• 13 Apr
    1. 2. LA VITA DIVINA

     

    1. a.   La vita della SS.ma Trinità partecipata all’uomo

    Se vita spirituale vuol dire presenza e attività dello Spirito santo nel nostro cuore, possiamo dire anche che possediamo la vita di Dio, la vita divina. In questo senso la teologia orientale parla di “divinizzazione dell’uomo”. La teologia  occidentale invece ha preferito parlare di “vita di grazia”. Sia l’uno che l’altro modo di dire ha i suoi vantaggi e incompletezze: il dono di grazia lascia intuire innumerevoli differenze da parte del donatore e del ricevente, vita divina apre alla dimensione trinitaria della vita spirituale. Come si riflette nella nostra vita questo sublime mistero divino? Secondo l’espressione di s. Cirillo d’A. “ogni bene discende da Dio Padre, per mezzo del Figlio, nello Spirito Santo”. Al contrario, la nostra ascesa a Dio si realizza “nello Spirito santo, per mezzo del Figlio, al Padre”.

    1. b.   “In Cristo Gesù”

    Il riferimento della nostra vita spirituale è Cristo Gesù: in lui crediamo come il Figlio che rivela pienamente il volto del Padre (cfr Gv 1,18): lui via, verità e vita è l’unica porta che conduce al Padre (Gv 10,7). Non potrà esservi mai un’altra perfezione se non quella in Cristo e secondo Cristo. Dice s. Gregoria di Nazianzio: “Ogni fatto e ogni parola del salvatore è una regola di pietà”. E s. Giovanni Crisostomo: “sei cristiano per imitare Cristo e ubbidire ai suoi comandamenti”. Qui alcuni vorrebbero fare una distinzione tra “imitazione di Cristo” di impianto più morale e volontaristico e “vita in Cristo” dalla dimensione più misterica. Ma l’obiezione non è poi tanto profonda: chi vive in Cristo e possiede la sua grazia potrà imitarlo, ma anche colui che si sforza di seguire i suoi passi riceve la sua grazia. Scrive N. Cabasilas[1]: “Chi si è deciso a vivere in Cristo, dovrà naturalmente unirsi con il suo cuore e la sua testa; ciò senza l’unione della volontà sarebbe impossibile”. Vivere in Cristo e imitarlo significa lasciarci plasmare da Lui: avere la “mente di Cristo” direbbe Paolo apostolo. Dobbiamo saperci porre delle questioni e risolvere i problemi della vita in quest’ottica: “Cosa farebbe Cristo, o che cosa mi consiglierebbe, in questa situazione?”. Per questo non basta leggere il Vangelo: bisogna cominciare a viverlo. L’asse della nostra vita cristiana deve essere: vedere Cristo in tutto e tutti, e considerare tutti gli avvenimenti della vita come tappe di un cammino incontro a lui. In questo senso il nostro impegno sarà quello di imparare a conoscere sempre più Cristo per poterlo amare, e più lo ameremo più lo conosceremo.

    1. c.   Ad immagine e somiglianza di Dio (Gn 1,27)

    Già Platone diceva che lo scopo della vita è imitare Dio a seconda di quanto sia possibile alle nostre forze. È logico. Chi cerca la bellezza, cerca di avvicinarsi a ciò che è bello, chi ama il bene, cerca solo ciò che è buono. Ma questo non è un ideale facilmente raggiungibile. Come potrebbe un uomo “imitare” Dio? Eppure, dicono i padri, questo è realizzabile per il fatto che Dio dipinse la sua prima immagine in Gesù Cristo, il quale è “immagine del Dio invisibile” (Col 1,15). Essi leggendo il testo della genesi: “Facciamo l’uomo secondo la nostra immagine e somiglianza” conclusero: la prima e perfetta immagine di Dio è Cristo, l’uomo è stato creato secondo la sua immagine”. Sempre la teologia orientale distingue l’immagine che riceviamo nel momento del nostro battesimo, che paragonano ad uno “schizzo” iniziale, dalla “somiglianza” cui si perviene con lo sforzo di tutta la vita di perfezionare l’immagine stessa. Quanto più una persona e riempita dallo Spirito più rassomiglia a Dio. In slavo la parola “santo” (“prepodobnyi”) significa “simile a Dio”. Maria santissima è la “similissima”. Secondo san Gregorio Magno la santità è l’immagine di Dio impressa nell’animo umano, come un sigillo nella cera, con la forza dello spirito e così “un uomo terreno diviene celeste”. Il peccato insudicia l’immagine di Dio, la deturpa e la maschera con l’immagine della Bestia. La penitenza lava, pulisce l’immagine, la restaura; le virtù la abbelliscono.

