Lo vide e ne ebbe compassione
Lectio di Lc 10,29-37
di p. Attilio Franco Fabris
È con una certa ammirazione che ancora la gente minimamente informata, anche se lontana dalla fede, guarda alla Chiesa e in modo particolare alla vita consacrata, per il suo contributo benefico svolto a favore di quei settori della società in cui era ed è purtroppo ancora assente una presenza e un’azione di promozione della vita e della dignità di colui che viene considerato “ultimo”. Come ad esempio non ricordare il fondamentale ruolo sociale e culturale, oltre che ovviamente religioso, della chiesa e della vita monastica nella costruzione dell’Europa cristiana che l’ha vista impegnata a favore della promozione umana e spirituale con scuole, università e ospedali, grandi opere di edilizia e bonifica? Come non riandare poi a tutte quelle famiglie religiose che, soprattutto a partire dalla Controriforma sino ai nostri giorni, hanno svolto un servizio impareggiabile nel campo dell’assistenza ai poveri, ai malati e anziani, ai carcerati e ad altre fasce sociali diseredate?
Si tratta di un patrimonio religioso e sociale che non appartiene solo ad un lontano passato. Esso è ancora quanto mai vivo e attuale, con figure di uno splendido spessore che per lo più vivono nel nascondimento e nell’anonimato perché il bene non fa rumore. Sono ancora oggi tanti gli uomini ma soprattutto donne che si piegano quotidianamente, con una fedeltà spesso eroica, sulle ferite di tanti fratelli e sorelle talvolta e pagando di persona questa loro scelta. Questa schiera di testimoni del passato e di oggi stanno a dire che la provvidenza fa sempre passare per la strada il “buon samaritano”, che ad immagine di Cristo, si prende cura dell’uomo ferito al bordo della strada. Essi ricevono dallo Spirito il carisma della compassione e trovano il coraggio di spendere la propria vita inginocchiati ai piedi del povero, facendosi così, con poche parole, concreto evangelo di un Dio che si china sull’uomo che grida, spesso in silenzio, il suo bisogno di aiuto.
Chiediamo perciò per loro ma anche per noi allo Spirito un cuore capace di vedere, di farsi accanto, di compatire il piccolo e il povero che incontriamo abbandonato da tutti. Sia lo Spirito a donarci una “carità che non sia oziosa e che operi grandi cose”: “O Fuoco, abisso di carità, tu sei Fuoco che sempre ardi e non consumi: tu sei pieno di letizia e di gaudio e di soavità. Al cuore che è ferito da questa fiamma ogni amarezza appare dolce, ed ogni peso diventa leggero. E poiché ho detto che arde e non consuma, ora dico che egli arde consuma, e distrugge e dissolve ogni difetto, ignoranza, ed ogni negligenza che è nell’anima. Poiché la carità non è oziosa, essa opera grandi cose” (s. Caterina da Siena 1347-1380).
Lectio
La parabola del “buon samaritano” è unita redazionalmente all’episodio della richiesta da parte del dottore della Legge di una delucidazione circa il problema del “cosa fare per avere la vita eterna?”.
La riposta immediata di Gesù è in sintonia col vissuto religioso dell’uomo: egli lo rinvia infatti al nucleo di tutta la Toràh che è riassunto con il comandamento: “Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima e con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il tuo prossimo come te stesso” (10,27). Ma l’uomo di Legge non si accontenta di questa risposta: se per lui, il contenuto dell’amore verso Dio è, probabilmente, – non basta osservare la Legge! – non così è la seconda parte del comandamento riguardante l’amore del prossimo: in questo caso le cose si fanno più complicate perché occorre capire bene chi è il prossimo da amare. La sua deformazione religiosa è inguaribile: chiede a Gesù una casistica che lo aiuti a discernere chi sia il prossimo da amare in modo da avere la vita eterna! “E chi è il mio prossimo?”. Siamo sulla stessa lunghezza d’onda di Pietro che domanda al maestro quante volte dovrà perdonare il fratello (cfr Mt 18,21). La domanda non è obsoleta; nell’AT è prescritto tale comandamento che però viene inteso come un dovere da assumere nei riguardi ci chi è membro del popolo eletto o al massimo del pellegrino che abita con i giudei; in tutta la letteratura rabbinica contemporanea a Gesù non si trova infatti nessuna ulteriore estensione al concetto di prossimo. Ad esempio nelle normative della comunità di Qumran troviamo questa posizione riferita in modo esplicito: “Amare tutti i figli della luce. Odiare tutti i figli delle tenebre”.
