GLI ELEMENTI FONDAMENTALI DELLA PRATICA ESICASTA
PLACIDE DESEILLE La spiritualità ortodossa e la Filocalia, ed. BORLA,
- 1. Il combattimento invisibile
La tentazione di mancare di temperanza, di irritarsi, o di commettere qualche altra colpa, è spesso provocata da un’occasione esterna, dalla presenza di «oggetti», per usare il vocabolario di Evagrio Pontico. Ma, anche in assenza di sollecitazioni esterne, la tentazione può nascere nell’anima, a partire da ricordi o da fantasie, sotto forma di «pensieri» cattivi, cioè di tentazioni puramente interiori. Evagrio nota che i laici che vivono nel mondo sono tentati soprattutto dagli oggetti, mentre i monaci, nella loro solitudine, lo sono di più dai pensieri. Questa distinzione non è d’altra parte rigida, e chiunque vuole impegnarsi seriamente nella vita spirituale deve fare questo combattimento invisibile, senza il quale l’ascesi corporale e le opere esteriori non sarebbero sufficienti. Si può consumare il corpo col digiuno, le veglie e tutti i tipi di lavoro, o moltiplicare le buone opere, e tuttavia rimanere agitati dai molti pensieri e dalle fantasie, che possono portare all’orgoglio, alla fornicazione, alla perdita della fede in Dio e alla disperazione.
Contro gli uomini che vivono nel mondo, i demoni lottano soprattutto attraverso gli oggetti, mentre contro i monaci, lo fanno più spesso con i pensieri; la solitudine infatti li priva delle cose. Ma quanto più è facile peccare col pensiero che con le azioni, tanto più è duro il combattimento che avviene nel pensiero rispetto a quello che riguarda le cose. Il nous è infatti una cosa estremamente mobile, e, quanto alle fantasie illecite, difficile da dominare (Evagrio Pontico).
Questa domanda fu posta all’abate Agatone: “Che cosa e meglio: l’ascesi corporale o la custodia del cuore?” L’anziano rispose: «L’uomo è simile ad un albero: la fatica del corpo è il fogliame, e la custodia del cuore il frutto. Poiché, secondo la Scrittura, ogni albero che non produce buon frutto viene tagliato e gettato nel fuoco (Mt 3 10) è chiaro che tutta la nostra cura deve essere per il frutto cioè per la custodia del cuore, ma è necessaria anche la protezione e l’ornamento delle foglie che sono la fatica del corpo» (Agatone).
Quando un uomo, dopo aver udito la parola di Dio, intraprende la lotta, rigetta tutte le faccende di questa vita, i legami di questo mondo, tutti i piaceri carnali, rinnegandoli e liberandosene, e se rimane con perseveranza davanti al Signore, consacrandogli tutto il proprio tempo, scoprirà che nel cuore vi è un’altra lotta, un’altra battaglia, segreta, e una nuova guerra, contro i pensieri suggeriti dagli spiriti di malizia, e che lo attende un altro combattimento. Così, se non cede e invoca il Signore con una fede incrollabile e una grande pazienza, aspettando il suo aiuto, potrà ottenere da lui la liberazione dai legami, dai lacci, dalle sbarre e dalle tenebre degli spiriti di malizia, cioè dalle operazioni delle passioni nascoste […].
Per tutto il tempo in cui un uomo è preso dalle cose visibili di questo mondo, circondato dalle varie catene della terra, trascinato dalle passioni malvagie, non sa nemmeno che vi è un altro combattimento, un’altra lotta, un’altra guerra dentro se stesso. Infatti, soltanto quando un uomo si alza per combattere e liberarsi da ogni legame visibile di questo mondo, dagli affari materiali e dai piaceri carnali, e comincia a stare con perseveranza davanti al Signore svuotandosi di questo mondo, può conoscere il combattimento interiore delle passioni che si agitano in lui, la guerra interiore e i pensieri malvagi. Come si è detto, per tutto il tempo in cui uno non lotta, non rinuncia al mondo, non si distacca con tutto il cuore dalle bramosie terrene e non vuole unirsi totalmente e senza riserve al Signore, costui non conosce né le astuzie segrete degli spiriti di malizia, né le passioni malvagie nascoste in lui. Ma è estraneo a se stesso, non sapendo di portare in sé piaghe e passioni segrete; è ancora prigioniero delle cose visibili e volontariamente schiavo degli affari di questo mondo (San Macario l’Egiziano).
Ma come identificare questi pensieri cattivi? Evagrio Pontico ne ha composto un elenco, che è rimasto classico. Sarà ripreso, in Occidente, da san Cassiano di Marsiglia, poi, con qualche modifica, da papa san Gregorio Magno (540-604), che porterà a sette i «peccati capitali».
I pensieri cattivi possono essere tutti ricondotti a otto principali. Il primo è la golosità, il secondo la lussuria, il terzo l’amore del denaro, il quarto la tristezza, il quinto la collera, il sesto l’accidia, il settimo la vanagloria, l’ottavo l’orgoglio. Che tutti questi pensieri agitino o meno la nostra anima, non dipende da noi; ma che si attardino in noi e mettano in movimento la passione o no, ciò dipende invece da noi.
