Dov’è il tuo Dio?
Lectio del Salmo 88
di p. Attilio Franco Fabris
Chiediamo allo Spirito di aprirci all’ascolto della Parola e della vita. Quest’ultima porta in sé tante domande, dubbi e incertezze: è necessario che la fede, che scaturisce dall’ascolto della Parola, sostenga il nostro cammino fatto spesso di timidi e barcollanti passi. Infatti prima o poi la prova fisica, morale o spirituale, investe il cuore ingaggiandovi una cruda battaglia. Battaglia del dolore che segna lo scaturire impetuoso di un grido che contiene una domanda rivolta a Dio stesso: “Se ci sei… perché?”. Tante certezze iniziano allora a vacillare, vengono meno le risposte scontate, le sicurezze crollano, i dubbi acquistano consistenza e pesantezza. In questi momenti si ha bisogno di qualcuno che ci prenda per mano; abbiamo bisogno di un volto, di una parola che infonda una rinnovata speranza, a volte umanamente impossibile.
Invochiamo lo Spirito perché faccia toccare la vicinanza del Padre nella nostra vita e in quella di tanti fratelli e sorelle segnati in questo momento dalla prova e dal dubbio.
“Vieni, Signore, passi il tuo soffio come la brezza primaverile
che fa fiorire la vita e schiude l’amore,
o come l’uragano che scatena una forza sconosciuta
e solleva energie addormentate.
Passi il tuo soffio nel nostro sguardo
per portarlo verso orizzonti più lontani e più vasti.
Passi il tuo soffio sui nostri volti rattristati
per farvi riapparire il sorriso,
sulle nostre mani stanche
per rianimarle e rimetterle gioiosamente all’opera.
Passi il tuo soffio fin dall’aurora
per portare con sé tutta la nostra giornata in uno slancio generoso.
Passi il tuo soffio all’avvicinarsi della notte
per conservarci nella tua luce e nel tuo fervore”. (P. Maior)
Lectio
Abbiamo scelto per la nostra Lectio un brano arduo non tanto per difficoltà esegetiche o testuali ma per il suo contenuto esperienziale: si tratta del salmo 88. Tra tutte le lamentazioni – che appartengono ad un genere letterario tipico del libro dei Salmi – il nostro testo appare con una sua peculiarità: è infatti, fra tutti i salmi di lamentazione, il più cupo e il più drammatico.
L’impressione che se ne ricava è di un testo che contiene il grido disperato di un uomo che si sente sprofondare nel nulla della morte, “un vero e proprio ultimo urlo lanciato a Dio dalla parte degli inferi” lo definisce l’esegeta Gianfranco Ravasi.
Possiamo suddividere il salmo in quattro parti al fine di rendere più agevole il nostro commento:
– l’ introduzione: vv. 2-3
– l’esposizione da parte del salmista della sua situazione: vv. 4-11
– gli appelli rivolti a Dio: vv. 11-13
– la ripresa dell’esposizione del caso: vv. 14-19
Il salmo si introduce con una invocazione rivolta al “Signore Dio della mia salvezza” (v. 2): questo richiamo ad un Dio di salvezza è l’unico barlume di speranza in tutto il rimanente testo, nulla più. A questa flebile persuasione si aggancia tutta la preghiera implorante che segue.
Si tratta di una preghiera incessante, insistente, martellante che risuona “giorno e notte” e che esprime sia la grande necessità in cui si trova l’orante sia l’attesa spasmodica che al termine Dio si decida ad ascoltare.
Dopo l’introduzione ecco il salmista esporre a Dio la sua drammatica situazione (vv 4-10): essa viene riassunta nell’espressione “sono colmo di sventure” (v. 4). Si tratta di una “sazietà” di dolore oltre il quale non è più possibile andare. E’ l’implorazione di colui che grida dicendo: “Non ne posso più!” in quanto si sente già nell’anticamera del regno della morte, sull'”orlo della tomba“, in un cammino “in discesa” (lett.) inevitabilmente diretto verso le viscere della terra, nel regno del nulla che è lo Scheol.
