30
Dic
ANDRE’ LOUF
LA DIMENSIONE APOSTOLICA E CONTEMPLATIVA
DELLA VITA RELIGIOSA
Conferenza del novembre 1983 in occasione della Sessione nazionale dei Vicari episcopali per gli istituti dei religiosi e delle religiose di Francia. Pubblicata in Vie consacrée 3 (1985), pp. 147-164
Distinguere tra contemplativi e attivi?
Qualche settimana fa, ricevendo il programma di quest’assemblea, ho preso visione del titolo definitivo del mio intervento, e mi sono accorto – avventura che talvolta tocca al malcapitato relatore – che si era verificato uno slittamento tra l’argomento che mi era stato originariamente proposto – o per lo meno che avevo forse troppo frettolosamente capito, in ogni caso, quello che avevo preparato – e l’argomento che figurava invece sul programma definitivo: ‘La dimensione apostolica e contemplativa della vita religiosa”.
In un primo momento, infatti, mi era sembrato di capire che si attendesse da me una testimonianza sul modo in cui i contemplativi e le contemplative, ed essi soli, cercano di vivere questa duplice dimensione, contemplativa e apostolica allo stesso tempo, della loro vita; e che un altro religioso, presumibilmente appartenente agli “attivi”, ci avrebbe parlato di questa stessa duplice dimensione all’interno della sua specifica esperienza di una vita più impegnata nel servizio.
Fatta questa riflessione, ho finito poi per rallegrarmi dell’inatteso slittamento. Rimanevo intenzionato a partire, nella mia testimonianza, da un certo tipo di vita contemplativa – e come potrei fare altrimenti, dal momento che è quella dove sono nato all’esperienza spirituale? Ma una testimonianza del genere sarebbe stata poi tanto differente da quella di un religioso impegnato nella vita detta apostolica? Certamente il quadro esteriore, il terreno d’azione, il ritmo di vita possono differire notevolmente, ma questi non sono altro che segni di un’esperienza interiore, che si sviluppa a livello della vita battesimale e di fede, e che è comune a tutti, un’esperienza interiore che, a una certa profondità, dovrebbe lasciar cadere le distinzioni e le catalogazioni esteriori tra attivi e contemplativi. Possibile che non ci sia a priori, in qualche ambito, un terreno comune, una fonte condivisa da tutti?
Formulando questa domanda in piena semplicità davanti a voi, sin dal mio esordio, sono cosciente di scoprire già le mie carte e di prendere posizione su quello che seguirà. In realtà, più si approfondisce l’esperienza del credente, e si cerca di discernere qualcosa di quella misteriosa vita detta spirituale o interiore -ma che importa la scelta più o meno felice, più o meno antiquata dei termini, quando si tratta della vita stessa di Dio e del suo soffio che si muove nelle nostre viscere? -, più si cerca di discernere questa vita, più velocemente crolla e anzi svanisce il confine che una certa comodità di linguaggio ci porta sempre a tracciare tra due generi di vita, o tra due tempi forti di una stessa esperienza: vita attiva e vita contemplativa.
In fondo, venendo a testimoniare davanti a voi oggi, è forse questo ciò che più mi sta a cuore di dirvi, ed è anche per questa via che sarò portato a uscire un po’ dall’ambito dei contemplativi in senso stretto, per parlare dell’insieme della vita religiosa, così come la sento al cuore della mia personale vocazione di monaco. Ed è anche per questo che potrò perdonare a chi di dovere lo slittamento avvenuto tra l’argomento proposto all’inizio e quello che è stato fissato alla fine sul programma, e persino dargli ragione.
Se poi mi occorresse un motivo supplementare per motivare questo slittamento, farò allusione a un sentimento d’imbarazzo, che forse avrete incontrato nel vostro ministero a servizio della vita religiosa: quell’imbarazzo che la maggior parte dei contemplativi e delle contemplative provano quando li sì vuole insignire di questo titolo. Un disagio che non si spiega soltanto con la fine di un certo trionfalismo di quella che soleva definirsi la parte migliore, smorzato, qui come altrove, nella chiesa. Non esprime neanche la diffidenza oggi di moda verso un termine sospettato di neoplatonismo da una parte dell’intellighenzia, anche credente – i contemplativi sono generalmente gente troppo semplice per aver sentore di simili scaramucce. No, essi credono profondamente al loro genere dì vita. Anche alla contemplazione, nel senso in cui ne parla loro un’antichissima tradizione. Ma si sentono a disagio quando si pretende di definire tutta la loro vita con quello che non ne costituisce che una dimensione, fondamentale e importante certo, ma che essi sentono peraltro così fragile, direi quasi precaria. Una dimensione che non è affatto alla loro portata, perché è pura grazia. Chi oserebbe presentare se stesso come “contemplativo” o “specialista in contemplazione”? E poi la contemplazione non è qualcosa che appartiene loro in modo esclusivo; infatti ci sono certamente più contemplativi al di fuori dei monasteri che all’interno. Infine essa rischia di sminuire altri aspetti non meno importanti della loro esperienza di credenti.
Questo malessere dei contemplativi di fronte al titolo che si conferisce loro esprime a suo modo come la distinzione tra vita contemplativa e vita attiva, riguardo al vissuto di tutti i giorni, non sia completamente adeguata. Forse le due si raggiungono in un fondamento comune che sarebbe importante esplorare. Tuttavia resta una distinzione comoda, e non vorrei neanche rinunciarvi. Tanto più che, contrariamente al Codice di diritto canonico del 1917, quello attualmente in vigore autorizza ufficialmente, sulle orme del concilio, il fatto di essere “interamente ordinati alla vita contemplativa”.
