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LA SPERANZA
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a. Fondamento psicologico della speranza
La vita che cresce, in nessun momento è intera, è un progredire incessante. Le singole parti tuttavia non hanno senso se non alla luce dell’intero organismo. Dunque anche al nostro organismo spirituale, in tutte le sue dimensioni, appartiene necessariamente la prospettiva del futuro, la speranza.
La disperazione fa parte dell’inferno, dove non vi è nessun tipo di progresso. Dante pone sulla sua porta delle parole emblematiche: “Lasciate ogni speranza voi che entrate”. Chi ha mancato il fine definitivo della vita, non ha speranza, non attende la beatitudine. In cielo la speranza è compiuta, tuttavia il dinamismo della carità sarà sempre in movimento.
Il dinamismo della speranza rientra nello stesso sviluppo psicologico dell’essere umano. Nell’adolescenza, il ragazzo apre gli orizzonti, avverte grandi desideri e amori. Si coltivano svariati progetti, tutti presi sul serio. Ma la vita quotidiana, frattanto, rimane dentro limiti ristretti. Diventa difficile il rapporto con il mondo reale e quello del desiderio. È in questi anni che si vive profondamente l’eterna contraddizione fra ideale e realtà. È una contraddizione che comunque deve essere risolta. Questo può avvenire in modo maturo o immaturo creando problemi o anche serie patologie. Il carattere del futuro uomo si formerà a seconda del modo in cui è stata risolta questa fondamentale questione posta nell’adolescenza.
Più o meno si possono suddividere quattro possibili soluzioni. La prima è descritta magistralmente dal don Chisciotte di Cervantes. Il cavaliere è un idealista incorreggibile, per non dover rinunciare ai suoi ideali, rinuncia a vedere la realtà. Combatte giganti che in realtà sono mulini a vento, una contadina vista di sfuggite diviene un’irraggiungibile principessa di nome Dulcinea. Una seconda possibilità è rappresentata dal suo compagno Sancho Panza invece è il tipico realista, che non ha alcun sogno, ha perduto completamente gli ideali. È il rappresentante di coloro che si sono riconciliati con la realtà eliminando gli ideali. Una terza categoria sono i rivoluzionari. Essi vedono che il mondo non corrisponde ai loro ideali e allora decidono di cambiare le strutture del mondo. Questa scelta è stata il detonare di tanti drammatici momenti della storia. La cosa triste è che sempre la società che fuoriesce da una rivoluzione non corrisponde mai agli ideali, per cui ispirerà nuove rivoluzioni. Una quarta possibilità è data dagli eclettici. Sono coloro che fra tanti ideali ne hanno scelto uno solo buttandoci a capofitto. Tutto il resto è sacrificato. Si gioca con una sola carta: o si guadagna molto, ad esempio nel campo dell’arte o altro, o si perde tutto.
Tutte queste categorie cercano di risolvere lo stesso problema in modo diverso.
L’opposizione fra ideale e realtà è insolubile. Questo appare evidente anche nella storia della filosofia. Platone risolve il problema trasferendo gli ideali nel “mondo delle idee”. Aristetele più pragmatico invita ad un sano realismo capace di “accontentarsi del poco”. La felicità sta nel non coltivare desideri impossibili. Anche il buddismo affronta il problema professando che la via della felicità consiste nella rinuncia a qualsiasi desiderio: esso è sempre fonte di infelicità.
E nel campo biblico e cristiano? San Paolo non per nulla definisce i popoli pagani come coloro che “non hanno speranza” (1Ts 4,13). La dimensione biblica ha come supporto essenziale della rivelazione il dono delle “promesse” da parte di Dio, che i cristiani riconoscono adempiute in Cristo (Gal 3,16). Per noi dunque Cristo è la pienezza della nostra speranza.
In Cristo si sono incarnati tutti gli ideali, tutto il bene, tutta la verità, tutta la bellezza. Per la nostra fede dunque il dilemma tra ideale e realtà non è impossibile: tutto sarà ricapitolato in Cristo e raggiungerà la sua pienezza e il suo compimento alla fine del tempo. Con questa promessa il cristianesimo differisce da tutte le altre religioni. Queste promettono “un’altra vita”, Cristo invece ci assicura il ritorno su questa terra nel corpo glorioso, una cielo e una terra nuova, ma su questa terra. La speranza dunque per noi è costitutiva ed essenziale.
