• 09 Mar

    Sono ancora “malata d’amore”?

    Lectio di Ct 5,2-8

    Il concilio ebraico di Jamnia del 90 d.C. inserì il Cantico dei Cantici, dopo notevoli dispute, nel Corpus degli “Scritti” ispirati. Le dispute erano causate dalla apparente profanità del testo in cui non compare mai il nome di Dio. Rabbì Aqiba, principale difensore dell’ispirazione del Cantico, disse in quell’occasione che “il mondo intero non vale il giorno nel quale fu dato ad Israele il Cantico dei Cantici. Tutti i libri della Bibbia sono santi, ma il Cantico è il più santo di tutti”. Infatti la tradizione biblica sia ebraica che cristiana riconobbe sempre, senza alcun timore, il piccolo libro del Cantico dei Cantici come ispirato perché vi lesse non solo la bontà e la bellezza dell’amore umano creato da Dio (cfr Gen 1), bensì il suo rimando al grande tema dell’alleanza sponsale che intercorre tra Dio e Israele, e di riflesso tra Cristo e la sua Chiesa, tra il Signore e l’anima di ciascun credente. In quel libretto, per usare l’espressione di san Tommaso d’A., la fede vi vede racchiusa “la ricchezza dell’amore divino” per l’intera umanità.
    Un’autentica vita di consacrazione vive e cresce unicamente se attinge incessantemente alla sorgente dell’amore sponsale di Dio per noi. Senza amore la vita, per tutti, diventa solo peso e incubo, routine malamente sopportata e sempre bisognosa di scappatoie più o meno nevrotiche. Affermare che il nostro essere discepoli ha la sua radice nell’esperienza dell’amore sponsale di Dio per noi significa ricordarci sempre che non viviamo di un ideale, di un progetto, o di una filosofia: viviamo dentro una relazione che ha un volto ben preciso sempre vivo e presente: quello di Gesù di Nazaret. Il documento vaticano “Ripartire da Cristo” (CIVCSVA, 2002) è un forte richiamo a questa realtà:  “Ripartire da Cristo significa ritrovare il primo amore, la scintilla ispiratrice da cui è iniziata la sequela. È suo il primato dell’amore. La sequela è soltanto risposta d’amore all’amore di Dio. Se «noi amiamo» è «perché egli ci ha amato per primo» (1 Gv 4, 10.19). Ciò significa riconoscere il suo amore personale con quella intima consapevolezza che faceva dire all’apostolo Paolo: «Cristo mi ha amato e ha dato la sua vita per me» (Gal 2, 20)” (n.23).
    Ci domanderemo alla luce della Parola: il mio rapporto con Dio sgorga dalla sorgente del sentirmi amato da lui (cfr Gal 2,20)? Questo suo innamoramento riempie e scalda il mio cuore, lo rende vigilante affinché non venga meno la mia risposta alla sua offerta? Oppure la mia relazione con Dio, venendo meno l’amore, si sta trascinando sull’onda del dovere, della legge, delle cose da fare, quasi che ormai Dio fosse assente? Non è che mi ritrovo così preoccupato di me stesso da lasciarmi sfuggire di mano l’essenziale ritrovandomi così spaesato e vuoto, incapace di “correre nella notte” perché non attendo più nulla? E infine: il mio cuore è ancora “malato di amore” per il Cristo sposo di sangue?
    Invochiamo lo Spirito santo perché apra mente e cuore all’ascolto della Parola di vita e riaccenda in ciascuno il desiderio di ritrovare la “fiamma del primo amore”: “Lo Spirito Santo effettuerà in me una continua incarnazione del Verbo: io posso dare al Verbo un cuore umano per amare ancora nel tempo i fratelli e il Padre, gli posso dare le mie membra e il mio spirito perché vi compia “ciò che manca alla passione per il Corpo di Lui che è la Chiesa”. Lasciar vivere Gesù in me: lui la mia umiltà, la mia purezza, la mia carità, la mia pazienza, la mia forza, la mia amabilità. Sparire per lasciar regnare lui; non devo imitare Gesù ma rimanere io; devo sparire e lasciar vivere lui divenire il mio io, le specie trasparenti che nascondono Cristo” (Maria Gubbi).