Il pensiero della golosità suggerisce al monaco di abbandonare al più presto l’ascesi, prospettandogli dolori allo stomaco, al fegato e alla milza, l’idropisia, una lunga malattia, la mancanza del necessario, l’assenza di medicine. Spesso gli suggerisce il ricordo dei fratelli che furono così provati; e talvolta suggerisce a costoro di andare a trovare quelli che si dedicano alla temperanza, per descrivere loro dettagliatamente le proprie malattie, attribuendole all’ascesi.
Il demone della lussuria costringe a desiderare dei corpi, attacca con la più grande violenza coloro che si dedicano alla temperanza, per spingerli alla rilassatezza, persuadendoli che si affaticano invano. Assilla talmente l’anima da inclinarla verso tali azioni, fa si che pronunci parole e ne oda, come se la cosa fosse là sotto i suoi occhi.
L’amore del denaro suggerisce una lunga vecchiaia, il non poter più lavorare con le proprie mani, la minaccia della fame, le malattie che sopraggiungeranno, l’amarezza della povertà, e com’è disonorevole dover mendicare il necessario.
La tristezza o nasce dalla privazione di una cosa desiderata, oppure accompagna la collera. Ecco come nasce dalla privazione di una cosa desiderata: sono i pensieri a dare l’inizio col riportare alla memoria del monaco la sua casa, i suoi genitori, la sua vita passata; poi, quando essi vedono che, invece di resistere egli vi presta volentieri attenzione e si abbandona con la mente a questi piaceri, si impadroniscono di lui e lo fanno precipitare nella tristezza all’idea che le cose passate non ci sono più e che il suo genere di vita attuale impedisce il loro ritorno. Perciò, più l’infelice anima si è abbandonata con piacere ai primi pensieri, più è abbattuta dai secondi.
Quanto alla collera, essa è una passione estremamente ardente. E’ infatti un ribollimento e un movimento dell’irascibile contro chi ci ha offeso o è sembrato offenderci. Essa riempie l’anima di una continua acredine e si impossessa dello spirito, soprattutto durante la preghiera, agitando sotto i suoi occhi l’immagine di colui che l’ha contrariata […].
C’è poi il demone dell’accidia, detto anche demonio meridiano (cfr. SaI 90, 6), ed è il più pesante di tutti i demoni. Egli attacca il monaco verso la quarta ora e assedia la sua anima fino all’ora ottava. Comincia dandogli l’impressione che il sole sia lentissimo nella sua corsa o perfino immobile, e che il giorno abbia cinquanta ore. Poi lo spinge a guardare sempre dalla finestra, lo getta fuori dalla sua cella per scrutare il sole e vedere se l’ora nona è vicina, infine lo sollecita a guardarsi attorno nell’attesa della visita di un fratello. Gli genera avversione verso il luogo in cui dimora, il suo genere di vita, il lavoro delle sue mani; gli insinua il pensiero che non c’è più carità tra i fratelli e che non può contare su nessuno. Se in quei momenti qualcuno viene a rattristarlo, il demonio ne approfitta per aumentare ancora più questa avversione. Gli fa desiderare altri luoghi, dove gli sarà più facile procurarsi il necessario, dove troverà un mestiere più facile e nel quale riuscirà meglio. A questo aggiunge il pensiero che, per piacere a Dio, poco importa il luogo in cui ci si trova, perché è possibile ovunque adorare la divinità. Gli ricorda ancora i genitori e la vita di un tempo. Gli prospetta la lunghezza della vita e gli mette sotto gli occhi le fatiche dell’ascesi. In una parola, lo scuote da capo a piedi, fino al punto che il monaco, abbandonata la sua cella, fugga fuori dallo stadio. Tuttavia, a questo demone non ne segue alcun altro, per cui, se supera il combattimento, l’anima si ritrova in uno stato di pace e in una gioia ineffabile.
Il pensiero della vanagloria è estremamente sottile, e nasce facilmente in coloro che praticano l’ascesi: cerca in tutti i modi di rendere note le loro lotte, ricerca la gloria che viene dagli uomini, fa loro immaginare demoni che gridano, donne sanate, folle che cercano di toccare i loro abiti; poi predice loro il sacerdozio, fa apparire alla loro porta persone che bramano di vederli al punto di costringerli, se mai non volessero. Dopo averli così innalzati con speranze piene di vanità, li abbandona a se stessi o alle tentazioni del demone dell’orgoglio o a quello della tristezza, che li assalgono con pensieri contrari alla speranza. Consegna infine al demone della lussuria colui che, proprio un istante prima, era un sacerdote così santo da doverlo perfino legare per poterlo ordinare.
Il demone dell’orgoglio provoca all’anima le cadute più terribili. La persuade a non riconoscere che l’aiuto gli viene da Dio; a pensare di stare praticando l’ascesi con successo e di innalzarsi al di sopra degli altri, stimandoli tardi di mente perché non ne riconoscono la superiorità. In seguito sopraggiungono la collera, la tristezza, e – male supremo – lo smarrimento dello spirito e la follia, così come anche visioni di folle di demoni nell’aria (Evagrio Pontico).
