Abramo fa una figura alquanto meschina: dominato ancor una volta dalla paura. Tuttavia quest’uomo imperfetto svolge un ruolo di intercessione per Abimelech e i suoi, che sono più giusti di lui.

    Il dono di Dio, “scandalosamente”, passa attraverso mediazioni povere, segnate dal peccato e dalla debolezza. Esso è posto spesso in fragili “vasi di creta”. La mediazione umana scelta da Dio è sempre segnata dal limite e dall’ambivalenza, da qui il rischio di rifiutarla. Ma Dio “ha scelto ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti, e ciò che nel mondo è debole per confondere i forti, perché sia rivelata a tutti la multiforme grazia di Dio”.

    La nascita del figlio promesso

    Finalmente il nostro racconto giunge a narrare la nascita del figlio della promessa: Isacco.

    I protagonisti del racconto sono tre: Jhwh, Abramo, Sara. E’ un testo stranamente breve per essere un brano centrale del ciclo: esso tuttavia contiene in densità tutti i dati principali dell’esperienza di fede.

    Jhwh mantiene la promessa: vv. 1-2

    “Dio visitò Sara… come aveva promesso” (cfr. 18,10.14).

    Dio “fa” quel che “promette” (= dice). Il bambino è un suo dono, una nascita umanamente impossibile.

    Abramo mantiene i suoi impegni: vv. 3-5

    Abramo agisce secondo il comando di Dio: “Pose nome Isacco a suo figlio” (cfr 17,19).

    Dopo otto giorni lo circoncide (cfr 17,12) facendo entrare il figlio nella alleanza con Jhwh in qualità di erede.

    Tutto ciò accade quando Abramo ha cent’anni e Sara novanta, ovvero dopo venticinque anni di cammino sotto la guida di Jhwh.

    Sara mantiene il suo riso: vv. 6-7

    Sara fa più che partorire. Alla nascita di Isacco il cuore prorompe di gioia e gratitudine. Sara pronunzia una composizione poetica, il che sta a dire lo stupore e la gioia di ciò che si sta vivendo: “Un sorriso ha fatto Dio per me! Quanti lo sapranno rideranno di me!”.

    Essa non nasconde più il suo riso, anzi lo ostenta.

    Gli altri rideranno di me o con me? sarà derisione o condivisione della gioia?

    Noi come rideremmo?

    Sara aggiunge: “Chi avrebbe mai detto?”. Ciò che è accaduto sembrava follia, era impossibile non solo a Sara e ad Abramo ma anche a chiunque l’avesse udita.

    Sara ora non solo è stata in grado di partorire, ma è capace anche di allattare! E’ questa la pienezza del dono, una sovrabbondanza di grazia.[2]

    La cacciata di Agar e Ismaele: 21,8-21

    Ora l’attenzione del redattore si sposta sull’altro figlio, Ismaele figlio della schiava Agar.

    Come si porranno ora i due figli in rapporto alla promessa: ambedue infatti sono figli di Abramo!

    Il brano sembra ripetere quello narrato al c. 16,1-16: ma vi sono differenze: la più vistosa è che se nel primo Sara era sterile e Agar incinta, ora ciascuna delle donne ha un figlio.

    Il problema: vv.8-9

    Isacco “crebbe e fu slattato e Abramo fece un grande convito il giorno in cui Isacco fu divezzato”. Lo svezzamento avveniva intorno ai tre anni. Abramo e Sara hanno ora maggiori garanzie che il bambino vivrà e dunque è l’occasione di far festa alla nuova vita donata.

    Ma durante la festa “Sara vide che il figlio di Agar l’egiziana, quello che essa aveva partorito ad Abramo, “derideva” (o “giocava”) suo figlio Isacco”. Ismaele “deride” ancora una volta il gioco del verbo ridere in riferimento ad Isacco.

    Sara fantastica sul futuro: avverte un pericolo intollerabile, va in ansia, che il più grande, Ismaele, prenda il posto di Isacco. La legislazione normale infatti riconosceva al figlio della padrona solo il diritto di scelta sull’eredità, per il resto aveva gli stessi diritti della figlia della concubina.

    Rivalità, gelosia, paura si fanno sentire nella coscienza di Sara: quando si vivono tali risonanze è difficile essere aperti alla realtà e vedere le cose nella loro giusta dimensione. Sotto la loro spinta si fanno scelte avventate, frettolose, spesso sbagliate.[3]

    La cacciata: vv. 10-14

    Ancora una volta Sara prende l’iniziativa. Dà un ordine ad Abramo: “Scaccia questa serva e il figlio di lei, perché il figlio di questa serva non dev’essere erede con mio figlio Isacco”.

    Sara vede in Ismaele una minaccia per l’eredità di Isacco. Sara evoca il linguaggio della promessa divina per giustificare la sua pretesa (15,4), il che forse spiega perché Dio consenta alla decisione.

    La prima volta Abramo aveva obbedito senza proferir parola; ora invece disapprova la decisione di Sara: “La cosa dispiacque assai ad Abramo, per causa del figlio suo”: Egli non vuole perdere Ismaele, è preoccupato per lui (e Agar?).

    Come noi ci muoveremmo in una situazione simile?

