• 28 Mag

    GESÙ FRA I DOTTORI

    (Lc 2,41-52)

     

    La famiglia di Nazareth ci viene sempre proposta come modello a cui conformare la nostra famiglia.
    Leggendo questo passo molti di voi si saranno chiesti: ma come fanno a proporci questa famiglia come modello se succede una cosa di questo genere? Pensate un attimo, questi genitori sono così sbadati che perdono il figlio. Questa senz’altro è la prima impressione ma questa distrazione ci permette in effetti di capire qual è la realtà del rapporto che esiste nell’ambito di quella famiglia, sia tra i genitori che tra i genitori ed il figlio.

    Innanzi tutto il racconto inizia con un’affermazione: “I suoi genitori si recavano tutti gli anni a Gerusalemme per la festa di Pasqua“. Questo è quello che veniva fatto da tutti gli ebrei osservanti e quindi Maria e Giuseppe si mettono tra coloro che sono osservanti; la cosa bella che viene sottolineata è che vanno entrambi, il che significa che pregano insieme, significa che hanno un’esperienza di preghiera insieme, che è un’esperienza esaltante. Non solo. Per gli ebrei la maggiore età si raggiunge a dodici anni; Gesù viene portato a Gerusalemme quando egli ebbe dodici anni; lo avviano, lo abituano a frequentare il tempio, la festa prima dell’età alla quale diviene obbligatoria la partecipazione al culto.

    Questo ci fa notare una differenza sostanziale con quello che avviene oggi. Per gli ebrei la fede è una cosa per adulti. Chi è che va, chi è che frequenta il tempio, chi è che si impegna nella sua vita di fede? Soltanto gli adulti, bisogna avere almeno dodici anni per frequentare il Tempio, gli altri, i bambini non vanno nel Tempio, devono giocare, devono dedicarsi ad altro. Che cosa succede nella nostra società? Spesso avviene l’opposto, cioè quando i bambini sono piccoli gli facciamo fare il segno della croce, gli facciamo fare la… preghierina, li accompagniamo al Catechismo, gli facciamo fare la Comunione e spesso anche la Cresima e poi… arrivederci e grazie: forse li rivediamo al momento del matrimonio. Fondamentalmente stiamo instillando nelle nuove generazioni un’idea che è fortemente sbagliata, quella che la fede sia una cosa per bambini; una volta che si è grandi non ce n’è più bisogno. Gli ebrei ci dicono esattamente l’opposto.
    La fede è qualcosa per adulti, di persone dotate della ragione.
    Perché? A che cosa serve la fede? La fede dà le risposte alle nostre domande fondamentali; un bambino non si chiede: Da dove viene? Chi è? Dove va? Perché vive? Queste domande ce le facciamo noi adulti, non se le fanno i bambini. E la fede può rispondere a queste domande, certamente non anzitutto alle domande dei bambini. In effetti, se ci guardiamo intorno, quello che sta succedendo è proprio questo: li accompagniamo fino a dodici anni e poi invece di condurli al tempio li facciamo andar via.

    Ma trascorsi i giorni della festa, mentre riprendevano la via del ritorno, il fanciullo Gesù rimase a Gerusalemme, senza che i genitori se ne accorgessero“. Qui possiamo sottolineare due cose ma bisogna che prima ci soffermiamo su quelle che erano le abitudini del tempo.
    Quando si viaggiava in carovana, avviene ancora da qualche parte nel mondo, si formavano due gruppi, da una parte le donne e da un’altra gli uomini. I bambini, che non avevano ancora dodici anni, potevano scegliere di stare o con la mamma oppure – visto che era un maschietto – con il papà.
    Né Giuseppe né Maria si preoccupano di cercarlo: questo ci dice qual era il rapporto tra questi genitori ed il figlio: era un rapporto di serenità, di tranquillità. Gesù era un bambino obbediente, per cui se si era detto che la carovana partiva ad una certa ora Gesù sarebbe stato lì perché questa era la sua abitudine ed i genitori di questo erano certissimi, per cui non si sono posti il problema.
    Maria avrà pensato che Gesù era con Giuseppe e Giuseppe viceversa. Quand’è che se ne accorgono? Quando si fa sera, la carovana si ferma ed i nuclei familiari si ricompongono. A quel punto Giuseppe chiede a Maria: “Gesù…?”. Maria dice a Giuseppe: “Gesù…?”. Però ancora non si preoccupano, come capita oggi; quando i nostri figli sfuggono al nostro controllo ci sono veri momenti di panico. Che fanno Giuseppe e Maria? Si misero a cercarlo tra i parenti e i conoscenti.
    Questo ci dà un altro spaccato di quella che era la vita di allora e ci spiega che in una comunità contribuisce a guardare, ad educare i bambini anche il contesto in cui vivono, e quindi anche parenti e conoscenti per cui un bambino può benissimo stare un’intera giornata senza che i genitori l’abbiano sotto controllo perché c’è una comunità che lo segue ed è attenta a quelle che potrebbero essere le sue esigenze. Era un fatto normale.

    Pensate invece quello che succede oggi se non ci sono i nonni che ci controllino i figli, che siano a disposizione, siamo completamente isolati, cioè non c’è comunità; oltretutto siamo talmente ossessionati da tutto quello che sentiamo e leggiamo, che veramente pensare a un bambino comunque lontano da noi ci terrorizza. Ma non è questo il concetto della famiglia!
    Qui possiamo quasi immaginare una parrocchia ideale: una parrocchia ideale è fatta da una comunità di famiglie, che non solo educano i propri figli ma partecipano della vita comune aiutando gli altri, dandosi reciprocamente una mano: forse è una società idilliaca, ma certamente questo è possibile se c’è un’apertura verso gli altri e non c’è quella che oggi si sta consolidando, cioè la famiglia mononucleare, dove esistono solo genitori e figli e tutto il resto non conta più niente. C’è un certo recupero dei nonni nel periodo in cui i bambini sono piccoli dopo di che anche i nonni cominciano ed essere pesanti perché possono essere invadenti.
    Il Vangelo ci rappresenta una situazione completamente diversa ed è una situazione in cui si può essere tranquilli. Esaurita questa ricerca, tornano indietro. Non è che vanno a cercare da un’altra parte; questo mostra che sono molto attenti, sanno già Gesù dov’è. Se Gesù non c’è sanno già dov’è.

    Infatti il testo dice: “Dopo tre giorni lo trovarono nel tempio“. L’idea dei “tre giorni” ci vuole richiamare altri “tre giorni” in cui Gesù non è stato a disposizione dei suoi genitori, è sparito dalla loro vista; sono i tre giorni della passione; Cristo muore, sparisce, per ritornare “risorto” il terzo giorno. Questi tre giorni sono da contare alla stessa maniera; gli ebrei non contano i giorni sulle 24 ore, ma per la presenza del sole; quindi i tre giorni indicati sono il primo, di andata – visto che avevano viaggiato tutto il giorno – un altro giorno per tornare e la mattina del terzo giorno, così come la mattina del terzo giorno Cristo risorge, vanno direttamente al tempio perché sanno di trovarlo lì.