Alla richiesta di delucidazione circa l’applicazione del comandamento Gesù risponde con una parabola. È tipico della sua pedagogia il non dare mai risposte immediate e teoriche alle domande che gli vengono rivolte. Egli preferisce condurre progressivamente l’interlocutore a scoprire da sé la risposta alla questione posta. E conduce a questa “auto-risposta” non attraverso complicati percorsi fatti di ragionamenti o concetti, ma molto più semplicemente – ma più incisivamente – attraverso immagini o esempi che obbligano al confronto non con la teoria ma con la concretezza della vita. Gesù fa quet’operazione anche in questo caso non rimandando il dottore della Legge nuovamente alle norme ma mettendolo a confronto con fatti concreti di vita.
Così attraverso la parabola del buon samaritano Gesù porterà il dottore della legge ad un ribaltamento della domanda e della sua impostazione religiosa e morale aprendolo ad un orizzonte che oltrepassa ogni confine normativo.
Ma veniamo ora alla parabola. Essa ci presenta una scena di vita non inconsueta al tempo di Gesù. La strada che discende da Gerusalemme a Gerico superando un dislivello di circa mille metri è deserta e nello stesso tempo percorsa da pellegrini e mercanti. Per tal motivo era infestata da bande di malavitosi dedite al saccheggio e ad assalti agli incauti viaggiatori. Al centro della parabola sta la figura di “un uomo” “lasciato “mezzo morto” che è stato assalito e ferito da briganti, egli è sul bordo della strada bisognoso di urgente aiuto. Intenzionalmente di quest’uomo bisognoso non viene detto chi sia, quale sia la condizione sociale, la nazionalità, la religione: potrebbe così essere chiunque, si tratti di un pio giudeo oppure di un delinquente o d’un eretico. È “solo” “un uomo” che ha bisogno urgente di un aiuto.
I personaggi che appaiono nel racconto sono agli antipodi: da un lato due membri della classe elitaria e privilegiata, rappresentati da un sacerdote e da un levita, dall’altro appare inattesa e stridente la figura di un odiato e impuro samaritano. Ma sarà proprio quest’ultimo ad apparirà, a malincuore per il povero dottore delle legge, come colui che porterà a compimento il comandamento della legge che lo renderà beato ovvero erede della vita eterna. E non solo! Siccome il comandamento dell’amore trova in Cristo il suo supremo adempimento ecco che il samaritano diviene addirittura figura del Signore Gesù.
Il sacerdote e il levita stanno tornando a Gerico alle loro case probabilmente dopo aver terminato il loro servizio al tempio. Entrambi vedono l’uomo sul ciglio della strada bisognoso di aiuto ma di tutti e due si dice che “passano oltre dall’altra parte” (v. 31). Non se ne esplicita il motivo: tutti i motivi potrebbero dunque essere “buoni” per loro. Generalmente si porta come motivazione la normativa circa la purità legale (cfr Lv 21) ma questo varrebbe solo per il sacerdote e non per il levita. Fosse questa la motivazione la lettera della legge permetterebbe loro di sentirsi “a posto”, ma eludendo lo spirito ultimo della legge stessa (Cfr Lc 11,42). Ma più che le motivazioni, che non vengono riportate, all’evangelista interessa piuttosto mettere in scena queste due categorie di persone che rappresentano l’elite religiosa della società giudaica in modo da poterle poi confrontare con l’inatteso personaggio successivo: un samaritano!
Infatti gli ascoltatori si aspetterebbero, dopo il sacerdote e il levita, l’entrata in scena di un pio giudeo laico (la parabola assumerebbe così un condiviso e diffuso tono anticlericale!). Ma ecco che Gesù, ribaltando queste attese, fa entrare in scena un personaggio scomodissimo per tutti: un odiato, eretico e impuro samaritano! (v. 33).
La descrizione della condotta del samaritano è fatta con cura in modo da sottolinearne il valore. L’evangelista usa diversi verbi: “passandogli accanto lo vide…n’ebbe compassione…gli si fece vicino… gli fasciò le ferite” (vv 33-34).
Tra questi verbi uno in modo particolare colpisce per la sua importanza: “ne ebbe compassione” (lett. “si mossero le sue viscere” in riferimento alle viscere materne). Questo verbo “materno” è usato nella Sacra Scrittura per descrivere la compassione di JHWH verso il povero e il debole, ed è il verbo applicato anche nel Nuovo Testamento a Gesù quando incontra l’uomo bisognoso di aiuto (cfr Mc 1,41; 6,34; 8,2; Lc 7,13; 15,20). Si comprende come bene la tradizione abbia sempre visto nella figura del samaritano la figura di Cristo e di conseguenza di Dio stesso che in lui rivela la sua compassione per l’uomo. Alle azioni esterne del samaritano corrisponde dunque un più decisivo e importante movimento interiore (“ne ebbe compassione”) che le motiva..