- 2. LA SOBRIETA’ SPIRITUALE E IL DISCERNIMENTO DEGLI SPIRITI
Le cose sarebbero relativamente semplici se la tentazione si presentasse sempre a viso scoperto. Ma già l’apostolo Paolo metteva in guardia i Corinzi di quanto Satana era capace di trasformarsi in angelo di luce (cfr. 2Cor li, 14). Molte sono le illusioni che attendono al varco il novizio inesperto. Le consolazioni nella preghiera, le lacrime, gli stessi colloqui spirituali possono nascondere delle trappole per chi non è vigilante.
Le lacrime, se sono causate dal timore, hanno in se stesse la garanzia. Ma se sono causate dall’amore, quando è ancora a uno stadio imperfetti o, come può accadere per certuni, possono facilmente cambiarsi in illusione. A meno che il pensiero del fuoco eterno non abbia acceso il cuore nel momento dell’azione. Ed è significativo notare che in quel momento il fuoco meno nobile è anche il più sicuro.
Nel tempo della tentazione, ho sperimentato come questo lupo producesse ingannevolmente nella mia anima una gioia, delle lacrime e una consolazione che erano prive di un ragionevole fondamento; e io ero come un bambino: credevo di cogliere un frutto buono, non un oggetto che mi corrompeva (San Giovanni Climaco).
Esaminiamo, soppesiamo, sorvegliamo le dolcezze che sentiamo durante la salmodia, per distinguere quali provengono dal demone della lussuria e quali dalle parole dello Spirito e dalla grazia e dalla forza che esse contengono. Non ingannarti, o giovane. Ho visto infatti uomini pregare con tutta l’anima per quanti erano loro cari. Credevano di adempiere alla legge dell’amore, ed erano invece mossi dallo spirito di lussuria. Voi tutti che avete deciso di custodire la purezza, ascoltate un’altra furbizia e un altro espediente di quell’astuto, e guardatevene. Qualcuno che aveva esperienza di questa scaltrezza mi ha riferito che molto spesso il demone della lussuria si nasconde completamente, e mentre il monaco siede e conversa con delle donne, gli ispira grandi sentimenti di pietà e forse anche torrenti di lacrime, e gli suggerisce di ammaestrarle parlando loro del ricordo della morte, del giudizio e della castità. Allora le sventurate, ingannate da questi discorsi e dalla sua falsa pietà, accorrono da quel lupo come fosse un pastore, e quando i rapporti sono diventati più familiari ecco che l’infelice viene travolto nella caduta. Esamina attentamente la soavità che provi nella tua anima, per timore che non sia stata preparata con inganno da medici crudeli, anzi da traditori (San Giovanni Climaco).
Come discernere la moneta falsa? Nulla può sostituire la chiaroveggenza del padre spirituale. Tuttavia, sin dalle origini del monachesimo, sant’Antonio aveva fissato alcuni criteri che possono aiutare a scovare l’illusione. Antonio considerava soprattutto il caso delle apparizioni angeliche o demoniache. Ma la portata delle sue osservazioni è più ampia. Un pensiero, un moto interiore o una ispirazione accompagnata da pace, gioia, umiltà, è “spirito buono”. Al contrario, tutto ciò che fa nascere nell’anima turbamento, agitazione e durezza porta il segno dello spirito cattivo, anche se l’apparenza è buona.
È possibile e facile, se Dio ne fa la grazia, discernere la presenza degli spiriti buoni da quelli cattivi. L’apparizione dei santi non genera turbamento: “Non griderà, non alzerà il tono, non farà udire la sua voce nelle strade (Is 42, 2). La loro presenza è così dolce e tranquilla che colma immediatamente l’anima di gioia, esultanza e fiducia. Perché con loro c’è il Signore, il quale è la nostra gioia e la potenza di Dio Padre. I pensieri dell’anima rimangono tranquilli e senza turbamento. Essa stessa, immersa nella luce, può contemplare da sola coloro che le sono apparsi. Allora il desiderio delle cose divine e future si impossessa di lei, e vorrebbe assolutamente unirsi i con loro. Se avviene che, essendo mortali, alcuni temono alla vista degli spiriti buoni, la carità di questi è tale da dissipare questo timore. Allo stesso modo fece Gabriele con Zaccaria (cfr. Lc 1, 13), e l’angelo che apparve alle donne presso il divino sepolcro (cfr. Mt 28, 5), e quello che secondo il Vangelo, apparve ai pastori e disse “Non temete” (Lc 2, 10). Perché questo timore non proviene dall’infermità dell’anima, ma dal fatto che essa riconosce la presenza di esseri che le sono superiori. Tali sono le apparizioni dei santi spiriti. Al contrario, l’incursione e l’apparizione dei cattivi spiriti getta nel turbamento; essi vengono con rumore, strepito e grida, e si agitano come giovani senza educazione o briganti. Subito nascono nell’anima il timore, il turbamento e il disordine dei pensieri; la tristezza, il rancore verso gli asceti; l’accidia, l’afflizione, il ricordo dei genitori; la paura della morte; infine i desideri malvagi, il disprezzo della virtù e il disordine dei costumi. Perciò, quando qualche apparizione vi spaventa, se questo timore si dissipa subito e al suo posto provate una gioia ineffabile, ardore, fiducia, conforto, tranquillità nei pensieri, generosità e amor di Dio, e tutto ciò che è stato già detto, prendete coraggio e pregate, perché questa gioia e questo stato quieto dell’anima manifestano la santità di colui che si rende presente (Sant’ Atanasio di Alessandria).
