• 19 Mar

    “Detto questo…”

    Gv 18,1a

    di p. Attilio Franco Fabris

     

     “Detto questo…”. L’evangelista inizia il racconto della Passione allacciandolo immediatamente con quanto Gesù ha detto in precedenza nel Cenacolo durante l’ultima cena.

    Gesù ha tenuto tre ultimi importanti discorsi che possono essere letti come il suo testamento alla sua comunità. Nel terzo Gesù afferma: “Ho fatto conoscere loro il tuo nome e lo farò conoscere, perché l’amore con il quale mi hai amato sia in essi e io in loro” (17,26). Gesù ha già iniziato a far conoscere, durante il suo ministero, il nome del Padre suo ma è un’opera che non è ancora conclusa: “lo farò conoscere.  Ricordiamo che il nome, nel mondo ebraico, indica la realtà più profonda di una persona. Far conoscere il nome di Dio equivale dunque a far conoscere il suo mistero: Qui Gesù avanza la pretesa di far conoscere il nome del Padre suo. Questo un semplice uomo non lo può fare. Come ciò è possibile? Gesù ne dà la motivazione: perché il Padre conosce il Figlio e viceversa:come il Padre conosce me e io conosco il Padre; e offro la vita per le pecore” (10,15). Nel prologo questo è già asserito chiaramente: “Dio nessuno l’ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato” (1,18). Desiderio di Gesù,e sua missione, è consegnare alla sua comunità, a ciascuno di noi, questa sua “conoscenza”, è rivelare il volto di Dio in modo da divenirne partecipi.

    Ma vediamo perché è importante questo aggancio a ciò che precede la Passione. Il capitolo 13, che corrisponde all’inizio dell’ultima cena, era iniziato in una maniera molto solenne che si rivela poco dopo sconcertante. Scrive l’evangelista che “conoscendo Gesù che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo li amò fino alla fine”. Gesù sapendo che ormai sta per andare incontro alla morte vuole manifestare al massimo (“fino alla fine) il suo amore, ed anticipare il significato della sua morte violenta.

    Ci immagineremmo chissà quale grande discorso, o gesto straordinario! Invece Gesù “si alzò da tavola, depose le vesti e, preso un asciugatoio, se lo cinse attorno alla vita. Poi versò dell’acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l’asciugatoio di cui si era cinto” (13,4-5). Gesù ci rivela il volto di Dio lavando i piedi ai discepoli. Non è un esercizio di umiltà da parte di Gesù ma un segno di rivelazione del suo mistero che apre al mistero di Dio.

    A Mosé che lo chiede non è concesso di vedere il volto di Dio: JHWH concede una visione “parziale”: “toglierò la mano e vedrai le mie spalle, ma il mio volto non lo si può vedere” (Es 33,22s). Pertanto la Legge non è incapace di aprimi alla visione del volto di Dio. Solo il Figlio che è nel seno del Padre “lui lo ha rivelato” (letteralmente solo lui ne può fare l’ “esegesi”). È come se l’evangelista ci avvertisse: “Da questo momento fissa la tua attenzione su quanto Gesù dice e fa e tutto quello che credi di sapere e di conoscere di Dio verificalo, confrontalo con quanto vedi e senti in Gesù”. Perché non è Gesù è uguale a Dio ma è Dio che è uguale a Gesù.  Se noi diciamo che Gesù è uguale a Dio significa che Dio già lo conosciamo, che sappiamo già che è. Ogni teologia deve far sempre e solo riferimento a Gesù: lui solo ne è piena e definitiva rivelazione.

    L’affermazione del prologo (1,18), viene riformulata nel capitolo 14, quando Filippo chiede a Gesù: “Mostraci il Padre e ci basta”. Gesù risponde: “Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me ha visto il Padre. Come puoi dire: Mostraci il Padre?” (14,9). Ora il desiderio espresso da Mosè è finalmente esaudito, ma attraverso una strada che l’uomo non avrebbe mai sospettato.

    La religione – adopero il termine religione sempre in senso riduttivo ovvero come sforzo dell’uomo di porsi in contatto con Dio il che è diametralmente opposto alla fede cristiana che riconosce che è Dio a farsi incontro all’uomo – inevitabilmente proietta in Dio paure, frustrazioni, desideri e ambizioni dell’uomo rendendo Dio lontano, inaccessibile, soprattutto temibile. Ora la religione fabbrica sempre un idolo: un dio fatto ad immagine dell’uomo. Se la religione insegna che l’uomo impuro deve purificarsi per essere degno di avvicinarsi al Signore. Gesù dimostra il contrario: accogli il Signore e sarà lui a purificarti.

    Così Gesù nella lavanda dei piedi ribalta totalmente la concezione “religiosa” che l’uomo coltiva nei confronti di Dio. Lavare i piedi era compito dello schiavo pagano: la gente andava in giro scalza e quindi calpestava sterco, immondizie, polvere. I piedi erano perciò la parte dell’uomo la più impura. Gesù non pretende che i discepoli si purifichino per essere da lui accolti ma è lui che si mette al loro servizio, e cominciando dalla parte più impura. Questo è il volto di Dio: un Dio che non arretra di fronte alla sporcizia che c’è nell’uomo.