- b. Oggetto della nostra speranza
Le speranze umane il più delle volte risultano ingannevoli. Anche gli apostoli dopo la morte del maestro avevano perso le loro speranze (Lc 24,13s). Ma dopo la resurrezione la speranza del cristiano acquista un solido fondamento, per cui la Chiesa può invocare con certezza: “Maran Athà! Vieni Signore Gesù” (Ap 22,20).
La teologia quindi esprime l’oggetto della speranza cristiana con una formula breve: Christus totus, il Cristo intero. Cristo verrà in questo mondo e insieme a lui tutto cià che è legato alla sua venuta, cioè la santità, la glorificazione della Chiesa, la vittoria della verità, la realizzazione di tutti i veri ideali dell’umanità e della creazione. San Tommaso dice la medesima cosa in altri termini: “Non dobbiamo, quindi, sperare, nulla di inferiore a Dio stesso. I beni che egli distribuisce alle sue creature non sono altro che il suo essere. Per questo il proprio e principale oggetto della nostra speranza è la felicità eterna”. San Tommaso afferma questo perché: 1. Dio non può dare che ciò che è ovvero somma beatitudine 2. I desideri dell’uomo sono improntati dal progetto divino 3. Beatitudine dell’uomo non potrà dunque essere che la beatitudine, il possesso di Dio.
Questo è dono di Dio, ma anche frutto della nostra collaborazione. Noi abbiamo la certezza che Dio non ci fa mancare l’occasione di acquisire meriti per ottenere il premio della felicità eterna.
Ma possiamo essere già pienamente felici su questa terra? L’ “Imitazione di Cristo”[1] ci avverte: “Non prometterti ciò che non promette Cristo”. La croce farà parte sempre del nostro cammino. Tuttavia se cresce in noi la comunione con Dio, di corrispondenza cresce anche la nostra beatitudine: una pace che il mondo non potrà mai togliere. Tuttavia per ora la nostra visione della felicità è vista “nello specchio, in maniera confusa”.
- c. Motivo della speranza
Ci domandiamo non solo dell’oggetto della speranza ma anche su che cosa essa si basi. Ovvero ci domandiamo: possiamo avere realmente sicurezza nella vita?
Da questo punto di vista ovviamente appaiono molto labili le sicurezze immediate, di tipo sociale, economico, fisico, ecc… Non per nulla il profeta Geremia ammoniva: “Maledetto l’uomo che pone la sua fiducia in un altro uomo” (17,15).
Il credente ha invece un appoggio sicuro per la sua speranza: Dio. Diceva san Tommaso d’A.: “Speriamo quel bene che viene da Dio, solo da lui lo possiamo ottenere”. Per cui non riponiamo la nostra ultima speranza né in noi stessi, nelle cose, neppure negli altri. In questo a tutti allora è dato di poter riporre speranza in Dio: anche ai deboli e ai peccatori.
E’ pessimismo? Sempre san Tommaso afferma: “Non possiamo fidarci di nessun uomo e di nessuna creatura se essi vengono considerati come causa prima, capace di fare beata la nostra anima. Possiamo, però, fidarci degli uomini se li consideriamo come causa seconda, come strumento con il quale la nostra anima raggiunge quel bene che appartiene al fine ultimo”.
La nostra speranza poggia sulla fede nelle promesse di Dio. In questo senso Abramo è prototipo dell’uomo che vive una piena speranza perché vive una salda fede: “Sperò contro ogni speranza” afferma san Paolo.
- d. Speranza in Dio e nel nostro lavoro
Non aspettiamoci per la nostra speranza di vedere successi secondo i criteri mondani. Come ci ricorda il CCC non dobbiamo aspettarci un enerome successo esteriore della Chiesa, ma piuttosto, un entrare nel mistero della passione di Cristo. Quindi un apparente fallimento, fatto di persecuzione, di minoranza. Dentro questo cammino pasquale la Chiesa deve passare.
