Perché “restare in citta’… a far che ?”:
Luca 24,44-49
a cura di p. attilio franco fabris
Gesù nel corso della sua apparizione nel cenacolo da’ ai suoi la duplice consegna: “restate in città finché non siate rivestiti di potenza dall’alto”. Parole di grande immediatezza ed autorità. Quasi un testamento!
Quel “restate in città” così vago ed indeterminato che senso ha? Possibile che sia la cosa più utile da farsi? Possibile che in questa proposta si giochi tutto il vangelo, tutto il senso dell’esistenza prepasquale e pasquale di Gesù e della comunità e l’esistenza postpasquale di entrambi? “Restare” a far che? Per che cosa?
Ma occorre fare un altro passo indietro.
Nel v. 48 si dice: “di queste cose voi siete testimoni”. E’ un versetto chiave, che ci fa comprendere due cose: la prima è che l’adempimento della promessa e la relativa consegna di Gesù sono in funzione di una testimonianza, la seconda che il “di queste cose” rinvia ad un discorso precedente, vale a dire che in contenuto della testimonianza ch’egli affida ai discepoli, lo possiamo cercare e trovare solo proseguendo nel nostro percorso all’indietro.
Nei vv. 46-47 si dice: “Così sta scritto: il Cristo dovrà patire e resuscitare dai morti il terzo giorno e nel suo nome saranno predicati la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme”: ecco in sintesi il contenuto della testimonianza affidata da Gesù ai suoi.
Questa sintesi rappresenta il kerygma, il cuore stesso della Buona Notizia: Gesù crocifisso, morto e risorto costituisce l’adempimento fedele, da parte di Dio, della sua Promessa.
Ma cosa ha a che vedere la testimonianza del kerygma con il dover restare in città?
Ce lo spiega Luca stesso con le parole di Gesù al v. 45: “Allora aprì loro la mente all’intelligenza delle Scritture e disse…”. Queste parole costituiscono un’altra chiave di lettura, esse attestano sei cose fondamentali: 1) la Pasqua di Gesù è l’adempimento delle Scritture; 2) che i discepoli di tutto questo non hanno capito nulla; 3) che la comunità incagliata nelle secche dello scandalo della croce è ancora ferma allo stadio prepasquale; 4) che Gesù è l’unico che della sua Pasqua abbia capito qualcosa; 5) che Gesù è l’unico a poter introdurre i discepoli nell’intelligenza degli avvenimenti pasquali e delle scritture; 6) che da questo intervento di Gesù dipende la fecondità e il futuro della buona notizia e della comunità dei discepoli. E’ evidente che nell’offrire ai discepoli il servizio di introdurli nell’intelligenza delle scritture, il Gesù postpasquale riconosce il proprio compito fondamentale ed il senso stesso di tutta la sua missione. L’esistenza ed il ministero di Gesù risorto si incentrano su questo servizio da lui reso ai discepoli. E da questo servizio discenderà un giorno la forza della testimonianza al mondo della Buona Notizia da parte degli stessi discepoli.
Gesù prevede per i suoi amici un processo di maturazione lungo e laborioso. Al fine di comprendere ciò che è avvenuto, e per poter ricevere dal Padre un dono del tutto particolare per trovare il coraggio necessario a testimoniare in piazza la Buona Notizia.
Tirando la conclusione di quanto detto possiamo allora comprendere il significato delle due consegne: garantire ai suoi un tempo, un luogo, un ambito (At 1,14) in cui assimilare, si potrebbe dire metabolizzare il contenuto della Buona Notizia e così prepararsi a ricevere il dono dello Spirito. Mettere la comunità nella condizione di coltivare la “memoria passionis! Si tratta di una grande esperienza di ascolto, un ascolto che conduca la comunità, attraverso il ministero del Gesù postpasquale, incagliata nelle risonanze prepasquali, all’intelligenza e all’accoglienza del significato della buona notizia.
Piste di riflessione
∑ Gesù vuole assicurare un tempo , un luogo, un ambito in cui la comunità possa metabolizzare attraverso l’ascolto il contenuto della buona notizia. Ti sembra che le nostre comunità offrano questo itinerario e questo servizio, anzitutto ai suoi membri e ad altri? Se no perché? Avverti l’urgenza di questa proposta?
∑ Il nostro “predicare la parola” nasce dopo un itinerario vitale di ascolto come quello vissuto dagli apostoli nel cenacolo? Non rischia spesso di tradursi in un ripetere semplicemente dei contenuti-informazioni religiosi, senza che ciò che viene annunciato sia stato elaborato a livello personale e comunitario in un vissuto di ascolto?