• 14 Feb

    LE PREPARAZIONI


    7. Sacramento della Pasqua

    L’eucaristia, “sacramento dell’alleanza”, è anche il “sacramento della pasqua”.

    E’ il secondo aspetto della realtà eucaristica. Che cosa vuol dire?

    Questo termine – la pasqua – è come le vecchie monete di uso quotidiano: iscrizioni e immagini non sono più leggibili.  Non si sa più qual è l’origine precisa del termine che designa la festa più popolare degli ebrei e dei cristiani.  “Passaggio del Signore”? O dell’angelo sterminatore che “salta” le abitazioni segnate con il sangue?  “Passaggio” del mar Rosso? “Passaggio” verso il deserto?…

    “Saltare”, “passare”, poco importa: ebrei e cristiani sapranno che “pasqua” è il nodo della loro salvezza.


    1. “Mangiare questa pasqua con voi”

    Gesù è impaziente: il giovedì santo, affermerà: “Ho desiderato ardentemente di mangiare questa Pasqua con voi, prima della mia passione” (Lc 22,15).

    Per istituire l’eucaristia, aspetterà proprio la settimana della pasqua ebraica di quell’anno in cui l’odio è maturo per ucciderlo.

    Quando ormai il pericolo è imminente, “Gesù non si fa più vedere in pubblico tra i giudei; si ritira nella regione vicina al deserto, in una città chiamata Efraim, dove si trattiene con i suoi discepoli” (Gv 11,54).

    Quando la pasqua è però vicina, Gesù riappare; con passo deciso va incontro alla morte e trascina con sé gli apostoli impauriti.  Hanno luogo allora la provocatoria manifestazione delle palme, la cacciata dei venditori dal tempio, lo scontro aperto con i suoi avversari.

    Molti dei giudei che erano venuti da Maria (sorella di Lazzaro), alla vista di quel che egli aveva compiuto, credettero in lui… Allora i sommi sacerdoti e i farisei riunirono il sinedrio… e da quel giorno decisero di ucciderlo.  Gesù pertanto non si faceva più vedere in pubblico tra i giudei; egli si ritirò di là nella regione vicina al deserto, in una città chiamata Efraim, dove si trattenne coi suoi discepoli.  Era vicina la pasqua dei giudei e molti dalla regione andarono a Gerusalemme prima della pasqua per purificarsi.  Essi cercavano Gesù e stando nel tempio dicevano tra loro: “Che ve ne pare?  Non verrà egli alla festa?”.  Intanto i sommi sacerdoti e i farisei avevano dato ordine che chiunque sapesse dove si trovava lo denunziasse, perché essi potessero prenderlo. (Gv 11,45-57)

    E’ la sua ora.  E’ lui che fissa questa data della pasqua per il suo compimento: l’ora pasquale, né prima, né dopo.  Non ci si deve ingannare: il sangue che egli verserà è “il sangue dell’alleanza”, “il sangue dell’agnello” pasquale, il sangue annunciato dal rituale antico.

    Egli stesso indica esplicitamente il suo riferimento alla pasqua ebraica: “Voi sapete che fra due giorni è Pasqua e che il Figlio dell’uomo sarà consegnato per essere crocifisso” (Mt 26, 1).

    Manda Pietro e Giovanni a preparare quella pasqua ebraica, che dovrà essere l’ultima cena: “Andate e preparate per noi la pasqua, perché possiamo mangiare” (Lc 22,7).

    Durante il pasto, Gesù sottolinea la situazione della pasqua che sta per celebrare: non la abolisce, ma al contrario la porta “a compimento”, la “completa”. E il mezzo di questo “compimento” è l’eucaristia che istituisce: “Ho desiderato ardentemente di mangiare questa pasqua con voi, prima della mia passione, poiché vi dico: non la mangerò più, finché essa non si compia nel regno di Dio. “E preso un calice… Poi preso un pane…” (Lc 22,15ss).

    La cena del giovedì santo e il sacrificio del venerdì sono dunque, insieme, la pasqua ebraica in via di “compimento” verso la pasqua “che verrà ” alla fine dei tempi.

    Com’è possibile ignorare questi collegamenti? Che cosa comprendiamo del “Cristo, nostra pasqua, che è stato immolato” (1Cor 5,7), se non sappiamo ciò che ha riempito il cuore di Cristo e degli apostoli durante quell’ultima e prima pasqua del giovedì santo?  Che cosa era per loro la Pasqua?