I contemplativi dal punto di vista canonico
Un Codice di diritto canonico non tratta, certo, della contemplazione nel senso teologale del termine, sulla quale il diritto non ha alcuna competenza, ma della vita contemplativa “canonica”, che il diritto può e deve talora regolamentare con certe modalità.
Sono molto contento che il nuovo Codice abbia voluto farlo. Il diritto non esiste per reprimere o per opprimere. La sua funzione primaria è quella di liberare, di rendere possibile, dì favorire ciò che si deve realizzare, e anche proteggerci da quanto potrebbe danneggiare tutto ciò. E’ normale che il Codice precisi alcune condizioni perché una vita religiosa, che si vuole contemplativa, possa esserlo a pieno titolo all’interno delle strutture ecclesiali.
Soffermandoci per qualche istante, se siete d’accordo, sui canoni che affrontano l’argomento, potremo mettere a fuoco una delle costanti, non solo di quella vita che è detta contemplativa, ma, io credo, di ogni vita religiosa.
Se non erro, la dizione istituto interamente ordinato alla vita contemplativa compare due volte nel nuovo Codice. Prima al canone 667, che tratta della clausura. Quest’ultima, è importante notarlo, è richiesta a tutte le forme di vita religiosa; nei monasteri di vita contemplativa sarà più stretta. E anzi, quando si tratta di monache contemplative, questa clausura sarà papale, vale a dire che le norme che la regolano saranno messe a punto o approvate dalla santa sede in prima persona. Dunque ecco già una delle costanti di ogni vita religiosa, ma che è particolarmente evidenziata dai contemplativi: il religioso comincia con il prendere una certa distanza nei confronti del mondo. Egli appartiene a quella porzione della chiesa che deve rimanere addossata al deserto.
La seconda menzione di una vita religiosa “interamente ordinata alla vita contemplativa” compare nella sezione seguente, dedicata all’apostolato dei religiosi. Si tratta del canone 674, un canone densissimo, la cui ispirazione teologica, e persino le fonti letterarie, si rifanno a molti documenti conciliari:
“ Gli istituti interamente ordinati alla vita contemplativa occupano sempre un posto eminente nel corpo mistico di Cristo: essi infatti offrono a Dio un eccelso sacrificio di lode, arricchiscono il popolo dì Dio con i frutti preziosi della santità, mentre con il proprio esempio lo stimolano e con una misteriosa fecondità apostolica lo estendono. Perciò, per quanto urgente sia la necessità dell’apostolato attivo, i membri di tali istituti non possono essere chiamati a prestare l’aiuto della loro opera nei diversi ministeri pastorali”.
Questo secondo canone riguarda il carattere propriamente apostolico della vita contemplativa, un’apostolicità che è detta particolare e misteriosa, legata al dato del deserto, simboleggiato da un ritiro e dalla clausura, che la chiesa vuole sia rispettata.
Questi due canoni offrono spunto alle due articolazioni della mia conferenza: dapprima il deserto, quello che in esso deve avvenire; poi la fecondità apostolica che da esso scaturisce, misteriosamente, certo, come dice il diritto, ma anche secondo determinati criteri, che si verificano anche altrove nella chiesa, secondo una dinamica che esprime forse ciò che vi è dì più profondo, ma anche di più comune a ogni esperienza cristiana.
Addossati al deserto
La chiamata al deserto è inscritta nel cuore della chiesa, e non sotto forma di nostalgia per un passato glorioso, ma come unica condizione per un futuro in cui Dio continui ad agire con altrettanta potenza. Il deserto è una struttura teologica fondamentale della chiesa che non potrà certo essere privata di valore prima del ritorno di Gesù alla fine dei tempi.
E questo da sempre. È il luogo dove la chiesa nasce e cresce. In Abramo, chiamato alla vita nomadica, in Mosè e nel popolo liberato dall’Egitto, sospinto sulle strade di un interminabile esodo, di deserto in deserto, il popolo dì Dio ha camminato attraverso il tempo. Il deserto resta inscritto nella sua memoria, popola i suoi ricordi, è presente nei suoi progetti. A ogni tornante della storia di salvezza, vi furono ebrei che vennero ricondotti nel deserto per rivivervi la Pasqua e preparare un nuovo passaggio. Gesù, a sua volta, al momento d’inaugurare la sua missione, è guidato irresistibilmente dallo Spirito di Dio in solitudine, come tutti i suoi padri, che sapevano per esperienza come le strade di Dio si preparino nel deserto, e come sia in esso che vengono concepiti i frutti dello Spirito.
La chiesa stessa, ancora oggi, continua a restare addossata al deserto. In esso affonda le sue radici come in un terreno di Dio, nella terra materna dell’esodo e della Pasqua. In esso ha le sue retrovie, a partire dalle quali può operare. La chiesa non esita, in certi momenti, a battere in ritirata nel deserto, a manifestare una distanza, a raccogliersi un istante per maturare le parole da pronunciare di fronte agli uomini con tanto più vigore, dato che le avrà prima intese dalla bocca di Dio. Essa può allora sembrare marginale, suscitare stupore, provocare persino odio, quell’odio evangelico che Gesù le ha promesso da parte del mondo. Ma non potrà mai dubitare che il deserto dei profeti e di Gesù sia in qualche modo il luogo che le si addice, nel quale viene incessantemente convocata per assumere in pieno la sua dimensione e la sua consistenza.
