PERCHÉ DIVENTI VITA VISSUTA
E. CITTERIO: in L. GUCCINI, Vita consacrata: le radici ritrovate, EDB, Bologna, 2006, pp. 225-240
La costatazione di fondo che si rileva guardando oggi in generale l’esperienza e la pratica cristiana nella chiesa sembra questa: la santità non fa più sognare. Oserei dire: la santità cristiana non fa più sognare. Il Concilio Vaticano II, con il capitolo V della Lumen Gentium, consacrava come acquisito in modo nuovo alla coscienza ecclesiale il dato tradizionale della universale vocazione alla santità nella chiesa. Paradossalmente, negli anni successivi, si registrava nettissimo il declino del culto dei santi a favore, giustamente, della centralità della Parola di Dio e della figura di Cristo, ma con la conseguenza o, forse meglio, la concomitanza, della messa in sordina dello stesso ideale di santità, come se la possibilità dell’esperienza stessa di Dio, tratto peculiare della santità, non fosse più percepito come costitutivo dell’essere cristiani e dell’essere chiesa. La VC nel suo insieme lo registrava in modo marcato. E quello che si può dire riferito all’ideale di santità lo si può estendere alla VC nel suo insieme.
Sembra che le immagini tradizionali di santità che agiscono come clichés mentali non interessino più le energie vive della coscienza moderna, che si direbbe alimentarsi altrove. Se ci si interroga su chi sia un santo o su come ce lo si immagina oggi, emerge l’immagine stereotipa, ingombrante, senza più presa sull’immaginario interiore, del santo come dell’uomo ‘perfetto’, al di sopra delle fragilità e dei tormenti dell’esistenza, un modello impossibile da imitare o comunque tanto distante che non concerne più la nostra vita vera. E’ l’immagine a sfondo moralistico che tiene ancora banco nelle pieghe della coscienza cristiana. Santità confusa con perfezione, dove perfezione è intesa riduttivamente come ideale morale e basta. Di contro, si vorrebbe suggerire la figura possibile di un santo nei termini di un ideale che la modernità ha evidenziato con prepotenza e che si presenta con la forza di ciò a cui non si può rinunciare, l’ideale della autenticità, della realizzazione di se stessi, della fedeltà a se stessi nella totalità di un impegno di vita, figura, questa, che ispira fascino e ammirazione. A differenza di cinquant’anni fa, non ci si stupisce di trovare un ‘santo’ oltre i confini della chiesa o della propria chiesa; non fa problema ammirare esperienze e persone in contesti differenti, nelle più disparate situazioni di vita e in religioni diverse. E ciò accresce la difficoltà di riconoscersi globalmente e significativamente in quelle esperienze, spesso in contrasto con le proprie radici. Di qui il senso di frammentazione e confusione dell’umanità nella nostra società e nell’esperienza della stessa VC.
La vita consacrata, in tutte le sue forme, nella chiesa, ha sempre comportato un ‘magistero spirituale’, vale a dire ha offerto alla chiesa il dono di quel ‘supplemento’ d’anima all’esperienza cristiana lasciando presagire la potenza dello Spirito che lavora i cuori aprendoli al regno di Dio e aprendo il regno di Dio ai cuori. Ma dire ‘magistero spirituale’ significa alludere alla possibilità concreta di una santità che parli ai cuori, che riverberi lo splendore della presenza di Dio vicino al suo popolo. Essenzialmente a questo mi sembri rimandi il ritorno al vangelo invocato per la vita consacrata.
Ritornare al vangelo esprime assai bene la legge costante che ha caratterizzato, nella storia, ogni ripresa spirituale nella chiesa per ridare vitalità e profondità alla sua azione : il ritorno alle fonti. E’lo stesso principio che ha guidato la riforma del Concilio Vaticano II. Non è tipica di oggi; è tipica dei passaggi ‘significativi’ della storia della chiesa, di tutte le chiese. Ecco dunque la prima questione: cosa significa per noi, oggi, ritornare al vangelo? Non è poi così immediato da assimilare il mistero del regno dei cieli annunciato dal vangelo, sebbene non sia per nulla complicato. La domanda vera allora credo possa suonare così: come fare, come disporci per assimilare la ‘potenza’ del vangelo? E’ la questione delle radici, del fondamento, da non confondersi con quella degli ideali. L’ideale è più una questione di investimento psichico, il fondamento riguarda le energie del cuore. L’ideale ha bisogno di entusiasmo, il fondamento di intelligenza spirituale. E mi sembra che oggi manchi più l’intelligenza spirituale che l’entusiasmo.
Porre la questione delle radici significa, in altre parole, introdurre il discorso sulla santità possibile, vale a dire sull’amabilità e la possibilità di vivere senza vergogna e senza illusione, in comunione con Dio, nella grazia di una ritrovata fraternità allargata a tutti e scaturita da una visione teologica di chiesa come comunione, secondo la rivelazione e la responsabilità che scaturiscono dal Vangelo. La santità non risponde ad un ideale, ma riguarda il fondamento. Se non diventano vere per noi stessi le parole di Paolo: “Voi non siete più stranieri né ospiti, ma siete concittadini dei santi e famigliari di Dio” ( Ef. 2,19), se Dio per noi risulta straniero, riusciremo mai a far sentire a casa sua un fratello nel nostro cuore? Quando si riceve un’afflizione, un’ingiustizia, vera o presunta, come accogliere in pace il fratello se non mi sono mai sentito accolto dalla dolcezza del perdono di Dio per me? A partire da questa esperienza personale con Dio possiamo sperare di sanare i nostri rapporti con il prossimo e con il mondo.