Sulle piaghe dell’uomo il samaritano verso vino e olio (nella farmacopea del tempo il vino disinfetta e l’olio lenisce il dolore). Sono certamente dei dettagli che hanno tuttavia lo scopo di far intendere come per Gesù l’amore deve tradurre in gesti concreti.
Il samaritano è colui che “si prese cura” dell’uomo bisognoso. La stessa espressione ritorna sulle labbra del samaritano al momento della consegna del malcapitato all’albergatore: “prenditi cura di lui” (v.35): la sua opera è in certo qual modo lasciata in eredità, essa va continuata e deve coinvolgere tutti.
Il dottore della legge, preoccupato della sua casistica, aveva chiesto: “Chi è che devo amare?” ovvero “chi devo considerare prossimo?” (cfr Lv 19,18). Gesù gli risponde addirittura ribaltando l’interrogativo e la prospettiva: “Chi è che ha amato?”. Ovvero “Chi si è fatto prossimo?”. Il dottore della legge deve riconoscere (probabilmente a malincuore e a denti stretti!) che l’odiato samaritano è l’unico ad aver agito giustamente (v. 37). Le posizioni si sono rovesciate rendendo impossibile una prospettiva impostata sulla casistica. Avviene scandalosamente che l’eretico pratica meglio l’insegnamento della legge del fedele giudeo. Gesù spinge ad un’interpretazione della legge non più legata ad una definizione giuridica ma ad un amore vissuto che rende “prossimi” al “prossimo” che si incontra lungo la strada di ogni giorno.
La parabola termina con un forte invito-imperativo da parte di Gesù all’uomo: «Va’ e anche tu fa’ lo stesso» (v. 37). La risposta è data: la condizione per entrare nella vita eterna (v. 25) è un amore che rende prossimi e si traduce in gesti concreti di compassione e misericordia.
Collatio
“Che cosa devo fare per avere la vita eterna?”. Alla domanda dell’uomo di legge preoccupato della propria giustificazione potremmo rispondere con le parole del profeta Michea: “Uomo, ti è stato insegnato ciò che è buono e ciò che richiede il Signore da te: praticare la giustizia, amare la pietà, camminare umilmente con il tuo Dio” (6,88). Dinanzi alla prospettiva di un comandamento che apre ad una giustizia e pietà che, in Cristo, non conoscono ormai più confini, la coscienza ristretta preferirebbe piuttosto chiare delimitazioni per sentirsi giustificata, “a posto con se stessa”.
Gesù capovolge questa visione nel grande discorso programmatico sulla montagna: “avete inteso, ma io vi dico…” (Mt 5,43-44), qui egli addita una “giustizia più grande di quella degli scribi e farisei” (Mt 5,20).
Alla preoccupazione di chi si deve considerare prossimo in modo da offrigli l’aiuto necessario Gesù risponde che è essenziale ribaltare la questione: sono io che devo farmi prossimo. Questo è lo spirito autentico e ultimo della Legge! Prospettiva oltremodo scomoda perché impedisce di porre limiti, di poter alla fine dire: “Ho fatto quel che dovevo”. Accettare la conclusione della parabola implica accettare di oltrepassare tutti quegli schemi e confini in cui vorremmo ingabbiare, per comodità di gestione, il comandamento dell’amore. Solo chi non ama sta a domandarsi chi sia il suo prossimo, chi ama invece è capace di individuare, qui ed ora, chi è e dov’è il suo prossimo perché per lui non esistono più “spazi neutri”.
Mi ha sempre colpito la frase scolpita a caratteri cubitali sulla facciata della “Piccola Casa della Divina Provvidenza” di Torino, che il Cottolengo riprese da Paolo apostolo: “Caritas Christi urget nos- L’amore di Cristo ci sospinge… ci obbliga…”. L’opera del Cottolengo come di tanti e tante altre non risponde ad una generica emozione e sempre passeggera filantropia, ma sgorga come risposta ad un incontro con un amore “smisurato” e immeritato che ha cambiato il modo di guardare alla vita: è l’incontro con Cristo che per primo si è chinato su di noi come buon samaritano. Se si sperimenta questo amore come si potrà trattenerlo solo per se stessi? Come non donare ad altri questa sovrabbondanza di compassione ricevuta? Come non mettere in atto nella storia segni di speranza e di amore perché altri si sentano a loro volta amati da Dio? Scrive Giovanni Paolo II: “la sincerità della risposta all’amore di Cristo conduce a vivere da poveri e ad abbracciare la causa dei poveri” (VC 82). È l’amore di e per Cristo che oramai spinge, obbliga a chinarsi verso il piccolo, al povero e il sofferente, verso colui che, agli occhi del mondo, non conta ed è quindi scartato e rifiutato: “E quando ti abbiamo visto ammalato o in carcere e siamo venuti a visitarti?Rispondendo, il re dirà loro: In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me. (Mt 25,39-40)).