Ora, questa porzione di deserto che non dovrebbe essere estranea a nessuna vocazione cristiana è assunta in modo particolarmente significativo dalla vita religiosa e come imperativo ancor più pressante, conformemente a una tradizione che risale ai primissimi tempi della chiesa, dai monaci, quegli uomini e quelle donne che chiamiamo contemplativi
Ma a quale scopo? Che cosa succede nel deserto? Succede davvero qualcosa? Sì, è importante che qualche cosa succeda, che accada un evento a colui che vi si ritira.
Paragonare il deserto cristiano a un rifugio dove ci si mette al riparo da certi pericoli sarebbe parlarne con un pò di leggerezza; così come sarebbe avventato usare a proposito di esso – cosa che è stata fatta – l’immagine della serra le cui condizioni privilegiate permetterebbero lo schiudersi e la maturazione particolarmente precoce di fiori e frutti spirituali. Non si viene nel deserto per stare tranquilli, per godere di una certa pace, che si presume faciliti quella che speravamo essere una vita d’intimità con Dio. Immagini troppo liriche, un po’ inerti e nettamente inadeguate del deserto cristiano.
Nè riparo, nè rifugio, nè serra: il deserto è piuttosto un crogiolo nel quale, grazie a un certo fuoco, che può essere nello stesso tempo quello delle passioni e quello dello Spirito santo, uscirà un metallo nobile, purificato dalle sue scorie, dove vedrà la luce una nuova lega, audace, originale, sconosciuta fino a quel momento. O, per osare un’immagine della biologia e della Bibbia nel contempo, il deserto è una matrice dove, nei dolori inevitabili di un parto, verrà alla luce un nuovo essere, l’uomo nuovo, creato in Gesù Cristo nella giustizia e nella santità.
Rinascere alla comunione
Se dovessi dare una definizione più moderna del deserto della vita religiosa, la prenderei volentieri dal titolo dì un libro scritto da un celebre psichiatra americano e dedicato agli ospedali psichiatrici: Un luogo in cui rinascere. E’ anche la definizione della chiesa, e, al tempo stesso, quella di ogni comunità religiosa.
Ma di quale nascita o rinascita si tratta? Questo nuovo essere sarà un essere di comunione, e ciò in un duplice senso: la comunione fraterna e la comunione con Dio.
Dapprima qualche parola sulla comunione fraterna, perché poi vorrei soffermarmi di più sull’altra comunione. Dio non chiama mai nessuno a rimanere solitario. Neppure l’eremita, e direi: soprattutto non è il caso dell’eremita, che è chiamato a diventare un essere comunionale di primissimo piano, secondo il celebre adagio del vecchio Evagrio Pontico: “Separato da tutti e unito a tutti”. Dio chiama a una comunità, a una chiesa concreta, anche nel deserto. E’ nel deserto, secondo la testimonianza della Bibbia, che la prima qahal-ekklesìa è stata costituita. Questo termine viene reso nel latino della Vulgata con congregatio, parola che Benedetto applicherà alla comunità monastica e che, grazie a lui, avrà una fortuna eccezionale, visto che fa parte ancora oggi del vocabolario corrente della vita religiosa.
Vorrei solo attirare la vostra attenzione sull’importanza del canone 602 che, nel nuovo Codice, fa immediatamente seguito ai tre consigli evangelici di obbedienza, di povertà e di celibato. Esso riguarda la vita fraterna, alla quale il legislatore ha voluto dedicare questa posizione di rilievo:
“La vita fraterna propria di ogni istituto, per la quale tutti i membri sono radunati in Cristo come una peculiare famiglia, sia definita in modo da riuscire per tutti un aiuto reciproco nel realizzare la vocazione propria di ciascuno. I membri poi, con la comunione fraterna radicata e fondata nella carità, siano esempio di riconciliazione universale in Cristo”.
Una delle testimonianze principali che offre la vita religiosa ovunque si presenti è quella della riconciliazione che Cristo opera tra i fratelli di una stessa chiesa. Già soltanto a questo titolo, prima ancora di proferire una parola o di istituire delle opere, essa è apostolica. Essa esprime e realizza la chiesa.
Un luogo di povertà
La riconciliazione tra fratelli a sua volta ne suppone un’altra, quella di ognuno con il Signore, in un incontro per il quale il deserto offre un terreno particolarmente adatto, anzi: il luogo specifico, poiché è il luogo teologico in cui Dio ha scelto di condurre il suo popolo per donarsi a lui.
Ma perché proprio il deserto? Non che questo renda le cose più facili, eliminando un certo numero di ostacoli distraenti – vi ho già fatto allusione. Ma perché il deserto è chiamato a provocare la crisi e direi quasi a forzare l’evento che Dio vuole suscitare in ciascuno dei suoi figli.
E in che modo il deserto provoca l’evento? La Bibbia descrive il deserto come una “terra secca, assetata e senz’acqua“. Colui che vi si avventura, sempre guidato dallo Spirito di Dio a meno di non essere temerario, generalmente non sospetta a quale prova si espone. La luna di miele è di brevissima durata. Ben presto restano solo la desolazione, l’isolamento, la mancanza di viveri e di nutrimento terreno e, nel contempo, il cielo di piombo, la sabbia arida o, nei deserti del nord, la nebbia impenetrabile e la pioggerella desolante, Dio che si sottrae, talora per giorni e anni. Ma soprattutto l’uomo stesso che si stanca, che si scoraggia, a volte crolla, costretto com’è a vivere ridotto ai minimi termini, facendo giorno dopo giorno l’esperienza cocente della sua povertà, della sua debolezza, della sua radicale impotenza – aldilà di tutto quello che avrebbe potuto supporre, della sua evidente inutilità.
