• 12 Nov

    L’esychia

     Archimandrita Kallistos: da “Sobornost” N ° 3- 19

    tratto da: M. BRUNINI: La preghiera del cuore nella spiritualità orientale, ed. Messaggero

     I.                  I DIFFERENTI LIVELLI DELL’ESYCHIA

    Una delle storie dei “Detti dei Padri del deserto” descrive una visita di Teofilo, arcivescovo di Alessandria. ai monaci di Scete. Ansiosi di fare una buona impressione al loro illustre ospite. i monaci riuniti chiesero all’abate Pambo: “Di’ qualcosa di edificante all’Arcivescovo“. Ed il vecchio rispose: “Se non è edificato dal mio silenzio, tanto meno sarà edificato dalle mie parole“. Questa storia indica l’estrema importanza data dalla tradizione del deserto alla esychia, la qualità dell’immobilità e del silenzio. “Dio ha scelto l’esychia al di sopra di ogni altra virtù” è detto altrove nei “detti dei padri del deserto”. Come insiste S. Nilo di Ancira: “È impossibile che l’acqua infangata si possa chiarificare se si continua a rimestarla; ed è impossibile diventare monaco senza l’esychia“.

    Esychia, comunque, significa ben di più della semplice astenzione dal parlare fisico. Il termine può essere invece interpretato a molti livelli differenti. Tentiamo di distinguere i vari significati, partendo dai più esteriori per arrivare ai più profondi ed interiori.

         Esychia e solitudine

    Nelle fonti più antiche il termine “esicasta” e il relativo verbo “esichazo” generalmente denota un monaco che vive in solitudine, da eremita, a differenza di quelli che sono membri di un cenobio. Questa accezione si ritrova già in Evagrio pontico ( + 399) e in Nilo e Palladio (inizi V secolo). Si ritrova pure nei “Detti dei Padri del deserto“, in Cirillo di Scitopoli, in Giovanni Mosco, Barsanufio, e nella legislazione di Giustiniano. Il termine esychia continua ad essere adoperato con questo significato anche in autori posteriori, come in S. Gregorio il Sinaita ( + 1346). A questo livello il termine si riferisce soprattutto alla relazione, nello spazio, di un uomo in rapporto ad altri. Questo è il significato più esteriore.

    Esychia e la spiritualità della cella

    Esychia – dice l’abate Rufo nei “Detti” – è dimorare nella propria cella nel timore e nella conoscenza di Dio, astenendosi completamente dal rancore e dalla vanagloria. Tale esychia è madre d’ogni virtù e protegge il monaco dalle frecce infuocate del nemico“. Rufo continua mettendo l’esychia in relazione col ricordo della morte e conclude dicendo: “Siate vigilanti sulla vostra anima“. Esychia è qui associata con un altro termine chiave della tradizione del deserto, “nepsis“, sobrietà spirituale o vigilanza. Quando “esychia” è collegata con la cella, il termine si riferisce ancora alla situazione esterna, dell’esicasta nello spazio; ma questo significato è allo stesso tempo più interiorizzato e spirituale. L’esicasta, nel senso di uno che rimane con attenta vigilanza nella sua cella, non è sempre un solitario, ma può essere anche un monaco vivente in comunità. L’esicasta è, allora, uno che obbedisce all’ingiunzione di Abba Mosè: “Vai a sederti nella tua cella e la tua cella ti insegnerà tutto“. Egli tiene a mente il consiglio che Arsenio diede ad un monaco che desiderava fare opera di servizio caritatevole: – Qualcuno domandò ad Arsenio, “I miei pensieri mi tormentano dicendomi: – Non puoi digiunare, né lavorare: almeno vai a visitare gli infermi, che questo è pure una forma di amore”. L’anziano, riconoscendo i germi seminati dal demonio, gli disse: – “Vai, mangia, bevi e dormi senza fare alcun lavoro; solamente non lasciare la tua cella“. Perché egli sapeva che la permanenza paziente in cella, porta il monaco al compimento della sua vocazione.

    La relazione tra esychia e la cella è chiaramente definita in un famoso detto di S. Antonio d’Egitto: “I pesci muoiono se s’attardano in terra asciutta; similmente i monaci, quando ciondolano fuori della cella o passano il loro tempo con uomini del mondo, perdono il tono della loro esychia“. Il monaco che rimane nella cella è come la corda d’uno strumento accordato. L’esychia lo mantiene in uno stato di alerte prontezza, ma non di tensione ansiosa né di sovraffaticamento; ma se egli ciondola fuori della cella la sua anima diviene grassa e flaccida.

    La cella, compresa come struttura esterna dell’esychia, è vista soprattutto come un laboratorio di incessante preghiera. La principale attività del monaco, quando rimane immobile e in silenzio nella sua cella, è il continuo ricordo di Dio, accompagnato da un senso di compunzione e di cordoglio. “Siedi nella tua cella“, dice abba Ammonas a un vecchio che si propone d’adottare qualche ostentata forma d’ascetismo, “mangia un poco ogni giorno ed abbi sempre nel suo cuore le parole del pubblicano. Allora potrai essere salvato“.

    Le parole del pubblicano “Dio abbi compassione di me peccatore” sono strettamente parallele alla formula della preghiera di Gesù, come si trova a partire dal VI secolo in Barsanufio, nella vita di abbà Filemon ed altre fonti. Ritorneremo a tempo debito all’argomento dell’esychia e della invocazione del nome. La clausura della cella monastica e il nome di Gesù sono esplicitamente connessi in una frase di Giovanni di Gaza a proposito del suo confratello eremita Barsanufio: “La cella in cui è rinchiuso vivo come in una tomba, per amore del nome di Gesù, è il suo luogo di riposo; nessun demone vi entra, neppure il principe dei demoni, il Diavolo. È un santuario perché contiene la dimora di Dio“.

    Per l’esicasta, dunque, la cella è casa di preghiera, santuario e luogo d’incontro tra uomo e Dio. Tutto ciò è espresso con particolare efficacia nel detto “La cella dal monaco è la fornace di Babilonia, in cui i tre fanciulli trovarono il Figlio di Dio; è la colonna di nubi da cui Dio parlò a Mosè“. Questa nozione della cella come punto focale della Presenza divina, si ritrova nelle parole d’ un eremita copto contemporaneo, Abuna Matta al-Meskin. Quando un visitatore gli chiese se avesse mai pensato di andare in pellegrinaggio ai luoghi santi, egli rispose: “Gerusalemme. la santa, è qui, dentro e attorno queste caverne, perché che altro è la mia caverna se non il luogo in cui nacque il mio Salvatore, Cristo; che altro è la mia caverna se non il luogo in cui Cristo, mio Salvatore, fu condotto al riposo, che altro è la mia caverna se non il luogo da cui Egli al massimo della gloria risorse dai morti? Gerusalemme è qui, proprio qui, e tutte le ricchezze spirituali della città santa si possono trovare in questa radura“.