    Dopo la lavanda dei piedi Gesù dice: “ho fatto conoscere loro il tuo nome”.  Il nome di Dio che Gesù ha fatto conoscere ai suoi è “Agape : un Dio che si mette a servizio degli uomini gratuitamente, totalmente, a fondo perduto. Un Dio che si mette a servizio completo dell’uomo: disposto a deporre la sua stessa vita per il suo bene. È questo il leit motiv che percorre la prima lettera di Giovanni: “Noi abbiamo riconosciuto e creduto all’amore che Dio ha per noi. Dio è amore (agape); chi sta nell’amore dimora in Dio e Dio dimora in lui” (1Gv 4,16). Non è vero dunque come afferma la religione che gli uomini devono servire Dio in qualità di schiavi, nella paura, perché Dio non è un tiranno e non ha bisogno di niente. È Dio, che è Padre, che prende invece l’iniziativa di scendere in mezzo all’umanità, di abitare in essa, di servirla. Il Signore si fa servo, perché coloro che erano considerati servi entrino nella categoria di signori. (Panis angelicus fit panis hominum; dat panis caelicus figuris terminum; O res mirabilis: manducat Dominum pauper, servus et humilis – trad. Il pane degli angeli diventa pane degli uomini; il pane del  cielo dà fine a tutte le prefigurazioni: qual meraviglia! il servo povero e umile mangia il Signore: sequenza Panis Angelicus).

    Ma non basta. Gesù aggiuge “E lo farò conoscere”. Qui si accenna alla “esegesi” più gloriosa del volto di Dio che avverrà nella sua passione e morte, scandalosa per l’uomo religioso, stoltezza per l’uomo chiuso nel suo ragionamento: entrambi rifiuteranno questa rivelazione (cfr 1Cor 1,23).  Il nome di Dio che Gesù farà conoscere nel brano della Passione sarà quello di Dio che è amore fedele e gratuito all’uomo ad ogni costo, che fino all’ultimo farà una proposta incessante d’amore per l’uomo nonostante egli “paghi” tutto questo con il dono della propria vita.

     

    Per la meditazione:

    Mi pongo davanti alla croce: quale il Nome di Dio che Gesù mi rivela?
    Sono disposto a farmi lavare i piedi da Gesù? Ovvero a lasciarmi amare da Lui? Oppure come Pietro avrò paura di questa rivelazione? Chiedo allo Spirito di liberarmi dalle false immagini di Dio e di imparare a non temere la gratuità dell’amore incondizionato di Dio, a lasciarmi abbracciare dalla gratuità da lui.

     

  • 15 Mar

    SIGNORE MIO E DIO  MIO
    Lectio di Gv 20,19-31

                               

                        

    Se al mattino il sepolcro vuoto dominava il racconto, alla sera lo domina la presenza di Gesù in mezzo ai suoi discepoli. Ma la ripresa delle relazioni é solo un primo passo.  Il seguente è l´invio dei discepoli.  Il terzo passo è il dono dello Spirito. L´ultimo passo è il potere di perdonare i peccati.  A partire dal v. 24 il racconto continua con il racconto di Tommaso, “uno dei dodici”.

    Apparizione agli apostoli e presentazione delle piaghe

    19.La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!».20 Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore.

    Il luogo è uno spazio chiuso per la paura. Gesù si fa presente in quello spazio, e la sua presenza comunica pace e infonde gioia. Al posto della paura, la pace. Il saluto pasquale produce la trasformazione, l´identificazione grazie alle ferite allontana il dubbio e il turbamento. La scena racchiude l´abbozzo di una celebrazione domenicale: il giorno del Risorto, la presenza di Gesù nella comunità, la riconciliazione per il perdono dei peccati, la memoria della passione, il dono dello Spirito. È la Pasqua settimanale.

    Il dono dello Spirito per la missione 

    21. Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi». 22.Detto questo, soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo. 23. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati».

    Per la seconda volta offre la pace. E con essa la missione. Non si tratta di una missione nuova, ma della stessa missione di Gesù, che si estende a tutti quelli che sono i suoi discepoli: essere testimoni dell´amore del Padre. Per realizzare questo compito ricevono la forza dello Spirito.

    Così come nella creazione dell´uomo, Dio gli trasmise la vita, così anche l´alito di Gesù comunica la vita alla nuova creazione.

    Cristo, che morì per togliere il peccato del mondo, già risuscitato, lascia ai suoi il potere di perdonare.

    In questo modo, il Signore non istituisce solo un sacramento; condivide il suo trionfo sul male e sul peccato. Dopo la risurrezione è possibile credere nel perdono perché il potere delle tenebre non è più il dominatore assoluto del mondo. Il risorto è il Signore, perché ha vinto la morte. Credere questo e lavorare di conseguenza è essere cristiano. Di lì che il perdono dei peccati sia per i discepoli di Cristo la ricchezza più grande della Chiesa. La capacità di perdonare è l´immagine più vera del Padre e la forza che permette di risolvere le grandi tensioni dell´umanità. Chi non sa perdonare, non sa amare. Nella riconciliazione si mostra l´amore più autentico.

    I dubbi di Tommaso

    24. Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Didimo, non era con loro quando venne Gesù. 25. Gli dicevano gli altri discepoli: «Abbiamo visto il Signore!». Ma egli disse loro: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo».26. Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c´era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, stette in mezzo e disse: «Pace a voi!».

    Tommaso, uno dei protagonisti del quarto vangelo, mostra il suo carattere dubbioso e facile allo sconforto. Si era dato una certa importanza invitando i compagni a morire con il Maestro (11,16), non sapeva dove andasse Gesù (14,5) e adesso rifiuta l´omaggio della sua fede nella risurrezione affermata dagli apostoli. Abbiamo visto il Signore! All´inizio del vangelo (Gv 1,41.45), Andrea, Giovanni e Filippo, quando incontrarono il messia, corsero ad annunciarlo ad altri. Adesso l´annuncio è ufficiale da parte dei testimoni oculari. Ma Tommaso non riesce a credere attraverso a dei testimoni. Vuole fare la  sua esperienza. Il vangelo è cosciente della difficoltà di qualunque persona per  aderire al Kerygma. Tommaso è disposto a  credere, ma vuole  risolvere personalmente  ogni dubbio. Gesù non vede in lui uno scettico  indifferente, ma un uomo alla ricerca della verità e  gli offre piena  soddisfazione.