    E lì lo trovano, ma come lo trovano? Seduto in mezzo ai dottori, mentre li ascoltava e li interrogava. Che idea vi fate di Gesù che in mezzo ai dottori li ascolta e li interroga? Che cosa fa Gesù? La prima interpretazione che viene data è che Gesù sia in mezzo ai dottori ad insegnare. Ma un insegnante prima spiega e poi interroga. Invece Gesù prima ascolta e poi interroga. Di chi è la funzione di chi ascolta e poi interroga? Chi ascolta e poi interroga è il giudice, che ascolta la deposizione, interroga e poi dà la sentenza. È questo, forse, il punto centrale di questo racconto.

    Chi giudicherà il mondo di oggi? Chi ci giudicherà? Saranno i nostri figli! I nostri errori, le nostre scelte, se buone o cattive, non le giudicheremo noi ma i nostri figli. Questo ci dice che cosa dobbiamo fare. Gesù dice E tutti quelli che l’udivano – quando il giudice dice è la sentenza, quando dice qualcosa è la conclusione del processo, di quello che ha ascoltato ed interrogato – erano pieni di stupore per la sua intelligenza e le sue risposte.

    Al vederlo restarono stupiti e sua madre gli disse: “Figlio, perché ci hai fatto così? Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo”. Tutti quelli che sentivano erano stupiti, anche i genitori.

    Questa è una cosa grande: i nostri figli ci stupiscono! Perché ci stupiscono? Perché i nostri figli non sono la nostra copia, essi hanno la loro autonomia, sono liberi; ci stupiscono perché le loro scelte vanno in direzioni diverse. Ed allora che cosa significa far nascere un bambino, mettere al mondo un figlio? Certamente non significa averne la gestazione per 9 mesi, ma significa farlo diventare uomo, educarlo, far sì che sia un uomo autonomo e libero. Restarono stupiti!
    È la fatica di credere al mistero che cresce nella concretezza della vita coniugale e familiare, carica di gioie e di problemi.

    Gesù adolescente crea problema, progressivamente si rivela nella sua divinità. Maria e Giuseppe “si stupivano delle cose che si dicevano di lui”, con trepidazione si chiedevano: che sarà di Gesù?
    Lo accettano nella sua alterità divina ma devono entrare negli orizzonti di un disegno più grande. Prendono coscienza del divario tra il progetto di Dio ed il progetto che essi avevano sognato.

    E sua madre gli disse. I genitori erano due, sua madre parla anche per conto del padre, quindi la loro intesa, il loro comunicare non era un prevaricare di uno sull’altro: erano profondamente uniti come erano uniti nella preghiera: infatti le parole che dice sono: “Figlio, perché ci hai fatto così? Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo“. Tuo padre ed io! Maria sapeva che Giuseppe non era il padre, non è che lo ignorasse ed allora perché dice “tuo padre ed io“? Perché Giuseppe era veramente il padre di Gesù; Gesù lo chiamava papà, ma perché? Perché per essere padre non bastano i dieci minuti che sono necessari per concepire un bambino; si è padri tutti i giorni perché tutti i giorni si dà la vita, tutti i giorni si aiuta il figlio a crescere, a diventare uomo: allora si è veramente padre, questa è la vera paternità al di là di quella strettamente biologica.
    Quindi Giuseppe è veramente padre anche se non lo è sul piano biologico.

    Angosciati! Che cosa è l’angoscia? I figli ci fanno angosciare. Come prima abbiamo parlato di stupore, che è qualcosa di positivo, perché c’è dentro la meraviglia della sorpresa, ora parliamo di angoscia, che ha invece una connotazione negativa perché la nostra angoscia non è tanto quella che ci viene dai figli ma quella che ci viene da noi stessi quando scopriamo di non essere adeguati per il nostro compito. Molto spesso non siamo capaci di essere genitori; genitori non si diventa per caso, sul piano biologico lo si può essere anche per caso, ma per essere genitori veramente ci si costruisce tutti i giorni. Si commettono degli errori, certamente, ma dobbiamo fare in modo di cercare di essere adeguati a quelle che sono le attese dei figli. Quindi è scoprile la nostra inadeguatezza la vera angoscia. Non è per il fatto che non sapevano dove fosse Gesù, non era il suo smarrimento o la sua perdita la causa dell’angoscia di Maria e Giuseppe.
    La vera angoscia era che il figlio li aveva stupiti, li aveva sorpresi e quindi si erano accorti di essere inadeguati per questo figlio
    .

    Ed egli rispose: “Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?“. Se un nostro bambino di dodici anni, di fronte alla domanda dei genitori che dicono di essere angosciati e che lo cercano perché sono angosciati, rispondesse in questa maniera, che cosa saremmo portati a fare? È abbastanza immediato pensare: adesso gli do un bel ceffone e così impara a rispondere come si deve un’altra volta! Però, anche questo fa parte di quella che è la sorpresa perché Gesù perché non dovevano farlo: “Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?“. Qui Gesù non parla di Giuseppe, qui sta parlando di Dio; ma quello che dice lo dice ad ognuno di noi: i figli non sono nostri, non sono nostra proprietà, non sono un possesso.
    C’è un proverbio cinese che dice che noi ai nostri figli diamo due cose: le radici e le ali, le ali sono tanto più forti e robuste quanto più le radici sono profonde, quindi quanto più il terreno nel quale li abbiamo fatti crescere è fecondo, è ricco, non è arido. Quindi su questo ci giudicheranno i nostri figli, sul terreno che abbiamo messo loro a disposizione, su come li abbiamo aiutati, li abbiamo sostenuti nella loro crescita, li abbiamo aiutati a diventare uomini.

    Però non è facile come ci dice il Vangelo: “Ma essi non compresero le sue parole“.
    Tante volte noi i figli non li capiamo, tante volte capita ancora oggi; che cosa si fa quando non si capisce? Ecco, se leggiamo appresso ora che Gesù ha fatto la lezione, ora che ha detto che le cose per cui è venuto sono altre, che li ha messi a posto, da questo momento in poi in casa comanda lui! No.

    Partì dunque – sembra una continuazione del discorso precedente – con loro e tornò a Nazareth e stava loro sottomesso“. Ecco, Gesù sa qual è la sua missione, glielo dice, però cresce: la sua crescita è perché impara innanzi tutto ad ubbidire, ad essere umile, ad essere sottomesso.
    Quando noi ci abituiamo ad obbedire sapendo quali sono i nostri limiti e quali i nostri compiti, questo ci aiuta a crescere, non con la prepotenza, non battendo i pugni, non facendo i capricci, non vincendo con i capricci; sono cose che sappiamo.

    Gesù stava loro sottomesso. Giuseppe è una grande figura di padre vicino e presente ma “Sua madre serbava tutte queste cose nel suo cuore.” Il verbo serbare ci fa pensare al momento più bello del rapporto tra una madre ed il figlio, che è il rapporto prima della nascita, quando il figlio viene serbato nel proprio corpo, e quindi continua questo rapporto con il figlio anche quando il figlio ha una età diversa; non si smette di essere genitori quando i figli sono grandi; si è genitori anche quando i figli raggiungono la maggiore età e seguono la loro strada.