    A questo punto, ci stiamo muovendo velocemente dal significato esteriore a quello più interiore del termine “esychia”. Interpretato in termini di spiritualità della cella, la parola significa non solo una condizione esteriore, fisica, ma anche uno stato dell’anima. Denota l’attitudine d’uno che sta nel suo cuore di fronte a Dio. “La cosa principale” dice il vescovo Teofane il Recluso (1815-94) “è stare di fronte a Dio con la mente nel cuore, e continuare a restare di fronte a Lui incessantemente, notte e giorno, fino al termine della vita“. E questo è, praticamente, ciò che la quiete ed il silenzio significano per l’esicasta.

    Esychia e il “ritorno in sé stessi”

    Questa comprensione più interiorizzata di “esychia” è perfettamente espressa nella definizione classica dell’esicasta come la ritroviamo in S. Giovanni Climaco ( + ca. 649): “L’esicasta è uno che cerca di confinare il suo essere incorporeo nella sua casa corporea, per quanto ciò possa parere paradossale“. L’esicasta, nel vero senso del termine, non è qualcuno che ha viaggiato all’esterno verso il deserto, qualcuno che si separa fisicamente dagli altri, chiudendo la porta della sua cella, ma uno che “ritorna in sé stesso” chiudendo la porta della sua mente. “Ritornò in sé” è detto del figliuol prodigo e questo è ciò che anche l’esicasta fa. Egli risponde alle parole di Cristo “Il Regno di Dio è dentro di voi” e cerca di “guardare il cuore con tutta l’attenzione” (Pr. 4,23).

    Reinterpretando la nostra definizione originale dell’esicasta come di un solitario che vive nel deserto, possiamo dire che la solitudine è uno stato dell’anima, non un fatto di collocazione geografica, il deserto reale si trova dentro, nel cuore.

    Il “ritorno in sé” è descritto con precisione da S. Basilio il Grande ( + 379) e da S. Isacco di Siria (VII sec.). “Quando la mente non è più dispersa nelle cose esterne“, scrive Basilio, “né sperduta nel mondo a causa dei sensi, allora essa ritorna in sé; e per mezzo di sé stessa ascende al pensiero di Dio“. “Siate in pace con la vostra anima” intima Isacco, “e allora cielo e terra saranno in pace con voi. Entrate prontamente nel tesoro che è dentro di voi, e così vedrete le cose che sono in cielo; perché una sola è l’entrata che conduce ad entrambi. La scala che porta al Regno è nascosta nella vostra anima. Sfuggite il peccato, immergetevi in voi stessi, e nella vostra anima scoprirete la scala su cui ascendere“.

    A questo punto sarà utile fare una breve pausa e distinguere con maggior precisione tra i significati interiore ed esteriore della parola “esychia”.

    In un famoso detto di abba Arsenio si indicano tre livelli. Quando era ancora tutore dei figli dell’imperatore nel palazzo, Arsenio pregò Dio: “Mostrami come posso essere salvato“. E una voce rispose: “Arsenio. sfuggi dagli uomini e sarai salvato“. Egli si ritirò nel deserto e divenne un solitario; e poi pregò ancora, con le stesse parole. Questa volta la voce rispose: “Arsenio, sta’ lontano, sta, in silenzio, sta’ in quiete, perché queste sono le radici della libertà del peccato“. Fuggire gli uomini, restare in silenzio, rimanere in quiete: tali sono i tre gradi dell’esychia. Il primo è spaziale, il “fuggire gli uomini“, esternamente, fisicamente. Il secondo è ancora esterno, il “rimanere in silenzio“, il desistere dal parlare. Nessuna di queste cose può trasformare un uomo in un reale esicasta; perché anche se vive in una solitudine esteriore e tiene la bocca chiusa, può essere interiormente pieno di irrequietezza e agitazione. Per conseguire la vera quiete è necessario passare dal secondo livello al terzo, dall’esychia esterna a quella interiore, dalla mera privazione di parlare a quella che S. Ambrogio di Milano chiama “Negotiosum silentium“, il silenzio attivo e creativo.

    S. Giovanni Climaco distingue gli stessi tre livelli: “Chiudi la porta della tua cella materialmente, la porta della lingua al parlare, e la porta interiore ai cattivi spiriti“. Questa distinzione tra i livelli di esychia, ha importanti implicazioni per i rapporti dell’esicasta con la società. Uno può fuggire nel deserto visibilmente e geograficamente, eppure nel cuore rimanere ancora nel mezzo della città; inversamente un uomo può continuare a restare fisicamente nella città ed essere esicasta vero nel cuore. Per un cristiano ciò che importa non è la posizione spaziale, ma il suo stato spirituale. È vero che alcuni scrittori dell’oriente cristiano, e in particolare S. Isacco di Siria, sono giunti molto vicino all’affermazione che non ci può essere esychia interiore senza solitudine esteriore. Ma questo non è certo opinione comune. Ci sono storie nei “Detti”, in cui laici, completamente impegnati in una vita di servizio attivo nel mondo, sono paragonati ad eremiti e solitari; un dottore d’Alessandria è considerato, per esempio, spiritualmente pari a S. Antonio il grande stesso. S. Gregorio il Sinaita rifiutò la tonsura ad un suo discepolo chiamato Isidoro, e lo rimandò dal Monte Athos a Tessalonica, per essere di esempio e guida ad un gruppo di laici. Ben difficilmente Gregorio avrebbe potuto fate questo, se avesse considerato la vocazione di esicasta urbano come una contraddizione. S. Gregorio Palamas insiste, nella maniera più chiara, che il comando di S. Paolo “pregate incessantemente” si applica a tutti i cristiani senza eccezioni. A questo proposito si dovrebbe ricordare che, quando scrittori ascetici greci come Evagrio o Massimo il confessore, usano i termini “vita attiva” e “vita contemplativa” per essi “vita attiva” non significa la vita di servizio diretto al mondo, come la predicazione, l’insegnamento, il lavoro sociale ecc., ma la battaglia interiore per sottomettere le passioni ed acquistare le virtù. Usando il termine in questa accezione, si può dire che molti eremiti e molti religiosi viventi in stretta clausura, sono ancora coinvolti nella “vita attiva“.