Per l’uomo dell’A.T. il tempo della salvezza è solo il presente contenuto nel ristretto spazio della vita terrena. Per colui che passa nel regno dei morti cessa ogni possibilità di sperimentare la salvezza, e questo per la semplice convinzione che Dio somma vita, non può avere nulla a che fare con la morte. Nello Scheol c’è sì una sorta di sopravvivenza, ma come ombra di se stessi, senza possibilità di comunione con Dio. Nel luogo dell'”Abaddòn” (v. 12; cfr Ap 9,11), ovvero della distruzione, non si potrà più celebrare la misericordia di Dio. La conclusione è perciò drammatica. Le risonanze del salmista sono amare e sull’orlo della disperazione: “Sto per essere tagliato fuori… sto per essere dimenticato e abbandonato da Dio, mentre la vita mi sfugge tra le mani senza che io possa far nulla per trattenerla”.
Autore di tutto questo dramma è, scandalosamente, Dio stesso. Infatti per la teologia ebraica veterotestamentaria tutto si riconduce a Dio sia nel bene che nel male. Quando la sventura, la sofferenza, la malattia coglie una persona, tale situazione viene letta nella categoria del “castigo”. Dio è “sdegnato” (v. 8) per qualche colpa commessa. E questo castigo che coglie l’uomo suscita in lui solo spavento e terrore. L’immagine dei “flutti” che sommergono è significativa: sono le onde del furore divino che inghiottono il nostro malcapitato senza che egli sia consapevole della ragione di tutto questo.
Si potrebbe benissimo porre queste parole sulle labbra del paziente Giobbe, il quale accusando Dio di tutto il male che incombe su di lui dice quasi imprecando: “su di me rinnovi i tuoi attacchi, contro di me aumenti la tua ira e truppe sempre fresche mi assalgono” (10,17); e ancora: “Il mio spirito vien meno, i miei giorni si spengono; non c’è per me che la tomba !(17,1; cfr Lam 3,30).
Questa parte contenente la descrizione della situazione termina in modo ancor più amaro e cupo: non solo Dio ha abbandonato il suo fedele, ma ha fatto sì che anche amici e parenti lo abbiano rifiutato, relegato in una solitudine senza consolazione. Tutti si sono distanziati da lui già in preda alla sventura. Siamo ancora molto vicini all’esperienza dolorosa di Giobbe che dice: “I miei fratelli si sono allontanati da me, persino gli amici mi si sono fatti stranieri. Scomparsi sono vicini e conoscenti, mi hanno dimenticato gli ospiti di casa; da estraneo mi trattano le mie ancelle, un forestiero sono ai loro occhi.(19,13-15).
Non rimane che continuare a stendere al cielo le palme vuote delle mani nel gesto di una implorazione di chi a Dio non può dare nulla ma solo ricevere tutto. Sull’ “orlo della fossa” non rimane che rivolgersi nella supplica a questo Dio in preda all'”ira” e che sembra compiacersi di “terrorizzare” l’uomo che, solo e abbandonato da tutti, si trova in bilico tra la vita e la morte.
La terza parte del salmo (vv.11-13) è costituita da una serie di domande poste direttamente a Dio: sono domande in certo qual modo retoriche nel senso che sono rivolte a Dio affinché egli si persuada a mutare la triste condizione del salmista. L’idea di fondo è che, se negli inferi nessuno loda il Creatore, è cosa saggia che egli lasci continuare a vivere la sua creatura che così potrà ancora lodarlo. La preghiera del re Ezechia contiene il medesimo concetto: “Poiché non gli inferi ti lodano, né la morte ti canta inni; quanti scendono nella fossa non sperano nella tua fedeltà” (Is 38,18).