    E Gesù cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini. Ecco Gesù è Dio, però cresceva in sapienza, che cosa significa? Che Gesù come uomo si è fatto carico della nostra limitatezza; non sapeva della sua missione, non era a conoscenza di quello che sarebbe stato il suo compito come uomo e quindi come tale, lui come tutti noi, ha sopportato il peso della crescita, il peso di apprendere, di studiare, di approfondire: “cresceva in sapienza, età …” – cosa questa normale, ma soprattutto cresce “…in grazia davanti a Dio e agli uomini.
    Cresce il suo rapporto di uomo che riconosce in Dio il vero Padre.

  • 24 Mag

    Offrite voi stessi in sacrificio

    Lectio di Rm 12,1-2

     

     di p. Attilio Franco Fabris

     
    Iniziamo la nostra lectio con una testimonianza tratta dagli scritti del beato Edward Giovanni Maria Poppe, sacerdote (Temsche in Belgio 1890 – Moerzeke-lez-Termonde 1924). Fu un grande pedagogista dell’Eucarestia. Istituì infatti la «Lega della Comunione frequente» tra i bambini e le operaie. Per i fanciulli della «Crociata eucaristica Pio X» di tutto il Belgio, pubblicò un settimanale apposito. Costretto a vivere su una poltrona per motivi di salute – morì a soli 34 anni – scrisse opere di grande valore spirituale. Scrive con parole che possono essere un sunto del suo insegnamento: “Restate ostia con l’Ostia. La nostra vita non ha alcun senso se non siamo vittime. Senza quest’opera di continua “victimatio”, le nostre preghiere e i nostri colloqui spirituali si riducono a chiacchiere superficiali, le nostre prediche sono semplici parole gettate al vento… Un cuore di sacerdote che non sanguina non è un cuore di sacerdote”.

    Giovanni Maria ci insegna l’essenziale della vita cristiana: unirsi totalmente  e concretamente a Cristoche ci ha già incorporati a sé nel battesimo e nell’eucarestia, e questo al fine di poter offrire, come sacerdoti, ostia per ostia,  con lui, per e in lui la nostra vita in offerta al Padre per la sua gloria e in espiazione dei peccati nostri e del mondo intero.

    Nel rito di benedizione dell’altare troviamo un distinto richiamo alla vita cristiana chiamata a divenire offerta cultuale al Padre: “Dona a noi tuoi fedeli che ci accostiamo al Cristo pietra viva di essere in lui edificati in tempio santo, per offrire sull’altare del nostro cuore in sacrificio spirituale la nostra vita realmente vissuta a lode della tua gloria” (Benediz. 1282). Chiediamo allora allo Spirito che questo diventi esperienza concreta per la vita di ciascuno di noi “vissuta a lode della gloria di Dio”.

    Lectio

    Paolo dopo aver affrontato nei primi capitoli (1-11) della Lettera ai Romani l’annuncio della salvezza offerta da Dio all’umanità attraverso il dono della fede in Cristo, nei cc.12-15 prosegue indicando quali sono le conseguenze che scaturiscono dall’accoglienza di questo annuncio. È la cosiddetta parte “parenetica” della lettera tutta tesa ad offrire ai cristiani di Roma indirizzi concreti e pratici del come vivere la grazia battesimale che pone il credente a camminare “in una vita nuova” (6,4). Da quanti per il battesimo sono divenuti membra vive del corpo di Cristo ci si attende che cerchino anzitutto di vivere all’insegna della carità che riassume tutta la legge; solo una vita imperniata sull’amore è gradita a Dio. La sintesi che Paolo offre è che i cristiani sono chiamati a vivere la propria esistenza in “questo mondo” in una costante offerta d’amore di se stessi a Dio e ai propri fratelli: è questa la “vita nuova”.

    Il testo che vogliamo meditare sono i primi due versetti del cap. 12 che fanno da introduzione a tutto l’insegnamento successivo.  

    Il v.1 inizia con l’appellativo dato ai cristiani di “fratelli”. È il titolo usuale usato all’interno delle prime comunità cristiane: l’essere fratelli non ha nulla a che fare con parentele di famiglia perché in tutti scorre lo stesso sangue –l’eucarestia ne è sacramento-, potremmo dire così, di Cristo nostro fratello che fa di noi fratelli e figli dello stesso Padre. I credenti perciò sanno di vivere per la fede e il battesimo una comunione che è più forte di quella del sangue.  

    Vi esorto”: Paolo si rivolge alla comunità di Roma in qualità di apostolo e dunque con un’autorità che sa essergli data dall’alto. L’apostolo sa di essere voce stessa di Dio. L’espressione andrebbe tradotta con un “vi esorto insistentemente”: quindi ciò che verrà detto riveste molta importanza.

    Per la misericordia di Dio”: è incerto se questo inciso sia riferito a ciò che precede o segue. Nel primo caso è l’amore di Dio la motivazione che spinge Paolo a parlare. Nel secondo caso l’offerta di se stessi sarebbe motivata dall’amore di Dio nei nostri confronti. E’ comunque l’amore di Dio che sta alla base dell’agire sia dell’apostolo come degli altri fedeli. Non siamo noi a far sì che il vangelo trasformi le nostre e altrui esistenze, ma è questo amore straordinario che cambia radicalmente il cuore di tutti.

    Ad offrire i vostri corpi”: il verbo non indica solo un generico “a mettersi a disposizione”. Esso riveste invece il significato cultuale di “offrire un sacrificio”. Se nel sacrificio giudaico c’è l’uccisione della vittima, ora lo stesso verbo in senso figurato viene applicato all’esistenza del cristiano.  Il “corpo” (sòma) è l’aspetto biologico, visibile e dunque concreto di noi stessi. Offrire il proprio corpo allora equivale a offrire “se stessi totalmente”, anima e corpo, senza alcuna “riserva”. È ciò che Paolo aveva precedentemente annotato: “Non mettete le vostre membra a disposizione del peccato come armi di ingiustizia, ma mettete voi stessi a disposizione di Dio, come persone tornate in vita dalla morte, e offrite le vostre membra a Dio come strumenti di giustizia” (6,13). Questo nostro “corpo” un tempo dominato dal peccato era divenuto “corpo di morte” (7,24), ma nel battesimo il principio del nostro essere non è più il peccato apportatore di morte ma lo Spirito vivificante che viene a invaderci totalmente, anima e corpo. In tal modo l’uomo intero è divenuto capace di divenire sacerdote e offerta gradita a Dio. È questa la “giustizia” ovvero la giusta corrispondenza al disegno originario voluto dal Creatore.

    L’offerta del proprio corpo a Dio è definito da Paolo un “sacrificio vivente, santo e gradito a Dio”. Qui il paragone è in riferimento alle vittime sacrificali del culto giudaico e dei culti pagani. Non è più perciò un culto “morto”che offre a Dio animali uccisi. Ma è un culto “vivo” che unito a quello eterno di Cristo diviene “santo e gradito” al Padre. È ciò che Gesù preannunciava alla samaritana presso il pozzo di Sicar:  “Ma è giunto il momento, ed è questo, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità; perché il Padre cerca tali adoratori” (Gv 4,23).