Da parte nostra tuttavia l’atteggiamento giusto è di ancorarci nel vivere con fedeltà il momento presente, guardando con serenità il futuro nonostante le apparenze contrarie. Per il presente è di grande valore un altro aspetto della speranza cristiana: la ferma convinzione nell’efficacia dei nostri sforzi compiuti nella grazia di Dio, di tutti i mezzi normali che la vita cristiana ci offre per raggiungere il nostro fine.
Certamente la nostra speranza è riposta unicamente in Dio. Ma bisogna far attenzione a non cadere in una sorta di quietismo nel quale noi saremmo esentati di fare tutta la nostra parte. Sappiamo che uno dei più difficili problemi teologici tratta proprio della relazione fra l’opera di Dio e la nostra collaborazione. Nella vita pratica è meglio attenersi al consiglio di sant’Ignazio di L. che dice: “Pregate così, come se tutto dipendesse solo da Dio, ma lavorate come se tutto dipendesse solo da voi”. L’unione dell’opera di Dio e della nostra azione si manifesta in modo esplicito nei sacramenti: è certo che Dio perdona i peccati eppure chiede a noi il gesto di inginocchiarci al confessionale.
Così siamo certi che Dio coopera sempre in ogni opera buona, anche se in misura e modalità differenti. Quindi siamo certi che le nostre opere buone sono efficaci, non sono perse. Con esse collaboriamo con Dio alla costruzione del suo Regno.
- e. Le circostanze nelle quali bisogna rafforzare la speranza
- Nello sforzo per la perfezione. Il primo entusiasmo passa presto. Bisogna essere pronti all’aridità, alla tempesta, al vento contrario.
- Nella preghiera. La preghiera si irrobustisce non per la moltitudine delle parole ma per la fiducia che la anima (Mt 17,20). Una fiducia che non è facile. Ogni rafforzamento della speranza rende la preghiera più efficace.
- Nelle circostanze in cui siamo tentati dallo scoraggiamento. La speranza è simbolizzata dall’àncora (Ebr 6,9). Vi sono momenti nella vita in cui l’unica forza che rimane all’uomo è una silenziosa speranza. Possiamo anche dire che Dio stesso purifica i sentimenti della nostra speranza con delusioni, fallimenti…
- Nelle tentazioni quando temiamo di cadere. Sembra che le abitudini cattive appaiono insuperabili solo nei casi in cui il “paziente” non riesce a convincersi che è in grado di superarle: “Vorrei tanto, ma…”. Scriveva un autore spirituale: “Smettiamo di enumerare a Dio la lunga e monotona serie delle nostre indegnità e delle nostre miserie, se lo scopo di questo elenco è solo quello di giustificare l’inquietudine e l’insicurezza che portiamo dentro di noi”. Talvolta il Signore per consolarci e rafforzarci ci concede delle consolazioni. Sono doni da accogliere con gioia senza però la pretesa di trattenerli (cfr Pietro sul Tabor!). I maestri dello spirito ammoniscono di non ricercare gli stati di consolazione e di non nutrire i desideri per visioni e rivelazioni. La speranza cristiana è rivolta verso il futuro che è il mistero di Dio. I ricercatori della consolazione vogliono godere il tempo presente; allora, in un certo senso, rigettano ciò che rende la speranza cristiana così meritevole: la piena fiducia in Dio, anche nell’incertezza.
[1] La Imitazione di Cristo (titolo originale in latino: De Imitatione Christi) è, dopo la Bibbia, il testo più diffuso di tutta la letteratura cristiana occidentale. Il testo è stato scritto in latino e ne è sconosciuto l’autore. La rosa di nomi a cui attribuire l’opera è, sostanzialmente, ridotta a tre figure: il monaco agostiniano Tommaso da Kempis, a Jean Gerson o a Giovanni Gersen. La mancanza dell’autore, secondo l’uso certosino, ha fatto propendere ultimamente per l’attribuzione a quest’ambiente. L’analisi contenutistica sembra confermare questa ipotesi. È un testo tuttora considerato di riferimento per tutte le Chiese cristiane (cattolica, protestante e ortodossa).