    2. La pasqua primaverile e pastorizia

    Questa festa di origine cananea risale senza dubbio a molto tempo prima dell’esodo dall’Egitto.  Ha la stessa età della primavera, dei greggi e dei pastori.  E’ il “sacrificio di Abele”.

    “In origine, la pasqua è una festa di famiglia.  La si celebra di notte, nel plenilunio dell’equinozio di primavera, il 14 del mese di abib o delle spighe (chiamato nisan dopo l’esilio).  Si offre a Dio un animale giovane, nato nell’anno, per attirare le benedizioni divine sul gregge.  La vittima è un agnello o un capretto, maschio, senza difetti; non gli si deve spezzare alcun osso.  Il suo sangue è posto, in segno di preservazione, all’ingresso di ogni dimora” (DTB).

    La sua carne è mangiata con rispetto in segno di comunione con Dio.  Forse il termine “pasqua” deriva da una “festicciola” sacrificale attorno all’agnello, o al fuoco.

    L’Esodo darà poi a questa festa il suo significato definitivo: la pasqua nomade diventerà la pasqua ebraica. Ricorderà l’uscita dall’Egitto, la liberazione “con braccio potente”, l’alleanza rinnovata sul Sinai…

    Sarà la festa, sempre attuale, dell’onnipotenza e dell’amore di JHWH, per il passato, per il presente e per il futuro.

    3. Affamato, schiavo, straniero

    Abramo era nomade nel Negheb. E’ il “paese asciutto”, la regione meridionale della Palestina.  “Venne una carestia nel paese e Abramo scese in Egitto per soggiornarvi, perché la carestia gravava sul paese” (Gen 12, 1 0).  In tempi migliori, poi, tornerà in Canaan e vi prospererà.

    Ma suo nipote Giacobbe e la sua famiglia vi patiscono nuovamente la fame. Mangiare, mangiare per vivere, è sempre la prima verità umana… e sacramentale. Ripartono dunque per l’Egitto dove Giuseppe li sistema nel delta del Nilo.

    Là gli ebrei (= “quelli che vengono da altrove”, gli “stranieri”) vivono in pace e si moltiplicano per quattrocento anni. Verso il 1310 a.C., il faraone Seti I inizia a sviluppare il delta per la coltura intensiva del grano e la costruzione di città-deposito per il suo commercio.  Il successore Ramses II ricorre alla schiavitù: gli ebrei sono costretti a lavorare duramente.

    Affamato, schiavo, in una terra straniera: questa è la situazione del popolo di Dio seicento anni dopo Abramo.  Proprio quella del figlio “prodigo” di cui parlerà Gesù (Lc 15) per caratterizzare la condizione dell’uomo bisognoso di salvezza.

    Nella notte però spunta una luce.

    4. Colui che è presente

    Per fede Mosè appena nato fu tenuto nascosto per tre mesi dai suoi genitori, perché videro che il bambino era bello; e non ebbero paura dell’editto del re.  Per fede Mosè, divenuto adulto, rifiutò d’essere chiamato figlio della figlia del faraone, preferendo essere maltrattato con il popolo di Dio piuttosto che godere per breve tempo del peccato.  Questo perché stimava l’obbrobrio di Cristo ricchezza maggiore dei tesori d’Egitto; guardava infatti alla ricompensa.  Per fede lasciò l’Egitto, senza temere l’ira del re; rimase infatti saldo come se vedesse l’invisibile. (Eb 11,23-27)

    Un giorno, Mosè vede un sorvegliante egiziano che colpisce uno dei suoi fratelli ebrei.  Ribellatosi a tale angheria, Mosè colpisce a morte l’egiziano e deve fuggire nel deserto di Madian (Arabia Saudita).  Là mentre pascola il gregge sulle pendici del Sinai, (chiamato anche Oreb), esperimenta Dio come presente in un roveto ardente.  Il Signore gli dice:

    “Ho osservato la miseria del mio popolo.  Sono sceso per liberarlo… e per farlo uscire verso un paese bello e spazioso.  Va’. lo sarò con te… (il mio nome è) lo sono colui che sono” (Es 3,7ss).

    E’ il nome del Dio della storia: Jahvé, Emmanuele, “Dio-con-noi”…

    Dio è colui che è, “è colui che è presente” per agire.  Propone perciò la fede attraverso atti storici che cambiano l’avventura umana. Sarà questa la caratteristica fondamentale del cristianesimo autentico.  Dio non può rinnegare se stesso.

    Anche Gesù si presenterà come “colui-che-viene”.  Che viene per che cosa?