Ogni discorso sulla vita consacrata non può che svilupparsi a partire da qui. Così, la distinzione delle varie forme di vita nella chiesa, tra ‘vita monastica’ e ‘vita nel mondo’, tra ‘vita religiosa’ e ‘vita laica’, risulta del tutto relativa rispetto all’unica cosa fondamentale, cioè la vocazione alla santità, alla vita nello Spirito. Se nella tradizione latina parliamo, rispetto alla vita religiosa, di ‘consigli evangelici’, nelle fonti orientali si parla di ‘comandamenti evangelici’, di ‘comandamenti del Signore’, valevoli per tutti e che, evidentemente, ciascuno è chiamato a vivere nel proprio stato di vita.
Porre la domanda sulla santità che parli ai cuori da dentro la nostra storia, significa rispondere a queste tre interrogazioni:
1) quale porta di accesso al mistero di Dio
2) quali attese dei cuori
3) quale responsabilità specifica
1) Quale porta di accesso al mistero di Dio.
E’ la questione del clima in cui vivere i rapporti, in cui verificare i propositi e i desideri, in cui assolvere gli impegni, in cui crescere sani. Se nell’esperienza dell’amore di Dio e del prossimo confluisce ogni atto buono, allora, nel concreto della vita quotidiana fraterna, la porta che introduce più direttamente a quella esperienza non è che l’obbedienza reciproca, come dicono i Padri: “Io non vedo in tutte le Scritture che Dio abbia altra volontà sull’uomo se non che si umilii in tutto davanti al suo prossimo, che rinunci in tutto alle sue volontà, che supplichi incessantemente il Suo soccorso e custodisca i suoi occhi dal sonno della dimenticanza” (Isaia di Scete). Non che la cosa sia facile, ma risulta profondamente vera. Quando preghiamo, nel Padre Nostro, che sia fatta la volontà di Dio, domandiamo prima di tutto di fare esperienza dell’amore di benevolenza del Padre nei nostri confronti, di fare esperienza dell’amore di salvezza che Dio ha per gli uomini, che si esprime nella grazia della fraternità realizzata. Senza questo non si può vivere con gioia, non si potrà praticare nessun comandamento con gioia e gustare il regno di Dio.
L’obbedienza è intesa come sottomissione a Dio, alla vita, ai fratelli, in pacatezza e umiltà, prima ancora che alla regola e al superiore. L’obbedienza evidentemente non è fine a se stessa; essa tende come tutta l’ascesi all’intimità della preghiera e, come quest’ultima, esige un lungo lavorio del cuore. Comporta anche un frutto, sboccia cioè nell’amore. E l’amore verifica la sincerità di cuore nell’obbedienza. In effetti la rinuncia alla volontà propria tende a far spazio alla mitezza, ad allargare il cuore all’amore verso Dio e verso i fratelli. E’ la vittoria sull’ira. Chinare la testa davanti a Dio insegna a chinarla davanti ai fratelli e viceversa. L’aspetto straordinario di questo clima di obbedienza è costituito dal fatto che crea comunione nel rispetto di ciascuno: è il primato della persona sull’organizzazione. Ecco perché é così importante che la comunità non si regga su giudizi o mire umane sia da parte del superiore che dei fratelli; sarebbero in qualche modo sacrificate le persone. Una comunità evangelica è sempre e sopra tutto una comunità di persone, che cresce se ciascuno cresce. Far valere questo principio, anche nel lavorare, significa salvaguardarsi da agitazione e affanno, mantenere un clima di comunione che promuove l’umano levandogli quell’opacità che gli impedisce di riflettere il divino. L’importante è scoprire che cercando di vivere così, giorno per giorno, dentro le difficoltà e le gioie quotidiane, il cuore non sta allo stretto, i confini sono spaziosi e le energie dell’anima si rinnovano. Avere un cuore totalmente remissivo alla rivelazione di Dio, questo è l’anelito. E la rivelazione di Dio che costituisce il grande annuncio della nostra fede non è che questa: “Dio ha perdonato a voi in Cristo” (Ef 4,32). Letteralmente: “Dio ha fatto grazia di Sé a voi in Cristo” Continuando: “se anche voi perdonerete”, cioè farete grazia di voi a tutti in Cristo, il mondo risplenderà ancora della Sua presenza. L’unica perfezione desiderabile è appunto quella di lasciarsi penetrare fin nelle midolla da questo far grazia di Sé da parte di Dio agli uomini, in Cristo, per la potenza del suo Spirito. Come dice stupendamente s. Francesco, sintesi dell’intera Tradizione: “ciò che devono desiderare sopra ogni cosa è di avere lo Spirito del Signore e la sua santa operazione”. La volontà del Padre è vedere l’uomo investito dal suo Spirito, consegnato alla sua misteriosa operazione, quella cioè di compiere quel mistero di riconciliazione rivelato a noi in Cristo. La santità dell’uomo non è che la volontà di compiere quel compito, la risposta a quell’ appello che viene dal desiderio di Dio di essere in comunione con gli uomini.