Infine con i vv. 14-19 giungiamo all’ultima parte del nostro testo. Negli altri salmi è generalmente pervasa di fiducia, anzi, talvolta vi troviamo già il ringraziamento nella certezza che sicuramente si sarà esauditi. Non è così nel nostro: il salmista ritorna tristemente al suo caso, alla disperazione che lo attanaglia e dalla quale non riesce a distanziarsi. Anzi rincara la dose di amarezza con la forte e scioccante espressione “Sono moribondo fin dall’infanzia” (v. 16). Più che un semplice accenno ad una malattia cronica probabilmente si tratta di una chiarezza interiore su quella che è la condizione intrinsecamente mortale e fugace dell’uomo: “Ricorda quant’è breve la mia vita: perché quasi un nulla hai creato l’uomo?” (Sal 89,48).
La conclusione risulta perciò in tragica e stonata tonalità “minore”: il salmo termina con un sapore di amaro e di vuoto. Dio sembra così lontano e assente dalla sofferenza del salmista che si sente “respinto” (v. 15) e riconosce come sconsolata la sua condizione. L’ultima espressione è ancor più cupa: nessuna luce appare all’orizzonte, compagne del dolore dell’uomo rimangono solo le “tenebre” della solitudine e del non senso della sua sofferenza.
Collactio
C’è da stupirsi che il grido disperato contenuto nel salmo 88 non si traduca in aperta rivolta, in una sofferta accusa e ribellione contro la “crudeltà” con cui Dio sembra accanirsi inspiegabilmente contro quest’uomo.
Questo salmo è una preghiera audace: noi siamo forse troppo abituati nella nostra preghiera ad un linguaggio impregnato di espressioni di troppo… amore e fiducia, gioia e speranza spesso dal sapore un po’ dolciastro. Sono espressioni che talvolta sono molto lontane dal nostro reale sentire. Qui non è così: le espressioni sono vere e forti, rasentano l’invettiva contro Dio: scandalizzano le “pie” orecchie degli amici di Giobbe che, pessimi teologi, vogliono in ogni caso difendere Dio.
Le pesanti parole del salmo non temono di porsi come dura accusa al silenzio scandaloso di Dio dinanzi alla sofferenza dell’uomo. “Dov’è il tuo Dio?” (Sal 41,4): è questa un’antica domanda alla quale, con l’intelligenza fredda delle risposte stereotipate del catechismo, sappiamo dare immediatamente risposta: Dio è dappertutto, in ogni luogo, in cielo e in terra. Non vi è luogo in cui lui non sia presente. Eppure nel profondo della coscienza questa domanda, in un momento o l’altro della vita, si insinua inaspettata nella nostra coscienza non per invitare a ritrovare una certezza di fede ma per smantellarla e calarla nel vortice del dubbio. Dov’è Dio quando la sofferenza inutile dell’innocente grida un’ingiustizia che mette in discussione se non la sua esistenza almeno la sua bontà? Dov’è Dio quando la disperazione attanaglia il cuore e sembra di essere sperduti nel vuoto, senza fondamento, in balia di un nulla assurdo e senza volto? Dov’è Dio quando tutto in noi e attorno a noi acquista un sapore amaro di cenere, preannuncio di una morte certa dinanzi alla quale anche il credente vacilla? In questo stesso istante nel cuore di migliaia di persone nelle corsie degli ospedali, nelle case di cura, nelle carceri, ai capezzali di ammalati e moribondi oppure tra le mura di un anonimo appartamento di un qualsiasi condominio di una metropoli, questa domanda si impone alla coscienza come un terribile grido che sale verso un cielo che sembra di piombo attendendo risposta: “Dov’è il tuo Dio?” (Sal 41,4). Al grido implorante del salmo 88 nessuno può sfuggire perché prima o poi tutti in esso ci ritroveremo associati.
Abbiamo tuttavia uno straordinario compagno e testimone: nella sua passione lo stesso Gesù (non per nulla la liturgia ci fa pregare questo salmo ogni venerdì e al sabato santo) vive fino in tutta la tragicità di questa invocazione di cui parla la lettera agli ebrei: “Con forti grida e lacrime supplicò chi poteva salvarlo dalla morte” (Ebr 5,7). E’ l’estremo urlo che vuole squarciare il silenzio di Dio dall’alto della croce: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Mt 27,46).