    1. d.   La beatitudine perfetta e la salvezza dell’anima

    Le filosofie antiche consideravano la beatitudine il fine della vita. Anche la fede cristiana è d’accordo sul fatto che la perfezione conduce alla beatitudine, alla pace, alla contentezza, non solo nell’eternità, ma in qualche misura sin da ora. La fede cristiana di questo è convinta in quanto crede in un Dio che ha liberato l’uomo dal male, dal peccato e dalla morte. Dunque solo in  Dio l’uomo troverà autentica beatitudine: “Ci hai creati per te – scrive Agostino – e il nostro cuore non ha pace fino a ché non troverà riposo in te”. A livello di linguaggio ciò che noi definiamo “beatitudine”, nella scrittura è detta “salvezza”. Salvezza promessa nell’AT, e attuata nel NT: “è apparsa la grazia del nostro Salvatore” (Tt 2,11). Che differenza c’è tra salvezza e beatitudine? La felicità denota piuttosto uno stato psicologico, la circostanza per cui si sta bene. La salvezza (soteria): significa pienezza globale di vita in tutte le sue dimensioni. Esprime perciò uno stato ontologico non solo psicologico. Possedere la grazia di Dio è sperimentare la salvezza, ovvero la vita piena e dunque anche la gioia.

    1. e.   Vita eterna

    La vita ascetica – scrive san Basilio – non ha altro scopo che quello di salvare l’anima”. Il termine anima ha nella s. Scrittura, un senso primitivo, completo, senza determinazioni psicologiche: l’anima è il principio della vita stessa.

    Il termine “vita eterna” può essere inteso in doppio senso:

    1. Escatologico ovvero la vita eterna dopo la morte
    2. Più che di vita eterna come durata dovremmo parlare di “vita divina” di cui l’eternità è una componente.

    In questo senso la vita eterna/divina iniziamo già a viverla ora. La portiamo dentro di noi come un seme che già spunta, ma che deve crescere per poi sbocciare nell’eternità di Dio. Potremmo definire la vita eterna/divina come “vita nuova”. Di cui il principio è lo Spirito vivificante.

    Correlate sono anche altre immagini:

    –       Ricompensa eterna: non sembra piacere molto perché sa di mercantilismo, tuttavia la Scrittura promette una ricompensa a chi condurrà una retta via. Fa bene quindi il cristiano che aspetta da Dio la sua ricompensa.

    –       Osservanza dei comandamenti: ovvero una vita moralmente evangelica vissuta in quanto buona in se stessa al di là della ricompensa. Anche questa è buona (Gv 14,15).

    –       Altri invece sperimentando la loro debolezza e incapacità di vivere i comandamenti sanno che se Dio dovesse ricompensarli per i loro meriti finirebbero male. Mettono quindi tutta la loro fiducia nella misericordia di Dio. Anche questo è buono, basta che non si vive così per superficialità e disimpegno.

    La “vita nuova, la vita in Cristo, la vita nello Spirito, assume tutte queste sfaccettature. Comporta l’atteggiamento morale, sa speranza della ricompensa, la fiducia nella misericordia divina ed altre disposizioni interiori che sono riflessi della “multiforme sapienza di Dio”. San Cirillo d’A.[2] paragona la forza vivificante dello Spirito all’acqua che nel giglio diviene bianca, nella rosa purpurea, nella viola violacea. Così anche la vista spirituale si manifesta esteriormente, nelle diverse persone, sotto diversi aspetti.