Mille anni dopo, san Massimo Capsocaliva si esprimerà quasi negli stessi termini nel corso di un colloquio con san Gregorio Sinaita.
Altri sono i segni dell’inganno, e altri quelli della grazia e della verità dello Spirito.Ecco quelli dell’inganno: quando il Maligno entra in contatto con noi, suscita nell’intelletto il turbamento; lo rende ribelle e indurisce il cuore; gli ispira mollezza e sfiducia; effonde tenebre sui suoi pensieri; rende cattivo lo sguardo; confonde la mente; consegna il povero corpo al tremore; fa apparire davanti agli occhi il fuoco fascinoso dell’errore, e non quello che diffonde una luce chiara e serena. Fa uscire poi di senno e rende l’intelletto demoniaco. Infine fa uscire dalla bocca parole sconvenienti e bestemmie. L’uomo diventa così soltanto irritazione e collera. In lui non vi è più né umiltà, né preghiere, né lacrime; egli trae continuamente motivo di vanto dalla sua virtù e se ne gloria. Resta chiuso nelle sue passioni, finché perde il senno e va in perdizione. Da questo inganno del Maligno, o Padre santo, il Signore ci liberi. Quanto ai segni della grazia, eccoli: quando il Santo entra contatto con noi, unifica l’intelletto donandogli sapienza, umiltà e misura.
Pone nell’anima il pensiero della morte, del giudizio, dei nostri peccati, e anche del castigo del fuoco. Dona al cuore la perfetta compunzione, l’afflizione e il pianto; rende lo sguardo più dolce, e le lacrime scendono dagli occhi. Più il contatto è ravvicinato, più l’anima trova dolcezza e consolazione nella preziosa Passione di Cristo e nel suo immenso amore per gli uomini. Egli suscita nell’intelletto contemplazioni altissime scevre da inganno […]. In questo modo lo illumina con lo splendore della conoscenza divina. E quando l’intelletto è rapito, nello Spirito Santo, da questa inaccessibile luce divina, esso viene illuminato da questa stessa luce divina e splendente. Ciò rende il cuore quieto, e colui che ha ricevuto tali doni ottiene nel suo intelletto, nel suo cuore, nella sua ragione e nel suo spirito una beatitudine e una gioia ineffabili.
Dopo che è stata riscontrata la natura cattiva di un pensiero, com’è possibile resistergli efficacemente? A questo scopo è utile conoscere il processo della tentazione, al fine di opporle resistenza al momento opportuno. San Giovanni Climaco ha così descritto le varie fasi della tentazione:
I padri, dotati di discernimento, hanno distinto gli uni dagli altri l’approccio, l’adesione, il consenso, la prigionia, il combattimento e ciò che viene chiamata passione dell’anima. Questi uomini beati definiscono l‘approccio come la prima apparizione, nel cuore, del semplice pensiero o dell’immagine di un oggetto che si presenta. L’adesione consiste nell’accettare il dialogo con ciò che si è manifestato, seguito o meno da passione. Il consenso è l’acquiescenza dell’anima, accompagnata da diletto, a ciò che le viene proposto. La prigionia è un impulso violento e involontario del cuore; o anche un continuo attaccamento all’oggetto in questione tale da distrugge la buona disposizione della nostra anima. Il combattimento è definito come un confronto, ancora a parità di forze, con l’avversario, in cui l’anima, secondo la scelta della sua volontà, riporta la vittoria o subisce una sconfitta. Essi dicono che la passione, in senso proprio, è un male che da tempo affliggeva segretamente l’anima e che l’ha portata a contrarre un intimo legame con sé, costringendola, con disposizione abituale, a piegarsi ad essa spontaneamente e connaturalmente. Di tutti questi movimenti, il primo è senza peccato; il secondo non sempre lo è; quanto al terzo, è colpevole o no secondo lo stato interiore del combattente. Il combattimento infine è l’occasione che procura corona o castigo (San Giovanni Climaco).
L’approccio o suggestione è la semplice apparizione nella coscienza del pensiero di una cosa cattiva, e di un’attrazione verso di essa; potrà essere, per esempio, un pensiero di vendetta, di golosità, un invito a compiacersi in una cattiva tristezza, ecc. Esso è involontario, e sarebbe vano pretendere di impedire che nascano in noi questi moti. Al contrario, dandoci l’occasione di dimostrare il nostro amore per il Signore e mantenendoci nell’umiltà, la tentazione ha un ruolo importante nell’opera della nostra santificazione. È in questo senso che Evagrio Pontico poteva dire: «Togli le tentazioni, e nessuno sarà salvato».
Nell’adesione o dialogo, riflettiamo sulla tentazione e, in qualche modo, ci intratteniamo con essa. Ciò può non comportare nessuna connivenza segreta con essa e non avere altro fine che opporgli ragioni contrarie. E questo un metodo che non è senza pericolo e che i Padri generalmente sconsigliano, soprattutto agli asceti inesperti. Perché il dialogo può nascondere già un mezzo consenso, un compiacimento inconfessato che non è del tutto esente dal peccato.