Non è più possibile a chi ha fatto esperienza dell’amore di Cristo “non vedere” e “passare oltre”. La giovane suora madre Teresa di Calcutta era sul treno diretta verso la sede degli esercizi spirituali. In una stazione vede un povero moribondo sul marciapiedi abbandonato da tutti: che fare? continuare il suo viaggio – non ci sono i santi esercizi che attendono! – o scendere dal treno e prendersi cura dell’uomo? La scelta è subito fatta, e sarà determinante per il suo futuro e per la nascita dell’istituto delle Suore della Carità. È vero che “l’opzione per i poveri è insita nella dinamica stessa dell’amore vissuto secondo Cristo “ (VC 82) .
Come il sacerdote e il levita rischiamo invece di non lasciarci coinvolgere da questo amore, e così passiamo oltre girando lo sguardo altrove, apportando certamente valide motivazioni capaci di mettere a tacere la nostra coscienza così religiosa: “Non tocca a me… se dovessi farmi carico di tutti sarebbe finita… ci devono pensare altri…non posso risolvere tutti i problemi… ci sono cose più urgenti… Ma alla fine non è colpa mia se l’è cercata lui!…”. Siamo così abili ad escogitare scappatoie per poter passare oltre le ferite altrui “illesi” nella nostra falsa coscienza.
Come non ricordare a questo punto una figura straordinaria di “buon samaritano” dei nostri giorni quale è stato Roul Follerai: spese tutta la sua vita dopo aver incrociato casualmente la sofferenza dimenticata dei lebbrosi. Capì che la sua vita poteva e doveva essere ormai spesa nel chinarsi su quegli uomini piagati e rifiutati. Sono sue queste parole dette in tutta coerenza: “Signore insegnaci a non amare soltanto noi stessi, a non amare soltanto i nostri cari, a non amare soltanto quelli che ci amano. Insegnaci a pensare agli altri, ad amare anzitutto quelli che nessuno ama. Concedici la grazia di capire che ad ogni istante, mentre noi viviamo una vita troppo felice, protetta da te, ci sono milioni di esseri umani, che sono pure tuoi figli e nostri fratelli, che muoiono di fame senza aver meritato di morire di fame, che muoiono di freddo senza aver meritato di morire di freddo. Signore abbi pietà di tutti i poveri del mondo. E non permettere più, o Signore, che noi viviamo felici da soli. Facci sentire l’angoscia della miseria universale, e liberaci dal nostro egoismo.” Follerai cercò di coinvolgere non solo la moglie, bensì il mondo politico, religioso e culturale perché superasse l’indifferenza o la dimenticanza di questo problema. La sua associazione vive e opera ancor oggi con migliaia di volontari.
Si tratta perciò in primo luogo di saper “vedere” “l’uomo al bordo della strada”! Non è poi così scontato perché restringiamo senza accorgerci il nostro orizzonte alle nostre piccole cose non accorgendoci che così facendo restringiamo la nostra capacità di amare. Il Signore ci invita ad “udire il grido del povero”, “alzare lo sguardo” e “vedere”.
Solo così può scaturire in noi la compassione. Questa è virtù estremamente rara nella cultura sempre più narcisistica nella quale siamo immersi e che ci vorrebbe costantemente impegnati a centrare tutto su noi stessi, non si ha tempo per gli altri, ci sono sempre cose più importanti da fare. “Cum-patere” significa “soffrire insieme””. In questo senso il primo samaritano è Cristo stesso che porta su di sé, agnello e servo di Dio tutta la nostra infermità. Egli la “con-divide” ovvero la “divide con noi” portandola insieme a noi. Nelle “Cronache domenicane” del XIII sec. narrando della vita di san Domenico l’agiografo scrive: “Dio gli aveva dato una grazia speciale per i peccatori, i poveri, gli afflitti. Egli portava i loro dolori nel santuario intimo della sua compassione”. “Portare il dolore – di tutti e indistintamente – nel santuario della compassione” è il vertice della sequela di Cristo perché è conformazione piena a lui, che è com-passione di Dio fatta carne. Perché Cristo stesso si identifica col piccolo e il povero, il servizio resi a questi è reso a Cristo stesso: “Cristo si trova sulla terra nella persona dei suoi poveri…Come Dio, ricco, come uomo, povero. E infatti lo stesso uomo già ricco ascese al cielo, siede alla destra del Padre eppure quaggiù tuttora povero soffre la fame, la sete, è nudo” (Agostino, Sermoni 123).