    1. f.     La vita secondo la natura

    Spesso la gente scusa le proprie debolezze dicendo: “E’ la natura!”. Ma è davvero essa? Se gli uomini vivessero secondo la primigenia natura uscita dalle mani di Dio nel mondo non ci sarebbe peccato, dice Dante nella Divina Commedia. Il termine “natura” ha la stessa radice del verbo “nascere”. Dio ha dato all’uomo la vita divina, la carità, la fede e tutte le virtù. Così egli è nato, quindi tale è la sua vera natura (natura integra). In questo senso il peccato, le passioni sono “contro natura”. Tuttavia in occidente il termine “natura” non ha conservato il suo significato originale. I teologi hanno distinto ciò che è relativo alla nostra struttura umana da ciò che è divino. Perciò chiamarono l’intelletto, la volontà e i sentimenti, doni “naturali”, mentre la grazia è “soprannaturale”. Carità, fede e speranza sono perciò doni soprannaturali. L’uomo da solo non potrebbe possederli perché non appartengono alla “pura natura”. Concludendo teniamo conto della effettiva realtà dell’uomo come ci è stata rivelata. Riconosciamo che dopo il peccato la natura umana è stata corrotta. L’intelletto si è ottenebrato, la volontà è divenuta debole e tendente al male, le passioni hanno invaso il cuore. Lo stato effettivo dell’uomo è questo: tale è la nostra “natura corrotta e decaduta”. E questa “carne” lotta continuamente contro lo “Spirito”.

    1. g.   Errori nel comprendere la vita spirituale

    Gli errori nella vita spirituale si verificano quando dimenticando il tutto si accentua indebitamente un aspetto. La perfetta vita spirituale è una collaborazione armoniosa di tutti i componenti della nostra persona: il corpo, l’anima, lo spirito, la dimensione sociale, culturale. Tutto deve essere al suo posto e nella giusta misura. L’accentuazione unilaterale di uno o dell’altro componente conduce ad errori. Ne elenchiamo alcuni.

    1. Materialismo:  non possiamo accettare la teoria secondo la quale l’attività dell’anima, spirituale non è altro che il risultato delle condizioni materiali. Questo condizionamento è indegno dell’uomo libero. Tuttavia occorre riconoscere una componente materiale anche nella vita spirituale, purché non sia negata la precedenza dell’anima e il privilegio della libertà umana.
    2. Psicologismo: una certa psicologia vorrebbe dimostrare come la spiritualità dell’uomo vada a ricercarsi nei meccanismi della nostra psicologia risolvendosi in alla fin fine ad essa, anzi in funzione di essa. Certo la vita spirituale usa anche gli strumenti della psicologia e può essere aiutata in certa misura dai suoi supporti (soprattutto in caso di nevrosi e psicosi). Ma questa visione è limitata perché nega la presenza e l’azione di un terzo: lo Spirito di Dio. Chi conosce le profondità del nostro cuore in verità e solo Dio: la psicologia può solo aiutare a leggere ed eliminare alcuni condizionamenti che possono limitare la sua azione.
    3. Razionalismo: Alcuni credono che il cristianesimo non sia altro che uno dei grandi programmi, dei sistemi di verità, di filosofia di vita. Si coglie la dimensione etica del cristianesimo e nulla più (e per la maggior parte sino ad un certo punto!). Ma la fede cristiana non si risolve anzitutto in una dottrina religiosa, la sua pienezza e significato risiede nella carne di Cristo vero Dio e vero Uomo, nella sua stessa vita comunicata a noi dallo Spirito. Soloviev accusò Tolstoy di essere una sorta di Anticristo a causa della sua erronea concezione del cristianesimo come una raccolta di ottimi consigli di vita morale. Da questo versante d’altronde il cristianesimo non sarebbe neppure così nuovo. Sant’Ireneo[3] affermò che: Cristo portò “tutta la novità” perché “portò se stesso”.
    4. Volontarismo: La volontà certamente occorre nella vita spirituale. Agostino dice: “Dio ti ha creato senza di te ma senza di te non ti salverà”. Tuttavia occorre tener presente che la sola volontà non basta. Questo era l’errore del pelagianesimo[4]. Neppure la perfezione cristiana deve essere stimata e valutata solo secondo l’efficacia, soprattutto esteriore.
    5. Moralismo: Una forte volontà aiuta ad osservare i comandamenti e le varie prescrizioni. Certo l’osservanza dei comandamenti santifica. Ma il fatto che Gesù durante la sua vita si sia opposto al fariseismo dimostra che l’osservanza esteriore delle leggi può essere benissimo una maschera che copre altri valori che alla fin fine sono più importanti. Soprattutto l’osservanza fine a se stessa può illudere ad una falsa giustizia che nasconde la pretesa di fare a meno della grazia di Dio.
    6. Sentimentalismo: L’azione dello Spirito purifica non solo il cuore ma anche le nostre facoltà, dunque anche i sentimenti. Esso provoca gioia, consolazione, pace… Gli autori spirituali si ponevano la domanda se questi stati siano o meno necessari e, quando avvengono, se siano segno infallibile della presenza dello Spirito. Come giudicare lo stato di un uomo che non li possiede e che al contrario si sente desolato, tentato, disgustato di tutto? Bisogna evitare errori come nel messalianesimo[5] nel quale si affermava che si possiede la grazia solo quando la si avverte e che desolazione e inquietudine sono frutto di peccato. In realtà bisogna affermare che non si può misurare la grazia secondo i sentimenti che si avvertono (cfr le aridità), anche se normalmente la presenza dello Spirito porta con sé la pace e la gioia. Quando vi sono accogliamo con riconoscenza tali doni senza però che essi costituiscano il fine della vita spirituale. Diceva s. Francesco di Sales[6] che: “bisogna cercare il Dio delle consolazioni e non le consolazioni di Dio”.
    7. Spiritualismo: La vita spirituale è vita nello Spirito santo. Questi “spiritualizza” tutta la nostra persona. In questo senso riceve un vero senso tutto ciò che viene disperezzato dallo “spiritualismo” esasperato, ovvero la normale umile vita di ogni giorno, le sue preoccupazioni, le attività quotidiane. La realtà terrena è il luogo dove già si costruisce la “Gerusalemme celeste” verso la quale tutti tendiamo. Spiritualismo è ricerca del sovrannaturale ad ogni costo, miracoli, apparizioni tralasciando quelli che sono i mezzi ordinari attraverso la quale entra in noi la grazia. Spiritualismo era il difetto della corrente quietista[7] che ricercava ad ogni costo la grazia presente nel cuore a prescindere dall’attività umana. Dimenticava però che Dio è “attività pura”, perciò anche la vita divina nel cuore non deve soffocare l’attività umana, ma al contrario, la stimola. La vita spirituale non deve portare alla passività e all’inerzia.
    1. Sociologismo: alcuni sostengono che la vera esperienza cristiana deve giocarsi a livello di impegno sociale e politico. Certamente la Chiesa non può e non deve tenersi lontana dalla vita pubblica, sociale e culturale. Tuttavia non bisogna dimenticare le parole di Gesù: “Il mio regno non è di questo mondo” (Gv 18,36). Il Vangelo non deve essere ridotto a un semplice programma sociale (cfr teologia della liberazione).Ui u