    E così ci sono uomini e donne completamente impegnati nella vita di servizio al mondo che pure posseggono la preghiera del cuore; e di essi si può dire che vivono la “vita contemplativa“. S. Simeone il nuovo teologo ( + 1022) affermava che la pienezza della visione di Dio è possibile “nel mezzo delle città” come “nelle montagne e nelle celle“. Egli credeva che persone sposate, con lavori secolari e bambini, e gravati delle ansietà di condurre una grande famiglia, potessero nondimeno ascendere le vette della contemplazione; S. Pietro aveva obblighi familiari eppure il Signore lo chiamò a salire il Tabor e ad assistere alla gloria della trasfigurazione. Il criterio non sta nella situazione esterna, ma nella realtà interna. E così come è possibile vivere nella città ed essere esicasta, ci sono analogamente alcuni il cui dovere è di parlare sempre e che tuttavia sono interiormente in silenzio. Secondo le parole di abba Poemen, “un uomo appare rimanere silenzioso e pure condanna gli altri in cuore: una tal persona sta parlando tutto il tempo. Un altro parla da mattina a sera eppure resta in silenzio; cioè, egli non dice nulla all’infuori di ciò che è utile agli altri“.

    Ciò concorda esattamente con la posizione degli startsi come S. Serafino di Sarov e i padri spirituali di Optimo della Russia del XIX secolo: costretti dalla loro vocazione a ricevere un flusso interminabile di visitatori – dozzine e anche centinaia in un sol giorno – non perciò tralasciavano la loro esychia interiore. Invero, era proprio a causa di questa esychia interiore che potevano agire da guida agli altri. Le parole che dicevano a ciascun visitatore erano cariche di potere, perché erano parole che provenivano dal silenzio.

    In una delle sue risposte, Giovanni di Gaza fece una chiara distinzione tra silenzio interiore ed esteriore. Un fratello vivente in una comunità che trovava nei suoi doveri di lavoro come falegname una causa di disturbo e distrazione chiese, se non avesse dovuto divenire eremita e “praticare il silenzio di cui i padri parlano“. Giovanni non fu d’accordo “come i più” rispose “tu non capisci cosa s’intende col silenzio di cui parlano i padri. Silenzio non consiste nel tenere la bocca chiusa. Un uomo può dire diecimila parole utili, e ciò vale come silenzio; un altro dice una sola parola non necessaria, ed è rompere il comandamento del Signore: Nel giorno del giudizio renderete conto di ogni parola oziosa che esce dalla vostra bocca“.

    Esychia e povertà spirituale

    La quiete interiore, quando è intesa come custodia del cuore e ritorno in sé, implica un passaggio dalla molteplicità all’unità, dalla diversità alla semplicità e alla povertà spirituale. Per usare la terminologia di Evagrio, la mente deve diventare “nuda. Questo aspetto dell’esychia è reso esplicito in un’altra definizione di S. Giovanni Climaco: “Esychia è mettere da parte i pensieri“. In ciò egli adatta una citazione di Evagrio “preghiera è mettere da parte i pensieri“. La esychia implica un progressivo autosvuotamento, in cui la mente è spogliata di tutte le immagini visuali e di tutti i concetti umani, e così contempla in purezza il mondo di Dio. L’esicasta, da questo punto di vista, è uno che è avanzato dalla “praxis” alla “theoria. Dalla vita attiva alla contemplativa. S. Gregorio dei Sinai contrappone l’esicasta al “praktikos” e continua a parlare “degli esicasti che son contenti di pregare a Dio solo nel loro cuore e di astenersi dai pensieri“. L’esicasta, quindi, non è tanto uno che s’astiene dall’incontrare e parlare con gli altri, quanto chi, nella sua vita di preghiera, rinuncia ad ogni immagine, ogni parola, e ragionamento discorsivo, e che è “sollevato al di sopra dei sensi nel puro silenzio“.

    Questo “puro silenzio”, sebbene sia denominato “povertà spirituale“, è lontano dall’essere una semplice assenza o privazione. Se l’esicasta spoglia la propria mente da ogni concetto di provenienza umana, per quanto sia possibile, il suo scopo in questo “autoannullamento” è del tutto costruttivo. Che egli possa essere riempito dall’Onnicomprensivo senso della presenza Divina, è fatto notare bene da S. Gregorio il Sinaita: “Perché dilungarsi nel parlare? La preghiera è Dio, che fa ogni cosa in ogni uomo“. “La preghiera è Dio“; “non è tanto qualcosa che io faccio, ma qualcosa che Dio sta facendo in me” … “non io, ma Cristo in me” . Il programma dell’esicasta è delineato esattamente nelle parole del Battista riguardo al Messia: “Egli deve crescere ma io diminuire“.

    L’esicasta cessa le sue attività, non per essere ozioso, ma per entrare nella attività di Dio. Il suo silenzio non è assenza, non è negativo – una pausa vuota tra due parole, un breve riposo prima di riprendere il discorso – ma del tutto positivo; un atteggiamento di attenzione, di vigilanza, e soprattutto di ascolto. L’esicasta è per eccellenza colui che ascolta, che è aperto alla presenza di un Altro: “Stai in quiete e sappi che io sono Dio” .

    Nelle parole di S. Giovanni Climaco “L’esicasta è uno che dice dormo, ma il mio cuore resta vigile” . Ritornando in sé stesso, l’esicasta entra nella camera segreta del suo cuore e può così, restando là di fronte a Dio, ascoltare il linguaggio senza parole del suo creatore. “Quando preghi” osserva uno scrittore ortodosso contemporaneo della Finlandia “devi tu stesso star in silenzio e lasciar parlare la preghiera“. – o più esattamente – lasciar parlare Dio. L’uomo dovrebbe sempre star zitto e lasciar Dio solo parlare. Questo è ciò che l’esicasta mira ad ottenere. Esychia perciò denota la transizione della “mia” preghiera alla preghiera di Dio che opera in me – o per usare una terminologia del vescovo Teofane – dalla preghiera strenua o laboriosa, alla preghiera ‘che agisce da sé‘ o che ‘muove da sé’.

    Il vero silenzio interiore o esychia, nel senso più profondo, è identico all’incessante preghiera dello Spirito Santo dentro di noi. Come dice S. Isacco di Siria “Quando lo Spirito prende dimora in un uomo questi non cessa di pregare, perché lo Spirito continuerà a pregare costantemente in lui. Allora né nel sonno, né nella veglia, la preghiera potrà essere separata dalla sua anima; ma quando mangia, quando beve, quando giace e quando fa qualsiasi lavoro, i profumi della preghiera saliranno spontaneamente dal suo cuore“.