Numerosi e svariati sono i campi in cui questa debolezza può manifestarsi in me, ma il fatto è che essa si manifesta sempre – ed è la tattica della santa astuzia di Dio – là dove sono più vulnerabile, nel mio punto debole, dove sono totalmente sguarnito, al limite estremo e quasi mortale della mia debolezza, dove non resta più che una sola speranza: quella di abbassare finalmente le armi e di capitolare davanti a Dio, cioè di presentarmi, di abbandonarmi alla sua misericordia, accettando di cedere il testimone alla grazia nel luogo e nel momento preciso in cui ero sul punto di sprofondare.
Descrivendo in questo modo la crisi provocata dal deserto, e che prelude all’evento, non sto calcando la mano, anzi peso ciascuna delle mie parole. Sarebbe facile illustrarla con l’aiuto di numerosi passi tratti dalla più antica letteratura monastica, che purtroppo oggi incorre troppo spesso nel sospetto di ascetismo volontaristico a oltranza, mentre offrirebbe le pagine più belle e antiche su quella che ora chiamiamo povertà o infanzia spirituale.
Tutti questi umili tentativi di ascesi, lungi dall’essere prodezze delle quali l’uomo possa vantarsi, non hanno che un solo fine: la frantumazione del cuore di colui che si arrischia su questa via. “Frantumazione del cuore” è l’espressione antica: syntribè tés kardìas, contritio cordis. Che cosa significa? Attraverso l’esperienza del deserto il futuro asceta è a poco a poco guidato alla constatazione che la vita che egli voleva fare è del tutto superiore alle sue forze. A cominciare dal celibato, e continuando con le veglie, i digiuni, il lavoro, senza dimenticare la vita fraterna e il sostegno da dare agli altri. Lasciato a se stesso, egli è radicalmente incapace di tutto questo. Dio viene a frantumare lo specchio del suo ideale di perfezione nel quale amava gettare ogni tanto uno sguardo furtivo. Ma soprattutto Dio ha frantumato il suo cuore. Egli è ridotto a una cosa così insignificante, e non sa più come uscirne.
Questa crisi colpirà anche, e anzi soprattutto, la preghiera, dalla quale si era aspettato tanto, e perfino la fede. Prima di diventare esultanza, la preghiera attraversa anch’essa un deserto dal quale Dio apparentemente è assente, ma che è l’anticamera obbligatoria di ogni contemplazione cristiana. Sarebbe inutile volerselo risparmiare. Non esiste una scorciatoia per raggiungere Dio, nè una preghiera senza fatica, senza attesa, senza un’umile pazienza che non ha fine. Questo svuotamento può andare molto lontano e svelarci nel più profondo di noi stessi dei mostri che avremmo preferito non risvegliare. Nella preghiera, purché lo sforzo sia perseverante, la chiesa, e soprattutto il contemplativo, si trovano di fronte alla loro parte di ateismo, quell’ateismo che non è lo specifico dei non credenti, ma che ciascuno porta dolorosamente al fondo di se stesso. Per quanto possa apparire curioso, prima di essere esperto in cose di Dio, il monaco è soprattutto esperto in ateismo. Egli si riscopre fratello accanto a tutti coloro che dubitano e che non riescono ancora ad abbandonarsi alla dolcezza di Dio. Conosce per esperienza questo crogiolo della fede, e come in esso operi la mano di Dio, spogliando l’uomo di tutti i suoi idoli. Nel contemplativo che affronta la sua notte, la chiesa accetta la prova della fede in tutto il suo spessore.
Altri preferiranno descrivere questa prova del deserto con immagini diverse: la nube o la notte, ma che si riferiscono tutte alla stessa esperienza spirituale. Essa colpisce l’uomo fin nelle sue radici, mettendo a nudo delle zone talmente sensibili e vulnerabili della sua personalità che visibilmente egli sembra talora sfiorare di passaggio lo squilibrio, il tipo di follia che porta in potenza nel suo psichismo. Certe manifestazioni della famosa acedia (akedìa) che un Evagrio, grande maestro del deserto, analizzerà nei dettagli, si avvicinano in modo curioso ai sintomi di quel crollo interiore che oggi chiamiamo “depressione nervosa”.
Se si rende necessario a questo punto l’aiuto di una guida esperta per verificare a ogni istante come sia lo Spirito santo a spingerci a tali strenue difese, c’è da meravigliarsi, e ancor meno da aver paura. Perché la salvezza è allora vicinissima. Più che mai Dio salverà. Ridotti alla nostra estrema debolezza, a una specie di punto morto, siamo infine pronti a consegnarci, a cedere il testimone alla grazia misericordiosa e infinitamente potente.