E per lasciare una figura di riferimento legata alle Scritture, pongo il mistero dell’obbedienza nello spazio che intercorre tra i due versetti: “ti scongiuro di conservare senza macchia e irreprensibile il comandamento, fino alla manifestazione del Signore nostro Gesù Cristo” (1 Tm 6,14) e “Paolo, apostolo … per annunziare la promessa della vita in Cristo Gesù” (2 Tm 1,1). Sta tutto qui il dinamismo interiore che caratterizza la VC: senza lasciar cadere o travisare o annacquare la Parola di Dio né per se stessi né per gli altri perché si manifesti al nostro cuore il volto del Signore, dentro la nostra storia, arrivare a gustare e a far gustare quella ‘promessa della vita in Cristo Gesù’. La nostra credibilità come la nostra identità interiore si gioca tutta qui. E a questo tende anche la nostra missione, perché qui risiede tutta la consolazione della speranza che abita i credenti e li abilita a percorrere le strade del mondo per essere compagni degli uomini nel nome di Dio.
2) Quali attese dei cuori.
Ho l’impressione che nella chiesa ci si sforzi di aprire la parola di Dio ai cuori, ma non altrettanto di aprire i cuori alla parola di Dio. Credo anzi che proprio questo sia il preciso compito pastorale della chiesa, lo ‘spazio’ della missione della VC oggi nella chiesa, il punto dove il ‘magistero’ spirituale dei ‘consacrati’ risulta particolarmente efficace e fecondo. Si avverte oggi un profondo disagio interiore dovuto alla perdita di una identità e di un’armonia interiori che, né la fede così come viene vissuta e trasmessa comunemente, né la cultura con i suoi surrogati, sembrano capaci di ripristinare. Si sente vivo il bisogno di senso, di una conoscenza di se stessi che non si riduca al piano psicologico, oggi così inflazionato. Si vive in stato di perenne autodifesa, anche contro se stessi. Forse tanta arroganza o egoismo derivano semplicemente dall’incapacità di accogliersi e guardarsi con bontà, senza disprezzo, di vivere in intimità e tenerezza, qualità così essenziali all’umanità degli uomini e delle donne, all’esperienza stessa di fede dei credenti. Ci si trova in preda alla solitudine, ad una certa confusione, con la nostalgia del vigore di una fede di un tempo, al cui languore attuale però non ci si arrende. Il cuore chiede altro, sebbene non si sappia più bene cosa né come fare per soddisfarlo e pur tuttavia così sensibile a nuove suggestioni.
Qui si situa la piacevole scoperta di un compagno di viaggio, di un fratello o di una sorella che parla la nostra lingua, si fa interprete dei nostri aneliti, ascolta e comprende, porta la consolazione di Dio, si fa ‘collaboratore della nostra gioia’ (cfr. 2 Cor 1,24). Tutti sanno di portare un infinito dentro di sé ma, più che racchiuso, è avvertito come ormai nascosto. Ora, l’atteggiamento di mitezza, che l’obbedienza reciproca favorisce, toglie ogni barriera, a chiunque, comunque si trovi, da dovunque provenga, per realizzare quella ‘vicinanza’ così fortemente sentita dai cuori, proprio perché induce all’accoglienza del mistero di Dio e dei cuori, insieme. Proviene da qui quella particolare sensibilità spirituale che, rispondendo alle attese dei cuori, suscita nuove energie e nuovi cammini di vita.
Se chiedessimo in giro quali sono le attese degli uomini nei confronti delle persone consacrate, credo troveremmo risposte del genere:
1) un uomo o una donna di Dio dovrebbe vedere dove i miei occhi non riescono a vedere. Dovrebbe far emergere le potenzialità di uomo e di credente in ognuno che incontra, aiutando ciascuno a viversi come una persona nuova, magari ancora sconosciuta a se stessa.
2) mi aspetto l’accoglienza di tutta la mia persona senza tralasciare alcun aspetto in modo che io non debba mai nascondermi dietro nulla. Per questo, deve avere un cuore grande e sconfinato quanto lo sono le debolezze di chi gli sta accanto.
3) un uomo o una donna di Dio deve saper coniugare lucidità con bontà, verità con mitezza: diventare più amorevoli significa diventare più veri.
4) ‘Benedetto colui che viene nel nome del Signore’! Una persona consacrata è colei che porta su di sé questa ‘benedizione’, questo senso di grazia, questo non essere solo se stessi, ma essere per definizione colui che viene nel nome di un altro. Quando Gesù invita: “La messe è molta, ma gli operai sono pochi. Pregate dunque il padrone della messe perché mandi operai per la sua messe” (Lc 10,2), è come se ci dicesse di pregare il Padre perché continui a farci grazia di Sé attraverso l’incontro con i suoi servi. E non è possibile riuscire benevoli al cuore dell’altro se non si viene nel nome di un Altro.