Il consenso è una presa di posizione personale: accettiamo di far consistere il nostro piacere nella gioia cattiva che ci è proposta: aderiamo a questa tensione disordinata e identifichiamo, in qualche modo, il nostro io con essa.
Se consensi simili si ripetono, generano dapprima la passione, che è la tendenza cattiva promossa a stato di seconda natura, poi la prigionia, vera ossessione, impulso irresistibile in cui la libertà non ha più posto.
S’impone quindi un’estrema vigilanza che i Padri chiamano custodia del cuore o sobrietà (nepsis). Bisogna combattere i pensieri sin dal loro apparire, sin dallo stadio in cui sono semplici suggestioni:
Dobbiamo perciò costantemente ricordarci di questo precetto: «Custodisci il tuo cuore con tutte le possibili attenzioni» (Prv 4, 23), e, secondo il comandamento dato da Dio al principio, sorvegliare la testa velenosa del serpente (cfr. Gn 3, 15), cioè l’inizio dei pensieri cattivi, coi quali il diavolo tenta di penetrare nella nostra anima. Non lasciamo che, per negligenza, il resto del suo corpo, cioè il consenso al piacere cattivo, entri nel nostro cuore; se vi entrasse, certamente il suo morso velenoso darebbe la morte all’anima divenuta sua prigioniera. Dobbiamo anche mettere a morte sin dal mattino i peccatori della terra» (SaI 100, 8), cioè i pensieri carnali, e «sbattere contro la pietra i figli di Babilonia» (Salì 36, 9), quando sono ancora piccoli, perché se non li sterminiamo nella loro infanzia, cresceranno grazie alla nostra connivenza e ci combatteranno con ancora più forza per la nostra perdizione – oppure non potremo vincere se non con molta pena e fatica (San Cassiano).
3. LA PREGHIERA “MONOLOGICA” DI GESU’
Evidentemente, non basta essere vigilanti, mettere allo scoperto i pensieri cattivi e volervisi opporre. Soltanto la potenza di Cristo può permetterci di combatterli vittoriosamente. Già Origene, molto consapevole della stretta unione che c’è tra Cristo e i cristiani sue «membra», insegnava che è il Cristo stesso che continua nei fedeli il suo combattimento contro Satana e che ogni vittoria ottenuta da un cristiano è una vittoria di tutta la Chiesa. E’ dunque principalmente a Origene che risale l’idea del combattimento spirituale come continuazione del combattimento redentore e l’immagine della campagna militare di Cristo e delle due Città contrapposte, che si ritroveranno, nel XVI secolo, nelle meditazioni di sant’Ignazio di Loyola su «il Regno» e “le due Bandiere”.Ma essa è stata profondamente assimilata dai primi monaci e da Evagrio Pontico. Nello stesso tempo, l’antica concezione secondo la quale, nella persona del martire, è il Cristo stesso che soffre e combatteveniva trasferita, dopo la fine delle persecuzioni, al combattimento
del monaco contro le tentazioni diaboliche. Per questo, alla vigilanza, i maestri spirituali consigliavano di aggiungere un’invocazione a Cristo, breve, ma ripetuta incessantemente. E quella che è stata chiamata «preghiera monologica», composta cioè di una sola breve formula.
Con questa pratica, i pensieri si spezzeranno contro la potenza vittoriosa di Cristo, che si fa presente appena lo si invoca; contemporaneamente, essa permetterà di opporre al «ricordo del male» il «ricordo di Dio», che nei nostri autori indica la presa di coscienza di questa attrazione divina e di questo senso intimo delle cose di Dio iscritto nell’anima col battesimo. Già Cassiano dava a questo metodo una formulazione quasi definitiva, anche se non conosceva l’invocazione del Nome di Gesù:
Ogni monaco che tende al ricordo continuo di Dio, deve abituarsi a sussurrare interiormente e a ripetere incessantemente, nel suo cuore, la formula che vi consegno, e, mediante ciò, cacciare la moltitudine degli altri pensieri, perché non potrà realizzarlo se non liberandosi da tutte le cure e le sollecitudini del corpo. E questa una dottrina alla quale siamo stati iniziati dai rari superstiti dei più antichi Padri, e che, anche noi, consegniamo ai rari privilegiati, che abbiano veramente sete di conoscerla. Per conservare continuamente il ricordo di Dio, dovete quindi tenere presente nel vostro spirito, incessantemente, questa santa formula: «Mio Dio, vieni in mio aiuto; Signore, affrettati a soccorrermi» (Sal 69, 2). Non è senza motivo che questo versetto è stato scelto fra tutta la Sacra Scrittura. Esso esprime tutti i sentimenti che la natura umana può concepire, ed è perfettamente adatto a tutti gli stati e a tutte le tentazioni. Vi è in esso l’invocazione di Dio contro tutti i pericoli, l’umiltà di un’umile e pia confessione, la vigilanza che proviene da un’attenzione e da un timore continuo, la considerazione della nostra fragilità, la fiducia di essere esauditi, la certezza di un soccorso sempre presente e pronto a intervenire. Perché colui che invoca incessantemente il suo Protettore è certo di averlo sempre presente (San G. Cassiano)
I due elementi fondamentali della preghiera di Gesù sono già presenti ante litteram in questo testo degno di nota: anzitutto l’umile confessione della nostra miseria, che sola può aprirci alla grazia, e nella quale i Padri del deserto vedevano, proprio per questo motivo, l’unica via di salvezza: e poi lo stretto legame stabilito tra l’invocazione e la presenza intima del Signore.