    Gesù e Tommaso, otto giorni dopo

    27. Poi disse a Tommaso: «Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere più incredulo, ma credente!». 28. Gli rispose Tommaso: «Mio Signore e mio Dio!». 29. Gesù gli disse: «Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!».

    Gesù ripete le parole di Tommaso, entra in dialogo con lui, comprende i suoi dubbi e lo vuole aiutare. Gesù sa che Tommaso lo ama ed ha compassione per lui, perché non gode ancora della pace, che viene dalla fede. Lo aiuta a progredire nella fede. Signore mio e Dio mio! E´ la professione di fede nel Risuscitato e nella sua divinità come è proclamata anche all´inizio del vangelo di Giovanni (1,1) È la professione di fede pasquale nella divinità di Gesù, la più chiara e diretta. Gesù non corregge le parole di Tommaso, come aveva corretto quelle dei Giudei che lo accusavano di voler essere “uguale a Dio” (Gv 5,18ss), approvando così il riconoscimento della sua divinità. “Perché mi hai visto hai creduto? Beati quelli che credono senza aver visto”. Da un lato Giovanni pone in chiaro che aver convissuto fisicamente con Gesù non è criterio sufficiente per conoscerlo in profondità. D´altra parte, anticipa che questa conoscenza di Gesù si può dare anche in coloro che non hanno convissuto fisicamente con Lui. Si tratta di una realtà sentita intensamente nelle prime comunità cristiane. Questo testo ci offre la grande gioia di sapere che, oggi, possiamo cononoscere Gesù perfino meglio di quelli che vissero con Lui. Ci troviamo realmente nel tempo pasquale.

    Finalità del Vangelo di Giovanni

    30. Gesù, in presenza dei suoi discepoli, fece molti altri segni che non sono stati scritti in questo libro. 31. Ma questi sono stati scritti perché crediate che Gesù é il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome.

    Con queste parole terminava il quarto vangelo. La sua finalità non era quella di scrivere la vita completa di Gesù, ma di dimostrare che Gesù era il Messia, il Figlio di Dio. Credendo in Lui abbiamo la vita eterna. L´autore dà così conto della doppia finalità del suo scritto. La frase “perché crediate” non è diretta ai non credenti, per cercare di convertirli, ma ai credenti, per rafforzare la fede che già hanno. La finalità che riguarda Cristo si completa con l´altra che riguarda la salvezza: “perché abbiate la vita”. Il quarto Vangelo è essenzialmente un messaggio di salvezza, con l´annunzio esplicito di Cristo, come vero Salvatore. L´autore sa che questa non è una realtà assolutamente evidente. Per questo, forse, nel suo vangelo, non parla di miracoli, ma di segni. Il segno bisogna saperlo scoprire. Credere in Gesù non è un processo facile, perché esige sempre un rinnovamento nel modo di pensare e di agire da parte di colui, che si dice credente.

    Alcune domande

    – E´ possibile che qualcuno si professi cristiano, ma non creda nella Risurrezione di    Gesù? È  così importante credere in essa? – Che cosa cambierebbe se solo ci fermassimo agli insegnamenti e alla   testimonianza di vita di Gesù?
    – Che significato ha per me il dono dello Spirito per la missione?
    – Come continua, dopo la Risurrezione, la missione di Gesù nel mondo?

  • 09 Mar

    Sono ancora “malata d’amore”?

    Lectio di Ct 5,2-8

    Il concilio ebraico di Jamnia del 90 d.C. inserì il Cantico dei Cantici, dopo notevoli dispute, nel Corpus degli “Scritti” ispirati. Le dispute erano causate dalla apparente profanità del testo in cui non compare mai il nome di Dio. Rabbì Aqiba, principale difensore dell’ispirazione del Cantico, disse in quell’occasione che “il mondo intero non vale il giorno nel quale fu dato ad Israele il Cantico dei Cantici. Tutti i libri della Bibbia sono santi, ma il Cantico è il più santo di tutti”. Infatti la tradizione biblica sia ebraica che cristiana riconobbe sempre, senza alcun timore, il piccolo libro del Cantico dei Cantici come ispirato perché vi lesse non solo la bontà e la bellezza dell’amore umano creato da Dio (cfr Gen 1), bensì il suo rimando al grande tema dell’alleanza sponsale che intercorre tra Dio e Israele, e di riflesso tra Cristo e la sua Chiesa, tra il Signore e l’anima di ciascun credente. In quel libretto, per usare l’espressione di san Tommaso d’A., la fede vi vede racchiusa “la ricchezza dell’amore divino” per l’intera umanità.
    Un’autentica vita di consacrazione vive e cresce unicamente se attinge incessantemente alla sorgente dell’amore sponsale di Dio per noi. Senza amore la vita, per tutti, diventa solo peso e incubo, routine malamente sopportata e sempre bisognosa di scappatoie più o meno nevrotiche. Affermare che il nostro essere discepoli ha la sua radice nell’esperienza dell’amore sponsale di Dio per noi significa ricordarci sempre che non viviamo di un ideale, di un progetto, o di una filosofia: viviamo dentro una relazione che ha un volto ben preciso sempre vivo e presente: quello di Gesù di Nazaret. Il documento vaticano “Ripartire da Cristo” (CIVCSVA, 2002) è un forte richiamo a questa realtà:  “Ripartire da Cristo significa ritrovare il primo amore, la scintilla ispiratrice da cui è iniziata la sequela. È suo il primato dell’amore. La sequela è soltanto risposta d’amore all’amore di Dio. Se «noi amiamo» è «perché egli ci ha amato per primo» (1 Gv 4, 10.19). Ciò significa riconoscere il suo amore personale con quella intima consapevolezza che faceva dire all’apostolo Paolo: «Cristo mi ha amato e ha dato la sua vita per me» (Gal 2, 20)” (n.23).
    Ci domanderemo alla luce della Parola: il mio rapporto con Dio sgorga dalla sorgente del sentirmi amato da lui (cfr Gal 2,20)? Questo suo innamoramento riempie e scalda il mio cuore, lo rende vigilante affinché non venga meno la mia risposta alla sua offerta? Oppure la mia relazione con Dio, venendo meno l’amore, si sta trascinando sull’onda del dovere, della legge, delle cose da fare, quasi che ormai Dio fosse assente? Non è che mi ritrovo così preoccupato di me stesso da lasciarmi sfuggire di mano l’essenziale ritrovandomi così spaesato e vuoto, incapace di “correre nella notte” perché non attendo più nulla? E infine: il mio cuore è ancora “malato di amore” per il Cristo sposo di sangue?
    Invochiamo lo Spirito santo perché apra mente e cuore all’ascolto della Parola di vita e riaccenda in ciascuno il desiderio di ritrovare la “fiamma del primo amore”: “Lo Spirito Santo effettuerà in me una continua incarnazione del Verbo: io posso dare al Verbo un cuore umano per amare ancora nel tempo i fratelli e il Padre, gli posso dare le mie membra e il mio spirito perché vi compia “ciò che manca alla passione per il Corpo di Lui che è la Chiesa”. Lasciar vivere Gesù in me: lui la mia umiltà, la mia purezza, la mia carità, la mia pazienza, la mia forza, la mia amabilità. Sparire per lasciar regnare lui; non devo imitare Gesù ma rimanere io; devo sparire e lasciar vivere lui divenire il mio io, le specie trasparenti che nascondono Cristo” (Maria Gubbi).