Un luogo in cui rinascere
Dio ha ora le mani libere per agire, e la sua opera è sempre un miracolo, la meraviglia dell’uomo nuovo, ricreato in Gesù Cristo. Nella sua Vita di Antonio, Atanasio descrive dettagliatamente l’atrocità delle tentazioni ch’ebbe a subire il padre dei monaci, fino al giorno in cui Dio intervenne in suo favore. Antonio, da lunghi anni recluso nella propria tomba, che era la sua forma di solitudine, ne esce e si presenta dinanzi alla folla meravigliata. Ed ecco come il vescovo di Alessandria descrive, con accenti di forte emozione che sfiorano il lirismo, quest’uomo nuovo che si ferma sulla soglia del suo deserto. Va riletto con un briciolo di humour, ma che non sminuisce in nulla la pregnanza del vocabolario usato: “Il corpo di Antonio aveva l’aspetto abituale e non era né ingrassato per mancanza di esercizio fisico, né dimagrito a causa dei digiuni e della lotta contro i demoni. Era tale e quale l’avevano conosciuto prima che si ritirasse in solitudine, E anche il suo spirito era puro, non appariva triste né svigorito dal piacere, né dominato dal riso o dall’afflizione. Non provò turbamento al vedere la folla; non gioiva perché salutato da tanta gente, ma era in perfetto equilibrio, governato dal Verbo, splendore della sua natura”.
Parafraso un po’ nel tradurre l’ultima espressione della frase (en tò Katà physin), tenendo conto che la natura, per i padri greci, è l’uomo nuovo, l’uomo restaurato a partire dalla sua caduta, e che ha raggiunto la pienezza della sua umanità in Gesù Cristo. Dietro una descrizione della quale alcuni particolari oggi possono stupire, non c’è dubbio infatti che sia proprio questo ciò che Atanasio vuole dirci: per Antonio, il deserto è stato un luogo in cui rinascere, il sepolcro della solitudine è divenuto il sepolcro pasquale di Cristo, insieme al quale Antonio è risuscitato. Sulle orme di Cristo, l’uomo di Dio è molto semplicemente l’uomo nello splendore della sua natura, secondo il disegno di Dio. Ma a prezzo di quali prove! Perciò il nuovo essere va descritto più che con il vocabolario filosofico nel quale si lascia un po’ trascinare Atanasio, con l’aiuto di un vocabolario soteriologico, il vocabolario della salvezza, dove si fa sempre menzione del peccato perdonato, dell’accecamento guarito e delle piaghe le cui cicatrici resteranno per sempre come nel corpo risuscitato di Gesù, ma per attestare ormai la vittoria di Dio e la sua grazia.
L’ ascesi del contemplativo – e ogni ascesi cristiana – è quindi in primo luogo l’ascesi di un povero, quel povero che non cesserà mai di essere anche se un giorno, superata questa tappa decisiva, si sentirà infine completamente pacificato, dopo esser stato demolito e ricostruito da cima a fondo, per pura grazia. Egli ha sfiorato l’abisso della misericordia. Ha imparato a cedere davanti a Dio, a deporre la sua maschera e le sue armi. Si è trovato disarmato di fronte a lui, senza disporre più di nulla per difendersi dal suo amore. E’ veramente spoglio e nudo. Si è disfatto delle sue virtù, dei suoi progetti di santità. Conserva faticosamente soltanto la propria miseria per dispiegarla davanti alla misericordia. Dio è divenuto veramente Dio per lui, e soltanto Dio, cioè colui che lo salva dal suo peccato. Egli finisce anzi per riconciliarsi con quel peccato, per essere felice della propria debolezza. Della sua perfezione ormai si disinteressa: essa non è che panno immondo agli occhi di Dio (cf. Is 64,5). Le sue virtù le possiede solo in Lui: sono le sue ferite, ma curate e guarite dalla misericordia. Non può che rendere gloria a Dio che lavora in lui e continua senza sosta a fare meraviglie.
Anche tra i suoi fratelli è un uomo nuovo , cioè un amico tenero e dolce, che non si lascia irritare dai difetti e che si mostra comprensivo di fronte alle debolezze. Perché è il primo a diffidare enormemente di se stesso, ma a confidare follemente in Dio, completamente aggrappato alla misericordia e all’onnipotenza di quest’ultimo.
Contempla qualcosa di più preciso riguardo a Dio? Lo conosce ormai meglio? Se gli si ponesse la domanda in questa forma non saprebbe come rispondere e probabilmente risponderebbe in modo negativo. Ha sempre l’impressione di essere immerso nella stessa notte opaca. E tuttavia qualcosa è cambiato in lui. Una nuova sensibilità si è a poco a poco risvegliata. Uno strano presentimento lo abita. Egli non conosce né Dio, né Cristo, ma si sorprende ormai a immaginarli, a riconoscerli quasi, ad assaporare una presenza, e non soltanto nella preghiera o ruminando la parola di Dio, ma anche altrove, sui volti sofferenti o gioiosi negli avvenimenti che si succedono e nei quali adesso discerne una trama e un disegno. Ora non soltanto sa perché deve in certi momenti perseverare a lungo nella preghiera, ma comincia a sentire come d’istinto ciò che deve fare o dire in altri momenti, come deve comportarsi. Perché non vola più con le proprie ali, né a suo rischio e pericolo. Viene portato sulle ali di un altro. E’ come sospinto dall’interno. Scopre di essere misteriosamente guidato: “Tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, sono figli di Dio” (Rm 8,14). Egli non ha che da consegnarsi. Un altro è all’opera in lui. Un altro fa in lui meraviglie ed egli coglie nel più profondo di se stesso il suo appello, al limite del percepibile, come un mormorio che è preghiera incessante, una specie di unzione – come dice Giovanni (cf. 1Gv 2,27) – che gli insegna giorno per giorno tutto quello che deve fare.