    Lectio

    Dopo l’esultanza gioiosa dell’ “incontro nel giardino” (c.1), il testo ci riporta in un’atmosfera profondamente diversa: alla solarità si sostituisce un notturno non privo di incubi e sofferenze, all’abbraccio subentra l’esperienza della solitudine, alla dolce presenza dell’amato quella di un’angosciosa assenza.
    E’ notte tarda e tutti dormono. Anche la ragazza ci si presenta “addormentata” (v.2) nel suo letto. Eppure ella ribadisce che “il suo cuore rimaneva sveglio”: il ricordo dell’amato non viene mai meno in lei, neppure durante il sonno. Il cuore rimane vigilante a motivo dell’amore che continuamente vi pulsa: esso è come un fuoco sempre acceso (cfr 8,6), come il cuore che incessantemente pulsa la vita.  E’ motivo insistente nella Scrittura (soprattutto nella tradizione deuteronomista) l’invito alla “sposa” Israele a non dimenticare mai l’amore del suo sposo Jhwh: “Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze. Questi precetti che oggi ti dò, ti stiano fissi nel cuore; (Dt 6,4-6). Il farne incessante memoria è condizione perché l’alleanza con JHWH rimanga viva e non venga dimenticata (cfr Gr 2,32).
    Nel cuore della notte “un rumore” improvviso fa sobbalzare la giovane: è il suo innamorato che sta bussando alla porta chiedendo di entrare. È una visita inaspettata come tante visite di Dio che non possono essere programmate (cfr Gv 20,19). Gesù amerà paragonare la venuta del Figlio dell’Uomo alla sortita di “un ladro nella notte” (Lc 12,39; Gv 10,1; 1 Tess 5,2…).
    L’innamorato alla porta insiste: «Aprimi, sorella mia, amica mia, colomba mia, mio tutto!». Usa una cascata di vocativi a cui si aggiunge (come in 6, 9) l’appellativo tipico che sta ad indicare l’unicità dell’amore vero: «Mio tutto». Come non riandare al testo dell’Apocalisse dove il Risorto si presenta mendicante alla porta chiedendo di entrare? “Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me” (Ap 3,20). L’entrare nel talamo o il cenare insieme sono immagini che dicono in fondo la stessa realtà: il desiderio della condivisione, la passione di una comunione vicendevole.
    La scusa addotta dal giovane per entrare  è che la notte è fredda e i suoi capelli sono “madidi di rugiada” (cfr Gdc 6,37-40). L’amato porta con sé la rugiada che nella Scrittura simboleggia il dono della grazia – la vita – che JHWH riversa continuamente su Israele sua sposa ( “sarò come rugiada per Israele” Os 14,6; cfr Sal 109,3; Dt 33,28).
    Al bussare del giovane, la donna si fa desiderare mostrandosi quasi indifferente (v. 3). Si tratta forse di una capricciosa ritrosia tipicamente femminile, una tipica schermaglia d’amore. Ella avanza scuse banali per farlo attendere alla porta: è già a letto e poiché deve scendere e andare alla porta si sporcherebbe i piedi. Mentre l’innamorato le offre il suo capo coronato di riccioli e pregno di rugiada l’amata sembra preoccupata dei suoi piedi! Queste scuse e rimandi sono il sale dell’amore, ma possono degenerare nell’incomprensione, nella gelosia, nell’allontanamento. L’amore infatti raramente ammette troppi ritardi e lungaggini! Nel sottofondo udiamo la voce del Dio innamorato che chiede alla sua sposa-Israele un’alleanza senza troppi rimandi: “Ascoltate oggi la sua voce: Non indurite il cuore” (Sal 94,8); “Egli dice infatti: Al momento favorevole ti ho esaudito e nel giorno della salvezza ti ho soccorso. Ecco ora il momento favorevole, ecco ora il giorno della salvezza! (2Cor 6,2).
    Dinanzi a questa ritrosia della fidanzata il giovane innamorato non si rassegna e tenta un’ultima strada per entrare cercando di forzare la serratura della porta che lo tiene lontano dal suo amore (v. 4). Con la mano cerca, attraverso una fessura, di sollevare il chiavistello. È un modo furtivo per ribadire la sua passione e il suo ardente desiderio di entrare e risvegliare nell’amata il desiderio amoroso. Dio non desiste mai, non si arrende, nei suoi tentativi per rinnovare la sua alleanza con la sua sposa e la storia della salvezza ne è chiara testimonianza (cfr Is 5,1ss; Ebr 1,1).