    Lectio

    Dopo l’esultanza gioiosa dell’ “incontro nel giardino” (c.1), il testo ci riporta in un’atmosfera profondamente diversa: alla solarità si sostituisce un notturno non privo di incubi e sofferenze, all’abbraccio subentra l’esperienza della solitudine, alla dolce presenza dell’amato quella di un’angosciosa assenza.
    E’ notte tarda e tutti dormono. Anche la ragazza ci si presenta “addormentata” (v.2) nel suo letto. Eppure ella ribadisce che “il suo cuore rimaneva sveglio”: il ricordo dell’amato non viene mai meno in lei, neppure durante il sonno. Il cuore rimane vigilante a motivo dell’amore che continuamente vi pulsa: esso è come un fuoco sempre acceso (cfr 8,6), come il cuore che incessantemente pulsa la vita.  E’ motivo insistente nella Scrittura (soprattutto nella tradizione deuteronomista) l’invito alla “sposa” Israele a non dimenticare mai l’amore del suo sposo Jhwh: “Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze. Questi precetti che oggi ti dò, ti stiano fissi nel cuore; (Dt 6,4-6). Il farne incessante memoria è condizione perché l’alleanza con JHWH rimanga viva e non venga dimenticata (cfr Gr 2,32).
    Nel cuore della notte “un rumore” improvviso fa sobbalzare la giovane: è il suo innamorato che sta bussando alla porta chiedendo di entrare. È una visita inaspettata come tante visite di Dio che non possono essere programmate (cfr Gv 20,19). Gesù amerà paragonare la venuta del Figlio dell’Uomo alla sortita di “un ladro nella notte” (Lc 12,39; Gv 10,1; 1 Tess 5,2…).
    L’innamorato alla porta insiste: «Aprimi, sorella mia, amica mia, colomba mia, mio tutto!». Usa una cascata di vocativi a cui si aggiunge (come in 6, 9) l’appellativo tipico che sta ad indicare l’unicità dell’amore vero: «Mio tutto». Come non riandare al testo dell’Apocalisse dove il Risorto si presenta mendicante alla porta chiedendo di entrare? “Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me” (Ap 3,20). L’entrare nel talamo o il cenare insieme sono immagini che dicono in fondo la stessa realtà: il desiderio della condivisione, la passione di una comunione vicendevole.
    La scusa addotta dal giovane per entrare  è che la notte è fredda e i suoi capelli sono “madidi di rugiada” (cfr Gdc 6,37-40). L’amato porta con sé la rugiada che nella Scrittura simboleggia il dono della grazia – la vita – che JHWH riversa continuamente su Israele sua sposa ( “sarò come rugiada per Israele” Os 14,6; cfr Sal 109,3; Dt 33,28).
    Al bussare del giovane, la donna si fa desiderare mostrandosi quasi indifferente (v. 3). Si tratta forse di una capricciosa ritrosia tipicamente femminile, una tipica schermaglia d’amore. Ella avanza scuse banali per farlo attendere alla porta: è già a letto e poiché deve scendere e andare alla porta si sporcherebbe i piedi. Mentre l’innamorato le offre il suo capo coronato di riccioli e pregno di rugiada l’amata sembra preoccupata dei suoi piedi! Queste scuse e rimandi sono il sale dell’amore, ma possono degenerare nell’incomprensione, nella gelosia, nell’allontanamento. L’amore infatti raramente ammette troppi ritardi e lungaggini! Nel sottofondo udiamo la voce del Dio innamorato che chiede alla sua sposa-Israele un’alleanza senza troppi rimandi: “Ascoltate oggi la sua voce: Non indurite il cuore” (Sal 94,8); “Egli dice infatti: Al momento favorevole ti ho esaudito e nel giorno della salvezza ti ho soccorso. Ecco ora il momento favorevole, ecco ora il giorno della salvezza! (2Cor 6,2).
    Dinanzi a questa ritrosia della fidanzata il giovane innamorato non si rassegna e tenta un’ultima strada per entrare cercando di forzare la serratura della porta che lo tiene lontano dal suo amore (v. 4). Con la mano cerca, attraverso una fessura, di sollevare il chiavistello. È un modo furtivo per ribadire la sua passione e il suo ardente desiderio di entrare e risvegliare nell’amata il desiderio amoroso. Dio non desiste mai, non si arrende, nei suoi tentativi per rinnovare la sua alleanza con la sua sposa e la storia della salvezza ne è chiara testimonianza (cfr Is 5,1ss; Ebr 1,1).
