Offrite voi stessi in sacrificio
Lectio di Rm 12,1-2
di p. Attilio Franco Fabris
Iniziamo la nostra lectio con una testimonianza tratta dagli scritti del beato Edward Giovanni Maria Poppe, sacerdote (Temsche in Belgio 1890 – Moerzeke-lez-Termonde 1924). Fu un grande pedagogista dell’Eucarestia. Istituì infatti la «Lega della Comunione frequente» tra i bambini e le operaie. Per i fanciulli della «Crociata eucaristica Pio X» di tutto il Belgio, pubblicò un settimanale apposito. Costretto a vivere su una poltrona per motivi di salute – morì a soli 34 anni – scrisse opere di grande valore spirituale. Scrive con parole che possono essere un sunto del suo insegnamento: “Restate ostia con l’Ostia. La nostra vita non ha alcun senso se non siamo vittime. Senza quest’opera di continua “victimatio”, le nostre preghiere e i nostri colloqui spirituali si riducono a chiacchiere superficiali, le nostre prediche sono semplici parole gettate al vento… Un cuore di sacerdote che non sanguina non è un cuore di sacerdote”.
Giovanni Maria ci insegna l’essenziale della vita cristiana: unirsi totalmente e concretamente a Cristoche ci ha già incorporati a sé nel battesimo e nell’eucarestia, e questo al fine di poter offrire, come sacerdoti, ostia per ostia, con lui, per e in lui la nostra vita in offerta al Padre per la sua gloria e in espiazione dei peccati nostri e del mondo intero.
Nel rito di benedizione dell’altare troviamo un distinto richiamo alla vita cristiana chiamata a divenire offerta cultuale al Padre: “Dona a noi tuoi fedeli che ci accostiamo al Cristo pietra viva di essere in lui edificati in tempio santo, per offrire sull’altare del nostro cuore in sacrificio spirituale la nostra vita realmente vissuta a lode della tua gloria” (Benediz. 1282). Chiediamo allora allo Spirito che questo diventi esperienza concreta per la vita di ciascuno di noi “vissuta a lode della gloria di Dio”.
Lectio
Paolo dopo aver affrontato nei primi capitoli (1-11) della Lettera ai Romani l’annuncio della salvezza offerta da Dio all’umanità attraverso il dono della fede in Cristo, nei cc.12-15 prosegue indicando quali sono le conseguenze che scaturiscono dall’accoglienza di questo annuncio. È la cosiddetta parte “parenetica” della lettera tutta tesa ad offrire ai cristiani di Roma indirizzi concreti e pratici del come vivere la grazia battesimale che pone il credente a camminare “in una vita nuova” (6,4). Da quanti per il battesimo sono divenuti membra vive del corpo di Cristo ci si attende che cerchino anzitutto di vivere all’insegna della carità che riassume tutta la legge; solo una vita imperniata sull’amore è gradita a Dio. La sintesi che Paolo offre è che i cristiani sono chiamati a vivere la propria esistenza in “questo mondo” in una costante offerta d’amore di se stessi a Dio e ai propri fratelli: è questa la “vita nuova”.
Il testo che vogliamo meditare sono i primi due versetti del cap. 12 che fanno da introduzione a tutto l’insegnamento successivo.
Il v.1 inizia con l’appellativo dato ai cristiani di “fratelli”. È il titolo usuale usato all’interno delle prime comunità cristiane: l’essere fratelli non ha nulla a che fare con parentele di famiglia perché in tutti scorre lo stesso sangue –l’eucarestia ne è sacramento-, potremmo dire così, di Cristo nostro fratello che fa di noi fratelli e figli dello stesso Padre. I credenti perciò sanno di vivere per la fede e il battesimo una comunione che è più forte di quella del sangue.
“Vi esorto”: Paolo si rivolge alla comunità di Roma in qualità di apostolo e dunque con un’autorità che sa essergli data dall’alto. L’apostolo sa di essere voce stessa di Dio. L’espressione andrebbe tradotta con un “vi esorto insistentemente”: quindi ciò che verrà detto riveste molta importanza.
“Per la misericordia di Dio”: è incerto se questo inciso sia riferito a ciò che precede o segue. Nel primo caso è l’amore di Dio la motivazione che spinge Paolo a parlare. Nel secondo caso l’offerta di se stessi sarebbe motivata dall’amore di Dio nei nostri confronti. E’ comunque l’amore di Dio che sta alla base dell’agire sia dell’apostolo come degli altri fedeli. Non siamo noi a far sì che il vangelo trasformi le nostre e altrui esistenze, ma è questo amore straordinario che cambia radicalmente il cuore di tutti.