    Altrove Isacco paragona questo entrare nella preghiera spontanea, ad un uomo che varca una porta, dopo che la chiave è stata girata nella serratura, e al silenzio dei servi quando il padrone sopraggiunge fra loro. “Ciò che avviene in seguito è l’ingresso nel tesoro. A questo punto ogni bocca ed ogni lingua tace. Il cuore, tesoriere dei pensieri, la mente, che governa i sensi, e lo spirito, quell’uccello veloce, tutti debbono stare quieti; perché è arrivato il padrone della casa“. Compresa in questo senso, come ingresso nella vita e nell’attività di Dio, l’esychia è qualcosa che, durante l’età presente, gli uomini possono ottenere solo ad un grado limitato e imperfetto. È una realtà escatologica, che è riservata nella sua pienezza nell’età a venire. Nelle parole di Isacco “Il silenzio è un simbolo del mondo futuro“.

    II.               ESYCHIA E PREGHIERA DI GESU’

     In linea di principio esychia è un termine generico per la preghiera interiore, ed abbraccia una varietà di più specifici modi di pregare. In pratica, comunque, la maggioranza degli scrittori ortodossi più recenti, usano la parola per designare un sentiero spirituale in particolare: l’invocazione del nome di Gesù. Occasionalmente, sebbene con minor giustificazione, il termine “esicasmo” è impiegato in un senso ancor più ristretto ad indicare la tecnica fisica e gli esercizi di respirazione che talvolta sono usati in connessione con la “preghiera di Gesù”.

    L’associazione dell’esychia col nome di Gesù e, come sembra, col respiro – si ritrova già in S. Giovanni Climaco: “Esychia è restare di fronte a Dio in incessante adorazione. Fate che il ricordo di Gesù sia unito al vostro respiro e allora conoscerete il valore dell’esychia“. Qual’è la relazione tra preghiera di Gesù ed esychia? In che modo l’invocazione del Nome aiuta il raggiungimento del silenzio interiore, ora descritto?

    La preghiera, è stato detto, è “metter da parte i pensieri“, un ritorno dal molteplice all’unità. Ora chiunque faccia un serio sforzo di pregare interiormente, stando di fronte a Dio, con attenzione raccolta, diviene immediatamente conscio della sua disintegrazione interiore – della sua incapacità di concentrarsi nel momento presente, nel “Kairos”. I pensieri si muovono senza posa nella testa, come mosche ronzanti (vescovo Teofane) o come il capriccioso saltare di ramo in ramo delle scimmie (Ramakrishna). Questa mancanza di concentrazione, questa incapacità di essere qui ed ora con l’intero essere, è una delle più tragiche conseguenze della caduta. Che si deve fare? La tradizione ascetica dell’Oriente ortodosso distingue due principali metodi per superare i “pensieri”. Il primo è diretto: contraddire i nostri “logismi”, incontrarli faccia a faccia, tentando di espellerli per uno sforzo di volontà. Un tal metodo può, comunque, dimostrarsi controproducente. Quando sono represse con violenza, le nostre fantasie, tendono a tornare con forza accresciuta. A meno che si sia estremamente sicuri di sé; è più sicuro usare il secondo metodo che è indiretto. Invece di combattere direttamente i pensieri e cercare di scacciarli con uno sforzo di volontà, si può cercare di distogliere l’attenzione da essi e guardare altrove. La strategia spirituale diviene così positiva invece che negativa: l’obiettivo immediato non è tanto svuotare la mente da ciò che è male, quanto di riempirla di ciò che è buono. E questo secondo metodo che è raccomandato da Barsanufio e Giovanni di Gaza. “Non contraddire i pensieri suggeriti dai tuoi nemici” consigliano “perché è esattamente ciò che vogliono, e non desisteranno. Ma rivolgiti al Signore per ricevere aiuto contro di essi, ponendo di fronte a Lui la tua impotenza; perché Lui è capace di espellerli e di ridurli a niente“.

    È evidente che non è possibile fermare il flusso dei pensieri con un violento sforzo della volontà. È di poco o di nessun valore il dire a noi stessi “smetti di pensare”; si potrebbe dire ugualmente “smetti di respirare”. “La mente razionale non può restare oziosa” insiste S. Marco il monaco. Come posso conseguire, la povertà spirituale ed il silenzio interiore? Anche se non è possibile far desistere completamente l’inquieta intelligenza dalla sua instabilità, ciò che si può fare è semplificare e unificare la sua attività ripetendo in continuazione una certa formula di preghiera. Il flusso di immagini e pensieri continuerà, ma si sarà gradualmente resi capaci di distaccarci da esso. L’invocazione ripetuta ci aiuterà a “lasciare andare” i pensieri presentatici dal nostro io conscio o inconscio. Questo “lasciar andare” sembra corrispondere a ciò che Evagrio aveva in animo quando parlava della preghiera come di un “mettere da parte” i pensieri. Non un selvaggio conflitto, non una campagna spietata di furiosa aggressione, ma un gentile eppur persistente atto di distacco.

    Tale è la psicologia ascetica presupposta nell’uso della preghiera di Gesù. L’invocazione del nome ci aiuta a focalizzare la nostra personalità disintegrata su un singolo punto. “Attraverso il ricordo di Gesù Cristo” scrive Filoteo del Sinai (IX-X sec.) “raccogliete la vostra mente dispersa“. La preghiera di Gesù è da considerarsi come un ‘applicazione del secondo metodo: l’indiretto, di combattere i pensieri; invece di cercare di scordare le nostre corrotte e triviali immaginazioni attraverso un confronto diretto, ci distogliamo e guardiamo al Signore Gesù; invece di fare affidamento sulle nostre forze, prendiamo rifugio nella forza e nella grazia che agiscono tramite il Nome Divino. L’invocazione ripetuta ci aiuta a “lasciar andare” e a distaccarci dal continuo chiacchierio dei nostri “logismi. Concentriamo ed unifichiamo la nostra mente, continuamente attiva, nutrendola con una dieta spirituale che è ad un tempo ricca eppur estremamente semplice. “Per fermare il continuo ribollire dei nostri pensieri” dice il vescovo Teofane “dovete legare la mente con un pensiero, o con il pensiero di uno solo – il pensiero del Signore Gesù“.