    La ragazza, appena sente che la mano del suo amato armeggia al chiavistello viene percorsa da un fremito d’amore e di gioia (le sue viscere fremono). È lo stesso sentimento di tenerezza che è applicato nelle Scritture vetero e neotestamentarie alle “viscere” misericordiose di Dio per il suo popolo (cfr Gr 4,19; 31,20; Is 16,11; Mt 15,32; Mc 8,2…).
    Subentra però improvviso il silenzio: la ragazza capisce che è successo qualcosa di grave. Si alza immediatamente dal letto senza più alcuna tergiversazione per aprire all’amato (v.5). Nell’armeggiare la serratura le sue mani si ungono di unguento di preziosa mirra profumata. L’amato ha lasciato la sua impronta, quasi un alone della sua presenza: il profumo è segno dell’intimità, e soprattutto della gratuità dell’amore (1,13; 4,6; cfr Gv 12,23). La sapienza, nel libro dei Proverbi, predispone il talamo per i suoi amanti preoccupandosi che non manchi “il profumo di mirra” (17,7).
    La porta spalancata si apre solo sul buio e sul silenzio  della notte (v. 6). L’innamorato si è dissolto come un’ombra (cfr Sal 144,4). E mentre poco prima la fidanzata si sentiva quasi svenire di gioia e di emozione, ora: “viene meno per la sua scomparsa”. Ella chiama per nome l’amato: silenzio e vuoto la circondano.
    L’innamorata non si può ormai dar pace, non si rassegna alla perdita: violando tutte le norme del buon senso, superando i condizionamenti sociali, mossa solo dal suo desiderio di ritrovare il suo amore, esce sola dalla sua casa e inizia a percorrere nella notte fredda e pericolosa  vicoli e piazze della città alla ricerca affannosa del suo amore (v.7, cfr Gr 31,22 in cui la figlia di Israele infedele diventa vagabonda). È una ricerca disperata che non porta a nulla di fatto. È il dramma dell’assenza, della solitudine che sperimentiamo nelle nostre relazioni, ma è anche il dramma del silenzio di Dio che percorre tante pagine della Scrittura: “Ascolta, Signore, la mia voce. Io grido: abbi pietà di me! Rispondimi. Di te ha detto il mio cuore: «Cercate il suo volto»; il tuo volto, Signore, io cerco. Non nascondermi il tuo volto” (Sal 26,6-8) ; “Perché, Signore, stai lontano, nel tempo dell’angoscia ti nascondi?” (Sal 9,22).
    Ma è un’assenza che costringe a cercare, a porsi in cammino verso colui che ci viene incontro. Ad un andare sempre oltre, come “oltre” è sempre il mistero dell’Altro: “Voi mi cercherete, e non mi troverete; e dove sono io, voi non potrete venire” (Gv 7,34).
    All’improvviso appare una ronda delle guardie della città (v.7) e la ragazza viene scambiata per una prostituta in cerca di chissà quali avventure. È la stessa scena presentata in 3,3-4 ma qui c’è un particolare nuovo: ella ora viene ferita mentre le viene strappato di dosso il velo che la nasconde. La ricerca dell’amore non è mai senza dolore e sofferenza!
    Ma nonostante l’umiliazione e le ferite l’innamorata ancora non si arrende (v. 8). Lancia un appello alle  «figlie di Gerusalemme» perché si associno a lei nella ricerca del suo amato di cui non può far a meno. E nel caso lo trovino ella dice di riferirgli da parte sua un unico messaggio, quello stesso che aveva già loro affidato in un momento più felice (2,5): «Sono malata d’amore, io!» (v.8; nei LXX “sono ferita dall’amore”).
    Così una notte serena, piena di attese e di emozioni amorose, è approdata alla tragedia di una scomparsa e di una ricerca affannosa e disperata: ma questa forse è la condizione per una riscoperta della preziosità dell’amore ancora più profonda e appassionata.