“Ad offrire i vostri corpi”: il verbo non indica solo un generico “a mettersi a disposizione”. Esso riveste invece il significato cultuale di “offrire un sacrificio”. Se nel sacrificio giudaico c’è l’uccisione della vittima, ora lo stesso verbo in senso figurato viene applicato all’esistenza del cristiano. Il “corpo” (sòma) è l’aspetto biologico, visibile e dunque concreto di noi stessi. Offrire il proprio corpo allora equivale a offrire “se stessi totalmente”, anima e corpo, senza alcuna “riserva”. È ciò che Paolo aveva precedentemente annotato: “Non mettete le vostre membra a disposizione del peccato come armi di ingiustizia, ma mettete voi stessi a disposizione di Dio, come persone tornate in vita dalla morte, e offrite le vostre membra a Dio come strumenti di giustizia” (6,13). Questo nostro “corpo” un tempo dominato dal peccato era divenuto “corpo di morte” (7,24), ma nel battesimo il principio del nostro essere non è più il peccato apportatore di morte ma lo Spirito vivificante che viene a invaderci totalmente, anima e corpo. In tal modo l’uomo intero è divenuto capace di divenire sacerdote e offerta gradita a Dio. È questa la “giustizia” ovvero la giusta corrispondenza al disegno originario voluto dal Creatore.
L’offerta del proprio corpo a Dio è definito da Paolo un “sacrificio vivente, santo e gradito a Dio”. Qui il paragone è in riferimento alle vittime sacrificali del culto giudaico e dei culti pagani. Non è più perciò un culto “morto”che offre a Dio animali uccisi. Ma è un culto “vivo” che unito a quello eterno di Cristo diviene “santo e gradito” al Padre. È ciò che Gesù preannunciava alla samaritana presso il pozzo di Sicar: “Ma è giunto il momento, ed è questo, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità; perché il Padre cerca tali adoratori” (Gv 4,23).
Continuando nella stessa linea Paolo dice “E’ questo il vostro culto spirituale”. Si potrebbe anche tradurre “è questo il culto che conviene alla vostra natura di esseri ragionevoli”; ovvero un culto guidato dal “logos”, dalla ragione e perciò dalla consapevolezza di cui godono solo gli uomini e non un culto in cui si offrono animali irragionevoli. Il “culto spirituale” corrisponde all’effettiva comprensione che l’uomo centro di tutta la creazione è chiamato ad esservi in qualità non di despota ma di sacerdote abilitato a innalzare a nome di tutta la creazione la lode, il ringraziamento (eucarestia), l’adorazione e questo a partire da se stesso, unico essere dotato di logos, di ragione. Probabilmente qui intravediamo anche una sfumatura polemica in opposizione a un culto tutto esteriore, formalistico che non coinvolge la vita, ovvero un culto che manca dell’essenziale culto della propria vita (il cuore) e che veniva già denunciato da tutta la predicazione profetica (cfr Os 6,6; Sal 50,14.23). Nel cristiano che ha ricevuto il dono dello Spirito il culto viene dunque a permeare ogni realtà a partire da se stessi: “Se viviamo grazie allo Spirito, dobbiamo anche camminare secondo lo Spirito”.
Dopo questa presentazione generale dell’intera vita cristiana chiamata a divenire un vero sacerdozio e culto, Paolo esprime il medesimo concetto in termini imperativi e al negativo. E siamo al v.2.
“Non conformatevi alla mentalità di questo mondo”. “Questo mondo” è segnato dal peccato, dalla lontananza da Dio, dal dominio di Satana. Il battezzato è morto a “questo mondo” essendo entrato a far parte del “mondo nuovo” (il “regno di Dio”) già presente nella storia anche se in germe: perciò ai discepoli di Gesù è dato di vivere già in un “mondo nuovo” (cfr Fil 3,21; Gal 1,4). In Gal 5,24 Paolo aveva detto: “Coloro che appartengono a Cristo Gesù hanno crocifisso la carne con le sue passioni e le sue concupiscenze”. Ora l’espressione “aver crocifisso” rimanda alla dimensione sacrificale e cultuale del sacrificio di Cristo al quale il cristiano si assimila mediante la morte dell’ ”uomo vecchio” interamente sprofondato in “questo mondo”.