Evidentemente, un uomo che sappia con dolcezza coltivare dentro di sé la tenerezza verso Dio in risposta al perdono che gli viene comunicato e che guarisce la sua umanità, è certamente più prezioso, anche ai fini pastorali, di uno che si affanni ad escogitare continue strategie per attrarre i fratelli al Signore. La cosa attraente per gli uomini è proprio questo: che il cielo non sia più troppo lontano, ma si lasci gustare nella sua bontà e che qualcosa di questa bontà gustata sia percepibile nell’uomo e nella donna di Dio, al di là dei suoi limiti e delle sue fragilità. Da questo punto di vista i difetti peggiori per un uomo e una donna di Dio non possono che essere ira, pretesa, ambizione, affermazione di sé in quanto queste passioni, che rivelano un’ipertrofia dell’io, sono i più contrastanti con quel rapporto affettuoso col Signore che è condizione essenziale per vivere l’esperienza del perdono. Abbiamo come perso, nella nostra vita interiore, questo aspetto di affettuosità, di tenerezza, nel rapporto col Signore. Per cui ne paghiamo le spese anche nel rapporto con gli altri e con noi stessi.
Del resto, se l’obbedienza reciproca è la porta di accesso all’accoglienza del mistero di Dio e dei cuori insieme, lo è anche per il fatto che, disponendo i cuori alla mitezza, induce a vivere in modo tranquillo, semplice, senza bisogno di esibire o di difendere nulla, senza sentir nessuno avversario o concorrente in nulla. La ‘serietà’ di una vita religiosa si misura da qui, perché su questo punto appare la posta in gioco: se il Signore costituisce davvero la risposta ai bisogni dei cuori. Voler disporre il proprio cuore in quel ‘clima’ significa lavorare sui punti nodali delle sue resistenze, per sé come per gli altri. In gioco è la trasmissione viva della nostra fede, il contenuto stesso della ‘missione’ della chiesa.
I punti nodali sarebbero tre e rispondono agli atteggiamenti del cuore che strutturano la mitezza e danno ragione del mistero del Signore che si rivela ai cuori: la disponibilità che vince la non fiducia, l’accondiscendenza che vince l’asprezza, la capacità di essere solidali che vince la paura di vivere.
a) disponibilità. Si tratta di lasciare un reale spazio alla convinzione che il Signore accoglie tutti, ognuno per se stesso, nella sua specificità, in tutta misericordia. Persone e cuori non bisognerebbe mai sacrificarli, sia pure con le più nobili intenzioni, a progetti spirituali particolari, sempre troppo terreni. La Parola del Signore ci dà coscienza di essere servi, quindi non siamo noi ad avere in proprietà o in affido i nostri fratelli. Sono piuttosto loro a possederci, noi apparteniamo a loro (cfr. 1 Cor. 3,21-23; 2 Cor 4,5). Ogni loro richiesta, espressa o inespressa, suona come un appello per noi: l’appello di Dio che vuole ‘compiere’ la sua creazione. Anche quel ‘dare la vita’, di cui ci fa comando il Signore per ritrovarla, non va compreso ponendo l’accento sul noi che vogliamo darla, ma sul dinamismo che ci consente di darla, per la potenza del suo Spirito. Dare la vita significa allora rispondere al desiderio di Dio presente in ogni uomo che chiede di essere ascoltato ed amato perché la vita si espanda in pienezza e si realizzi il regno di Dio tra noi. Ogni desiderio di comunione realizzato è infatti presenza del regno di Dio. Quindi, prima ancora che di disponibilità ad una persona o ad una comunità, si tratta in verità di disponibilità alla ‘sinergia’ con Dio che continuamente opera nei cuori e compie i suoi voleri di salvezza anche là dove nemmeno si riesce ad intuirne la presenza. Per questo la disponibilità si risolve prima di tutto in una forma di affidamento a Dio, capace per ciò stesso di suscitare a sua volta il medesimo tipo di affidamento nelle anime che possono così ritrovare se stesse e aprirsi a Dio. E’ la vittoria sulla paura di dare fiducia, sulla resistenza a fidarsi che blocca una crescita sana, soprattutto nella fede.