    Meditatio

    San Bernardo abate di Clairvaux, fu uno dei più grandi commentatori medievali del Cantico dei Cantici. Un testo altamente amato da tutta la tradizione monastica. In un passo egli afferma una realtà di fondamentale importanza per la vita religiosa:  “grande cosa è l’amore se si rifà al suo principio, se ricondotto alla sua origine, se riportato alla sua sorgente. Di là sempre prende alimento per continuare a scorrere”. In altre parole: se l’amore vuole continuare a divampare come fuoco deve alimentarsi alla sua sorgente, altrimenti si spegne.
    Nella vita cristiana e di consacrazione questa sorgente è nella fede, nella certezza che Dio ti ha amato e ha donato il suo Figlio per te perché ti desidera in comunione con lui per tutta l’eternità (cfr Gv 3,16). Non per nulla il Concilio Vaticano  dichiara che “i religiosi davanti a tutti i cristiani evocano quel mirabile connubio voluto da Dio e che si manifesterà pienamente nel secolo futuro, il connubio per la cui la Chiesa ha Cristo come suo unico sposo”  (PC 25).
    La memoria di questo “mirabile connubio” deve rimanere ben sveglia in te: “Io dormo ma il mio cuore veglia” (v.2). Hai bisogno di un cuore che non si addormenti; e ogni aspetto della tua vita dovrebbe aiutarti a raggiungere questo scopo: “I consigli evangelici hanno senso in quanto aiutano a custodire e favorire l’amore per il Signore in piena docilità alla sua volontà; la vita fraterna è motivata da lui che raduna attorno a sé ed è finalizzata a goderne la sua costante presenza; la missione è il suo mandato e muove alla ricerca del suo volto nel volto di quelli a cui si è inviati per condividere con loro l’esperienza di Cristo” (Ripartire da Cristo, n.22).
    Lo sposo dalla mano trafitta “bussa” discretamente e incessantemente alla tua porta, di certo non la sfonda con la violenza perché è rispettoso della tua libertà, perché questa è condizione essenziale alla gratuità dell’amore su cui si fonda la tua vita: “Benché sia capace di entrare non vuole introdursi con forza. Non vuole costringere coloro che si rifiutano. Beato dunque colui alla cui porta il Cristo bussa. Ma ascolta colui che bussa, ascolta colui che desidera entrare in modo che lo sposo al momento della sua venuta non si ritiri perché la casa è chiusa per lui” (Sant’Ambrogio).
    Hai bisogno di lasciar entrare lo sposo nell’intimità della tua vita se vuoi gioire dell’amicizia con lui: se non accadesse perderesti il senso della tua scelta, perderesti il senso del tuo servizio, il senso della tua stessa vita. Tutto alla fine ti apparirebbe vuoto e tu sprofonderesti in una interminabile notte senza alcuna attesa. Ricorda che la tua sequela non consiste soltanto e anzitutto in una imitazione esterna dei gesti e delle parole del tuo Signore e sposo, bensì necessita di una stretta unione nuziale con lui. E’ questa la condizione di una vita consacrata feconda di frutti: “Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può far frutto da se stesso se non rimane nella vite, così anche voi se non rimanete in me” (Gv 15,4; cfr Rm 6,5).  A chi spalanca la porta allo Sposo che bussa all’improvviso egli promette la gioia della sua amicizia: “Io cenerò con lui ed egli con me” (cfr Ap 6,23).
    Sarebbe inutile per te avere occhi vigili alle tante cose da fare, ai compiti e ruoli da svolgere, l’indaffararti a volte frenetico nelle tue mille attività e accorgerti ad un certo punto d‘avere un cuore spento, in cui non pulsa l’amore per l’Amato, che chiedeva di entrare per dare senso ad ogni cosa. Siano vere per le parole della “Perfectae Caritatis”: “Quanto più fervorosamente si uniscono a Cristo con la donazione che abbraccia tutta la vita, tanto più rigogliosa diventa la vita della Chiesa e il suo apostolato si fa vigorosamente fecondo” (n.12).
    Potresti portare la scusa di non avere tempo, di aver tante cose da fare “per lui”, ma di non aver tempo per stare “con lui”.  Se ciò accadesse lentamente sprofonderesti in una sorta di “addormentamento” in cui i tuoi riflessi interiori non più vigili divengono sempre più lenti, intorpiditi e alla fine incapaci di cogliere la visita della grazia. Come la ragazza del Cantico faresti fatica ad acconsentire – lei così troppo occupata, civettuola e centrata su se stessa – ad alzarti immediatamente al bussare dell’amato. Invece di lasciarti prendere dal desiderio dell’amore per stare finalmente e totalmente accanto all’amato nudo e bagnato com’è dalla rugiada del suo sangue, vorresti ancora ricoprirti della “tua” veste, quella dei suoi desideri, della stima dinanzi al mondo ritardando così l’incontro. Non dimenticare che il tuo unico desiderio è di “seguire nudo Cristo nudo” (s. Gerolamo). I tanti rimandi, le pigrizie, i ripiegamenti su di te fanno sì che il tuo “io” abbia il sopravvento sul desiderio e la bellezza dell’unione sponsale a cui un giorno ti ha chiamato. Nella tua vita interiore c’è sempre il rischio di divenire col tempo accomodante, facile al compromesso. Nulla di più pericoloso di una sublimazione che mascheri la non voglia di piegarsi a tutte le esigenze concrete di una relazione autentica che va coltivata con somma cura. Scrive san Giovanni della Croce che ha amato in particolar modo il Cantico dei Cantici: “Chi rifiutasse di uscire nella notte in cerca dell’amato ed essere spogliato e mortificato della sua volontà, e volesse cercarlo nella tranquillità del suo letto, come faceva la sposa, non lo troverebbe” (s. Giovanni della Croce, Notte oscura). Non dare per scontato una relazione sponsale con Cristo: essa va coltivata, protetta e rinnovata ogni giorno con somma cura.
    Troppe volte invece purtroppo accade che la presenza dell’Amato si dissolva dalla vista e al suo posto subentri un vuoto insopportabile. Se si vuole uscire da questa insopportabilità che oggi assale talvolta la vita di singoli consacrati e di intere comunità vi è una sola via di guarigione. Uscire nuovamente da noi stessi e metterci, anche se è notte, in cammino. Il “mendicante dell’amore” (Sant’Agostino) va cercato e inseguito di nuovo. Allora l’amata imparerà, nel dolore dell’assenza e in una dolorosa ricerca, non solo a conoscere nuovamente l’Amore, ma anche a misurarne l’unicità e quando gli sia impossibile farne a meno.
    Questo è grazia! L’amore viene così a scuoterti dal tuo intorpidimento quasi obbligandoti nuovamente alla sequela “Egli veglia, anzi non dorme, ma riposa sempre accanto al nostro cuore e, insistentemente, lo ferisce per dirgli: Aprimi!” (Luis de Lèon). Inizia così per te una corsa “senza indugio” (Lc 24,33.
    Per metterti alla ricerca dovrai lasciare la tua comoda stanza e metterti in cammino sopportando incertezze, umiliazioni, percosse e forse il disonore. Ti esporrai al rischio del buio della strada e delle sue incognite. Sarà un andare sempre oltre le tappe già raggiunte. Ma nel tuo cuore arderà nuovamente il desiderio dell’essenziale, se non ti lascerai sopraffare dallo scoraggiamento. D’altra parte non si misura l’amore se non nella fedeltà e nella perseveranza con cui lo si cerca:  “Ti ho consacrato tutta la mia vita: ora, mio sposo, vengo a te con la lampada accesa” (Liturgia delle Ore).
    La notte del carnevale del 1367 ad una giovane senese, Caterina Benincasa, appare Cristo accompagnato dalla Vergine e da una folla di santi. A Caterina in quel tempo provata e umiliata in ogni modo, ma assetata dell’amore di Cristo, il Signore in veste di sposo dona un anello nuziale. La visione sparisce, Cristo sembra dissolversi, ma l’anello rimane visibile a lei sola quale testimone silenzioso di un amore che mai viene meno.