    Continuando nella stessa linea Paolo dice “E’ questo il vostro culto spirituale”. Si potrebbe anche tradurre “è questo il culto che conviene alla vostra natura di esseri ragionevoli”; ovvero un culto guidato dal “logos”, dalla ragione e perciò dalla consapevolezza di cui godono solo gli uomini e non un culto in cui si offrono animali irragionevoli. Il “culto spirituale” corrisponde all’effettiva comprensione che l’uomo centro di tutta la creazione è chiamato ad esservi in qualità non di despota ma di sacerdote abilitato a innalzare a nome di tutta la creazione la lode, il ringraziamento (eucarestia), l’adorazione e questo a partire da se stesso, unico essere dotato di logos, di ragione. Probabilmente qui intravediamo anche una sfumatura polemica in opposizione a un culto tutto esteriore, formalistico che non coinvolge la vita, ovvero un culto che manca dell’essenziale culto della propria vita (il cuore) e che veniva già denunciato da tutta la predicazione profetica (cfr Os 6,6; Sal 50,14.23). Nel cristiano che ha ricevuto il dono dello Spirito il culto viene dunque a permeare ogni realtà a partire da se stessi: “Se viviamo grazie allo Spirito, dobbiamo anche camminare secondo lo Spirito”.

    Dopo questa presentazione generale dell’intera vita cristiana chiamata a divenire un vero sacerdozio e culto, Paolo esprime il medesimo concetto in termini imperativi e al negativo. E siamo al v.2.

    Non conformatevi alla mentalità di questo mondo”. “Questo mondo” è segnato dal peccato, dalla lontananza da Dio, dal dominio di Satana. Il battezzato è morto a “questo mondo” essendo entrato a far parte del “mondo nuovo” (il “regno di Dio”) già presente nella storia anche se in germe: perciò ai discepoli di Gesù è dato di vivere già in un “mondo nuovo” (cfr Fil 3,21; Gal 1,4). In Gal 5,24 Paolo aveva detto: “Coloro che appartengono a Cristo Gesù hanno crocifisso la carne con le sue passioni e le sue concupiscenze”. Ora l’espressione “aver crocifisso” rimanda alla dimensione sacrificale e cultuale del sacrificio di Cristo al quale il cristiano si assimila mediante la morte dell’ ”uomo vecchio” interamente sprofondato in “questo mondo”.

    Ma trasformatevi” (o “lasciatevi trasformare”) dalla grazia di Dio, ossia attraverso l’azione dello Spirito Santo. In che cosa consiste questa trasformazione? Paolo risponde: “rinnovando completamente il vostro modo di pensare” (“rinnovando la vostra mente”). Questa “vita nuova” non è una verniciatura esterna che lascia però la realtà sottostante quale era, essa invece è una autentica trasformazione interiore, che comporta un rinnovamento del “nous” ovvero del dinamismo con cui operiamo i nostri giudizio intellettivi e morali. Si tratta di acquisire una “mente” non più governata dalle passioni del corpo che fanno propri criteri di “questo mondo”, perché ha ormai fatto sua la “mente” di Cristo stesso: “Noi abbiamo la mente (pensiero) di Cristo” (1Cor 2,15). Il cristiano non ragiona più con i parametri dell’uomo vecchio guidato dalle sue passioni ma con i parametri di Cristo, uomo nuovo. Questo “modo di pensare di Cristo” aiuterà di conseguenza il cristiano e la comunità a “discernere la volontà di Dio”. Ora la volontà del Padre è l’unica realtà che Cristo ha cercato sempre e di cui si è cibato sino alla fine. Facendo nostro il pensiero di Cristo entreremo nella volontà del Padre con la certezza così di perseguire “ciò che è buono, gradito e perfetto”. “Fare la volontà del Padre” sarà il culto spirituale che salirà a Dio come “sacrificio di soave odore”.

    Meditatio

    La “Lumen gentium” afferma, riprendendo le parole della prima lettera di Pietro, che tutti i battezzati costituiscono “un sacerdozio regale”. Questa affermazione viene fatta ancor prima di trattare il sacerdozio ministeriale, e quindi ne è in qualche modo una premessa. Il ministero episcopale, presbiterale e diaconale è un servizio all’interno della comunità a beneficio del sacerdozio comune. Prima della distinzione tra vocazioni diverse all’interno del popolo di Dio occorre perciò riconoscere la presenza di un fondamentale sacerdozio comune che scaturisce dal sacramento del battesimo.  Dice l’Apocalisse che Dio Padre “ha fatto di noi un regno di sacerdoti per il nostro Dio” (5,10).  Sempre lo stesso importante documento conciliare ribadisce che a tutti i battezzati “Cristo… concede anche una parte della sua funzione sacerdotale per esercitare un culto spirituale, affinché sia glorificato Dio e gli uomini siano salvati” (n.34).

    Questo nostro comune sacerdozio scaturisce dalla consacrazione che lo Spirito santo, nel sigillo sacramentale del battesimo e della confermazione, ha attuato in noi rendendoci capaci di offrire al Padre tutta la nostra vita, e l’intera creazione, in un “sacrificio spirituale”.  Nel cuore della liturgia eucaristica il celebrante chiede esplicitamente che lo Spirito “faccia di noi un sacrificio perenne gradito” (Preg. Euc. III) al Padre ed elevato unitamente al sacrificio di Cristo. Il nostro sacrificio spirituale trova nell’eucarestia il suo punto di forza, la sua sorgente e il suo sbocco naturale.

    Cosa comporta concretamente questo sacerdozio? Che culto il Padre si attende da ciascuno? Sempre la Lumen gentium esplicita: “Tutti quindi i discepoli di Cristo, perseverando nella preghiera e lodando insieme Dio, offrano se stessi come vittima viva, santa, gradita a Dio, rendano ovunque testimonianza di Cristo e, a chi la richieda, rendano ragione della speranza che è in loro della vita eterna (cfr1Pt 3,15)” (n. 10). E ancora si sottolinea che questo sacerdozio si esercita “con la partecipazione ai sacramenti, con la preghiera e il ringraziamento, con la testimonianza di una vita santa, con l’abengazione e l’operosa carità” (n. 10). Quindi ci viene detto che esercitiamo con diritto il nostro sacerdozio comune attraverso la partecipazione ai sacramenti, in modo particolare l’eucarestia, attraverso la preghiera, la testimonianza, la nostra carità. Le occasioni dunque non mancano: ma occorre esserne consapevoli!

    Il nostro battesimo, e la professione religiosa che ne è esplicitazione, racchiude in sé una dimensione cultuale che non si esaurisce certamente nel momento liturgico ma viene ad inglobare per sempre tutta l’esistenza del discepolo. Siamo uniti indissolubilmente a Cristo e con Lui, per Lui, in Lui possiamo offrirei nostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio”. San Gregorio Magno afferma che chi ridona a Dio ciò che ha ricevuto in dono compie non solo un sacrificio, ma un “olocausto”, ovvero un atto totale di offerta. Quindi accogliendo il dono della consacrazione il religioso si impegna a fare della propria vita un “olocausto” a Dio perché restituisce a Dio tutto ciò che è e ciò che ha: così l’intera vita diventa un ininterrotto atto di culto a Dio. Recita il canone 607 del Diritto Canonico: “La vita religiosa, in quanto consacrazione di tutta la persona, manifesta nella Chiesa il mirabile connubio istituito da Dio, segno della vita futura. In tal modo il religioso porta a compimento la sua totale donazione come sacrificio offerto a Dio, e con questo l’intera sua esistenza diviene un ininterrotto culto a Dio nella carità”. La nostra consacrazione è dunque atto di offerta e di culto sia perché siamo entrati totalmente, anima e corpo, nell’alleanza sponsale con Cristo. E questo comporta un’espropriazione di sé che si concretizza nell’impegno a vivere la  povertà, la castità e l’obbedienza.

