L’uomo: viator e peregrinus
di p. Attilio Franco Fabris
Il poeta G. Gibran, nel suo libro più famoso intitolato, Il Profeta scrive: Noi gli erranti sempre alla ricerca della strada più solitaria, mai iniziamo un giorno là dove ne abbiamo terminato un altro, ed ogni levare di sole non ci trova là dove abbiamo ammirato la luce del vespro. Anche quando la terra dorme viaggiamo”.
L’uomo è presentato come un pellegrino , un pellegrino del tempo. Un tempo inarrestabile, che scorre senza che possa essere afferrato mai, l’uomo non ne è il padrone.
Ma è proprio questa “drammaticità” del tempo che scorre che colloca l’uomo sempre in posizione nuova nei confronti del suo passato e del suo futuro. E’ il tempo che permette un cammino, un progresso, una crescita, una progettualità.
Il camminare perciò è stato assunto nelle diverse culture come una simbolica primaria per esprimere lo scorrere del tempo e della vita. Basti pensare a tutta la simbologia legata al viaggio, al pellegrinaggio, alla salita, alla traversata… Bene perciò il filosofo G. Marcel definisce l’uomo come viator, viaggiatore.
L’uomo dunque immagina, simbolizza se stesso, come un essere in cammino. Ma verso dove? Quale significato dare all’ineffarrabile scorrere del tempo e della vita? Si tratta di darvi un significato.
Certamente si vuol camminare verso la pienezza della vita e della gioia. Tutto l’uomo è teso a questa meta anche se sullo sfondo si delinea l’orizzonte del fiume Lete con la barca di Caronte pronta a far transitare, per l’ultimo viaggio!, l’anima nel luogo dell’oblio dato dal non tempo.
Ma dentro di sé la nostalgia del desiderio di vita e di gioia permane, non si può soffocare: “esule o pellegrino, in fuga o in marcia, l’uomo è spinto da una nostalgia struggente. Un disagio lo rende inquieto; un dolore lo porta a tornare alla sua vera casa. In nessun luogo trova la patria stabile del suo desiderio. Per questo è essenzialmente un camminatore” (S. Fausti).
Il cammino della vita e della storia suggerisce il progredire, il crescere. Dunque il cammino presuppone la durata nel tempo, la pazienza, l’accettazione dell’inevitabile fatica e del rischio, il ravvivare in noi la consapevolezza del cammino stesso e della meta da raggiungere, onde evitare il rischio di percorrere la strada in modo distratto, superficiale e in fin dei conti insensato e inconsapevole.
Senza durata non vi è vita né storia, non vi è crescita. E l’uomo non si trova già bell’e fatto all’inizio, quando esce dal grembo della madre, esso si costruisce giorno per giorno, epoca per epoca: occorre una vita per costruire l’uomo e … non basta!
L’esistenza dell’uomo (e come individuo e come società) ha bisogno perciò della storia. Solo l’uomo è capace di storia (Heidegger parlerà di geschicthe: storia vivente).
Ma questo dato di fatto forse ovvio per noi non bisogna darlo poi per scontato: esso è il frutto, possiamo affermarlo a pieno diritto, di una rivelazione.
Se guardiamo alle civiltà arcaiche (all’antica Grecia per esempio o anche alle filosofie orientali) restiamo colpiti dal fatto che il tempo è svuotato in un certo senso di rilevanza. In esse è viva l’angoscia della vita che sfugge sia a livello di individuo come di cosmo… occorre sfuggirvi ad ogni costo. Lo strumento è la visione mitica di un tempo ciclico, ovvero di un eterno ritorno e incessabile ripetersi delle cose: e questo rende possibile il recupero di tutto ciò che sembra vada irrimediabilmente perduto. Forse il viaggio di Ulisse ne è l’emblema più significativo.
Ovvio che per far questo sia indispensabile sganciarsi dal valore della continuità degli eventi quotidiani; essi assumono significato solo alla luce di un proiettarsi al di là di essi, in un tempo mitico che solo è reale.
Sulla stessa linea, ma con motivazioni diverse, le filosofie dei secoli passati, tralasciando l’insegnamento biblico, posero l’accento e l’attenzione sugli aspetti immutabili dell’uomo: ovvero sulla sua essenza, sulla sua natura, sulla sua anima. La sua storicità passava in second’ordine. Non interessava più di tanto perché ciò che è più vero e più importante è ciò che è al di là del tempo, ciò che è eterno.