b) accondiscendenza. Si traduce essenzialmente in uno sguardo costante di benevolenza, di pazienza e di tenerezza, avvertito immediatamente dalle persone che così non si sentono mai giudicate, soppesate, valutate. In effetti la vera speranza che parla al cuore è quella di accorgersi che Dio c’è ed è presente se si sente che è Lui che dà ad un uomo o a una donna la capacità di usarci tenerezza, di essere buoni con noi. Questo conforta più dell’affetto istintivo tra le creature umane in quanto si sperimenta la gratuità del rapporto, perché si riconosce che il dono ricevuto non risponde a precondizioni o a dati meriti, allarga il cuore alla riconoscenza e lo apre alla percezione della presenza di Dio, pur senza, spesso, che si sia parlato esplicitamente di Dio. L’esperienza insegna che diventare più amorevoli significa diventare più veri e di conseguenza permettere di vedere la realtà più in verità. Nella visione cristiana la verità si coniuga con l’amore, la lucidità con la bontà. L’esperienza di questo fatto è liberante per le anime e consente di schiudere il livello psicologico alla dimensione spirituale. E’ come un accedere al mistero del cuore umano, al mistero delle sue origini divine. Un passo di s. Paolo, forse troppo sottovalutato, illustra bene questi concatenamenti: ” Così affezionati a voi, avremmo desiderato darvi non solo il vangelo di Dio, ma la nostra stessa vita, perché ci siete diventati cari ” (1 Tess. 2,8). Le domande da porsi allora sono le seguenti: è possibile dare il vangelo ad una persona senza che questa ci diventi cara? Ed è possibile che questa ci diventi cara senza che in qualche modo senta di esserlo diventata? Solo a patto che una persona ci diventi cara, il nostro linguaggio saprà essere concreto, capace di dare parola ai suoi disagi, di offrire una rivelazione vissuta e vivente che suscita una risposta, una conversione, un espandersi e un lasciarsi prendere da quella nostalgia di Dio che già portiamo racchiusa dentro di noi. E’ la vittoria sull’asprezza contro di noi, la vita, la storia, la chiesa, Dio.
c) capacità di essere solidali. Si tratta di imparare a vivere solidali con Dio e con l’umanità, nella coscienza di poter essere sempre e solo peccatori perdonati. L’innocenza che possiamo vantare non è che l’innocenza dell’uomo che si sa perdonato, per cui può offrire all’altro quello che lui stesso riceve. In questo senso non c’è incontro che non sia un invito a gustare la bontà del Signore. Il soggetto al quale è dato gustare e vedere la bontà del Signore è certamente tutta l’umanità dell’io nella sua concretezza e integralità, ma, all’interno di questa, è quel principio che muove tutta la propria umanità verso il compimento della sua vocazione e moralità. E’ questo principio, questo soggetto che può diventare ‘nuovo’, ed è a tale soggetto che si rivolge la premura pastorale. E succede anche che quando si vive nel pentimento e nella mansuetudine si supera pure quella certa ostilità che registriamo da parte delle cose stesse e degli avvenimenti e che ci dà l’impressione di una specie di congiura contro di noi. Sentimento infantile, ma non di meno insidioso e persistente Un bellissimo passo di Origene, nella sua quarta omelia sul libro di Giosuè, illustra con precisione questo fatto: “Tutte le creature sono ostili al peccatore, come sta scritto a proposito degli Egiziani: la terra era contro di loro; il fiume era contro, l’aria stessa, il cielo era contro di loro. Per il giusto, invece, anche le realtà che appaiono inaccessibili diventano piane e proclivi. Il Mar Rosso il giusto lo attraversa come terra asciutta … Il giusto, anche se entra nel deserto spaventoso e immenso, viene servito del cibo dal cielo. … Non vi è assolutamente nulla che il giusto debba temere, ogni creatura infatti è al suo servizio”. Torniamo ad essere alleati della vita, viene superata la paura del vivere.
In tal modo le domande di autenticità (che riguarda la fede e la vita in genere) e di pienezza di vita (sapere cosa è realmente desiderabile), che riassumono le attese dei cuori, incominciano a vedere una soluzione.
3) quale responsabilità specifica.
Ed infine la questione dello stile, che costituisce la dimensione di credibilità della missione. In un vecchio film western mi ricordo che il protagonista, buttando nel fiume da un treno in corsa colui che aveva pensato avesse potuto sostituirlo come re dei ‘viaggiatori non paganti’ dei treni di tutta l’America, esclamava concludendo il film: hai stoffa, ma ti manca lo stile. Non sei degno di succedermi!
E’ lo stile della responsabilità dei consacrati nella chiesa e nel mondo come testimoni di un ‘mistero’ che ingloba tutti. Si tratta di una testimonianza che nasce dentro un’immagine di chiesa sancta simul et semper purificanda (Lumen Gentium, 8), riscoperta nella coscienza dei fedeli, per l’azione del concilio Vaticano II, nella sua dimensione misterica prima di ogni definizione giuridica che aveva fatto prevalere una ecclesiologia dove tutto era pensato sotto l’obbligazione della legge, facendo perdere di vista la realtà del suo costituirsi e agire nella storia dell’uomo e per l’uomo. Una chiesa che rinnovi l’esperienza della Pentecoste mediante l’annuncio del Vangelo nelle circostanze attuali della storia è una chiesa che desidera rendere prossimo il Dio santo che si rivela ‘sempre più umano’, una chiesa che rinuncia ad un sapere sicuro sulla società per lasciarsi raggiungere dalla vocazione umana che la supera, una chiesa che si dà un ruolo più modesto, ad immagine del Dio di cui è testimone. In effetti, con il Concilio Vaticano II si è operata una trasformazione di prospettiva, di orizzonte interiore e la trasformazione opera nel senso di un allargamento, di una estensione dei confini interiori. La coscienza di essere portatori per l’uomo di un’offerta che ci precede e ci ingloba rende la Chiesa più umile e attenta.
La domanda allora pertinente quanto alla responsabilità suona: quali i criteri di autenticità dell’agire apostolico? L’autenticità a che cosa è referenziale?