    Dovremmo allora interrogarci se viviamo la nostra realtà di consacrazione battesimale e religiosa nella consapevolezza di essere chiamati a divenire concretamente un “culto spirituale” per la gloria di Dio. Nella vita di una persona consacrata dovrebbe essere sempre presente la coscienza che nell’osservanza quotidiana dei voti essa presenta a Dio l’offerta cultuale che ha promesso nel giorno della professione. In questo senso è possibile affermare che il consacrato è nello stesso tempo, come Cristo sulla croce, vittima e sacerdote. Il rischio infatti è quello di riprenderci pian piano, magari senza accorgercene, quello che un giorno abbiamo donato in sacrificio. E allora la consacrazione e il nostro sacerdozio comune perde la sua verità.

    Ma se questo atto di “olocausto” si realizza allora la nostra vita si trasforma realmente in una continua eucarestia che prolunga e prepara quella sacramentale che si celebra all’altare. E come il sacrificio di Cristo si riversa a beneficio della salvezza di tutti, così anche la nostra vita divenuta offerta-sacrificio, unita al suo, collabora alla redenzione del mondo intero.

    Il nostro donarci quotidiano – diremmo il “nostro sacrificarci” – magari nascosto e dimenticato, in questa visione di fede assume sempre un valore straordinario. Un gesto, una sofferenza, una carezza, una parola, un servizio umile può trasformarsi in un atto di culto di straordinaria potenza che offriamo al Padre, sapendo che è da lui accolto perché vi intravvede l’amore stesso del Figlio. Origene commentando il libro del Levitico, essenzialmente un testo sacerdotale, ad un certo punto scrive: “Ignorate forse che anche a noi, cioè a dire tutta la Chiesa di Dio, a tutto il popolo dei credenti, fu dato un sacerdozio?…Se io amo i miei fratelli fino a donare la mia vita per essi, se combatto fino alla morte per la giustizia e la verità, se mortifico il mio corpo astenendomi da ogni concupiscenza carnale, se il mondo è a me crocifisso e io crocifisso al mondo, io ho offerto un olocausto all’altare di Dio e sono così il sacerdote del mio sacrificio” (Om. In Lev.)

    Oratio

    Concludiamo la nostra lectio con le parole di Teresa di Gesù Bambino. Ella ha saputo cogliere, nell’apparente banalità del quotidiano, una via di perfezione che seppur definita “piccola” contiene la sapienza straordinaria della croce che appare follia al mondo. Impariamo ad offrirci nelle piccole cose per essere pronti ad offrire a Dio, con Cristo, la nostra stessa vita come “vittima d’olocausto all’amore misericordioso”:

    Per vivere in un atto di perfetto amore, mi offro come vittima d’olocausto al vostro amore misericordioso, supplicandovi di consumarmi senza posa, lasciando traboccare nella mia anima i flutti d’infinita tenerezza che sono racchiusi in voi, e così possa diventare martire del vostro amore, o mio Dio.

     

     

     

  • 20 Mag

    AFFAMATI E ASSETATI DI GIUSTIZIA
    Mt 6,5

     

    di p. attilio franco fabris

    1.  AFFAMATI E ASSETATI

    Quando pensiamo alla parola affamati pensiamo a essere affamati di hamburger, di vittoria sportiva, o affamati di amore per una persona speciale, o di potere, ma essere affamati di giustizia, per come la intende Gesù, certamente molti non l’hanno mai sentita o la ignorano. Sei mai stato davvero affamato o assetato? Hai mai sofferto la fame o la sete? La maggior parte di noi oggi nel mondo occidentale non ha questa necessità, abbiamo cibo in abbondanza. Nell’antichità, però, anche se le persone lavoravano, avevano una paga bassa e per questo motivo non mangiavano la carne che una sola volta a settimana, se andava bene. Inoltre quello che mangiavano era proprio l’indispensabile e qualche volta provavano la fame. L’acqua potabile non era a portata di mano come adesso e si soffriva di più la sete. A chi di noi, soprattutto d’estate non è capitato di avere sete, che può essere subito soddisfatta. Nell’antichità avevano meno comodità, non si aveva acqua dal rubinetto, la vita doveva essere attentamente pianificata per avere la disponibilità di acqua sufficiente per rimanere in vita.

    Persone che hanno vissuto sulla loro pelle l’esperienza della sete e della fame, raccontano di essere stati disposti a correre rischi di vario genere e di essersi esposti a numerosi pericoli pur di poter estinguere quella fisiologica esigenza che li attanagliava. L’emergenza di ingerire liquidi e cibo giunge a tal punto da essere travolgente.

    Ora Gesù, nelle beatitudini, parla di “fame” e di “sete” in rapporto alla giustizia. Non è possibile comprendere la vita di Gesù di Nazareth senza la “fame e sete di giustizia”, ovvero, senza l’esistenziale sua passione per il Regno, che ha dato senso ed unità piena al suo stile di vita, alla sua predicazione, alle sue scelte, alla sua coerenza ed alla sua azione. La causa principale che mosse la vita di Gesù e la spiegazione delle condizioni radicali del discepolato fu sostanzialmente il desiderio ardente, fame e sete appunto, di creare le condizioni affinché  il Dio-Abbá potesse regnare, che fosse accettata la sua paternità-maternità, la quale potesse generare nuove relazioni di fraternità tra gli esseri umani e tra questi ed il resto della creazione.

    Questo cosa significa per il discepolo?

    Affamati e assetati” di giustizia indica un desiderare fortemente qualcosa, quindi una passione. Secondo alcuni studiosi i due verbi (affamati e assetati) si intensificano l’uno con l’altro e indicano appunto un ardente o appassionato desiderio, un desiderio da soddisfare a tutti i costi, infatti chi ha fame o sete cerca subito e si da fare per soddisfare questa necessità. Questa fame e questa sete di cui parla Gesù, sono simili a quello di un uomo che potrebbe morire di fame per mancanza di cibo o morire di sete per mancanza di acqua. Dunque la fame e la sete a cui si riferisce Gesù, non è quella fame e quella sete che risolvi con uno spuntino o una bibita. È quella fame e quella sete estrema, come se fossero diversi giorni che non si mangia e si sta per morire. Insieme, questi due verbi descrivono desideri profondi che non  sono passeggeri. Sono il desiderare con tutto il cuore una necessità vitale con la consapevolezza che senza giustizia non puoi vivere.  

    Il verbo “affamati e assetati (participio presente attivo) secondo gli studiosi, indica che la fame e la sete non è qualcosa di momentaneo, passeggero, ma è qualcosa di continuo, un desiderio quotidiano di tutta la vita! Quindi un credente quotidianamente desidererà ardentemente la giustizia!