    Diadoco di Foticea (V sec.) afferma: “Quando abbiamo bloccato tutte le uscite della mente per mezzo del ricordo di Dio, allora essa ci richiede ad ogni costo qualche impegno che soddisfi il suo bisogno di attività. Diamole allora, come sola attività il Signore Gesù“.

    Tale in generale è il modo in cui la “preghiera di Gesù” può essere usata per stabilire l’esychia all’interno del cuore. Ne derivano due importanti conseguenze.

    Primo, per conseguire il suo proposito l’invocazione dovrebbe essere ritmica e regolare, e nel caso di un esicasta d’esperienza provata (ma non di un principiante che deve procedere con cautela) dovrebbe essere ininterrotta e continua per quanto è possibile. Aiuti esterni, come l’uso del comboschini (= una specie di “rosario” ortodosso) e il controllo del respiro, hanno come loro principale scopo precisamente di stabilire questo ritmo regolare.

    In secondo luogo, durante la recitazione della “preghiera di Gesù“, la mente dovrebbe essere vuota d’immagini mentali, per quanto ciò è possibile. Perciò è meglio praticare la preghiera in un luogo dove vi siano rari rumori o nessuno del tutto; dovrebbe essere recitata nell’oscurità o con gli occhi chiusi, piuttosto che di fronte ad un’icona illuminata da candele o da lampada votiva.

    Lo starets Silvano del Monte Athos (1866-1938), quando diceva la preghiera usava riporre l’orologio nell’armadio per non udire il ticchettio, e poi si tirava sugli occhi e le orecchie il suo spesso cappuccio monacale. Anche se immagini visive sorgeranno inevitabilmente quando preghiamo, non per questo debbono essere deliberatamente incoraggiate.

    “La preghiera di Gesù” non è una forma di meditazione discorsiva sugli eventi della vita di Cristo. Quelli che invocano il Signore Gesù dovrebbero avere in cuore un’intensa e bruciante convinzione che essi stanno nella immediata presenza del Salvatore, che egli è di fronte e dentro di loro, che egli sta ascoltando la loro invocazione e rispondendo a sua volta. Tale consapevolezza della presenza di Dio non dovrebbe comunque essere accompagnata da alcuna immagine visiva, ma confinata a una semplice sensazione o convinzione; come dice S. Gregorio di Nissa ( + 395) “lo Sposo è presente, ma non è visibile“.

     III.            PREGHIERA E AZIONE

    Esychia, dunque, implica una separazione dal mondo – separazione esteriore oppure interiore, e talvolta entrambe: esteriore per mezzo della fuga nel deserto; interiore attraverso il “ritorno in sé” e il “mettere da parte i pensieri. Per citare i “Detti dei Padri del deserto”: “A meno che uno non dica nel suo cuore: io solo e Dio siamo nel mondo, non troverà riposo“. “Da solo al Solo“. Ma non è forse ciò egoistico, un rifiutare il valore spirituale della creazione materiale ed un evadere le proprie responsabilità verso i propri simili? Quando l’esicasta chiude gli occhi e le orecchie al mondo esterno, come faceva Silvano nella sua cella al monte Athos, quale servizio positivo e pratico sta egli rendendo al suo prossimo?

    Consideriamo questo problema sotto due principali punti di vista. In primo luogo: l’esicaismo è colpevole delle stesse distorsioni di cui fu colpevole il quietismo nell’occidente del XVII sec.? Finora si è deliberatamente evitato di tradurre “esychia” con “quiete” a causa del significato sospetto connesso al termine “quietista”. L’esicasta non si trova in pratica a sostenete posizioni analoghe a quelle quietiste? In secondo luogo, qual’è l’attitudine dell’esicasta rispetto al suo ambiente fisico e umano? Di che utilità è agli altri?

    Il principio fondamentale del quietismo – è stato detto – è la condanna di ogni sforzo umano. Secondo i quietisti, l’uomo per essere perfetto, deve ottenere una completa passività e annichilazione della volontà, abbandonandosi a Dio, a tal punto, da non curarsi né di cielo, né d’inferno, né della propria salvezza. L’anima rifiuta coscientemente non solo tutte le meditazioni discorsive, ma anche ogni atto distinto quale il desiderio per la virtù, l’amore di Cristo, l’adorazione delle persone divine, per restare semplicemente nella presenza di Dio in pura fede. Una volta che si sia conseguito l’apice della perfezione il peccato è impossibile.

    Se questo è il quietismo, la tradizione esicasta è decisamente non quietista. Esychia significa non passività ma vigilanza, “non l’assenza di lotta ma l’assenza di incertezza e confusione. Anche qualora un esicasta sia avanzato al livello della “Theoria” o contemplazione, egli non deve desistere dall’impegno della “praxis” o azione, cercando con sforzo positivo di acquistare virtù e rigettare il vizio. Praxis e theoria, la vita attiva e la contemplativa, nel senso definito più sopra, non dovrebbero essere considerate come alternative, né come due stadi, cronologicamente successivi, l’uno cessante quando l’altro inizia; ma piuttosto come due livelli d’esperienza spirituale interpenetrantesi e presenti simultaneamente nella vita di preghiera. Ciascuno deve lottare al livello della praxis fino al termine della vita. Questo è il chiaro insegnamento di S. Antonio d’Egitto: “Il compito principale dell’uomo è d’essere memore dei suoi peccati al cospetto di Dio, e di aspettarsi tentazioni fino all’ultimo respiro. Chi siede nel deserto da esicasta ha sfuggito tre guerre: udire, parlare, vedere; ma c’è una cosa che deve continuamente combattere – la battaglia che è dentro il suo cuore“.

    È vero che l’esicasta come il quietista, non usa la meditazione discorsiva nella sua preghiera, ma sebbene l’esychia comporti un “lasciare andare” o un “mettere da parte i pensieri e immagini“, ciò non implica da parte dell’esicasta un atteggiamento di “completa passività“, né l’ assenza di “ogni atto distinto quale… l’amore di Cristo“. Il “lasciare andare” del male o dei logismi banali, durante la ripetizione della “preghiera di Gesù”, e la loro sostituzione con l’unico pensiero del Nome, non è passività, ma un modo positivo in sé stesso per controllare i pensieri. L’invocazione del nome è certamente una forma del “restare in presenza di Dio in pura fede“, ma allo stesso tempo è contrassegnata da un attivo amore per il Salvatore e da un’acuta nostalgia di condividere ancora più pienamente la vita divina. I lettori della Filocalia non possono non restare colpiti dall’ardore di devozione mostrato da autori esicasti, dal senso di immediata e personale amicizia per il “mio Gesù”.