La responsabilità comporta, anzitutto, la coscienza di un mistero, quello dell’edificazione del corpo di Cristo, che è la chiesa. E la chiesa è comunione in missione di comunione nella storia. Come riportavo sopra, la rivelazione di Dio che costituisce il grande annuncio della nostra fede non è che questa: “Dio ha perdonato a voi in Cristo” (Ef 4,32). Letteralmente: “Dio ha fatto grazia di Sé a voi in Cristo”. Prendendo sul serio tale rivelazione, nessun incontro è privo di un significato segreto se gli occhi del cuore sono desti a cogliere l’opera di Dio che vuole condurre tutti e ciascuno a salvezza. E’ dentro la coscienza di tale mistero che la responsabilità si traduce nell’accettazione di un compito, il cui senso sta tutto nel favorire la riconciliazione con Dio e con se stessi, con i fratelli, con il mondo, liberando gli spazi del cuore e creando rapporti rinnovati. Questo fa sì che il valore dell’agire apostolico non dipenda da ciò che si fa, come se fosse più importante una cosa piuttosto che un’altra, ma più semplicemente dal vivere quello che si fa, qualunque cosa sia, nella coscienza di quel mistero. Non solo, ma un’opera risulta evangelica ed evangelizzante non tanto quanto al contenuto bensì rispetto alla modalità di compierla, in diretta dipendenza dalla trasparenza della riconciliazione vissuta. Non basta annunciare una verità, se poi la difesa di questa verità risulta mondana.
Il primo elemento caratteristico di un compito siffatto è quello di portare alla vita. Si è tanto smarrito il senso della realtà di Dio che l’uomo è rimasto in balia delle sue ossessioni. E’ tanto difficile per l’uomo d’oggi, anche per il credente, per le stesse persone consacrate, custodire la tenerezza verso l’umano nella sua trasparenza del divino senza contrapporre o contrarre nervosamente i due poli a scapito della sanità di fondo dell’anima. Vivere senza illusioni e senza vergogna, evitare cioè di cadere nelle opposte tentazioni di idolatrare o disprezzare la carne, la dimensione umana nella sua concretezza, non è agevole. Eppure cielo e terra possono ancora essere vissuti in unità e la compagnia del ‘consacrato’ fa come da ponte, da strada vivente, nel senso che la percezione della possibilità di tale verità in lui schiude l’anima alla stessa verità. Una persona sente il desiderio di guarire se intuisce che qualcuno la conosce dal di dentro , la sta rivelando a se stessa. Di qui comincia il vero cammino, lungo e faticoso, ma gioioso, con l’energia del cuore ormai rinnovata e continuamente capace di rinnovarsi.
L’altro elemento costitutivo del compito di responsabilità è quello che fa da fondamento stesso al primo : portare alla vita significa in sostanza dare il Signore. Non tanto però come un voler dare il Signore quanto piuttosto come uno svelare l’amore del Signore nell’essere in comunione con gli uomini. Del Signore i cuori hanno bisogno, è lui il consolatore, ma prima di tutto hanno bisogno di sentire che è solo l’amore al Signore a suggerire strategie e attenzioni nei loro riguardi. Alla fin fine ogni tipo di mediazione a livello della vita spirituale si riassume in questo: Qualcuno da mettere in rapporto più diretto e più intimo con qualcuno, Qualcuno vivente di fronte a qualcuno vivo. Alla serietà del compito non si confanno le improvvisazioni o i sentimentalismi. Dare un buon consiglio è alla portata di tutti o quasi. Individuare i mezzi per seguirlo, questa è la cosa importante e difficile, veramente utile, ma rara. Ciò che si muove dentro l’anima è troppo grande perché noi lo si possa capire o dirigere. Nessuno vi potrebbe metter mano se non con il mandato di Dio ed anche così sempre a rischio di violare un’intimità, di forzare qualcosa di assolutamente personale. Proprio il profondo rispetto e l’amore all’uomo inducono ad umiltà e delicatezza, incapaci come siamo di cogliere la presenza dello Spirito di cui non dovremmo essere che i servi-collaboratori. Diventa essenziale perciò metterci alla scuola dei Padri e dei Santi, i maestri insostituibili di fede e di vita, per diventare più recettivi nei confronti dello Spirito, più malleabili alla sua azione, più attenti alle tracce del suo passaggio e più coinvolti nelle ‘segrete’ intenzioni divine operanti nella storia a rivelazione di quell’amore di Dio che siamo chiamati a certificare.