    L’aver “fame e sete” è un segno di vita. È chiaro che una persona morta non ha appetito, anche se gli presentassimo cibo prelibato, non sarebbe stimolato e non muoverebbe nemmeno un dito. Quindi spiritualmente parlando chi non ha fame e sete di giustizia è morto, non ha una relazione con Dio, non è salvato, ma morto spiritualmente (cfr Efesini 2:1-3). Questo significa che è proprio questo desiderio che ci fa capire se la fede è viva o languisce. M.L. Jones diceva: “Non conosco test di verifica migliore per valutare la genuinità di una professione di fede cristiana. Infatti, se questo verso della Bibbia rappresenta per voi una delle affermazioni più meravigliose della Parola di Dio, allora sicuramente siete dei veri cristiani. Se non è così, fareste meglio a esaminare di nuovo i fondamenti su cui poggia la vostra professione di fede”. Per te questa è un’affermazione meravigliosa? Allora sei veramente un credente vivo!!

    È un segno di buona salute. Una delle domande più importanti che un medico fa ad un paziente è: “Come va il vostro appetito?”  Questo perché la mancanza di appetito è sempre un motivo di preoccupazione e potrebbe essere un sintomo di una grave malattia. Lo stesso principio vale in termini spirituali. Quando uno che si professa cristiano ha poco o nessun appetito per le cose di Dio, significa che c’è qualcosa di seriamente compromesso! Quando un credente non ha quel desiderio profondo della comunione con Dio, quando trascura la preghiera, i sacramenti, la comunità vuol dire che quel credente è  malato spiritualmente! 

     

    2.  DI GIUSTIZIA

    L’etimologia “justitia” rimanda al latino “jus” ovvero al diritto di ciascuno di avere ciò che gli è dovuto. Nella Bibbia è impossibile comprendere ed interpretare il termine “giustizia” su di un piano esclusivamente giuridico (la “giustizia distributiva”).  E allora domandiamoci: a che cosa si riferisce la “giustizia” di cui Gesù ci chiede di aver fame e sete?

    A)  La giustizia appartiene a Dio.

    La giustizia è un attributo di Dio, è una qualità, una caratteristica di Dio:

    Salmi 11:7: Poiché il Signore è giusto; egli ama la giustizia; gli uomini retti contempleranno il suo volto.

    Deuteronomio 32:4: Egli è la rocca, l’opera sua è perfetta, poiché tutte le sue vie sono giustizia. È un Dio fedele e senza iniquità. Egli è giusto e retto.

    La giustizia di Dio equivale alla coerenza con se stesso. Quello che noi chiamiamo la fedeltà di Dio alle sue promesse. Dire allora che Dio è giusto significa che Dio fa quello che ha promesso di fare.

    Ma in base a che cosa Dio è fedele e quindi “giusto”? Solo è in relazione a se stesso, Dio non ha altri standard (metri di misura) che la sua stessa natura ed essenza.  La sua eterna essenza è eterna giustizia (Salmi 111:3 ; Salmi 119:142 ; Isaia 51:8; Salmi 19:9; 119:137-138 ) che non vuole compiere una qualunque azione che non sia perfettamente buona e santa. Se volesse agire scorrettamente, egli agirebbe pertanto contro la sua natura, il che sarebbe assurdo:

    Daniele 9:14: Il  Signore, il nostro Dio, è giusto in tutto quello che ha fatto  (cfr. Salmi 145:17 ; Geremia 9:24 ).

    La giustizia di Dio è legata alla sua fedeltà all’Alleanza con il suo popolo. In base a questo patto la sua giustizia si manifesta come liberazione e salvezza del suo popolo ( Isaia 46:12-13 ; Isaia 51:5-6 ; Salmi 31:1 ; Salmi 85:8-11 ).

    In relazione con quest’aspetto Dio è giudice giusto perché libererà il povero e l’oppresso e stabilirà il suo diritto (Salmi 7:9 ; Salmi 9:1-4 ; Salmi 103:6,17 ; Salmi 34:16-22 ; Salmi 72:1-4 ; Salmi 82 ; Isaia  11:4).

    B).  La giustizia di Dio è stata comunicata all’uomo attraverso il Vangelo di Gesù.

    Paolo afferma in Romani 1:16-17 : Infatti non mi vergogno del vangelo; perché esso è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede; del Giudeo prima e poi del Greco;  poiché in esso la giustizia di Dio è rivelata da fede a fede». Nel Vangelo vediamo che è rivelata una giustizia che proviene da Dio e che soddisfa Dio! La giustizia di Dio è legata anzitutto al dono che egli fa all’umanità di suo Figlio, il quale divenuto uomo come noi adempie eternamente e perfettamente all’Alleanza. E solo lui può giustificarci perché di per sé nessuno può vantare una tale giustizia davanti a Dio! (cfr Salmi 130:3 ). Tutti gli uomini sono peccatori e destinati a perdizione ma Dio giustifica in Cristo i credenti, li dichiara giusti: questa è la giustizia di Dio rivelata nel Vangelo. Filippesi 3:8-9 : io considero queste cose come tanta spazzatura al fine di guadagnare Cristo  e di essere trovato in lui non con una giustizia mia, derivante dalla legge, ma con quella che si ha mediante la fede in Cristo: la giustizia che viene da Dio, basata sulla fede.

    Dio giustifica i credenti in Gesù in due modi:

    • Facendo ricadere sul Figlio il nostro peccato. Gesù è agnello che liberamente si carica del nostro male e ne porta fino in fondo le conseguenze.

    • Facendo sì che possiamo partecipare in base alla fede e al battesimo della giustizia di Gesù. Essa viene celebrata/rinnovata ogniqualvolta si celebra l’Eucarestia che è “remissione dei peccati”.

    C). L’uomo reso capace di opere di giustizia

    La giustizia di cui partecipiamo attraverso la grazia di Gesù deve occupare un posto importante nel nostro rapporto con Dio. “Giustizia” in questo senso è il vivere in conformità all’evangelo,  cercando di vivere in conformità con la volontà di Dio. È una condizione gradita a Dio perché è la nostra risposta alla giustizia di Dio, che attraverso il dono della grazia ci rende capaci di rispondere liberamente a lui con “opere di giustizia”.  Fame e sete di giustizia” non è altro che il desiderio di entrare nel Regno di Dio e di operare perché esso sia seminato già ora nei solchi della storia. E questo soprattutto attraverso l’esercizio della condivisione fraterna.

    Il desiderio di giustizia è la conseguenza del fatto che siamo stati salvati, giustificati. Giovanni dice: ” Se sapete che egli è giusto, sappiate che anche tutti quelli che praticano la giustizia sono nati da lui”. (1 Giovanni 2:29).

    L’evidenza che siamo figli di Dio, che siamo nati da Lui è assomigliare a Gesù, praticare la giustizia! Sempre Giovanni dice: Figlioli, nessuno vi seduca. Chi pratica la giustizia è giusto, com’egli è giusto.  Colui che persiste nel commettere il peccato proviene dal diavolo, perché il diavolo pecca fin da principio. Per questo è stato manifestato il Figlio di Dio: per distruggere le opere del diavolo. Chiunque è nato da Dio non persiste nel commettere peccato, perché il seme divino rimane in lui, e non può persistere nel peccare perché è nato da Dio.  In questo si distinguono i figli di Dio dai figli del diavolo: chiunque non pratica la giustizia non è da Dio; come pure chi non ama suo fratello.” (1 Giovanni 3:7-10).