“Ma trasformatevi” (o “lasciatevi trasformare”) dalla grazia di Dio, ossia attraverso l’azione dello Spirito Santo. In che cosa consiste questa trasformazione? Paolo risponde: “rinnovando completamente il vostro modo di pensare” (“rinnovando la vostra mente”). Questa “vita nuova” non è una verniciatura esterna che lascia però la realtà sottostante quale era, essa invece è una autentica trasformazione interiore, che comporta un rinnovamento del “nous” ovvero del dinamismo con cui operiamo i nostri giudizio intellettivi e morali. Si tratta di acquisire una “mente” non più governata dalle passioni del corpo che fanno propri criteri di “questo mondo”, perché ha ormai fatto sua la “mente” di Cristo stesso: “Noi abbiamo la mente (pensiero) di Cristo” (1Cor 2,15). Il cristiano non ragiona più con i parametri dell’uomo vecchio guidato dalle sue passioni ma con i parametri di Cristo, uomo nuovo. Questo “modo di pensare di Cristo” aiuterà di conseguenza il cristiano e la comunità a “discernere la volontà di Dio”. Ora la volontà del Padre è l’unica realtà che Cristo ha cercato sempre e di cui si è cibato sino alla fine. Facendo nostro il pensiero di Cristo entreremo nella volontà del Padre con la certezza così di perseguire “ciò che è buono, gradito e perfetto”. “Fare la volontà del Padre” sarà il culto spirituale che salirà a Dio come “sacrificio di soave odore”.
Meditatio
La “Lumen gentium” afferma, riprendendo le parole della prima lettera di Pietro, che tutti i battezzati costituiscono “un sacerdozio regale”. Questa affermazione viene fatta ancor prima di trattare il sacerdozio ministeriale, e quindi ne è in qualche modo una premessa. Il ministero episcopale, presbiterale e diaconale è un servizio all’interno della comunità a beneficio del sacerdozio comune. Prima della distinzione tra vocazioni diverse all’interno del popolo di Dio occorre perciò riconoscere la presenza di un fondamentale sacerdozio comune che scaturisce dal sacramento del battesimo. Dice l’Apocalisse che Dio Padre “ha fatto di noi un regno di sacerdoti per il nostro Dio” (5,10). Sempre lo stesso importante documento conciliare ribadisce che a tutti i battezzati “Cristo… concede anche una parte della sua funzione sacerdotale per esercitare un culto spirituale, affinché sia glorificato Dio e gli uomini siano salvati” (n.34).
Questo nostro comune sacerdozio scaturisce dalla consacrazione che lo Spirito santo, nel sigillo sacramentale del battesimo e della confermazione, ha attuato in noi rendendoci capaci di offrire al Padre tutta la nostra vita, e l’intera creazione, in un “sacrificio spirituale”. Nel cuore della liturgia eucaristica il celebrante chiede esplicitamente che lo Spirito “faccia di noi un sacrificio perenne gradito” (Preg. Euc. III) al Padre ed elevato unitamente al sacrificio di Cristo. Il nostro sacrificio spirituale trova nell’eucarestia il suo punto di forza, la sua sorgente e il suo sbocco naturale.
Cosa comporta concretamente questo sacerdozio? Che culto il Padre si attende da ciascuno? Sempre la Lumen gentium esplicita: “Tutti quindi i discepoli di Cristo, perseverando nella preghiera e lodando insieme Dio, offrano se stessi come vittima viva, santa, gradita a Dio, rendano ovunque testimonianza di Cristo e, a chi la richieda, rendano ragione della speranza che è in loro della vita eterna (cfr1Pt 3,15)” (n. 10). E ancora si sottolinea che questo sacerdozio si esercita “con la partecipazione ai sacramenti, con la preghiera e il ringraziamento, con la testimonianza di una vita santa, con l’abengazione e l’operosa carità” (n. 10). Quindi ci viene detto che esercitiamo con diritto il nostro sacerdozio comune attraverso la partecipazione ai sacramenti, in modo particolare l’eucarestia, attraverso la preghiera, la testimonianza, la nostra carità. Le occasioni dunque non mancano: ma occorre esserne consapevoli!