    La ragazza, appena sente che la mano del suo amato armeggia al chiavistello viene percorsa da un fremito d’amore e di gioia (le sue viscere fremono). È lo stesso sentimento di tenerezza che è applicato nelle Scritture vetero e neotestamentarie alle “viscere” misericordiose di Dio per il suo popolo (cfr Gr 4,19; 31,20; Is 16,11; Mt 15,32; Mc 8,2…).
    Subentra però improvviso il silenzio: la ragazza capisce che è successo qualcosa di grave. Si alza immediatamente dal letto senza più alcuna tergiversazione per aprire all’amato (v.5). Nell’armeggiare la serratura le sue mani si ungono di unguento di preziosa mirra profumata. L’amato ha lasciato la sua impronta, quasi un alone della sua presenza: il profumo è segno dell’intimità, e soprattutto della gratuità dell’amore (1,13; 4,6; cfr Gv 12,23). La sapienza, nel libro dei Proverbi, predispone il talamo per i suoi amanti preoccupandosi che non manchi “il profumo di mirra” (17,7).
    La porta spalancata si apre solo sul buio e sul silenzio  della notte (v. 6). L’innamorato si è dissolto come un’ombra (cfr Sal 144,4). E mentre poco prima la fidanzata si sentiva quasi svenire di gioia e di emozione, ora: “viene meno per la sua scomparsa”. Ella chiama per nome l’amato: silenzio e vuoto la circondano.
    L’innamorata non si può ormai dar pace, non si rassegna alla perdita: violando tutte le norme del buon senso, superando i condizionamenti sociali, mossa solo dal suo desiderio di ritrovare il suo amore, esce sola dalla sua casa e inizia a percorrere nella notte fredda e pericolosa  vicoli e piazze della città alla ricerca affannosa del suo amore (v.7, cfr Gr 31,22 in cui la figlia di Israele infedele diventa vagabonda). È una ricerca disperata che non porta a nulla di fatto. È il dramma dell’assenza, della solitudine che sperimentiamo nelle nostre relazioni, ma è anche il dramma del silenzio di Dio che percorre tante pagine della Scrittura: “Ascolta, Signore, la mia voce. Io grido: abbi pietà di me! Rispondimi. Di te ha detto il mio cuore: «Cercate il suo volto»; il tuo volto, Signore, io cerco. Non nascondermi il tuo volto” (Sal 26,6-8) ; “Perché, Signore, stai lontano, nel tempo dell’angoscia ti nascondi?” (Sal 9,22).
    Ma è un’assenza che costringe a cercare, a porsi in cammino verso colui che ci viene incontro. Ad un andare sempre oltre, come “oltre” è sempre il mistero dell’Altro: “Voi mi cercherete, e non mi troverete; e dove sono io, voi non potrete venire” (Gv 7,34).
    All’improvviso appare una ronda delle guardie della città (v.7) e la ragazza viene scambiata per una prostituta in cerca di chissà quali avventure. È la stessa scena presentata in 3,3-4 ma qui c’è un particolare nuovo: ella ora viene ferita mentre le viene strappato di dosso il velo che la nasconde. La ricerca dell’amore non è mai senza dolore e sofferenza!
    Ma nonostante l’umiliazione e le ferite l’innamorata ancora non si arrende (v. 8). Lancia un appello alle  «figlie di Gerusalemme» perché si associno a lei nella ricerca del suo amato di cui non può far a meno. E nel caso lo trovino ella dice di riferirgli da parte sua un unico messaggio, quello stesso che aveva già loro affidato in un momento più felice (2,5): «Sono malata d’amore, io!» (v.8; nei LXX “sono ferita dall’amore”).
    Così una notte serena, piena di attese e di emozioni amorose, è approdata alla tragedia di una scomparsa e di una ricerca affannosa e disperata: ma questa forse è la condizione per una riscoperta della preziosità dell’amore ancora più profonda e appassionata.