    A differenza del quietista, l’esicasta non fa alcuna dichiarazione d’essere senza peccato o immune da tentazioni. L’apatheia o “indifferenza”, di cui parlano i testi ascetici Greci, non è uno stato di disinteresse passivo o di insensibilità, e ancor meno una condizione in cui sia impossibile peccare. “Apatheia” dice S. Isacco di Siria: “Non consiste nel non sentire più le passioni, ma nel non accettarle“. Come insiste S. Antonio, l’uomo deve “aspettarsi tentazioni fino all’ultimo respiro” e con le tentazioni c’è sempre la genuina possibilità di cadere nel peccato. “Le passioni restano vive” dice abba Abraham “ma son legate dai santi“. Quando un anziano afferma: “Sono morto al mondo” il vicino replica gentilmente “Non essere così fiducioso, fratello, finché non hai lasciato il corpo. Tu puoi dire: ‘ Sono morto ‘ ma Satana non è morto“.

    Negli scrittori Greci a partire da Evagrio, apatheia è strettamente connessa con l’amore, ciò indica il contenuto dinamico e positivo del termine. Nella sua essenza fondamentale è uno stato di libertà spirituale, in cui l’uomo è capace di levarsi verso Dio con desiderio ardente. Non è una mera mortificazione delle passioni fisiche del corpo, ma la sua nuova e rinnovata energia; è uno stato dell’anima in cui l’ardente amore per Dio e per l’uomo non lascia spazio per passioni egoistiche e animalesche. A denotare il suo carattere dinamico, S. Diadoco usa la frase espressiva: “Il fuoco dell’apatheia“. Tutto ciò a dimostrare l’abisso tra esicasmo e quietismo.

    Per venire ora alla seconda questione: dato per scontato che la tradizione esicasta di preghiera non è “quietista”, in un senso sospetto ed eretico, fino a che punto essa è negativa nei confronti del mondo materiale e antisociale nel suo rapporto con gli altri?

    Questo dubbio può essere illustrato da una storia dei “Detti” su tre amici che divennero monaci. Il primo adotta come lavoro ascetico il compito di rappacificatore, cercando di riconciliare coloro che ricorrono alla legge l’uno contro l’altro. Il secondo cura gli ammalati ed il terzo va nel deserto. Dopo un certo tempo, i primi due diventano completamente logorati e scoraggiati. Per quanto duramente combattano, essi sono fisicamente e spiritualmente incapaci di fronteggiare tutte le richieste a loro poste. Prossimi alla disperazione, vanno dal terzo monaco, l’eremita, e gli dicono i loro affanni. Dapprima egli sta in silenzio; poi versa acqua in una ciotola e dice: “guardate”. L’acqua è torbida e turbolenta. Attendono alcuni minuti. L’eremita dice “guardate ancora”. Il sedimento è affondato e l’acqua interamente chiara; essi possono vedere i propri volti come in uno specchio. “Questo è ciò che avviene – dice l’eremita – a chi vive tra gli uomini: a causa della turbolenza non vede i suoi peccati, ma quando ha imparato la quiete, soprattutto nel deserto, riconosce le proprie colpe“. Così finisce la storia. Non ci è detto come i primi due monaci abbiano applicato la parabola dell’eremita; forse saranno ritornati nel mondo portando dentro di sé qualcosa dell’esychia del deserto. In questo caso, le parole del terzo monaco sarebbero interpretate nel significato che l’azione sociale, di per sé stessa, non è sufficiente, se non c’è un centro immobile nel mezzo della tempesta. Se uno, pur nel mezzo delle sue attività, non preserva una stanza segreta nel cuore dove restare solo davanti a Dio, perde ogni senso di direzione spirituale e vien fatto a pezzi.

    Senza dubbio questa è la morale che molti lettori del XX sec. sarebbero propensi a trarre: tutti dobbiamo, in una certa misura, essere eremiti del cuore. Ma era questa l’intenzione originale della storia? Probabilmente no. Molto più facilmente essa fu intesa come propaganda in favore della vita eremitica nel senso più letterale e geografico. E ciò solleva subito l’intero problema dell’apparente egoismo e negatività di questo tipo di preghiera contemplativa. Qual è, allora, la vera relazione dell’esicasta con la società? Deve essere immediatamente ammesso che, similmente al movimento esicasta del XIV sec., nella rinascenza esicasta del XVIII sec., e nella Ortodossia contemporanea i centri principali di preghiera esicasta sono stati i piccoli sketes, gli eremitaggi che accolgono solo un minuscolo gruppo di fratelli, viventi come una piccola famiglia monastica strettamente integrata, nascosta dal mondo. Molti autori esicasti esprimono una preferenza definita per lo “skete” nei confronti dei cenobi completamente organizzati, la vita in una grande comunità è considerata troppo distraente per la pratica intensiva della preghiera interiore. Pure, anche se l’ambiente esterno dello “skete”, considerato come ideale, pochi arriverebbero al punto di affermare che esso gode un monopolio esclusivo. Sempre il criterio è quello non della condizione esteriore ma del suo stato interiore. Certe condizioni esterne possono risultare più favorevoli di altre per il silenzio interiore; ma non c’è alcuna situazione di sorta che renda il silenzio interiore del tutto impossibile.

    S. Gregorio del Sinai, come abbiamo visto rimanda il suo discepolo Isidoro nel mondo; molti dei suoi compagni più vicini del monte Athos e del deserto di Paroria divennero patriarchi e vescovi, capi e amministratori della Chiesa. S. Gregorio Palamas, insegnò che la preghiera continua è possibile per ogni cristiano; concluse egli stesso la sua vita come arcivescovo. Il laico Nicola Cabasilas (XIV sec.) servitore civile e cortigiano, amico di molti celebri esicasti, afferma con grande enfasi: “Ciascuno dovrebbe mantenere la propria arte o professione. Il generale dovrebbe continuare a comandare, il contadino a lavorare la terra, l’artigiano a praticare la sua arte. E vi dirò perché: non è necessario ritirarsi nel deserto, prendere cibo senza sapore, cambiare d’abito, compromettere la propria salute, o fare in genere cose non sagge, perché è del tutto possibile rimanere nella propria casa senza abbandonare tutto ciò che si ha, eppure praticare la meditazione continua“.