     


    [1] Nicola Cabasilas nasce tra il 1320 e il 1322 a Tessalonica (Salonicco), in un’epoca di intensa attività culturale. Dall’epistolario giovanile e dalle testimonianze contemporanee egli appare come un fervido umanista. Compie brillanti studi classici, letterari e filosofici; si lega d’amicizia con Demetrio Cidone, suo compatriota e cancelliere degli imperatori, convertito alla Chiesa romana, il quale gli fa conoscere le opere di Tommaso d’Aquino; è coinvolto nella guerra civile del 1341 a Tessalonica. Divenne monaco forse negli ultimi anni. Le ultime menzioni di Cabasilas vivente si hanno in due lettere del 1391. Nella sua vasta opera filosofica, agiografica e teologica emergono la “Vita in Cristo”, in sette libri e il “Commento della divina liturgia.”

    [2] Fu patriarca di Alessandria e teologo, coinvolto nelle dispute cristologiche della sua epoca. Si oppose a Nestorio durante il concilio di Efeso del 431 (del quale fu la figura centrale). In tale ambito, per contrastare le tesi di Nestorio che negava la maternità divina di Maria, sviluppò una teoria dell’Incarnazione, che gli valse il titolo di doctor Incarnationis e che è considerata ancora valida dai teologi cristiani contemporanei. Perseguitò i novaziani, gli ebrei e i pagani, sino a quasi annientarne la presenza nella città. Divenuto vescovo e patriarca di Alessandria nel 412, secondo lo storico Socrate Scolastico acquistò «molto più potere di quanto ne avesse avuto il suo predecessore» e il suo episcopato «andò oltre i limiti delle sue funzioni sacerdotali». Cirillo giunse a svolgere anche un ruolo dalla forte connotazione politica e sociale nell’Egitto greco-romano di quel tempo. Le sue azioni sembrano essersi ispirate al criterio della difesa dell’ortodossia cristiana a ogni costo: espulse gli ebrei dalla città; chiuse le chiese dei novaziani, confiscandone il vasellame sacro e spogliando il loro vescovo Teopempto di tutti i suoi possedimenti; ed entrò in grave conflitto con il prefetto imperiale Oreste.