Il nostro battesimo, e la professione religiosa che ne è esplicitazione, racchiude in sé una dimensione cultuale che non si esaurisce certamente nel momento liturgico ma viene ad inglobare per sempre tutta l’esistenza del discepolo. Siamo uniti indissolubilmente a Cristo e con Lui, per Lui, in Lui possiamo offrire “i nostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio”. San Gregorio Magno afferma che chi ridona a Dio ciò che ha ricevuto in dono compie non solo un sacrificio, ma un “olocausto”, ovvero un atto totale di offerta. Quindi accogliendo il dono della consacrazione il religioso si impegna a fare della propria vita un “olocausto” a Dio perché restituisce a Dio tutto ciò che è e ciò che ha: così l’intera vita diventa un ininterrotto atto di culto a Dio. Recita il canone 607 del Diritto Canonico: “La vita religiosa, in quanto consacrazione di tutta la persona, manifesta nella Chiesa il mirabile connubio istituito da Dio, segno della vita futura. In tal modo il religioso porta a compimento la sua totale donazione come sacrificio offerto a Dio, e con questo l’intera sua esistenza diviene un ininterrotto culto a Dio nella carità”. La nostra consacrazione è dunque atto di offerta e di culto sia perché siamo entrati totalmente, anima e corpo, nell’alleanza sponsale con Cristo. E questo comporta un’espropriazione di sé che si concretizza nell’impegno a vivere la povertà, la castità e l’obbedienza.
Dovremmo allora interrogarci se viviamo la nostra realtà di consacrazione battesimale e religiosa nella consapevolezza di essere chiamati a divenire concretamente un “culto spirituale” per la gloria di Dio. Nella vita di una persona consacrata dovrebbe essere sempre presente la coscienza che nell’osservanza quotidiana dei voti essa presenta a Dio l’offerta cultuale che ha promesso nel giorno della professione. In questo senso è possibile affermare che il consacrato è nello stesso tempo, come Cristo sulla croce, vittima e sacerdote. Il rischio infatti è quello di riprenderci pian piano, magari senza accorgercene, quello che un giorno abbiamo donato in sacrificio. E allora la consacrazione e il nostro sacerdozio comune perde la sua verità.
Ma se questo atto di “olocausto” si realizza allora la nostra vita si trasforma realmente in una continua eucarestia che prolunga e prepara quella sacramentale che si celebra all’altare. E come il sacrificio di Cristo si riversa a beneficio della salvezza di tutti, così anche la nostra vita divenuta offerta-sacrificio, unita al suo, collabora alla redenzione del mondo intero.
Il nostro donarci quotidiano – diremmo il “nostro sacrificarci” – magari nascosto e dimenticato, in questa visione di fede assume sempre un valore straordinario. Un gesto, una sofferenza, una carezza, una parola, un servizio umile può trasformarsi in un atto di culto di straordinaria potenza che offriamo al Padre, sapendo che è da lui accolto perché vi intravvede l’amore stesso del Figlio. Origene commentando il libro del Levitico, essenzialmente un testo sacerdotale, ad un certo punto scrive: “Ignorate forse che anche a noi, cioè a dire tutta la Chiesa di Dio, a tutto il popolo dei credenti, fu dato un sacerdozio?…Se io amo i miei fratelli fino a donare la mia vita per essi, se combatto fino alla morte per la giustizia e la verità, se mortifico il mio corpo astenendomi da ogni concupiscenza carnale, se il mondo è a me crocifisso e io crocifisso al mondo, io ho offerto un olocausto all’altare di Dio e sono così il sacerdote del mio sacrificio” (Om. In Lev.)
Oratio
Concludiamo la nostra lectio con le parole di Teresa di Gesù Bambino. Ella ha saputo cogliere, nell’apparente banalità del quotidiano, una via di perfezione che seppur definita “piccola” contiene la sapienza straordinaria della croce che appare follia al mondo. Impariamo ad offrirci nelle piccole cose per essere pronti ad offrire a Dio, con Cristo, la nostra stessa vita come “vittima d’olocausto all’amore misericordioso”:
Per vivere in un atto di perfetto amore, mi offro come vittima d’olocausto al vostro amore misericordioso, supplicandovi di consumarmi senza posa, lasciando traboccare nella mia anima i flutti d’infinita tenerezza che sono racchiusi in voi, e così possa diventare martire del vostro amore, o mio Dio.