    Nello stesso spirito, Simeone il nuovo teologo insiste che la “vita più alta” è lo stato a cui Dio chiama ciascuno personalmente: “Molti considerano la vita eremitica come la più beata, altri la vita in una comunità monastica, oppure il lavoro di governo, di istruzione o di educazione o d’amministrazione della chiesa… Da parte mia, comunque, non porrei nessuno di questi modi di vita sopra gli altri, né loderei l’uno a scapito degli altri. Ma in ogni situazione è la vita per Dio ed in accordo a Dio che è veramente beata“. La via dell’esychia è dunque aperta a tutti: l’unica cosa necessaria è il silenzio interiore non esteriore. E sebbene questo silenzio interiore presupponga il “mettere da parte” le immagini nella preghiera, l’effetto finale di questa negazione è l’asserzione vivida del valore ultimo di tutte le cose e di tutte le persone in Dio. La via della negazione è contemporaneamente la via della superaffermazione.

    Ciò risulta molto dalla “Via del pellegrino“. L’anonimo russo che è l’eroe del racconto trova che la costante ripetizione della “preghiera di Gesù” trasfigura la sua relazione con la creazione materiale, cambiando tutte le cose in un sacramento della presenza di Dio e rendendole trasparenti. “Quando… pregavo con tutto il mio cuore” egli scrive “tutto attorno a me sembrava delizioso e meraviglioso. Gli alberi, l’erba, gli uccelli, la terra, l’aria, la luce sembravano volermi dire che esistevano per amore dell’uomo, che testimoniavano l’amore di Dio per l’uomo, che tutto provava l’amore di Dio per l’uomo, che tutto pregava a Dio e cantava la sua lode. Così arrivai a capire quello che la Filocalia chiama: la conoscenza del linguaggio di ogni creatura … sentii un ardente amore per Gesù Cristo e per tutte le creature di Dio“. Analogamente l’invocazione del Nome trasforma la relazione del pellegrino con i suoi simili “… ripartii per il mio pellegrinaggio. Ma ora non camminavo più come prima, pieno di preoccupazioni. L’invocazione del nome di Gesù rallegrava il mio cammino. Tutti erano gentili con me era come se ciascuno mi amasse… se qualcuno mi fa del male, mi basta pensare ‘come è dolce la preghiera di Gesù’ e l’offesa e la rabbia svaniscono e dimentico tutto“.

    Un ‘ulteriore evidenza della natura affermativa dell’esychia rispetto al mondo, è da trovarsi nella posizione centrale data dagli esicasti al mistero della trasfigurazione. Il metropolita Antony Bloom dà una impressionante descrizione delle due icone della trasfigurazione che vide a Mosca, una di Andrei Rublev e l’altra di Teofane il greco: “L’icona di Rublev mostra Cristo nello splendore delle sue abbaglianti vesti bianche che illuminano tutto ciò che è attorno. Questa luce cade sui discepoli, sulle montagne e le pietre, su ogni filo d’erba. In questa luce, che è… la Gloria divina, la luce divina stessa inseparabile da Dio, tutte le cose acquistano una intensità di essere che non potrebbero altrimenti avere; in essa raggiungono una pienezza di realtà che è possibile avere solo in Dio“. Nell’altra icona “le vesti di Cristo sono argentate dai riflessi blu, e i raggi di luce che emanano attorno sono pure bianchi argento e blu. Tutto dà un’impressione di minore intensità. Poi si scopre che tutti questi raggi di luce che cadono dalla presenza divina… non danno rilievo ma trasparenza alle cose. Si ha l’impressione che questi raggi di luce divina tocchino le cose o affondino in esse, le penetrino, tocchino qualcosa dentro di esse cosicché dal nucleo delle cose, di tutte le cose create, la stessa luce riflette e risplende come se la vita divina accrescesse le capacità e potenzialità di ogni cosa e le facesse tutte tendere verso se stessa. A questo punto la situazione escatologica è realizzata nelle parole di S. Paolo “Dio è tutto in tutto“. Tale è il duplice effetto della “Gloria” della trasfigurazione: di far risaltare ogni cosa e ogni persona in perfetta distinzione, nella sua essenza, unica e irripetibile; e allo stesso tempo di rendere ogni cosa e ogni persona trasparenti, da rivelare la presenza divina al di là e dentro di loro.

    Lo stesso duplice effetto è prodotto dall’esychia. La preghiera del silenzio interiore non è negativa rispetto al mondo, ma anzi gli dà risalto. Permette all’esicasta di guardare al di là del mondo verso l’invisibile creatore; e in questo modo gli permette di ritornare al mondo e di vederlo con occhi nuovi. Viaggiare, è stato spesso detto, è ritornare al punto di partenza e vedere di nuovo la nostra casa, come per la prima volta. Ciò è vero del viaggio della preghiera come anche di altri viaggi. L’esicasta può apprezzare il valore di ogni cosa più del sensuale o del materialista, perché vede ciascuna in Dio e Dio in ciascuna.

    Non è per caso che nella controversia Palamita del XIV sec., san Gregorio ed i suoi sostenitori esicasti erano impegnati a difendere precisamente le potenzialità spirituali della creazione materiale ed in particolare il corpo fisico dell’uomo. Tale, in breve, è la risposta a quelli che vedono l’esicasmo come negativo e dualista nel suo atteggiamento verso il mondo. L’esicasta nega per riaffermare; si ritira per ritornare. Con una frase che riassume la relazione tra esicasta e società, tra preghiera interiore ed azione esteriore, Evagrio Pontico dice: “Monaco è chi è da tutto separato e a tutto unito“. L’esicasta opera un atto di separazione esternamente, ritirandosi in solitudine; interiormente “mettendo da parte i pensieri”. Eppure l’effetto di questa fuga è di congiungerlo agli uomini più intimamente di prima, di farlo più profondamente sensibile ai bisogni altrui, più acutamente consapevole delle loro possibilità nascoste. Ciò è visibile con maggior evidenza nel caso dei grandi “startsi”. Uomini come S. Antonio d’Egitto e S. Serafino di Sarov vissero per decenni in silenzio totale ed isolamento fisico. Eppure l’effetto ultimo di tale isolamento fu di conferir loro chiarezza di visione ed eccezionale compassione.