    Oratio

    Terminiamo la nostra lectio con una preghiera tratta dalla divina liturgia dei nostri fratelli d’oriente. Ringraziamo con essa il Cristo sposo per la sua alleanza nuziale con ciascuno di noi. A lui nudo sulla croce chiediamo di essere spogliati della nostra pigrizia, dimenticanza, e superficialità nel vivere la nostra consacrazione che è patto d’amore con lui che per primo ci ha amato. Che il cuore non si raffreddi nell’attesa della sua venuta e rimanga vigile e desideroso d’incontrarlo quando egli busserà alla porta. Sia Lui stesso allora a rivestirci della veste nuziale, quella stessa di coloro che seguono l’Agnello.
    O Sposo bellissimo,
    che ci hai invitato al convito spirituale del tuo talamo,
    spogliami della veste dei peccati con la partecipazione alle tue sofferenze
    e, ornandomi con la veste di gloria della tua bellezza,
    rendimi splendido commensale del tuo Regno,
    “Andiamogli incontro…” .
    Stringiamoci attorno “al più Bello tra i figli dell’uomo” con i segni della bellezza.
    Santo Dio, Santo forte, Santo immortale abbi pietà di noi.

  • 03 Mar

    La trasfigurazione Pasqua anticipata
    Mc 9,2-10

    Lectio

    Con Gesù non si finisce mai… Appena sei giorni fa’, a Cesarea di Filippo, i Dodici hanno riferito al Maestro le opinioni della gente sul suo conto – chi pensa che sia il Battista ritornato in vita, chi Elia, chi uno dei profeti – ma lui li ha subito spiazzati con quella domanda tagliente: “Ma voi chi dite che io sia?”. Solo Pietro ha detto le parole giuste, che il Padre gli ha messo nel cuore e sulle labbra: “Tu sei il Messia”. La risposta è vera – è l’unica esatta – ma l’idea di Messia che il primo dei Dodici si porta in cuore non combacia affatto con quella di Gesù. L’idea di Gesù prevede per il Messia una dolorosa passione e addirittura una morte ignominiosa. Pietro invece sogna successi, vittorie e trionfi e, al solo sentire di un Messia sconfitto, si è subito ribellato con violenza brutale, al punto che la sua “confessione” o riconoscimento di Gesù come Cristo si è risolta in una drammatica “sconfessione” da parte dello stesso Cristo: “Via da me, satana! Tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini”.

    Chi è dunque Gesù? La trama del testo di Marco è tessuta sull’ordito di un filo tanto sottile quanto tenace, il filo di quell’interrogativo ricorrente: ma chi è veramente Gesù di Nazaret? Ora siamo al settimo giorno dall’incontro-scontro di Cesarea di Filippo. Questo dettaglio a prima vista puramente cronologico, acquista un emblematico colore teologico: vi si intravede in filigrana l’esperienza di Mosè al Sinai: “Mosè salì sul monte e la nube coprì il monte. La gloria del Signore venne a dimorare sul monte Sinai e la nube lo coprì per sei giorni. Al settimo giorno il Signore chiamò Mosè dalla nube” (Es 24,13-16).

    Dunque sei giorni dopo i fatti di Cesarea di Filippo, ebbe luogo la trasfigurazione. Ci è stato proclamato il racconto nella versione di Marco, ma l’evento viene riportato anche da Matteo e da Luca: si tratta di testi “di una tale ricchezza che, se fanno la gioia del contemplativo, spesso mettono in imbarazzo l’esegeta e lo storico” (Léon-Dufour). Conviene quindi scomporre il brano nei vari elementi che lo strutturano, prima di contemplare l’evento in una visione unitaria. Il primo è il particolare cronologico dei “sei giorni dopo”, appena evidenziato.

    Il secondo elemento è il monte alto. Nella storia delle religioni è sulle montagne che gli dèi hanno la loro residenza ed è lì, sulle alte cime, che il cielo incontra la terra. Il monte Sinai è il luogo della rivelazione per eccellenza, in cui Mosè ricevette le tavole della Legge, e dove anche Elia salì, a ritemprare la sua fede alle sorgenti della rivelazione del Signore (cfr. 1Re 19). Il monte della trasfigurazione viene identificato dalla tradizione nel Tabor, ma l’assenza di localizzazione nei sinottici è eloquente: la montagna in cui Dio viene a parlare al Figlio suo trasfigurato è il nuovo Sinai. Va colta anche una intenzione neanche troppo velatamente polemica: scegliendo questo monte anonimo, Dio ha rigettato la piccola collina su cui era costruita Gerusalemme, il santo monte di Sion. Secondo la topografia teologica degli evangelisti, non sarà Gerusalemme il luogo dell’ultima rivelazione di Dio, ma la Galilea delle genti, anzi è l’al di là della Galilea che riceve ora la visita di Dio.