È in Egitto, in un’epoca indeterminata, ma poco posteriore a quella di Cassiano, che la menzione del nome di Gesù sembra sia stata introdotta nella formula della preghiera monologica, che è diventata così: «Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me, peccatore!». Non è mai stata, tuttavia, una formula stereotipa. La sua pratica ammette delle varianti, e l’invocazione può anche ridursi al solo nome di Gesù. I Padri raccomandano però di non variare troppo spesso la formula, perché la monotonia della ripetizione ha un ruolo importante nel metodo.
Diadoco di Fotica è uno dei primi testimoni di questa «preghiera di Gesù», che è anche una «meditazione del suo santo glorioso Nome”dando al termine «meditazione» il suo antico senso di ruminazione di una parola o di una formula:
Quando chiudiamo tutte le sue uscite col ricordo di Dio, l’intelletto esige assolutamente da noi un’opera che deve soddisfare il suo bisogno di attività. Bisogna dargli perciò il «Signore Gesù» come la sola occupazione che risponde interamente al suo scopo. E scritto infatti: «Nessuno può dire “Gesù è Signore”, se non nello Spirito Santo» (1Cor 12, 3). Ma per non volgersi ad alcuna fantasia, bisogna che contempli sempre in modo esclusivo questa parola, nel suo segreto. Infatti, tutti quelli che meditano incessantemente nel profondo del loro cuore questo santo e glorioso Nome, possono vedere infine la luce del proprio intelletto. Infatti esso, trattenuto dalla mente con attenta cura, brucia con intensa percezione tutta la sozzura che copre la superficie dell’anima; è detto infatti: «Il nostro Dio è un fuoco divorante» (Dt 4, 24). Il Signore poi sollecita l’anima a un grande amore della sua gloria. Perseverando, attraverso il ricordo dell’intelletto, nel fervore del cuore, questo Nome glorioso e così desiderabile fissa in noi l’abito di amarne la bontà senza che nulla ormai vi si opponga. È questa infatti la perla preziosa che si può acquistare vendendo tutti i propri beni, per godere, alla sua scoperta, di una gioia ineffabile (Diadoco di Fotica).
Con ciò, Diadoco vuole dire che il Nome di Gesù, come i versetti della Scrittura che gli antichi monaci amavano ruminare con una meditazione incessante, ha in sé un’efficacia eccezionale per risvegliare nel cuore l’amore divino che in lui è nascosto, in virtù del battesimo, come una scintilla sotto la cenere. Con l’invocazione, il gusto di Dio e delle cose di Dio si fa sentire e trionfa sulle false dolcezze del peccato. Lo spirito può allora «vedere la sua propria luce», espressione evagriana che indica la contemplazione e significa che lo spirito, prendendo coscienza sperimentata dell’inclinazione che lo spinge verso Dio, gusta qualcosa di Dio stesso, poiché questa stessa attrazione è la manifestazione della presenza divinizzante del Cristo e del suo Spirito nell’uomo. In seguito, Diadoco mostra l’intima connessione che deve stabilirsi tra l’invocazione formulata dallo spirito dell’uomo, e l’aspirazione dello Spirito Santo che, a poco a poco, si lascia provare nel fondo del cuore:
Allora l’anima afferra la grazia stessa che medita e che grida con essa «Signore Gesù», come una madre che insegna al proprio figlio la parola «padre», ripetendola insieme a lui finché lo porti, invece del balbettio infantile, all’abitudine di chiamare distintamente suo padre, anche nel sonno. Per questo l’Apostolo dice: «Allo stesso modo lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza, perché nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare, ma lo Spirito stesso intercede con insistenza per noi, con gemiti inesprimibili» (Rm 8, 26). (Diadoco di Fotica).
Questa abitudine alla preghiera, che prosegue «anche nel sonno», è tutt’altra cosa rispetto a un semplice riflesso automatico originato dalla ripetizione degli atti. Essa è il frutto di una pienezza interiore, di una perfetta unificazione di tutte le energie dell’anima messe al servizio della carità e animate da essa. Il costante ricordo di Dio, al quale conduce l’esercizio dapprima faticoso della preghiera di Gesù, risulta più da uno stato, da un orientamento divenuto spontaneo e stabile del cuore verso Dio, che da una successione di atti. E’, come dirà il patriarca Callisto in un breve trattato tra i più notevoli della Filocalia, un’acqua viva e zampillante che scaturisce dall’anima come da una sorgente perpetua. E’ ciò che assillava l’anima di Ignazio il Teoforo e gli faceva dire: «Ciò che è in me, non è il fuoco avido della materia, ma è l’acqua che opera e che parla» (Callisto II).