    Meditatio

    San Bernardo abate di Clairvaux, fu uno dei più grandi commentatori medievali del Cantico dei Cantici. Un testo altamente amato da tutta la tradizione monastica. In un passo egli afferma una realtà di fondamentale importanza per la vita religiosa:  “grande cosa è l’amore se si rifà al suo principio, se ricondotto alla sua origine, se riportato alla sua sorgente. Di là sempre prende alimento per continuare a scorrere”. In altre parole: se l’amore vuole continuare a divampare come fuoco deve alimentarsi alla sua sorgente, altrimenti si spegne.
    Nella vita cristiana e di consacrazione questa sorgente è nella fede, nella certezza che Dio ti ha amato e ha donato il suo Figlio per te perché ti desidera in comunione con lui per tutta l’eternità (cfr Gv 3,16). Non per nulla il Concilio Vaticano  dichiara che “i religiosi davanti a tutti i cristiani evocano quel mirabile connubio voluto da Dio e che si manifesterà pienamente nel secolo futuro, il connubio per la cui la Chiesa ha Cristo come suo unico sposo”  (PC 25).
    La memoria di questo “mirabile connubio” deve rimanere ben sveglia in te: “Io dormo ma il mio cuore veglia” (v.2). Hai bisogno di un cuore che non si addormenti; e ogni aspetto della tua vita dovrebbe aiutarti a raggiungere questo scopo: “I consigli evangelici hanno senso in quanto aiutano a custodire e favorire l’amore per il Signore in piena docilità alla sua volontà; la vita fraterna è motivata da lui che raduna attorno a sé ed è finalizzata a goderne la sua costante presenza; la missione è il suo mandato e muove alla ricerca del suo volto nel volto di quelli a cui si è inviati per condividere con loro l’esperienza di Cristo” (Ripartire da Cristo, n.22).
    Lo sposo dalla mano trafitta “bussa” discretamente e incessantemente alla tua porta, di certo non la sfonda con la violenza perché è rispettoso della tua libertà, perché questa è condizione essenziale alla gratuità dell’amore su cui si fonda la tua vita: “Benché sia capace di entrare non vuole introdursi con forza. Non vuole costringere coloro che si rifiutano. Beato dunque colui alla cui porta il Cristo bussa. Ma ascolta colui che bussa, ascolta colui che desidera entrare in modo che lo sposo al momento della sua venuta non si ritiri perché la casa è chiusa per lui” (Sant’Ambrogio).
    Hai bisogno di lasciar entrare lo sposo nell’intimità della tua vita se vuoi gioire dell’amicizia con lui: se non accadesse perderesti il senso della tua scelta, perderesti il senso del tuo servizio, il senso della tua stessa vita. Tutto alla fine ti apparirebbe vuoto e tu sprofonderesti in una interminabile notte senza alcuna attesa. Ricorda che la tua sequela non consiste soltanto e anzitutto in una imitazione esterna dei gesti e delle parole del tuo Signore e sposo, bensì necessita di una stretta unione nuziale con lui. E’ questa la condizione di una vita consacrata feconda di frutti: “Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può far frutto da se stesso se non rimane nella vite, così anche voi se non rimanete in me” (Gv 15,4; cfr Rm 6,5).  A chi spalanca la porta allo Sposo che bussa all’improvviso egli promette la gioia della sua amicizia: “Io cenerò con lui ed egli con me” (cfr Ap 6,23).
    Sarebbe inutile per te avere occhi vigili alle tante cose da fare, ai compiti e ruoli da svolgere, l’indaffararti a volte frenetico nelle tue mille attività e accorgerti ad un certo punto d‘avere un cuore spento, in cui non pulsa l’amore per l’Amato, che chiedeva di entrare per dare senso ad ogni cosa. Siano vere per le parole della “Perfectae Caritatis”: “Quanto più fervorosamente si uniscono a Cristo con la donazione che abbraccia tutta la vita, tanto più rigogliosa diventa la vita della Chiesa e il suo apostolato si fa vigorosamente fecondo” (n.12).