    [3] Nato a Smirne in Asia Minore, cresciuto in una famiglia già cristiana, ricevette alla scuola di Policarpo vescovo di Smirne (discepolo dell’apostolo Giovanni), di Papia, di Melitone di Sardi ed altri, una buona formazione, religiosa, filosofica e teologica. Fu vescovo della città di Lugdunum (attuale Lione) dal 177, in seguito alla morte, per martirio sotto Marco Aurelio, del primo vescovo della città san Potino, insieme ad altri 47 martiri. Fu anche inviato a Roma presso papa Eleuterio per dirimere questioni di ordine dottrinale. Secondo la tradizione della Chiesa fu martire a sua volta, anche se scarse sono le notizie storiche sulla sua vita e morte. Venne sepolto nella chiesa di San Giovanni, che più tardi venne chiamata di Sant’Ireneo. La sua tomba e i suoi resti vennero distrutti nel 1562 dagli Ugonotti durante le guerre di religione. Il suo pensiero e le sue opere furono direttamente influenzati da Policarpo, che fu a suo tempo discepolo diretto di Giovanni Evangelista. Essi sono una testimonianza della tradizione apostolica, a quei tempi impegnata contro il proliferare di varie eresie, in particolare lo gnosticismo di cui Ireneo fu un forte oppositore. Delle sue opere ci sono pervenute per intero:- Adversus haereses (in 5 libri, Contro le eresie): testo in latino che tenta di confutare le principali espressioni dello gnosticismo. In sintesi, l’interesse del Vescovo era quello di confutare l’esistenza di due Cristi, uno di natura divina e l’altro di natura umana originati da due diversi eoni, idea questa molto cara alla gnosi. Di conseguenza, Ireneo di Lione insisterà sull’unicità ed unità della figura del Cristo.
    – e
    Demonstratio apostolicae praedicationis (Dimostrazione della predicazione apostolica), sintetica e precisa esposizione in armeno della dottrina cattolica. oltre a diversi frammenti, nelle edizioni moderne in genere pubblicati in appendice alle stesse. I curatori italiani delle sue opere sono Vittorino Dellagiacoma, Ubaldo Faldati, Ermanno M. Toniolo, Enzo Bellini, Elio Peretto, Giorgio Maschio o Augusto Cosentino. Uno dei suoi discepoli più noti è Ippolito di Roma.

    [4] Il Pelagianesimo è una teologia cristiana che prende il nome da Pelagio, che ne è considerato il fondatore, sebbene, ad un certo punto della sua vita, negasse molte delle dottrine legate al suo nome. Il cuore del Pelagianesimo è la credenza che il peccato originale non macchiò la natura umana e che la volontà dell’essere umano è ancora in grado di scegliere il bene o il male senza uno speciale aiuto divino; la conseguenza è che il peccato di Adamo fu quello di portare un “cattivo esempio” alla sua progenie, ma le sue azioni non hanno altra conseguenza. Nel Pelagianesimo, il ruolo di Gesù è quello di presentare un “buon esempio” in grado di bilanciare quello di Adamo e di fornire l’espiazione per i peccati degli esseri umani. L’umanità ha dunque la possibilità di obbedire ai vangeli e dunque la responsabilità piena per i peccati; i peccatori non sono vittime, ma criminali che hanno bisogno dell’espiazione di Gesù e di perdono. Le teorie pelagiane furono combattute da Agostino d’Ippona e furono definitivamente condannate come eretiche nel Concilio di Efeso del 431. Ciononostante continuò per un certo periodo ad avere influenza in ambito ecclesiastico.