- 4. IL METODO PSICO-FISICO
L’elemento fondamentale del metodo esicasta è quindi la preghiera monologica: «Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me, peccatore!». La tradizione esicasta vi ha aggiunto in seguito l’assunzione di una determinata posizione corporale e di un certo controllo della respirazione. Le prime descrizioni scritte sistematiche che ci sono pervenute risalgono al XIII secolo, ma vari indizi fanno pensare che questo metodo psico-fisico esistesse già, almeno in uno stadio rudimentale, in un’epoca più antica. La necessità assoluta di controllo da parte di un padre spirituale esperto giustifica il carattere dapprima orale della tradizione su questo punto; gli stessi resoconti letterari non pretendono d’altra parte di supplire all’iniziazione vivente, essendo incompleti.
La testimonianza più antica sul metodo ci viene da Niceforo il Solitario:
Innanzitutto bisogna che la tua vita sia quieta, pura da ogni preoccupazione, in pace con tutti. Allora entra e chiuditi nella tua cella e, seduto in un angolo, fa’ ciò che ti dico:
Tu sai che il nostro respiro è l’aria che inspiriamo ed espiriamo grazie al cuore. Perché è il cuore il principio della vita e del calore del corpo. Il cuore attira l’aria per emettere all’esterno il proprio calore, mediante l’espirazione e raggiungere una buona temperatura. Il principio di questa organizzazione, o meglio il suo strumento, è il polmone. Creato poroso dal Creatore, incessantemente introduce ed espelle l’aria come un mantice. Allo stesso modo il cuore, attirando il freddo con il respiro ed emettendo il caldo, conserva imprescindibilmente la funzione che gli è stata assegnata per l’equilibrio del vivente.
Tu dunque, come ti ho detto, siediti, raccogli il tuo intelletto, introducilo – il tuo intelletto – nelle narici; è quello il cammino che percorre l’aria per andare al cuore. Spingilo, costringilo a scendere nel tuo cuore insieme all’aria inspirata. Quando vi sarà giunto, vedrai la gioia che ne seguirà: non avrai nulla da rimpiangere. Come un uomo che rientra a casa dopo un’assenza non trattiene più la gioia di poter ritrovare la moglie e i figli, così l’intelletto, quando si è unito all’anima, trabocca di una gioia e di delizie ineffabili.
Fratello mio, abitua il tuo intelletto a non affrettarsi ad uscire di là. All’inizio è privo di zelo – è il meno che si possa dire – a causa di questa reclusione e di questa strettezza interiore. Ma, quando si sarà abituato, non proverà più alcun piacere nelle relazioni esterne. Perché «il regno di Dio è dentro di noi» e per colui che si volge verso di esso e lo cerca con la preghiera pura tutto il mondo esterno diventerà vile e detestabile.
Se fin dall’inizio entri attraverso l’intelletto nel luogo del cuore che ti ho mostrato, siano rese grazie a Dio. Glorificalo, esulta e tieniti sempre occupato in questa attività, ed essa ti insegnerà ciò che tu ignori. Sappi, poi, che quando il tuo intelletto si trova in quel luogo, tu non devi tacere o restare ozioso. Ma non devi avere altra occupazione o meditazione che il grido: «Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me!», senza tregua e ad ogni costo. Questo esercizio, mettendo il tuo intelletto al riparo dalle divagazioni, lo rende impenetrabile e inaccessibile alle suggestioni del nemico e, ogni giorno, lo innalza all’amore e al desiderio di Dio.
Ma se, fratello mio, nonostante tutti i tuoi sforzi, non giungi a penetrare all’interno del cuore seguendo le mie indicazioni, fa ciò che ti dico e, con l’aiuto di Dio, riuscirai nel tuo scopo. Tu sai che la ragione dell’uomo ha sede nel petto. E’ infatti nel nostro petto che, pur rimanendo mute le labbra, parliamo, decidiamo, ordiniamo le preghiere e i salmi, ecc. Dopo aver bandito da questa ragione tutti i pensieri (e se vuoi lo puoi), dalle l’invocazione: “Signore Gesù Cristo, abbi pietà di me!” e costringila a gridare interiormente queste parole, escludendo ogni altro pensiero. Quando, col tempo, sarai padrone di questo esercizio, esso ti aprirà certamente la porta del cuore, così come ti ho detto. Io stesso ne ho fatto l’esperienza. Insieme alla gioiosa e desiderabile attenzione, vedrai venire a te tutto il coro delle virtù, l’amore, la gioia, la pace e il resto. Grazie ad esse tutte le tue richieste saranno esaudite nel Nostro Signore Gesù Cristo.