Lo stile della responsabilità è fornito dall’intreccio di tre acquisizioni, di tre ‘evidenze’ che lavorano nel senso di dare una stabilità di fondo alla fraternità come alle anime:
a) la sapienza viene dall’alto, dove sono poste le radici del cuore. E’ il problema della prospettiva, di imparare e far imparare a guardare, a decifrare, a cogliere nel segno. Secondo l’immagine tradizionale, l’uomo è paragonabile ad un albero con le radici in alto e i rami in basso, con le radici in cielo e i frutti in terra. Si tratta di scoprire la potenza di certe connessioni insospettate, che lavorano nel profondo. Posso fare degli esempi. E’ inutile voler essere caritatevoli se non si accetta di onorare il fratello sempre e comunque. La purità non si ottiene con la propria purificazione, ma con il togliere ogni motivo di odio e di tristezza verso i fratelli. La grazia non è attirata dai nostri sforzi, ma dall’umiltà; le nostre opere non sono strumenti di contrattazione; la benevolenza non dipende dalla generosità, ma dalla mitezza raggiunta, la quale sopravviene togliendo ogni forma di autodifesa e di rivendicazione, in modo da avere un’ottica verso se stessi e verso le cose così larga che nessun’altra, di parziale, può avere presa; si progredisce più per i peccati riconosciuti che per gli atti di virtù compiuti.
In particolare, vale il capovolgimento di prospettiva nel sopportare le prove e le afflizioni, riconoscendo la provvidenza di Dio. Vedere il male nei fratelli è permesso da Dio perché così ci rendiamo conto che anche noi possediamo le radici dello stesso male e ci possiamo pentire; non solo, ma se Dio permette che veda il male nel mio fratello, è perché possa imparare ad amare il fratello nella sua concretezza: nel peccato infatti Dio vede un bisogno e se noi lo vediamo è perché possiamo rispondere a quel bisogno; vedere il male e accorgermi che ne possiedo anch’io le radici, mi costringe a riconoscermi peccatore e stando dentro tale coscienza non ho motivo di arrabbiarmi contro il fratello perché non posso rivendicare nulla; diventa così forte la coscienza di essere peccatore, che nemmeno vedo più il male del fratello: il cuore è ormai pulito. Se un uomo davvero potesse ritirare fino in fondo il suo dito puntato, ogni atto di accusa contro un altro uomo, non subirebbe alcuna tentazione al male. Non è poi così semplice crederci, ma la cosa resta pur tuttavia profondamente vera. Tutte le nostre esposizioni al male sono soltanto in funzione del fatto che noi impariamo a non accusare mai nessuno. Di questa sapienza che viene dall’alto i cuori hanno bisogno per rendere concreta e accessibile la via di Dio.
b) il processo di crescita comporta l’accettazione che il mistero del regno dei cieli fiorisce nella fatica, nella lotta interiore e nell’acquisizione della conoscenza del nostro cuore. Importanza del fattore tempo, così spesso sottovalutato dalla nostra psicologia interiore! Non basta lottare per evitare il male nelle azioni, occorre lottare – ed è cosa assai più faticosa! – contro i pensieri, e nemmeno soprattutto contro quelli cattivi, piuttosto contro quelli inutili, ingombranti, illusori. Imparando a lottare contro i pensieri si può recuperare l’energia del peccato. L’antico adagio “odiare il peccato, non il peccatore” deve valere anche nei nostri confronti. Nei peccati restano come intrappolate le risorse spirituali in termini di anelito, di desiderio, che dobbiamo imparare a decifrare e recuperare attraverso il pentimento. Ogni peccato si può così trasformare in un trampolino di lancio e non tramutarsi, come spesso capita, in un ingombro della coscienza. Riconoscere il proprio peccato fino in fondo vuol dire comprendere l’esperienza interiore soggiacente, le risorse positive impiegate che non perdono il loro valore semplicemente perché sono state impiegate male. Non è poi realmente importante superare il difetto (di difetti ne avremo sempre); l’importante è riuscire a non giustificare il nostro difetto, a nessun livello. Significa accettare il principio della gradualità: ogni cosa comporta la sua concatenazione necessaria, nel tempo. Accettare questo con pace, in tutta normalità, evita rabbia e frustrazioni inutili e presuntuose.
c) la dinamica spirituale non è duale, ma ternaria. Il contemplare non è in funzione del fare; piuttosto, è l’agire che è in funzione del vedere, nel senso che la dinamica dell’intelligenza di fede si struttura in : conoscere – fare – vedere. Come per l’intelligenza delle Scritture, la dinamica non si riduce ad un capire per poi mettere in pratica, ma più precisamente: leggere – praticare – comprendere e non come comunemente si sarebbe indotti a pensare: leggere – comprendere – praticare. Come a dire: l’azione buona non è l’ultimo obiettivo. Il fare il bene è in vista del conoscere nel senso di quel conoscere esperienziale, di quel conoscere Colui che si ama, di quel conoscere in intimità, in comunione, dal di dentro. Solo qui si ha il superamento di ogni intellettualismo o di ogni spiritualismo. Qui sta la forza del comandamento divino che non è semplicemente una istruzione etica, bensì una partecipazione ad una intimità di vita. Per questo la tradizione, a proposito delle Scritture, non insiste tanto su una comprensione da avere, ma su una potenza da assimilare.