    Potresti portare la scusa di non avere tempo, di aver tante cose da fare “per lui”, ma di non aver tempo per stare “con lui”.  Se ciò accadesse lentamente sprofonderesti in una sorta di “addormentamento” in cui i tuoi riflessi interiori non più vigili divengono sempre più lenti, intorpiditi e alla fine incapaci di cogliere la visita della grazia. Come la ragazza del Cantico faresti fatica ad acconsentire – lei così troppo occupata, civettuola e centrata su se stessa – ad alzarti immediatamente al bussare dell’amato. Invece di lasciarti prendere dal desiderio dell’amore per stare finalmente e totalmente accanto all’amato nudo e bagnato com’è dalla rugiada del suo sangue, vorresti ancora ricoprirti della “tua” veste, quella dei suoi desideri, della stima dinanzi al mondo ritardando così l’incontro. Non dimenticare che il tuo unico desiderio è di “seguire nudo Cristo nudo” (s. Gerolamo). I tanti rimandi, le pigrizie, i ripiegamenti su di te fanno sì che il tuo “io” abbia il sopravvento sul desiderio e la bellezza dell’unione sponsale a cui un giorno ti ha chiamato. Nella tua vita interiore c’è sempre il rischio di divenire col tempo accomodante, facile al compromesso. Nulla di più pericoloso di una sublimazione che mascheri la non voglia di piegarsi a tutte le esigenze concrete di una relazione autentica che va coltivata con somma cura. Scrive san Giovanni della Croce che ha amato in particolar modo il Cantico dei Cantici: “Chi rifiutasse di uscire nella notte in cerca dell’amato ed essere spogliato e mortificato della sua volontà, e volesse cercarlo nella tranquillità del suo letto, come faceva la sposa, non lo troverebbe” (s. Giovanni della Croce, Notte oscura). Non dare per scontato una relazione sponsale con Cristo: essa va coltivata, protetta e rinnovata ogni giorno con somma cura.
    Troppe volte invece purtroppo accade che la presenza dell’Amato si dissolva dalla vista e al suo posto subentri un vuoto insopportabile. Se si vuole uscire da questa insopportabilità che oggi assale talvolta la vita di singoli consacrati e di intere comunità vi è una sola via di guarigione. Uscire nuovamente da noi stessi e metterci, anche se è notte, in cammino. Il “mendicante dell’amore” (Sant’Agostino) va cercato e inseguito di nuovo. Allora l’amata imparerà, nel dolore dell’assenza e in una dolorosa ricerca, non solo a conoscere nuovamente l’Amore, ma anche a misurarne l’unicità e quando gli sia impossibile farne a meno.
    Questo è grazia! L’amore viene così a scuoterti dal tuo intorpidimento quasi obbligandoti nuovamente alla sequela “Egli veglia, anzi non dorme, ma riposa sempre accanto al nostro cuore e, insistentemente, lo ferisce per dirgli: Aprimi!” (Luis de Lèon). Inizia così per te una corsa “senza indugio” (Lc 24,33.
    Per metterti alla ricerca dovrai lasciare la tua comoda stanza e metterti in cammino sopportando incertezze, umiliazioni, percosse e forse il disonore. Ti esporrai al rischio del buio della strada e delle sue incognite. Sarà un andare sempre oltre le tappe già raggiunte. Ma nel tuo cuore arderà nuovamente il desiderio dell’essenziale, se non ti lascerai sopraffare dallo scoraggiamento. D’altra parte non si misura l’amore se non nella fedeltà e nella perseveranza con cui lo si cerca:  “Ti ho consacrato tutta la mia vita: ora, mio sposo, vengo a te con la lampada accesa” (Liturgia delle Ore).
    La notte del carnevale del 1367 ad una giovane senese, Caterina Benincasa, appare Cristo accompagnato dalla Vergine e da una folla di santi. A Caterina in quel tempo provata e umiliata in ogni modo, ma assetata dell’amore di Cristo, il Signore in veste di sposo dona un anello nuziale. La visione sparisce, Cristo sembra dissolversi, ma l’anello rimane visibile a lei sola quale testimone silenzioso di un amore che mai viene meno.

    Oratio

    Terminiamo la nostra lectio con una preghiera tratta dalla divina liturgia dei nostri fratelli d’oriente. Ringraziamo con essa il Cristo sposo per la sua alleanza nuziale con ciascuno di noi. A lui nudo sulla croce chiediamo di essere spogliati della nostra pigrizia, dimenticanza, e superficialità nel vivere la nostra consacrazione che è patto d’amore con lui che per primo ci ha amato. Che il cuore non si raffreddi nell’attesa della sua venuta e rimanga vigile e desideroso d’incontrarlo quando egli busserà alla porta. Sia Lui stesso allora a rivestirci della veste nuziale, quella stessa di coloro che seguono l’Agnello.
    O Sposo bellissimo,
    che ci hai invitato al convito spirituale del tuo talamo,
    spogliami della veste dei peccati con la partecipazione alle tue sofferenze
    e, ornandomi con la veste di gloria della tua bellezza,
    rendimi splendido commensale del tuo Regno,
    “Andiamogli incontro…” .
    Stringiamoci attorno “al più Bello tra i figli dell’uomo” con i segni della bellezza.
    Santo Dio, Santo forte, Santo immortale abbi pietà di noi.

    Posted by attilio @ 19:57

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