    “lo sono ‘Cristo’, dice Gesù, “ho ricevuto l’unzione per annunziare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione, per rimettere in libertà gli oppressi” (cfr. Lc 4,18ss).

    “Io sono” (Gv 8,58), “Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28,20), dice Cristo.  Ed è l’eucaristia che in primo luogo, assicura sacramentalmente questa presenza.

    Se non è presenza reale, e perciò presenza attiva, liberante, buona novella ai poveri, agli oppressi, non è più la presenza di Dio, ma il sonnifero dei privilegiati, degli incoscienti e dei linfatici.  Il Dio dell’eucaristia è in testa a un cammino di liberazione.  Comunicarsi significa partire, “camminare al seguito di”, più che adorazione e culto.  Il cammino del popolo “al seguito di” Jahvé, il cammino del cristiano “al seguito di” Gesù, nella povertà, nell’impegno, fino alla morte, sono la forma della stessa fede, sono lo stesso movimento, che continua.

    La comunione deve concludersi con la domanda di Saulo caduto a terra sulla via di Damasco: “Che devo fare,  Signore?” (At 22, 1 0; cfr. 9,6).

    5. L’agnello di Dio

    “lo sono il Signore!  Vi sottrarrò ai gravami degli egiziani, vi libererò dalla loro schiavitù e vi libererò con braccio teso” (Es 6,6).

    “Alla liberazione creatrice commemorata dalla pasqua e al carattere laborioso, oneroso della grande opera divina, corrisponde il titolo di “redentore”, già dato a Jahvé nell’antico testamento.  Il redentore è colui che redime uno schiavo e ne fa così un uomo libero.  Cf. per esempio, Lv 27,13,19 e 3 1; Is 44,23 o 48,20.  Ma l’applicazione a Dio salvatore del termine non conoscerà affatto sviluppi arricchenti prima dei nuovo testamento” (L. Bouyer)

    Ha allora inizio, contro gli oppressori, una serie di fatti molto colorita: le piaghe d’Egitto.  Una serie di sciagure in cui si legge chiaramente l’azione di Jahvé per forzare la mano al faraone.

    La piaga ultima e decisiva, la morte dei primogeniti, quella che effettivamente salverà Israele, coincide con il pasto dell’agnello pasquale e ne è il frutto (Es 12).

    Tale pasto comprende circostanze ed elementi “tipici”, che sono riconosciuti e rivissuti nell’eucaristia.

    E’ una grande partenza, di notte.  Ogni famiglia si prepara in silenzio, febbrilmente, con la cintura ai fianchi, i sandali ai piedi e il bastone in mano (Es 12,1 1).

    La nostra eucaristia è ancora un “passaggio”, una ” pasqua”, un esodo? Dovrebbe esserlo.  Noi non siamo di quaggiù!  Non siamo sedentari, insediati, ma nomadi.  La comunione è un cibo di viaggio, un pasto di tappa, per camminare senza venir meno fino al termine della traversata.  “Dio mio, sarà per questa notte?”.

    Si è scelto un agnello senza difetto. Uno per famiglia.  Lo si immola senza spezzargli alcun osso.  Il suo sangue, sulle porte, farà sì che siano “saltati”, quando passerà” l’angelo sterminatore.  La morte entrerà in ogni casa, che non sarà segnata con il sangue dell’agnello.

    Si mangerà la carne dell’agnello con il pane che, per la fretta, il popolo non avrà avuto il tempo di far fermentare, e con erbe amare, in contrasto con le cipolle d’Egitto che saranno rimpiante durante la traversata del deserto.

    La pasqua è un mistero a cui deve partecipare “tutta l’assemblea della comunità d’Israele” (12,6), e a cui, per altro verso, possono partecipare solo i membri di questo popolo (12,43-44).  Chi se ne astiene, si esclude dal popolo di Dio.