Un luogo che attira la folla
Cercando di descrivervi qualche tratto di quest’uomo nuovo – contemplativo e attivo – che nasce nel deserto, vi sarete resi conto che mi sono già inoltrato nella seconda parte del mio intervento: la dimensione apostolica della vita religiosa. Niente di strano, perché è inseparabile dalla prima. Per quale motivo, altrimenti, Antonio si sarebbe deciso un giorno, senza apparente esitazione, a uscire dalla propria reclusione e a rompere il silenzio? Molto semplicemente perché davanti alla porta c’era una folla. Una folla di gente venuta da lontano e che reclamava a gran voce una parola da quell’eremita che fino a quel momento era quasi sepolto vivo. Ed eccoci, forse per la prima volta, di fronte a un fenomeno che si ripeterà all’infinito per tutta la storia della vita monastica e religiosa, e che illustra a meraviglia l’inevitabile correlazione tra vita contemplativa e vita attiva, nonché il dinamismo interno che armonizza l’una con l’altra. Nella maggior parte dei casi non è il contemplativo a darsi da se stesso la missione e la vocazione di lasciare il deserto per annunciare la Parola agli altri. Nella letteratura monastica antica un simile desiderio viene anzi denunciato come una tentazione del maligno. Ma al contrario, è lo stesso popolo di Dio che riconosce colui che ha ricevuto la Parola per la gente e che esce dalla città per assediare, per così dire, il deserto e forzare le porte della clausura.
In tal modo s’instaura nel cuore della chiesa un continuo andirivieni tra il deserto e la città. Il monaco sembra fuggire la città, ma non appena è andato fino in fondo al deserto, non appena comincia a dare qualche frutto, la città si affretta ad andarsene anche lei e a fuggire presso di lui, sulle stesse orme, mendicando da lui una parola, raccomandandosi a lui e alla sua benedizione.
Questo fenomeno, che nella storia si è verificato tante volte e che ancor oggi si rinnova, ricorda al monaco due cose: in primo luogo l’importanza permanente della tappa del deserto in ogni vita religiosa, contemplativa e apostolica. Solo chi è stato trasformato dal deserto, solo l’uomo nuovo diventa questo amante che attira a sé irresistibilmente il popolo di Dio.
La seconda cosa è che esiste da qualche parte un luogo in cui il confine tra il deserto e il mondo scompare: i monaci non devono ritornare nel mondo, e neanche il mondo deve ritirarsi nel deserto . Esiste un luogo nel quale le due realtà non si pongono più come un’alternativa. In un Antonio, in ogni uomo di Dio, il deserto e il mondo coincidono in qualche punto: questo luogo è la chiesa. La chiesa è inviata al mondo, e tuttavia essa non appartiene al mondo, non vi si stempera, non si conforma ad esso. Può affrontare il mondo per proclamare la Parola proprio perché resta sempre fermamente addossata al deserto. Questo vale anche per la vita religiosa, con la sua duplice dimensione contemplativa e apostolica.
Una “misteriosa fecondità apostolica”
Vorrei dire ancora qualcosa sulla dimensione più propriamente apostolica a partire da quella che è la mia esperienza: l’esperienza monastica. In primo luogo, pensando a coloro che fanno una vita contemplativa in senso stretto, vorrei cercare di precisare con poche parole in che cosa e in che modo essi pure si sentano pienamente apostolici.
Insistendo sulla necessità di un intreccio dinamico tra contemplazione e azione nella stessa esistenza cristiana, forse ho dato l’impressione di credere che tutti i contemplativi, sull’esempio di un Antonio o di un Benedetto, siano chiamati a lasciare un giorno la loro clausura per dire una parola. Vi dico subito che non è questo il mie pensiero. In realtà, come afferma chiaramente il canone 674 che vi ho citato all’inizio, da sempre sono esistiti, ed esistono ancora, contemplativi, monaci e monache, che non sono chiamati a condividere esplicitamente la loro esperienza con i fratelli e che la chiesa intende proteggere con la sua legislazione canonica da ogni ingerenza inopportuna che vada in senso contrario Essa lo fa, dice, in nome di una misteriosa fecondità apostolica inerente alla vita contemplativa, della quale vuole garantire l’autenticità.
Da sempre queste vocazioni contemplative sono rimaste molto appartate. Il loro irradiamento esterno sull’esempio di quello della vergine Maria, è stato quantitativamente poca cosa. Spesso si riduceva a una semplice presenza ma di straordinaria qualità. In particolare, la nostra chiesa latina ha, specie nel XIV e nel XV secolo, una tradizione di eremiti e persino di reclusi nel senso stretto del termine, che nella maggior parte dei casi, a giudicare dalle vestigia letterarie che ne rimangono, fu realmente di qualità. Ci furono anche realizzazioni meno felici, che spiegano un certo numero di abusi e un rapido declino fino al concilio di Trento, che per questo si sentì autorizzate a passarli sotto silenzio nei suoi testi ufficiali; e fino ai nostri giorni, in cui lo statuto canonico di eremita, riconosciuto come facente parte dello stato di vita consacrata, è appena stato reintrodotto dal nuovo Codice.