    In questo senso il mondo non incoraggia alla vera giustizia, basta fare un giro in un’edicola, in internet o vedere i programmi in televisione e ci accorgiamo che non c’è nessun o quasi incoraggiamento a ricercare un carattere e una condotta santa, ma a ricercare solo il proprio interesse o tutt’al più a puntare il dito sull’ “ingiustizia” altrui mai sulla propria.

    Ovvio che le nostre opere di giustizia non sono improntate ad una religiosità “farisaica” che attraverso di esse ricerca una propria giustizia che non vuole abbisognarsi della grazia (cfr Matteo 23:25 ). L’ubbidienza a Dio secondo la giustizia approvata da Dio, nasce dal cuore e non è pretesa di autosufficienza, (1 Samuele 16:7 ), non è religione vanagloriosa, ma si rivela attraverso opere di misericordia, tenerezza e perdono (Matteo 6:1-5 )

     

    3. SARANNO SAZIATI

    Con la scelta del verbo “saziare“, in luogo di “nutrire”, l’evangelista vuol sottolineare che gli “affamati e assetati” verranno abbondantemente, appagati da Dio, il quale soddisferà pienamente la loro esigenza di giustizia: “Beato colui che semina un seme di giustizia, perché mieterà sette volte tanto” (2 Enoch 42,8). Gesù in due diverse occasioni la prima con la samaritana con l’acqua e l’altra dopo la moltiplicazione del pane con il pane, afferma che l’acqua che Lui da disseterà e anche il pane sazierà in eterno, ovviamente riferendosi alla salvezza alla vita eterna (Giovanni 4:10-14 ; Giovanni 6:34-35 ; cfr. Apocalisse 7:16). La fonte della sazietà è Dio (forma del verbo saziati- chortazomai è al passivo).

    Saziati” è una parola molto forte, esprimeva l’alimentazione e l’ingrasso degli animali con foraggi e cereali, indica il dare cibo in abbondanza e quindi avere la fame soddisfatta. La stessa parola la troviamo quando Gesù fece la seconda moltiplicazione dei pani e dei pesci e la folla mangiò e fu saziata (Marco 8,8).

    La sazietà della fame e della sete fanno parte delle promesse nell’Antico Testamento. La sazietà della fame e della sete si riferisce al bisogno di salvezza. In diversi passi Dio promette a Israele il ristabilimento e il rinnovamento di Israele,  trasformando il deserto in lago, spandendo le acque sul luogo assetato  (Isaia 41:17-18 ; Isaia 44:3). Quindi non ci sarà più fame e sete (Isaia 49:8-10 ; Ezechiele 34:29 ; Ezechiele 36:29).

    Isaia 55:1-5 : O voi tutti che siete assetati, venite alle acque; voi che non avete denaro venite, comprate e mangiate! Venite, comprate senza denaro, senza pagare, vino e latte!  Perché spendete denaro per ciò che non è pane e il frutto delle vostre fatiche per ciò che non sazia? Ascoltatemi attentamente e mangerete ciò che è buono, gusterete cibi succulenti!  Porgete l’orecchio e venite a me; ascoltate e voi vivrete; io farò con voi un patto eterno, vi largirò le grazie stabili promesse a Davide. Ecco, io l’ho dato come testimonio ai popoli, come principe e governatore dei popoli.  Ecco, tu chiamerai nazioni che non conosci, e nazioni che non ti conoscono accorreranno a te, a motivo del Signore, del tuo Dio, del Santo d’Israele, perché egli ti avrà glorificato. Isaia qui si riferisce al banchetto escatologico.

    L’invito è per gli assetati e affamati ad andare a Dio, ovvero ad entrare nella sua alleanza, per essere saziati gratuitamente. La Bibbia descrive la salvezza e la comunione del credente con Dio in termini di banchetto con cibo abbondante e vini raffinati.

    Isaia 25:6-8 : Il Signore degli eserciti preparerà per tutti i popoli su questo monte un convito di cibi succulenti, un convito di vini vecchi, di cibi pieni di midollo, di vini vecchi raffinati. Distruggerà su quel monte il velo che copre la faccia di tutti i popoli e la coperta stesa su tutte le nazioni.  Annienterà per sempre la morte; il Signore, Dio, asciugherà le lacrime da ogni viso, toglierà via da tutta la terra la vergogna del suo popolo, perché il Signore ha parlato.

    Anche il nuovo testamento usa moltissimo le immagini del banchetto e delle nozze. Così anche in Matteo 8:11-12 : E io vi dico che molti verranno da Oriente e da Occidente e si metteranno a tavola con Abraamo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli,  12 ma i figli del regno saranno gettati nelle tenebre di fuori. Là ci sarà pianto e stridor di denti.   (Cfr. 2 Corinzi 11:2 ; Efesini 5:25-27 ; Osea 2:19-20 ).

    Quindi la beatitudine si conclude con una certezza, una promessa, dicendo che saranno “saziati” gli assetati ed affamati di giustizia. Essi potranno finalmente beneficiare dell’autentico ristoro non solo nella pienezza nel Regno, ma in parte già sin d’ora nella misura in cui ci poniamo a “cercare prima il Regno e la sua giustizia”. Il resto ci sarà dato in aggiunta.

    Già il solo volere, ciò che il Vangelo designa come fame e sete di giustizia, possiede la virtù miracolosa di farci pregustare questa beatitudine, la gioia di cercare il bene nostro e degli altri. Questo è già grande conforto per noi. La pace dello spirito ci può essere anticipata già nella fase preparatoria del compimento del nostro dovere, ch’è appunto la fase del desiderio, del proposito, del buon volere.

    E sovente avviene che questa aspirazione alla giustizia modifichi e purifichi nelle anime generose l’orientamento generale dei desideri insoddisfatti che rendono infelice l’esistenza, perché in genere tali desideri sono egoisti, non dettati dalla «giustizia» che nel Vangelo si raggiunge e si realizza nell’amore. Questo è già beatitudine, oggi, nella vita presente; e domani, in quella futura, in pienezza ed eternamente. Per cui i nostri sforzi oggi non sono vani e irrisori.

    Ma chi non ha fame e sete di giustizia non può essere saziato. Coloro che non appartengono a Cristo non sperimenteranno la sazietà! Solo gli affamati e assetati di giustizia saranno saziati. Che meravigliosa promessa! 

     

    Per la riflessione

    – Di che cosa ho fame e sete per la mia sussistenza? Provo ad elencare una piccola lista in ordine di priorità.

    – Questi desideri in quale misura possono essere appagati, sfamati, nella mia vita? Posso dirmi soddisfatto? Oppure sento di aver “fame e sete” di qualcos’altro?

    – In quale modo cerco di soddisfare la mia fame e sete?

    – Fame e sete di giustizia: in base alla spiegazione sento che questa beatitudine mi riguarda. Sotto quale aspetto? In che misura?

    – Gesù mi rivolge una promessa: la mia fame e sete saranno finalmente appagati, nella misura in cui cerco di pormi in armonia con il disegno del Padre nella mia vita. Dinanzi a questa promessa che lui mi fa come gli risponderei? Gli darei fiducia oppure risponderei che non si tratta altro che di vana consolazione destinata a finire come tutte le altre?