    L’israelita stesso può prendervi parte solo in unione con la totalità del suo popolo.  La Pasqua non è un rito individuale. Il popolo è salvato insieme, in uno stesso e unico “passaggio” dall’idolatria e dalla schiavitù alla libertà del deserto e all’alleanza con Dio: celebra e celebrerà continuamente la sua salvezza nel rito efficace dell’agnello pasquale…

    Cristo crocifisso è il vero agnello pasquale.  Paolo lo celebra come “nostra pasqua immolata” (1Cor 5,7).  Pietro ci ricorda che siamo stati “liberati con il sangue prezioso di Cristo, come di agnello senza difetti e senza macchia” (1 Pt 1, 19).  Giovanni Battista lo presenta come “l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo” (Gv 1,29).  L’evangelista Giovanni sottolinea che i giudei hanno celebrato la pasqua la sera del venerdì santo; hanno perciò immolato l’agnello nel pomeriggio, proprio nell’ora della morte di Gesù; e conclude il suo racconto su un dettaglio che fa, dell’immolazione dell’agnello, una profezia di quella di Gesù: “Questo avvenne perché si adempisse la scrittura: Non gli sarà spezzato alcun osso” (19,36).  Nell’Apocalisse, infine, il salvatore ci è presentato per una trentina di volte come un agnello immolato e sempre vivo, in piedi, e signore della storia (cap. 5-7).

    Uno dei vegliardi allora si rivolse a me e disse: “Quelli che sono vestiti di bianco, chi sono e donde vengono?”.  Gli risposi: “Signore mio, tu lo sai”.  E lui: “Essi sono coloro che sono passati attraverso la grande tribolazione e hanno lavato le loro vesti rendendole candide coi sangue dell’agnello.  Per questo stanno davanti al trono di Dio e gli prestano servizio notte e giorno nel suo santuario; e colui che siede sul trono stenderà la sua tenda sopra di loro.  Non avranno più fame, né avranno più sete, né li colpirà il sole, né arsura di sorta, perché l’agnello che sta in mezzo al trono sarà il loro pastore e li guiderà alle fonti delle acque della vita.  E Dio tergerà ogni lacrima dai loro occhi”. (Ap 7,13-17)

    L’agnello di Dio, nel suo sacrificio pasquale, nella sua cena pasquale: questa è la messa…

    Un popolo muore, perché non mangia la carne dei Figlio dell’uomo e non beve il suo sangue.  Un popolo ha la vita eterna, perché mangia la sua carne e beve il suo sangue (Gv 6,53ss).

    Un mondo sfugge ai colpi dello sterminio, perché le sue “porte” sono bagnate con il sangue dell’agnello.

    Di qui deriva il dialogo che precede il nostro accostarci alla mensa dell’agnello pasquale:

    Agnello di Dio, che togli i peccati del mondo, abbi pietà di noi!

    Ecco l’agnello di Dio che toglie i peccati del mondo.


    6. La traversata del deserto


    Sotto i colpi dello sterminatore, l’Egitto lascia la presa e Israele fugge.  Solo Dio poteva – e solo Dio può – strappare il suo popolo alla schiavitù e all’idolatria.  L’ha fatto attraverso il “vaglio” del deserto.

    Il deserto è il “passaggio” necessario verso la terra delle promesse.  Per gli ebrei, fu il periodo del meglio e del peggio: del meglio per il cammino con Dio, la povertà senza attaccamento, l’alleanza del Sinai; del peggio per gli sguardi indietro verso le pentole dell’Egitto, il vitello d’oro, la prostituzione e le apostasie (Nm 20-25).

    Infedeltà dell’uomo, della chiesa, pazienza e perdono di Dio.  Questi tratti duraturi, ciclici, rimarranno, fino alla fine dei tempi, le caratteristiche del cammino della coppia dell’alleanza: l’uomo e Dio.

    La liberazione non ha mai termine; le purificazioni del deserto sono sempre da ricominciare; le misericordie gratuite del Signore non si stancano; la terra promessa è sempre da conquistare…

    Tutto questo “passaggio”, inaugurato con la pasqua ebraica, che apre il ciclo dell’esodo, continua e si consumerà nella pasqua della nuova ed eterna alleanza. E’ la pasqua eucaristica di cui la prima era soltanto la figura.  La carne dell’agnello e il pane azzimo della prima pasqua dell’esodo saranno sostituiti, durante il cammino, dalla manna miracolosa e piena d’ogni dolcezza”.

    Sfamasti il tuo popolo con un cibo degli angeli, dal cielo offristi un pane già pronto senza fatica, capace di procurare ogni delizia e soddisfare ogni gusto.  Questo tuo alimento manifestava la tua dolcezza verso i tuoi figli; esso s’adattava al gusto di chi lo inghiottiva e si trasformava in ciò che ognuno desiderava. (Sap 16,20-21)

    Cesserà di cadere solo dopo la celebrazione della prima pasqua nella terra promessa.  Tuttavia, era soltanto un’immagine: “I vostri padri“, dirà Gesù, “hanno mangiato la manna nel deserto e sono morti“.  Ed ecco la realtà: “Se uno mangia il pane vivo, disceso dal cielo, vivrà in eterno” (Gv 6,49).