Per la storia rimaneva uno sguardo di commiserazione e rassegnazione: una povera valle di lacrime dalla quale occorre sfuggire al più presto.
La filosofia esistenzialista porterà al centro proprio l’uomo, in questo figlia del rinascimento e dell’illuminismo, nel suo collocarsi nel mondo e nella storia. L’esistenza appare come un “cammino”, un “compito da assolvere”. Si è compreso, reagendo alla visione precedente che guardava alla’essenza e all’eterno, che l’esistenza umana è esistenza temporale, che non si realizza in un solo momento, ma in una continua successione di tempi, strettamente vincolati tra loro. Ed è così che si approda ad una visione di uomo “adulto”, trasformato dalla storia che vive ma altresì capace di trasformare la storia stessa.
In questa linea nuove correnti filosofiche accentueranno che ormai l’unico protagonista della storia è l’uomo e solo lui. (Si pensi al marxismo, alle correnti storicistiche, ad autori esistenzialisti come J.P. Sartre). Per essi: “L’uomo sarà in seguito, e sarà quale si sarà fatto… l’uomo non è altro che ciò che si fa”.
Uno sguardo alla nostra cultura rivela un ulteriore accostamento alla storia.
L’uomo di oggi ha scelto di rinunciare alla storia per ripiegarsi sull’istante. Il momento attuale va vissuto con la massima intensità (di piacere) possibile. La nostra cultura vede la ricerca affannosa, angosciata di una moltiplicazione di istanti, che vorrebbero tentare di riempire il vuoto lasciato da una mancata progettualità, e da una mancanza “di memoria” per il proprio passato. Disancorato dal passato e dal futuro l’uomo di oggi si ritrova sospeso sull’istante, ma sospeso sul vuoto. E nessuno è più perso di colui che non sa dove andare.
Ma la rivelazione biblica si parla di un Dio personale e creatore, che intesse un dialogo con l’uomo. Un Dio che ha dato un inizio alla storia e al quale questa appartiene. Con la rivelazione nasce il concetto di storia come luogo teologico, in cui si intesse un rapporto, una storia di alleanza che apre la storia continuamente al futuro di Dio, impedendo al credente di ricadere sia in una visione ciclica della storia stessa, come nel suo svuotamento di significato.
La nostra società umana e ciascuno di noi si colloca in un punto preciso del tempo, con una tensione aperta a diverse possibilità.
Ci vediamo situati in una tensione tra un passato già realizzato e un futuro sempre aperto.
Siamo certi che è possibile intervenire nel divenire storico attraverso le nostre decisioni, il nostro lavoro e la nostra testimoniaza fattiva di credenti.
Siamo altresì consapevoli che il nostro cammino deve essere assunto come compito da svolgere responsabilmente sia verso se stessi ma anche verso gli altri. Non è indifferenti che io porti o no a compimento il mio viaggio: esso non sarà compiuto da nessun altro. Esso è rimarrà unico.
Per ciascuno il presente è l’aspetto predominante, l’unico realmente posseduto. Un presente però che si estende sia nelle radici del passato come nella progettualità del futuro. Il passato è passato in quanto rimane nel presente come “memoria”, fondamento del mio attuale esistere. Il futuro appare futuro perché già ora, nel presente è anticipato come appello, compito, progetto di crescita. L’uomo è soggetto di speranza.
Si tratta dunque di un presente teso dinamicamente tra passato e futuro. Se ciò non fosse sarebbe ridotto ad un semplice istante sospeso nel vuoto, nel nulla.
Con queste considerazioni vogliamo prendere coscienza che di fronte alla vita, a questo nuovo millennio che ci si apre dinanzi, non possiamo assumere atteggiamenti errati.
Essi potrebbero essere sintetizzati così:
– il fatalismo e la rassegnazione: è una forte tentazione in questa fase storica di passaggio in cui ci sembra spesso di brancolare del buio.
– L’alibi: il cercare giustificazioni per non assumersi la resposabilità del proprio e altrui cammino
– Il ripiegamento sull’istante privo di “memoria” e di “speranza”, e di progettualità.