    – Questa beatitudine rivela la nostra condizione spirituale. La mancanza quasi o assoluta di questo desiderio spirituale  rivela la debolezza o la mancanza di maturità spirituale, rivela una fede debole e anemica oppure una mancanza di fede. Il cristiano che è in sintonia con il Signore ha appetito per le cose di Dio. Coloro che hanno fame e sete di giustizia hanno una passione per Dio, sono coloro che hanno fame e sete di Cristo!  (Giovanni 3:3-5 ; 2 Corinzi 5:17 ;Tito 3:4-7 ).

     

     

  • 15 Mag

    VITA SPIRITUALE

    di E. Bianchi

    Non si dà vita cristiana senza vita spirituale! Lo stesso mandato fondamentale che la chiesa deve adempiere nei confronti dei suoi fedeli è quello di introdurli a un’esperienza di Dio, a una vita in relazione con Dio. È essenziale ribadire oggi queste verità elementari, perché viviamo in un tempo in cui la vita ecclesiale, dominata dall’ansia pastorale, ha assunto l’idea che l’esperienza di fede corrisponda all’impegno nel mondo piuttosto che all’accesso a una relazione personale con Dio vissuta in un contesto comunitario, radicata nell’ascolto della Parola di Dio contenuta nelle Scritture, plasmata dall’eucaristia e articolata in una vita di fede, di speranza e di carità. Questa riduzione dell’esperienza cristiana a morale è la via più diretta per la vanificazione della fede.
La fede, invece, ci porta a fare un’esperienza reale di Dio, ci immette cioè nella vita spirituale, che è la vita guidata dallo Spirito santo. Chi crede in Dio deve anche fare un’esperienza di Dio: non gli può bastare avere idee giuste su Dio. E l’esperienza, che sempre avviene nella fede e non nella visione (cfr. 2 Corinti 5,7: «noi camminiamo per mezzo della fede e non ancora per mezzo della visione»), è qualcosa che ci sorprende e si impone portandoci a ripetere con Giacobbe: «Il Signore è qui e io non lo sapevo!» (Genesi 28,16), oppure con il Salmista: «Alle spalle e di fronte mi circondi […]. Dove fuggire dalla tua presenza? Se salgo in cielo, tu sei là, se scendo agli inferi, eccoti» (Salmo 139,5 e sgg.). Altre volte la nostra esperienza spirituale è segnata dal vuoto, dal silenzio di Dio, da un’aridità che ci porta a ridire le parole di Giobbe: «Se vado in avanti, egli non c’è, se vado indietro, non lo sento; a sinistra lo cerco e non lo scorgo, mi volgo a destra e non lo vedo» (Giobbe 23,8-9). Eppure anche attraverso il silenzio del quotidiano Dio ci può parlare. Dio infatti agisce su di noi attraverso la vita, attraverso l’esperienza che la vita ci fa fare, dunque anche attraverso le «crisi», i momenti di buio e di oscurità in cui la vita può portarci.
L’esperienza spirituale è anzitutto esperienza di essere preceduti: è Dio che ci precede, ci cerca, ci chiama, ci previene. Noi non inventiamo il Dio con cui vogliamo entrare in relazione: Egli è già là! E l’esperienza di Dio è necessariamente mediata dal Cristo: «nessuno viene al Padre se non per mezzo di me» dice Gesù (Giovanni 14,6). Cioè l’esperienza spirituale è anche esperienza filiale. Lo Spirito santo è la luce con cui Dio ci previene e orienta il nostro cammino verso la santificazione, cammino che è sequela del Figlio: l’esperienza spirituale diviene così null’altro che la risposta di fede, speranza e carità al Dio Padre che nel battesimo rivolge all’uomo la parola costitutiva: «Tu sei mio figlio!». Sì, figli nel Figlio Gesù Cristo: questa la promessa e questo il cammino dischiusi dal battesimo! Come diceva Ireneo di Lione, lo Spirito e il Figlio sono come le due mani con cui Dio plasma le nostre esistenze in vite di libertà nell’obbedienza, in eventi di relazione e di comunione con Lui stesso e con gli altri.
Alcuni elementi sono essenziali per l’autenticità del cammino spirituale. Anzitutto la crisi dell’immagine che abbiamo di noi stessi: questo è il doloroso, ma necessario inizio della conversione, il momento in cui si frantuma l’«io» non reale ma ideale che ci siamo forgiati e che volevamo perseguire come doverosa realizzazione di noi stessi. Senza questa «crisi» non si accede alla vera vita secondo lo Spirito. Se non c’è questa morte a se stessi non ci sarà neppure la rinascita a vita nuova implicata nel battesimo (cir. Romani 6,4). Occorrono poi l’onestà verso la realtà e la fedeltà alla realtà, cioè l’adesione alla realtà, perché è nella storia e nel quotidiano, con gli altri e non senza di essi, che avviene la nostra conoscenza di Dio e cresce la nostra relazione con Dio. È a quel punto che la nostra vita spirituale può armonizzare obbedienza a Dio e fedeltà alla terra in una vita di fede, di speranza e di carità. È a quel punto che noi possiamo dire il nostro «sì» al Dio che ci chiama con quei doni e con quei limiti che caratterizzano la nostra creaturalità. Si tratterà dunque di immettersi in un cammino di fede che è sequela del Cristo per giungere all’esperienza dell’inabitazione del Cristo in noi. Scrive Paolo ai cristiani di Corinto: «Esaminate voi stessi se siete nella fede: riconoscete che Gesù Cristo abita in voi?» (2 Corinti 13,5).
La vita spirituale si svolge nel «cuore», nell’intimo dell’uomo, nella sede del volere e del decidere, nell’interiorità. È lì che va riconosciuta l’autenticità del nostro essere cristiani. La vita cristiana infatti non è un «andare oltre», sempre alla ricerca di novità, ma un «andare in profondità», uno scendere nel cuore per scoprire che è il Santo dei Santi di quel tempio di Dio che è il nostro corpo! Si tratta infatti di «adorare il Signore nel cuore» (cfr. I Pietro 3, I 5). Quello è il luogo dove avviene la nostra santificazione, cioè l’accoglienza in noi della vita divina trinitaria: «Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui» (Giovanni 14,23). Fine della vita spirituale è la nostra partecipazione alla vita divina, è quella che i Padri della chiesa chiamavano «divinizzazione». «Dio, infatti, si è fatto uomo affinché l’uomo diventi Dio», scrive Gregorio di Nazianzo, e Massimo il Confessore sintetizza in modo sublime: «La divinizzazione si realizza per innesto in noi della carità divina, fino al perdono dei nemici come Cristo in croce. Quand’è che tu diventi Dio? Quando sarai capace, come Cristo in croce, di dire: “Padre, perdona loro”, anzi: “Padre, per loro io do la vita”». A questo ci trascina la vita spirituale, cioè la vita radicata nella fede del Dio Padre creatore, mossa e orientata dallo Spirito santificatore, innestata nel Figlio redentore che ci insegna ad amare come lui stesso ha amato noi. Ed è lì che noi misuriamo la nostra crescita alla statura di Cristo.