    La situazione è in stallo finché Dio non interviene, prendendo (scandalosamente) le parti di Sara: “Non dispiaccia agli occhi tuoi per riguardo al fanciullo e alla tua serva”. Dio ha un progetto per Ismaele, e questo progetto passa attraverso la debolezza umana. Dio sempre si vuole servire del male per trarre il bene: “Ma io farò diventare una grande nazione anche il figlio della serva, perché è tua discendenza”.

    Abramo dunque decide di mandar via Agar e il figlio: dà stranamente a loro una provvista appena sufficiente per sopravvivere (cfr Dt 15,12-18). Abramo “le consegnò il ragazzo e la cacciò via”.[4]

    Vicino alla morte: vv. 14b-16

    Agar che non ha scelta si avvia con il ragazzo: “partì sviandosi per il deserto di Bersabea”. Il verbo indica l’incertezza, la mancanza di direzione. Questo verbo non viene mai usato per descrivere l’azione degli israeliti nel deserto dopo l’uscita dall’Egitto.

    Cammina “finché fu esaurita l’acqua dell’otre”: non c’è più speranza di sopravvivere.

    Agar si allontana dal figlio: non vuole vederlo morire. Ma egli “alzò la sua voce e pianse”.

    La salvezza: vv. 17-19

    “Dio udì la voce del ragazzo”. L’angelo di Dio chiama Agar “dal cielo” rivolgendole la domanda: “Che hai tu Agar?”. Agar non ha il tempo di rispondere. Il messaggero continua: “Non temere perché Dio ha ascoltato la voce del ragazzo là dove si trova. Alzati! Solleva il ragazzo e stringi con la tua mano la sua, perché io ne farò una grande nazione!”. Vi è il rilancio della promessa per Ismaele in termini ancor più allargati (cfr. 16,10).

    Così Dio riapre ai due un cammino di speranza: “Dio le aprì gli occhi ed essa vide un pozzo d’acqua”.

    Conclusione: vv. 20-21

    Isamele dunque è benedetto da Dio: “Dio fu col ragazzo che crebbe”.

    Agar “gli prese una moglie del paese d’Egitto”: ovvero dal suo paese di origine. Agar vuole la certezza che la discendenza di Ismaele sia egiziana.[5]

    Certamente il comportamento di Sara ed Abramo risulta deplorevole.

    Abramo non ha il coraggio di opporre con forza una sua decisione a quella di Sara.

    Dio stesso sembra prender le parti dell’oppressore.

    Questo storia ha tratti profondamente umani, dove qui si intende segnati profondamente da quelle risonanze che rendono difficile se non impossibile l’accoglienza dell’altro vissuto come pericolo e rivale.

    E’ consolante considerare come Dio si inserisca in questo tessuto di miseria inserendovi la sua storia di salvezza che passa attraverso il nostro male.

    La pienezza della grazia e della promessa potrà essere donata solo in Cristo. Solo in lui vi potrà essere piena riconciliazione lui “che fece dei due un popolo solo abbattendo il muro di separazione cioè l’inimicizia”.



    [1] Deuteronomio 23:3-4 Il bastardo non entrerà nella comunità del Signore; nessuno dei suoi, neppure alla decima generazione, entrerà nella comunità del Signore. L’Ammonita e il Moabita non entreranno nella comunità del Signore; nessuno dei loro discendenti, neppure alla decima generazione, entrerà nella comunità del Signore;

    [2] Ebr 11,11 Per fede anche Sara, sebbene fuori dell’età, ricevette la possibilità di diventare madre perché ritenne fedele colui che glielo aveva promesso

    [3] Gal 4,29 Come allora colui che era nato secondo la carne perseguitava quello nato secondo lo spirito, così accade anche ora.

    [4] Rm 9,7ss Non tutti i discendenti di Israele sono Israele, né per il fatto di essere discendenza di Abramo sono tutti suoi figli. No, ma: In Isacco ti sarà data una discendenza, cioè: non sono considerati figli di Dio i figli della carne, am come discendenza sono considerati solo i figli della promessa.

    [5] Gal 4, 21-31 ditemi, voi volete essere sotto la legge: non sentite, forse cosa dice la legge? Sta scritto infatti che Abramo ebbe due figli, uno dalla schiava e uno dalla donna libera. Ma quello dalla schiava è nato secondo la carne; ma quello dalla donna libera, in virtù della promessa. Ora, tali cose sono dette in allegoria: le due donne infatti rappresentano le due Alleanze; una, quella del monte Sinai, che genera nella schiavitù, rappresentata da Agar – il Sinai è un monte dell’Arabia -; essa corrisponde alla Gerusalemme attuale, che di fatto è schiava insieme ai suoi figli. Invece la Gerusalemme di lassù è libera ed è la nostra madre… Ora, voi, fratelli, siete figli della promessa, alla maniera di Isacco. E come allora colui che era nato secondo la carne perseguiatava quello nato secondo lo spirito, così accade anche ora. Però che cosa dice la Scrittura? Manda via la schiava e suo figlio, perché il figlio della schiava non avrà eredità col figlio della donna libera. Così, fratelli, noi non siamo figli di una schiava, ma di una donna libera.

    Posted by attilio @ 09:50

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