San Gregorio Palamas, che difese il metodo dalle facili accuse dei suoi avversari, così lo commenta:
Tu lo vedi, fratello: Giovanni (Climaco) ha dimostrato che basta esaminare il problema umanamente, non solo spiritualmente, per vedere che è assolutamente necessario introdurre e mantenere l’intelletto dentro il corpo, quando si è scelto di possedersi veramente e di essere un monaco degno di questo nome secondo l’uomo interiore. D’altra parte, non è sconveniente insegnare, soprattutto ai principianti, a guardare in se stessi e a introdurre il proprio intelletto dentro di sé mediante l’inspirazione. Nessuna persona sensata, infatti, impedirebbe a qualcuno di introdurre in se stesso, attraverso certi procedimenti, il proprio intelletto che non è ancora in grado di contemplare se stesso. Coloro che hanno appena iniziato questa lotta vedono continuamente fuggire il proprio intelletto, appena raccolto, e devono, altrettanto continuamente, ricondurlo; nella loro inesperienza, non si rendono conto che niente al mondo è più difficile da contemplare e più mobile dell’intelletto. Per questo motivo, alcuni raccomandano di controllare l’emissione e la ripresa del respiro e di trattenerlo un poco, in modo da trattenere con esso anche l’intelletto, vigilando sulla respirazione perché, con l’aiuto di Dio, progrediscano fino a impedire al proprio intelletto di uscire verso ciò che lo circonda, e purificarlo, perché possano ricondurlo davvero a un raccoglimento uniforme. Si può anche constatare che questo è un effetto spontaneo dell’attenzione dell’intelletto, perché l’entrata e l’uscita del respiro diventa quieta anche durante una riflessione intensa, soprattutto in coloro che sono nell’esichia col corpo e con la mente […]. Colui che cerca di raccogliere l’intelletto in se stesso per spingerlo non ad un movimento in linea retta (verso l’esterno), ma ad un movimento circolare e infallibile (ritornando su se stesso), invece di girare gli occhi qua e là, come potrebbe non trarne grande profitto fissando il proprio petto o il proprio ombelico come punto di appoggio? Perché non soltanto si raccoglierà in se stesso esteriormente, per quanto gli sarà possibile, conformemente al movimento interiore che va ricercando per il suo intelletto, ma, mediante questo atteggiamento del corpo, invierà verso l’interno del cuore anche la potenza dell’intelletto che si riversa all’esterno attraverso la vista.
Alcuni ironizzeranno sulla fisiologia «sorpassata» che sembra implicare l’insegnamento degli esicasti. Ma in realtà non è questa a fondare il metodo; essa cerca piuttosto di spiegarlo a posteriori. La cosa più importante è l’esperienza, ed essa ha rivelato a questi spirituali un misterioso ma innegabile legame tra il respiro, e quindi i polmoni, il cuore fisico, e lo spirito (o «intelletto»). E innanzitutto un fatto, e la sua attuazione nel campo della vita spirituale si è rivelata molto feconda. Poco importa, in definitiva, che in seguito sia spiegata con una teoria fondata su dati di ordine anatomico e fisiologico. Lo si è già visto riguardo all’ascesi corporale, per gli esicasti, la cui concezione del complesso umano è vicina a quella della Bibbia. É tutto l’essere, corpo e anima, che deve partecipare della vita spirituale, perché è tutto l’essere che deve ricevere la salvezza ed essere divinizzato. Si tratta sempre di simboleggiare le attitudini dell’anima con gesti del corpo, per permettere «l’integrazione armoniosa di tutto il nostro essere nella sua ascesa verso Dio». D’altronde non si tratta di un metodo, in senso stretto, proporzionato all’effetto che si vuole ottenere, ma soltanto di un aiuto, però non trascurabile. Altrimenti verrebbe compromessa la gratuità del dono di Dio.
Prima di tutto, è con l’aiuto della grazia divina che l’intelletto riesce in questo combattimento. È la grazia divina che corona l’invocazione monologica rivolta a Gesù Cristo con fede viva, con tutta purezza, senza distrazioni, col cuore. Non è l’effetto puro e semplice del metodo naturale della respirazione praticato in un luogo tranquillo e oscuro. I santi Padri, inventando questo metodo, miravano soltanto a fornire un aiuto, se così si può dire, per raccogliere l’intelletto (San Callisto e Ignazio Xanthopouli).
La nostra ricerca sulle origini del metodo esicasta ha troppe lacune perché si possa determinare se esistono rapporti d’influenza tra esso e le spiritualità musulmana, induista o buddista, che predicano anch’esse l’invocazione del Nome divino unita a una tecnica respiratoria. Una simile influenza non avrebbe in sé nulla che screditi il metodo: le leggi della fisica umana sono universali, e la grazia, lungi dal distruggere la natura, ne assume il dinamismo profondo, trasfigurandolo. E soprattutto la tecnica è sostenuta, nel nostro caso, da una dottrina autenticamente biblica e cristiana. Senza la fede nei dogmi della creazione dell’universo spirituale e materiale, della salvezza per grazia in Cristo, della risurrezione dei corpi, della deificazione mediante i sacramenti, l’insegnamento che i «santi Padri niptici» ci hanno trasmesso riguardo alla preghiera del cuore sarebbe incomprensibile. L’ultimo fondamento del metodo è la confessione del corifeo degli Apostoli davanti al Sinedrio: «Non vi è altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale sia stabilito che possiamo essere salvati» (At 4, 12).
In un tempo in cui molti cristiani sono alla ricerca di «una disciplina totale di vita, anche corporale, che favorisca il loro equilibrio e il loro sviluppo spirituale», è interessante per noi ascoltare i vecchi monaci che hanno saputo mettere al servizio del pieno sviluppo della grazia di Cristo nell’uomo una sapienza umana il cui segreto l’Occidente ha perduto.
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