Ma in cosa consiste la “misteriosa fecondità apostolica” della vita contemplativa? Bisogna certamente tener conto della preghiera d’intercessione che i contemplativi considerano quasi come il loro incarico particolare: “Essi pregano – talora si dice – per coloro che non pregano”. Allo stesse modo, è lecito prendere sul serio il loro desiderio spesso esplicito di “fare penitenza per coloro che non ne fanno”. Ma tutto questo resterebbe insufficiente, anche se avessimo oggi a nostra disposizione una teologia più approfondita dell’intercessione o della penitenza-riparazione rispetto a quella sulla quale siamo ancora obbligati a ripiegare.
La stessa osservazione vale per il ruolo di esempio che indubitabilmente è giocato da una comunità di contemplativi. Perché tutte queste cose – pregare, fare penitenza, dare un esempio – sono ancora nell’ordine dell’agire, mentre la fecondità specifica della vita contemplativa deriva anzitutto dal suo essere, dall’evento che il contemplativo ha vissuto, da quell’antropologia in atto che è stata la sua Pasqua nel crogiolo del deserto, dall’uomo nuovo che per pura grazia egli è diventato. È questo che importa per la storia della salvezza oggi, perché il regno venga fin da ora, senza che egli sappia né come né perché. Perciò è questa la ragione ultima per la quale le sue veglie notturne o mattutine si fanno carico dell’attesa latente in tanti cuori umani; per la quale il suo digiuno esprime la fame di Dio che tortura l’umanità, senza che questa lo sappia; per la quale la sua obbedienza è veramente la Pasqua di Cristo che si prolunga fino a oggi; e per la quale il suo celibato, che egli non sbandiera più trionfalmente degli altri, allarga a poco a poco il suo cuore sino ai confini dall’universo.
Perché ora egli ama in modo completamente diverso. Durante la prova del deserto il suo cuore si è frantumato; ma più ancora, per usare un’immagine di un altro santo, si liquefatto. E’ divenuto quel cuore liquido dei santi di cui parla il Curato d’Ars, cuore di pietra trasformato in cuore di carne, che abbraccia l’intero universo e che fa di essi dei fratelli universali. Egli non è più altro che bontà e misericordia, a immagine di quelle che ha potuto incontrare un giorno. E sente d’istinto come sia importante, non soltanto per lui ma per la chiesa universale, che egli perseveri nel rimanere la dov’è, nell’occupare quel posto che Dio gli ha assegnato. Giacche lo sa, ben al di la della sua inutilità apparente: al cuore della chiesa, sua madre, egli è l’amore.
Questa convinzione di sostenere misteriosamente il mondo non nasce con Teresina di Lisieux, ma risale a un’epoca lontana del monachesimo: ne è testimone questo strano testo di un recluso palestinese del VI secolo al quale era stato rivelato che il mondo del suo tempo era sostenute da tre oranti eccezionali:
“Ci sono tre uomini perfetti davanti a Dio che hanno ricevuto il potere di sciogliere e legare, rimettere i peccati e di non rimetterli. E stanno ritti sulla breccia per impedire che il mondo intero venga distrutto in un attimo: grazie alle loro preghiere Dio castigherà con misericordia … Le preghiere di questi tre si uniscono per accedere all’altare sublime del Padre delle luci. Essi si rallegrano gli uni con gli altri ed esultano insieme nei cieli. Sono Giovanni a Roma, Elia a Corinto e un altro nell’eparchia di Gerusalemme. E io credo che otterranno quella grande misericordia. Sì la otterranno. Amen “
Il dono del discernimento
Ritornando ora alla vita apostolica dei religiosi cosiddetti attivi – cioè di quelli che in qualche modo si presume abbiano attraversato la tappa del deserto e, dopo esserne stati trasformati, siano rinati al mondo, vorrei, come conclusione, dire qualcosa su quello che forse è il dono essenziale di questo uomo nuovo restaurato nel deserto. Voglio parlare del discernimento spirituale.
Questo dono consiste in una nuova sensibilità capace di percepire l’invisibile nel visibile nell’esperienza contemplativa come nell’esperienza attiva. Percepire il mormorio dello Spirito che grida in noi “Abba”, “Padre”, e riconoscere la pulsione interiore di quello stesso Spirito che invita dolcemente a passare all’azione, non dipende da due organi spirituali distinti. E’ lo stesso cuore, ormai in stato di veglia, a spiare, a scrutare lungamente e ad ascoltare, e al quale è dato di captare l’azione interiore dello Spirito santo, sia che lo Spirito preghi in noi, sia che ci inviti a compiere l’opera del Padre.
Nella psicologia dell’uomo nuovo questa capacità di discernere lo Spirito è, in un certo senso, più importante dei doni della preghiera o dell’impegno apostolico. Infatti questi ultimi dipendono strettamente dall’influsso dello Spirito e dalla capacità del soggetto di cogliere correttamente tale influsso. Che egli si lasci afferrare dalla preghiera, o che acconsenta a essere inviato per la testimonianza apostolica, ciò è sempre opera del medesimo Spirito. E’ sempre da una medesima unzione che Bernardo si faceva guidare, come dice mirabilmente di lui il suo primo biografo quando scrive che l’abate di Clairvaux portava a compimento ogni unctio magistra avendo come maestro e come guida l’unzione interiore dello Spirito santo.
Al contrario, nulla di più sterile, e al limite di più rischioso, che pretendere di darsi alla preghiera, o credersi inviati a testimoniare, per quanto sia grande la generosità che si ostenta in tale missione, se si è perso il contatto interiore con lo Spirito, se si è incapaci di lasciarlo emergere in sé e di percepirlo . Ogni vita contemplativa vera, ogni vita apostolica autentica sarebbero in questo caso compromesse.