Ed è l’esperienza fatta da tanti testimoni che hanno camminato lungo le ardue e spesso oscure vie della fede. Tra tutti scegliamo un testo di Teresa di Lisieux: “La mia anima fu invasa dalle più fitte tenebre e il pensiero del cielo così dolce per me, diventò motivo di lotta e di tormenti… Vorrei poter esprimere ciò che sento, ma ahimè! Credo sia impossibile. Bisogna aver percorso quella nera galleria per capirne l’oscurità… E quando voglio far riposare il mio cuore stanco per le tenebre che lo circondano, il mio tormento raddoppia; mi sembra che le tenebre, con voce di peccatori, mi dicano ridendo di me: Tu sogni la luce, credi di poter uscire un giorno dalle brume che ti circondano! Cammina, cammina e rallegrati per la morte che ti darà non già quello che speri, ma una notte più fonda ancora, la notte del nulla” (Storia di un’anima).
È consolante ritrovare tra le pagine della sacra Scrittura un testo come il salmo 88 capace di rispecchiare la fatica del nostro credere e coraggioso nel gridare la situazione fragile e mortale dell’uomo che invoca una presenza capace di dare senso alla vita e alla morte. La Scrittura non esita a far propria questa angoscia che abita il fondo del cuore umano.
Il salmo 88, non rischiarato dalla piena rivelazione, testimonia solo una fragile speranza che si blocca ai cancelli del regno dello Scheol ritraendosi inorridita affermando perentoria: lì Dio non può essere, lì si sarà abbandonati da tutti.
Ma al credente in Cristo è data una speranza capace di trafiggere queste tenebre e di infrangere questi cancelli, di penetrare in quel buio con una certezza. Il cristiano possiede la grazia di intravedere una luce che per assurdo fuoriesce proprio dalla tomba da cui il salmista si ritrae inorridito. Scriveva il gesuita padre Theilard de Chardin che parlando di “vertiginosa voragine” evoca quasi la “fossa” e l'”Abaddòn” del salmista: “Più l’avvenire mi si apre dinanzi come una vertiginosa voragine, o un oscuro passaggio, e più avventurandomi in esso sulla tua parola, posso aver fiducia di perdermi o d’inabissarmi in te” (Ambiente divino).
Come può infatti il Dio dell’alleanza, i cui doni sono irrevocabili, venir meno alla promessa della vita donata all’uomo sua creatura?
Oratio
Nella notte del dubbio della fede, quando il grido di invocazione ad un Dio che sembra assente, si fa udire nel profondo del cuore, il Signore stesso ci si fa vicino.
Ci viene accanto con la povera umanità del Crocifisso, non risolvendo magicamente i nostri problemi, ma con le mani e i piedi piagati, con il costato trafitto, per dirci di non spaventarci. “Non temere” suggerisce al cuore di ciascuno di noi: “Non aver paura quando la vita ti chiede di entrare nelle tenebre e nella solitudine del Calvario, non temere di gridare giorno e notte affinché Dio così apparentemente assente ascolti la tua preghiera”.
Anche Gesù sulla croce “emise un alto grido” (Mt 27,50) di invocazione al Padre, in tutto simile al grido del nostro salmista e dei mille crocifissi della storia. Ma quelle ferite del Calvario, a differenza delle nostre, non suppurano in disperazione ma irradiano speranza e luce; raccontano una fedeltà di un amore che non viene mai meno contro ogni evidenza che testimonierebbe il contrario. Quelle ferite possiedono la forza di suscitare in noi il coraggio di guardare oltre, di non sprofondare in una sorta di implosione nel nostro dolore. Quelle piaghe forti della loro debolezza ci rimettono in cammino alla scoperta del vero volto di Dio così vicino perché diverso dalle nostre povere attese.
O Signore, donaci la grazia, di tener fissi gli occhi sulla tua croce nel momento in cui tutto sembra precipitare nel nulla. Che la croce divenga àncora gettata in mezzo al mare in tempesta, scoglio e faro indistruttibile in mezzo a quei flutti di morte di un mare tenebroso e in tempesta che vorrebbe spezzare in noi la speranza della tua presenza.