    [5] Fu una setta eretica del IV secolo, che credeva che, in seguito al peccato originale d’Adamo, ognuno avesse un demone unito alla propria anima e che esso non fosse stato espulso con il battesimo: l’unica maniera di espellerlo era la continua ed incessante preghiera con lo scopo di eliminare ogni passione e desiderio. Il nome messaliani, infatti, deriva dall’aramaico mètzalin = preganti, e la stessa etimologia aveva la versione greca del loro nome, euchiti da euchetai. Comparvero intorno al 360 in Mesopotamia, come setta fondata da un certo Adelfio (da cui il nome adelfiani), espulso da Antiochia nel 376 dal vescovo Flaviano e autore del testo base della setta, Asceticus. Un’ulteriore condanna fu loro inflitta dal sinodo di Side del 390 ca. e dal concilio di Efeso del 431(dove venne condannato il loro libro Asceticus).  Eppure la setta continuò ad esistere: alla metà del V secolo, il loro capo era il prete Lampezio (da cui un’ennesima versione del loro nome), il quale scrisse un loro nuovo testo, chiamato Il testamento. In Armenia la setta, pur combattuta anche dalla Chiesa Nestoriana, continuò a prosperare fino al IX secolo. I m. influenzarono alcune eresie medievali come i pauliciani, i bogomilie i fratelli del Libero Spirito. Essi, come si diceva, consideravano inutili i sacramenti e la mediazione della Chiesa, praticando invece la preghiera incessante e la danza estatica, durante le quali erano posseduti dallo Spirito Santo (da cui, letteralmente, il nome di entusiasti, cioè “posseduti da Dio”), si rifiutavano di lavorare, vivendo nelle piazze e vagando da una città all’altra e prendendo, secondo loro, ad esempio la vita itinerante di Gesù e gli apostoli. Secondo Sant’Epifanio, esisteva, infine, un’altra setta molto simile, non cristiana, ma che adorava un unico Dio onnipotente. I seguaci di questa setta erano chiamati anche eufemiti e furono considerati i precursori dei messaliani, con i quali furono spesso confusi.

    [6] Francesco fu il figlio primogenito del signore di Boisy, nobile di antica famiglia savoiarda e ricevette una raffinata educazione. Il padre, che voleva per lui una carriera giuridica, lo mandò all’Università di Padova, dove Francesco si laureò, ma dove decise di divenire sacerdote. Ordinato il 18 dicembre 1593, fu inviato nella regione del Chiablese, dominata dal Calvinismo, e si dedicò soprattutto alla predicazione, prediligendo il metodo del dialogo: inventò i cosiddetti «manifesti», che permettevano di raggiungere anche i fedeli più lontani. San Francesco di Sales, vescovo di Ginevra e dottore della Chiesa, è il più importante e celebre santo della Savoia. È stato proclamato santo nel 1665 da papa Alessandro VII ed è uno dei Dottori della Chiesa.Fu un grande scrittore di testi di dottrina spirituale tra i quali occorre ricordare: “Filoteo, ovvero trattato della vita devota”.

    [7] Il quietismo è una dottrina mistica, che ha lo scopo di indicare la strada verso Dio e la perfezione cristiana, consistente in uno stato di quiete passiva e fiduciosa dell’anima. Attraverso uno stato continuo di quiete e di unione in Dio, l’anima raggiunge una specie di indifferenza mistica, fino ad arrivare a negare le pratiche e le liturgie comuni della religione tradizionale. Opposto ad ogni forma di spiritualismo, il quietismo appare come una reazione al giansenismo, dal momento che l’itinerario mistico proposto rende Dio più accessibile all’anima umana, lontano dai rigorismi e dalle dure ascesi giansenistiche. La dottrina quietista nasce in Italia alla fine del XVII secolo grazie ad un teologo spagnolo, Miguel Molinos, e alla sua opera principale, la Guida Spirituale (1675). Essa è condannata dal papa Innocenzo XI con la bolla Caelestis Pastor del 20 novembre 1687. Le idee quietiste, combattute aspramente dal Bossuet, riprendono vigore in Francia con Madame Jeanne Guyon e la sua opera Moyen court et très facile de faire oraison (1685). Nel dibattito teologico si inserisce anche Fénelon con la sua opera Explications des maximes des saints sur la vie intérieure. Il 12 marzo 1699 papa Innocenzo XII, con il breve Cum alias, condannava 23 tesi tratte dall’opera di Fénelon.

     

    Posted by attilio @ 10:40

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