    7. Il pasto e il sangue dell’alleanza

    La traversata del deserto è segnata dal più grande evento della storia ebraica: il rinnovamento dell’alleanza.  Un tempo, essa era stata stipulata con un amico, Abramo; ora è ripresa con il popolo dei suoi discendenti, per farne pienamente “il popolo di Dio… un regno di sacerdoti e una nazione santa” (Es 19,6).

    Il Signore dà a Mosé per il popolo, le “dieci parole” (il “deca-logo”) e il codice dell’alleanza. Il popolo acconsente.  Resta da suggellare il patto nella forma dovuta (Es 24).

    Con un sacrificio, certamente, perché uno dei contraenti è la fonte della vita e d’ogni cosa.  Ma questo sacrificio sarà inserito in un rito di alleanza.

    Mosè… costruì un altare ai piedi del monte, con dodici stele per le dodici tribù d’Israele.  Incaricò alcuni giovani tra gli israeliti d’offrire olocausti e di sacrificare giovenchi come sacrifici di comunione, per il Signore.  Mosè prese la metà del sangue e la mise in tanti catini e ne versò l’altra metà sull’altare.  Quindi prese il libro dell’alleanza e lo lesse alla presenza del popolo.  Dissero: “Quanto il Signore ha ordinato, noi lo faremo e lo eseguiremo!”.  Allora Mosè prese il sangue e ne asperse il popolo, dicendo: “Ecco il sangue dell’alleanza, che il Signore ha concluso con voi sulla base di tutte queste parole!” (Es 24,4-8)

    Si tratta di diventare “fratelli di sangue”, “sposi di sangue”.

    Il sangue delle vittime è perciò sparso sia sull’altare che rappresenta Dio, sia sul popolo raffigurato da dodici stele: ormai un unico sangue, un’unica vita circolano nelle due parti contraenti e fanno, di due, come un solo essere vivente…

    Nelle vene del Figlio di Dio diventato figlio di Abramo, circolerà infatti un solo sangue, che sarà il sangue dell’ebreo e il sangue di Dio.  Un vero sangue d’uomo sarà il vero sangue di Dio.  E’ “il sangue dell’alleanza”  versato nell’unico sacrificio, il sacrificio della croce e della messa.  Il sangue del pasto eucaristico:  “Prendete e bevetene tutti, questo è il calice del mio sangue versato”.

    Un pasto eucaristico è presente anche all’alleanza del Sinai.  Dopo l’aspersione col sangue, Mosè, Aronne e i settanta anziani di Israele salirono sul Sinai.  “Essi videro Dio e tuttavia mangiarono e bevvero” (Es 24,1 1).  Come avvenne questo incontro?  Non lo sappiamo.  Ci sono però nel racconto due annotazioni di estrema importanza:

    – il popolo è l’invitato di Dio per un pasto gioioso che stabilisce la comunione tra i partecipanti e Dio;

    – questa comunione è l’inizio della visione di Dio.


    8. Alleanza e legge


    L’alleanza conclusa con il popolo del Sinai è profondamente diversa da quella conclusa con Abramo, almeno a un primo esame.  Questa era incondizionata, senza contropartita; quella del Sinai comporta il decalogo e il codice dell’alleanza.

    Si tratta di provocare la responsabilità dell’uomo, d’educare alla libertà questo popolo-neonato.

    A molti secoli di distanza, per l’esperienza fatta e per opera dello Spirito santo che lo ispirava, s. Paolo comprenderà che l’uomo è perduto, se si afferra solamente all’alleanza mosaica, per il fatto che egli è radicalmente peccatore.  Al di là delle sue opere, al di là della fedeltà ai precetti, l’uomo ha accesso alla salvezza solo nella alleanza di pura grazia, di pura amicizia, stabilita con Abramo e realizzata con la morte e la risurrezione di Gesù Cristo.

    Un testamento legittimo, pur essendo solo un atto umano, nessuno lo dichiara nullo o vi aggiunge qualche cosa.  Ora è appunto ad Abramo e alla sua discendenza che furono fatte le promesse.  Non dice la scrittura: ,le ai tuoi discendenti”, come se si trattasse di molti, ma “e alla tua discendenza”, come a uno solo, cioè Cristo.  Ora io dico: un testamento stabilito in precedenza da Dio stesso, non può dichiararlo nullo una legge che è venuta quattrocentotrenta anni dopo annullando così la promessa.  Se infatti l’eredità s’ottenesse in base alla legge, non sarebbe più in base alla promessa; Dio invece concesse il suo favore ad Abramo mediante la promessa (Gal 3,15-18)

    Il sacramento più grande potrà essere solo quello della più grande misericordia:      il sacramento dell’amore di Dio.