L’essere testimoni di quel mistero è di per sé così impegnativo e coinvolgente che non c’è bisogno di puntare ad altri obiettivi, che non siano l’attuazione concreta di quel vivere semplicemente il ‘compimento’ del regno di Dio nel fatto stesso di accogliere e camminare insieme, di suscitare e stabilire comunione, ovunque, con chiunque, amici e nemici, senza preclusione alcuna. Si tratta di una responsabilità di respiro ‘cattolico’, che risponde cioè a quella nota di ‘cattolicità’ tipica della Chiesa, come è professata nel Simbolo di fede. La ‘cattolicità’ (secondo l’accezione greca del termine, καθ᾿ ὅλον, ‘secondo l’insieme’, tanto in estensione di spazio e tempo quanto in profondità ed interezza) è sempre da scoprire, da assumere, da vivere, da testimoniare da parte di tutti e di tutte le Chiese. Dio ha fatto grazia di Sé in Cristo (cfr. Ef 4,32), non a te o a me, ma a te come a me, a voi come a noi, a te perché possa farla scoprire a me, a tutti, vicendevolmente. L’esercizio dell’intelligenza comporta sempre un esercizio di ‘cattolicità’ e viceversa. Il dimenticarsene, permette alle nostre paure o presunzioni di avere il sopravvento. E questo non lede solamente l’intelligenza della fede, ma anche la fraternità ecclesiale e umana e mina la credibilità dell’annuncio del vangelo. Noi spesso dimentichiamo la frase di Gesù quando manda i discepoli ad annunciare il vangelo a tutte le genti (cfr. Mt 28,19). L’annuncio del vangelo non è in funzione semplicemente di un compito ricevuto, come se noi abbiamo ricevuto un qualche cosa e questo qualche cosa noi lo dobbiamo dare agli altri. Credo sia un modo piatto di interpretare la volontà del Signore e anche la storia dell’esperienza cristiana. Quello che dà consistenza a questo compito di evangelizzazione è quello di ritenere che il vangelo appartiene già alle genti; quando io l’annuncio non faccio che rivelare qualche cosa che in realtà appartiene già a chi io lo annuncio. Spessissimo noi interpretiamo la tradizione come la difesa della verità, come ‘prendere un pacco e consegnarlo’. La trasmissione della fede non è affatto questo. Nessuno che trasmette un pacco che riceve potrà arrivare, in qualche modo, a riempire il desiderio dei cuori.
Se il Vangelo è l’eredità delle genti, vuol dire che la ‘cattolicità’ comprende anche il tempo. Anche il futuro fa parte della Tradizione. La nostra responsabilità ‘apostolica’ si estende anche al futuro. Non è forse così terribilmente e tragicamente facile ingombrare la bellezza e la verità evangeliche con l’impedire al futuro di ereditarle per la nostra miopia? Se io sono così miope che per il mio schema mentale impedisco ad un altro, che ha un’altra storia, un’altra cultura, un altro orientamento, di poter accedere al vangelo, a tutto il vangelo, sono un cattivo testimone. Evangelizzare richiede sempre un vero esercizio di intelligenza; si tratta di imparare a mettere le cose al posto giusto, secondo un’armonia globale perché “la salvezza di Dio abbraccia l’universo”. E siccome quest’armonia globale comprende anche il futuro, non c’è motivo di avere paura man mano che sorgono nuovi problemi. In effetti, più ci lasciamo prendere dalla paura e dal timore di fronte ai vari problemi che ci assillano nella nostra vita personale, comunitaria, ecclesiale, meno sapremo fornire speranza all’umanità, nostra e di tutti. Più avremo paura meno saremo testimoni gioiosi di quella speranza, che è dovuta all’umanità! Perché la speranza non viene da noi, ma dal fatto di riferirci a quel mistero di riconciliazione in atto nella storia, che è diventato il centro propulsore del nostro essere e del nostro agire.
Così, un’ascesi del pensare è altrettanto necessaria quanto un’ascesi del volere, ma in funzione evangelizzante. Il lavoro che attende la Chiesa è quello di riflettere sul destino della verità in un mondo sempre più pluralista e di rendere amabile ciò che il vero implica, in vista di una fraternità rinnovata segnata dalla grazia della Rivelazione. Ma anche quello di imparare a volere. Più che cercare di ‘volere bene a qualcuno’, dove bene è il complemento oggetto del volere, si dovrebbe imparare a ‘volere bene qualcuno’, dove bene è un avverbio che esprime il modo adeguato di volere che qualcuno o qualcosa siano. Un’ascesi che tenda a generare un nuovo modo di volere in cui l’accento non sia posto tanto sull’affermazione di sé quanto sulla disponibilità a servire ciò che è voluto, ad accompagnarlo al suo destino, servitori e testimoni di un mistero che ci supera e ci racchiude. È la sapienza di una visione, capace di farsi lievito di evangelizzazione per offrire nuova speranza al mondo.
E quale potrà essere il ruolo profetico della VC nella chiesa e nel mondo, se non quello di suggerire nuovi modi di sentire e pensare, capaci di aprire spazi nuovi, più consoni a servire nel concreto delle situazioni storiche il desiderio di Dio di comunione con gli uomini? Con la consapevolezza che tutto ha origine da quel Gesù, Signore, annunciatore e testimone della Buona novella, come la chiesa insegna a pregare: “Donaci, o Padre, di non avere nulla di più caro del tuo Figlio, che rivela al mondo il mistero del tuo amore e la vera dignità dell’uomo; colmaci del tuo Spirito, perché lo annunziamo ai fratelli con la fede e con le opere”.
Recent Comments