Si comprende così in che senso Ignazio di Loyola pretendesse di rimanere un contemplativo nell’azione, lui che aveva esitato per lunghi mesi tra una cella di certosino e la Compagnia che avrebbe poi fondato. Non è che egli richieda ai suoi compagni chi sa quale ginnastica mentale che li obblighi a mescolare la meditazione alle loro sollecitudini apostoliche. Egli si aspetta molto semplicemente da loro, nel pieno del servizio e dell’azione, che conservino l’orecchio interiore attento ai movimenti dello Spirito nel più profondo del loro cuore. Il discepolo di Ignazio – ma si potrebbe dire altrettanto di ogni credente – parla e agisce ascoltando ciò che avviene all’interno di se stesso, prestando attenzione ai movimenti del proprio cuore; ora, in quel cuore Ignazio pensava – facendo eco a tutta la tradizione monastica – che solo il desiderio di Dio (o la sua volontà) dovesse sopravvivere, una volta che il discepolo fosse divenuto indifferente a tutti i propri desideri superficiali; cioè quelli che, nella maggior parte delle persone, ingombrano il davanti della scena, e soffocano il desiderio di Dio nei riguardi dell’uomo. Eppure non è proprio questo desiderio di Dio a fondare e costituire la nostra più specifica e più ricca identità?
L’esame di coscienza ignaziano va compreso come una fase appartenente a questo stesso processo spirituale, ovvero qualcosa che è ben al di là di ciò che è divenuto in seguito, quando l’esame di se stessi è caduto vittima per certi versi di un moralismo volontaristico che lo ha trasformato in una specie di bilancio dei peccati e delle buone opere, in un conteggio dei profitti e delle perdite. L’esame di coscienza, molto più semplicemente è quel momento di silenzio interiore, di deserto ritrovato, che permette di auscultare il cuore in stato di veglia, mentre registra fedelmente l’istinto divino della grazia, i movimenti dello Spirito santo dentro di sé, per regolare su di essi tutto l’agire umano. E’ dunque poi così differente dalla preghiera che, essa pure, ha bisogno dell’orecchio interiore per mettersi all’unisono con i gemiti delle Spirito? Il contemplativo nella preghiera e il contemplativo nell’azione s’incontrano in questo ascolto e in questo sguardo interiore, in questa sensibilità nuova dell’uomo nuovo, che la tradizione chiama la diàkrisis o discretio: il discernimento spirituale. Condizione indispensabile perché il credente – sia che preghi, che lodi Dio o che gli renda testimonianza – rimanga innestato sull’agire stesso di Dio.
Il discernimento spirituale è quindi come un terreno comune tra le due dimensioni di ogni vita religiosa e di ogni vita cristiana, la dimensione contemplativa e la dimensione apostolica. Entrambe hanno origine dalla stessa realtà spirituale, dotata di un orecchio il cui timpano vibra all’unisono con il minimo mormorio dello Spirito, e dotata anche di uno sguardo in grado di percepire i primi barlumi della presenza del Signore. E’ il discernimento spirituale. Dalle origini della vita monastica e religiosa, è il loro tesoro nascosto, e forse anche – questa è una mia convinzione profonda – ciò che esse hanno di più prezioso da offrire alla chiesa di oggi.
Il tesoro nascosto nel cuore
Giunti alla fine del nostro itinerario, riprendiamo la questione che ci siamo posti all’inizio circa la distinzione tra vita contemplativa e vita attiva: “Non c’è a priori, in qualche ambito, un terreno comune, una fonte che esse condividono?”. Sembrerebbe proprio di sì. Per un’altra via siamo giunti alla stessa fonte che l’istruzione su ‘La dimensione contemplativa della vita religiosa” segnalava come punto di partenza di ogni vita spirituale, descrivendola così: “Il cuore, considerato come il santuario più intimo della persona, nel quale vibra la grazia di unità tra interiorità e attività”.
Questa stessa istruzione ricordava anche come il fine principale della formazione alla vita religiosa sia quello di “immergere il religioso nell’esperienza di Dio”, allo scopo di favorire “ la compenetrazione reciproca tra interiorità e attività, in modo ti le che la coscienza di ciascuno coltivi il primato della vita nello Spirito Santo”. E altrove, essa così definiva quello che abbiamo chiamato discernimento spirituale: “Più il religioso si aprirà alla dimensione contemplativa, più si renderà attento alle esigenze del regno, sviluppando intensamente la sua interiorità teologale, proprio perché osserverà gli eventi con quello sguardo di fede che lo aiuterà a scoprire ovunque l’intenzione divina”
In effetti, per tutto il tempo in cui l’esperienza del regno investe solo la superficie del nostro essere, viviamo la duplice dimensione contemplativa e attiva come una frattura, a volte addirittura come un’antinomia insormontabile. Ma nella misura in cui questa stessa esperienza penetra in noi a livelli sempre più profondi, la nostra comprensione di Dio e del suo regno si semplifica e si unifica. A un certo livello d’interiorità, le strade dei credenti non possono più contrapporsi, e meno che mai escludersi: contemplativi e attivi si avvicinano straordinariamente, fino a somigliarsi come due fratelli. E la “parte migliore” allora non è pii dall’una o dall’altra sponda. Essa è ovunque, è il tesoro nascosto al cuore di ogni vocazione.
Posted by
attilio @
18:32