    Un grande monaco del secolo XI esprime molto bene il cuore di Cristo quando scrive: “Lo spirito è pronto, ma la carne è debole”, disse il creatore e il conoscitore della carne e dello spirito.  Per questo, avendo conosciuto la nostra debolezza, egli che ci ha creati, e avendo saputo la nostra impotenza di uomini fragili e disarmati a resistere al forte e all’armato, se non ci protegge colui che è più forte, ci ha donato, contro l’odio implacabile dell’antico avversario, la protezione invincibile del pane quotidiano… Egli che scruta i cuori con bontà, ha saputo ugualmente che la nostra strada di corruzione era tenebrosa e sdrucciolevole e che nessun uomo poteva percorrerla senza danno.  Per questo, poiché ogni giorno siamo esposti ai pericoli, ogni giorno cadiamo, ogni giorno siamo malati, si è degnato di offrirci la sua presenza ogni giorno nel mistero del suo corpo e del suo sangue, affinché da questa presenza siamo liberati, sollevati, e avviati alla convalescenza”  (Francon d’Afflighem).

    SACRAMENTO DELLA PASQUA

    “Il Signore, avendo amato i suoi, li amò sino alla fine. Sapendo che era giunta la sua Ora di passare da questo mondo al Padre, mentre  cenavano, lavò loro i piedi e diede loro il comandamento dell’amore (Gv 13,1-17). Per lasciare loro un pegno di questo amore, per non allontanarsi mai dai suoi e renderli partecipi della sua Pasqua, istituì l’Eucaristia come memoriale della sua morte e della sua risurrezione, e comandò ai suoi discepoli di celebrarla fino al suo ritorno, costituendoli “in quel momento sacerdoti della Nuova Alleanza”.

    Gesù ha scelto il tempo della Pasqua per compiere ciò che aveva annunziato a Cafarnao: dare ai suoi discepoli il suo Corpo e il Suo sangue.

    Celebrando l’ultima Cena con i suoi Apostoli durante un banchetto pasquale, Gesù ha dato alla pasqua ebraica il suo significato definitivo. Infatti la nuova Pasqua, il passaggio di Gesù al Padre attraverso la sua Morte e la sua Risurrezione, è anticipata nella Cena e celebrata nell’eucaristia, che porta a compimento la pasqua ebraica e anticipa la pasqua finale della Chiesa nella gloria del Regno”.

    Catechismo della Chiesa Cattolica, 1337-1339-1340

    ***

    La pasqua ebraica celebra la salvezza del popolo ebraico dalla strage dell’angelo sterminatore dei primogeniti egiziani. Il sangue dell’agnello asperso sugli architravi delle porte fa sì che il popolo eletto abbia la vita.

    In quella notte gli ebrei mangiano della carne di quell’agnello: in fretta perché la liberazione è imminente.

    Quel sangue e quell’agnello prefigurano il sacrificio di Cristo: il sacrificio che apre le porte della vita  al popolo salvato.

    Cfr.:  Es 12; 1Pt 1,19; Gv 1,29

    ***

    Lungo il cammino nel deserto ha luogo la solenne stipulazione dell’alleanza tra JHWH e il suo popolo. Un’alleanza stipulata nel sangue di un agnello asperso sull’altare e sul popolo ad indicare ormai una imprescindibile comunione di vita e di destino.

    Nel sacrificio eucaristico quel sangue è il sangue del Figlio di Dio dato a noi come bevanda: un’indissolubile comunione di vita e di destino.

    Cfr.: Es 24

    ***

    L’eucaristia ci si presenta dunque come pasqua, cammino da intraprendere dietro a Cristo, condividendo con lui il suo destino, nella fede che attraverso la sua morte perverremo alla sua risurrezione. L’eucaristia non ci ripiega, non ci ferma: al contrario mette in cammino, ci prospetta una direzione e una meta.

    Se il sacramento nella nostra vita personale e comunitaria non riveste tale dinamismo a che serve, quale il suo valore per noi?

    Posted by attilio @ 11:02

Leave a Comment

Please note: Comment moderation is enabled and may delay your comment. There is no need to resubmit your comment.