“Avere compassione” non è questione solo di pii sentimenti o facili entusiasmi. La vera compassione, insegna la parabola, si traduce in scelte e gesti concreti perché “il vangelo si rende operante attraverso la carità” (VC 82). L’apostolo Giacomo ammonisce a non cadere nel tranello di una fede vuota di opere, fatta solo di buone intenzioni e perciò inconsistente e perversa: “Supponiamo che entri in una vostra adunanza qualcuno con un anello d’oro al dito, vestito splendidamente, ed entri anche un povero con un vestito logoro. Se voi guardate a colui che è vestito splendidamente e gli dite: «Tu siediti qui comodamente», e al povero dite: «Tu mettiti in piedi lì», oppure: «Siediti qui ai piedi del mio sgabello», non fate in voi stessi preferenze e non siete giudici dai giudizi perversi?” (2,2-4). La fede vera si traduce obbligatoriamente in opere, ed è quindi con riconoscenza che vediamo come lo Spirito abbia spinto e spinge tuttora a porre in atto gesti concreti di “com-passione” – non importa se grandi o piccoli, anonimi o pubblici – che testimoniano al mondo che Dio “Caritas est”. “La compassione – scrive p.J. Fuellenbach – non è solo passiva. Richiede la rimozione di ciò che pregiudica la vita in coloro che soffrono. Gesù ha sempre risanato la persona e l’ha portata nuovamente nel tessuto delle relazioni vitale (giustizia)”.
“Prenditi cura di lui” è la consegna che il samaritano fa all’albergatore affidandogli la cura dell’uomo ferito. Il suo servizio diviene così capace di coinvolgere altri, di responsabilizzare altri a proseguirlo. In questo modo si intesse una cultura di “com-passione”, di solidarietà. Le comunità cristiane e religiose dovrebbero divenire autentiche scuole di questo servizio e quindi di evangelizzazione. “Servire i poveri è atto di evangelizzazione e nello stesso tempo sigillo di evangelicità e stimolo di conversione permanente per la vita consacrata, poiché – come dice san Gregario Magno – «Quando la carità si abbassa a provvedere anche agli infimi bisogni del prossimo, allora divampa verso le più alte vette. E quando benignamente si piega alle estreme necessità, allora vigorosamente riprende il volo verso le altezze»“(VC 82). Come non guardare con gratitudine a apprezzamento al sempre maggior coinvolgimento di laici/che in tanti settori di servizio un tempo strettamente riservate alle persone consacrate. Questo non mancherà di portare frutti abbondanti di vita e di testimonianza cristiane! Occorrerà tuttavia tenere sempre presente il rischio di ricadere in un’ottica che vuole tutto organizzare, prescrivere, delimitare. Si cadrebbe così ancora una volta nel tranello della “Legge”. La misura del “fare” non potrà mai essere predeterminata a priori così che sia possibile pensare un momento in cui essa sia esaurita, in cui l’esigenza dell’altro non ci interpella più; essa invece resta inesauribile perché tale è l’appello che ci è rivolto dalla presenza dell’altro.
Che cosa dobbiamo fare per avere in eredità il Regno? Dio vuole che accogliemmo il suo stile, il suo farsi prossimo ad ogni uomo senza distinzione alcuna. L’attenzione e la cura data all’uomo bisognoso che giace al bordo delle strade delle nostre città diviene annuncio della Buona Notizia di un Dio che si fa vicino all’uomo amandolo concretamente; la vicinanza all’ultimo diviene sacramento della vicinanza di Dio all’uomo.
Oratio
È veramente giusto lodarti e ringraziarti, Padre santo, Dio onnipotente ed eterno, in ogni momento della nostra vita, nella salute e nella malattia, nella sofferenza e nella gioia, per Cristo tuo servo e nostro redentore. Nella sua vita mortale egli passò beneficando e sanando tutti coloro che erano prigionieri del male. Ancor oggi come buon samaritano viene accanto ad ogni uomo piagato nel corpo e nello spirito e versa sulle sue ferite l’olio della consolazione e il vino della speranza. Per questo dono della tua grazia, anche la notte del dolore si apre alla luce pasquale del tuo Figlio crocifisso e risorto. (Prefazio Comune IX del Messale Romano).