    Il terzo elemento è la gloria: Gesù “si trasfigurò davanti a loro. Le sue vesti divennero splendenti, bianchissime”. Non si tratta tanto della tonalità di un colore, ma dello splendore della gloria divina che fa risplendere il volto di Gesù come il sole e fa brillare le sue vesti come la luce (Matteo). La gloria che Gesù, sei giorni prima, aveva appena annunciato a Cesarea per la fine dei tempi, quando “il Figlio dell’uomo verrà con gli angeli santi nella gloria del Padre” (Mc 8,38), viene ora anticipata sotto lo sguardo abbagliato dei tre testimoni. Se è vero che la gloria appartiene a Dio, unico essere glorioso in senso proprio, perché unico veramente santo, ora essa risplende sul volto di Gesù, non come un semplice riflesso della gloria di YHWH – come per Mosè – ma come lo splendore che rivela l’intima sua identità: egli è lo stesso Dio.

    Accanto a Gesù appaiono Mosè ed Elia: è il quarto dettaglio della teofania. Rappresentano rispettivamente la Legge e i Profeti. In particolare, Mosè, il portavoce di Dio, viene a salutare il profeta definitivo, da lui stesso annunciato (Dt 18,15); Elia doveva essere il precursore del Messia. Ambedue erano saliti al Sinai; con la loro apparizione su questo monte – il nuovo Sinai – annunciano che è giunto il tempo della nuova ed eterna alleanza.

    Con la sua proposta di fare tre tende – è il quinto particolare – Pietro conferma il senso escatologico della visione: la tenda infatti era un segno della visita di Dio che viene ad abitare in mezzo al suo popolo (cfr. Os 12,10). Pietro vorrebbe quindi inaugurare il cielo sulla terra, perché l’apparizione di un giorno duri per sempre. Ma l’evangelista Marco annota: “non sapeva cosa dire, poiché erano stati presi dallo spavento”. Ora questa frase rassomiglia stranamente all’osservazione che segue il terzo tentativo, da parte di Gesù, di trovare conforto al Getsemani nei discepoli addormentati: “non sapevano che cosa rispondergli” (Mc 14,40). Le due scene sono affini: gli stessi testimoni privilegiati, lo stesso sbalordimento, qui davanti alla gloria, là davanti all’umiliazione di Gesù. Nei due casi i tre discepoli rimangono in presenza di un mistero incomprensibile.

    Il sesto particolare della scena è la nube: “e venne una nube che li avvolse nella sua ombra”. La nube è il segno inequivocabile della manifestazione di Dio, come lo era stata sul Sinai, sulla tenda del convegno durante la marcia nel deserto, e sul tempio di Salomone, all’atto della consacrazione del nuovo edificio. La nube, che ricopre e protegge, è in qualche modo una tenda per Dio stesso: delle nubi, infatti, egli fa la sua tenda (cfr. Sal 18,12).

    Infine, come ultimo elemento, va registrata la voce dalla nube: è la stessa voce già ascoltata al Giordano, che aveva presentato Gesù come il Figlio e il Servo del Signore. Ora a quelle parole si aggiunge il comando: “Ascoltatelo!”. Ai discepoli dubbiosi e timorosi, Dio in persona parla e dice che essi possono, devono ascoltare e obbedire, devono e possono avere fiducia in Gesù e seguirlo sulla via che ha intrapreso: è la via della croce che prevede la tappa del Golgotha, ma poi culminerà nella risurrezione.

    Meditatio

    L’evento della trasfigurazione “ha inaugurato un giorno ciò che rimane ogni giorno il compito del cristiano: lasciar irradiare il mistero pasquale nel presente del suo cammino doloroso, già prima della sua consumazione nella gloria (…)” (Léon-Dufour). Grazie a tale anticipazione della gloria definitiva in una esperienza precaria, continuamente minacciata, il cristiano sa bene che il cielo è disceso sulla terra, l’eternità è entrata nel tempo, mentre la tela della felicità viene intessuta con il filo del dolore, vissuto con fede.

    Prima di concludere, non possiamo non fissare almeno alcune domande:
    –    c’è stato nella mia vita un momento in cui ho sperimentato una “trasfigurazione” di Gesù ai miei occhi, in cui l’ho visto finalmente per quello che egli veramente è: il Figlio di Dio, mio salvatore?
    –    da allora si è fatta sempre più frequente e intensa nella mia vita l’esperienza dell’ascolto della sua parola?
    –    vado via via assimilando il “pensiero di Cristo”, per vedere la storia come Lui, per giudicare la vita come Lui, per scegliere e amare come Lui, per vivere in Lui la comunione con il Padre e lo Spirito Santo?
    –    E agli altri dico solo quello che so su di Lui o soprattutto quello che ho imparato da Lui?
    –    Chi mi incontra, vede in me almeno qualche tratto di somiglianza con Gesù?

    Ora, dopo aver ascoltato il Signore che ci ha parlato, siamo invitati ad incontrarlo nel segno del pane condiviso. La realtà del Cristo rimane ancora velata. Tuttavia l’eucaristia ci fa partecipare al movimento della sua vita: entriamo nella sua morte per accedere – nell’attesa della sua venuta – alla luce della sua risurrezione. Ed è già Pasqua.

    Oratio

    È veramente cosa buona e giusta,
    nostro dovere e fonte di salvezza,
    rendere grazie sempre e in ogni luogo
    a te, Signore, Padre santo,
    Dio onnipotente ed eterno,
    per Cristo nostro Signore.
    Egli, dopo aver dato ai discepoli
    l’annunzio della sua morte,

    sul santo monte manifestò la sua gloria
    e chiamando a testimoni la legge e i profeti
    indicò agli apostoli che solo attraverso
    la passione possiamo giungere
    al trionfo della risurrezione.
    E noi, uniti agli angeli del cielo,
    acclamiamo senza fine la tua santità,
    cantando l’inno di lode:
    Gloria al Padre…….