    Proprio perché avevano imparato ad essere soli, potevano identificarsi istintivamente con gli altri. Potevano discernere immediatamente le caratteristiche profonde di ogni uomo e forse parlare con due o tre sole frasi, ma quelle poche parole erano la sola cosa che, in quella particolare occasione, si doveva dire. S. Isacco dice che è meglio acquistare purezza di cuore che convertire intere nazioni di pagani. Non è che egli disprezzi il lavoro di apostolato, ma vuol dire che finché non si sia ottenuta una certa misura di silenzio interiore, è improbabile che si converta qualcuno a qualsiasi cosa. Questo è reso meno paradossalmente da Ammonas discepolo di Antonio (IV sec.): “Perché essi avevano prima praticato profonda esychia, essi possedettero il potere di Dio abitante in loro; e poi Dio li mandò in mezzo agli uomini“. E anche se molti solitari non sono mai, in pratica, rimandati al mondo come apostoli o startsi, ma continuano la pratica di silenzio interiore per tutta la vita, completamente sconosciuta agli altri, ciò non significa che la loro nascosta contemplazione sia inutile e la loro vita sprecata. Essi servono la società non con lavori attivi, ma con la preghiera; non con ciò che fanno, ma con ciò che sono, non esternamente ma esistenzialmente. Essi possono dire con le parole di S. Macario di Alessandria: “Sto a guardia delle mura“.

     

  • 03 Nov

    SOLITUDINE, SILENZIO E QUIETE

    I tre stadi della vita solitaria

    Di John Chryssavgis

    Tratto da: A.A.V.V, IL DESERTO DI GAZA – Barsanufio, Giovanni e Doroteo – ed. Qiqajon

     

    La Palestina e gli Anziani di Gaza

    Grazie a una situazione storica privilegiata e a una colloca­zione geografica strategica, la regione di Gaza può fregiarsi di un’eredità propria, contrassegnata sia da continuità sia da crea­tività, in rapporto alla primitiva pratica della solitudine e del silenzio. Il facile accesso a questa regione sia per mare che per terra insieme alla sua vicinanza all’Egitto, alla Siria e alla Terra santa, da un lato, e il suo carattere remoto e desertico, dall’al­tro, avrebbero reso Gaza, a partire dalla fine del IV secolo, un rifugio unico per espressioni della vita ascetica importanti e in­novative.

    In Palestina i monaci erano generalmente coscienti delle loro radici bibliche. Un tempo i profeti avevano camminato in questi luoghi; questo era il deserto dove Gesù aveva pregato e la terra dove erano stati seminati per la prima volta i semi del mar­tirio. Al tempo stesso i monaci erano coscienti delle loro radici ascetiche e confessavano apertamente il loro debito nei con­fronti dei padri e delle madri d’Egitto.

    A Gaza e in Palestina la topografia della regione e la spiri­tualità tradizionale contribuirono in egual misura a un’intensa e feconda atmosfera di solitudine e di silenzio. Non solo, ma, come vedremo più avanti, il genere di vita dei due più noti anziani, Barsanufio il Grande e Giovanni il Profeta, produsse un retaggio di sottili variazioni della via dell’anima.

    Non sappiamo esattamente quando – o perché – Barsanufio giunse nella regione collinare di Thabatha, presumibilmente dall’Egitto, scegliendo di condurre in questa terra la vita ritira­ta del recluso in un piccola cella. Sappiamo, però, che dal suo ritiro egli offrì preziosissimi consigli a numerosi asceti che, pa­rallelamente al diffondersi della straordinaria reputazione del discernimento e della compassione del Grande anziano, si ra­dunarono attorno a lui. A un certo punto, tra il 525 e il 527, l’altro Anziano, abba Giovanni il Profeta, venne a vivere accanto a Barsanufio, condividendo lo stesso genere di vita e svolgendo il medesimo ministero.

    Forse con l’intento di imitare questo genere di vita, l’intera comunità di Thabatha assunse la forma di un raggruppamento di varie celle, in cui monaci ed eremiti vivevano gradi diversi di reclusione. A mio avviso fu l’intensità della solitudine e il posto di primaria importanza attribuito al silenzio che più tardi favo­rirono l’estendersi del monastero con la creazione di laborato­ri, case di accoglienza per gli ospiti, un’infermeriae una chie­sa per l’istruzione dei visitatori.

    Barsanufio e Giovanni rappresentavano la continuazione e, per molti versi, un’incarnazione dei principi diventati teso­ro comune nel deserto egiziano. In particolare, Barsanufio era chiaramente plasmato dalla concezione evagriana che “mona­co è colui che, separato da tutti, è unito a tutti“. Non apren­do la porta all’anziano monaco egiziano che chiedeva di veder­lo, Barsanufio in realtà lasciava la porta aperta a tutti! Alcuni aspetti del suo genere di vita sono naturalmente reminiscenze di precedenti modelli del monachesimo della Giudea che era geo­graficamente e spiritualmente abbastanza vicino a Barsanufio e a Giovanni. Cirillo di Scitopoli descrive quanto Eutimio (+ 473) desiderò una vita di solitudine, ma anche il fatto che egli si prese cura di organizzare i suoi monaci in piccole comunità, ritirandosi successivamente in una regione più lontana, dove si ripeté lo stesso processo.

    L’uso stesso di comunicare in silenzio attraverso qualcun al­tro – che è sicuramente un’importantissima dimensione del comunicare per iscritto – inteso come misura di protezione della propria solitudine, trova un precedente in abba Isaia, che du­rante i cinquant’anni della propria reclusione in questa stessa regione, comunicava regolarmente tramite Pietro l’Egiziano. Isaia comunque non raggiunse mai la misura di Barsanufio e Giovanni; questo modo di comunicazione e di conversazione con i discepoli non costituì mai un elemento centrale nel suo ministero spirituale. Ma tale modo di dare consigli non era completamente originale né del tutto eccezionale nella regione. Paradossalmente l’invisibilità e l’inaccessibilità di Barsa­nufio e di Giovanni divennero le ragioni della loro visibile no­torietà e attrazione. Il genere di vita che ambedue condussero e al quale incoraggiarono altri comporta un equilibrio di solitu­dine e di silenzio: E tu pratica la quiete per cinque giorni e incontra i fratelli gli altri due; e se il tuo stare in cella è secondo Dio, se sai cioè che cosa vuoi stando in cella, certo non cadrai nelle grinfie del demone della vanagloria. Infatti colui che sa che cosa è venuto a fare in una città, questo vuole e non svia il suo cuo­re, altrimenti verrebbe meno allo scopo che si è prefisso.

    Cos’è allora che l’anima desidera imparare attraverso la soli­tudine, il silenzio e la quiete? Quali sono le variazioni spirituali della reclusione monastica e della quiete?

    La via dell’anima

     Barsanufio e Giovanni tracciano una distinzione tra solitudi­ne, silenzioe quiete. Sebbene gli Anziani di Gaza non siano sempre precisi nella distinzione da essi delineata, sottolineano tuttavia come sia importante dedicare del tempo a esaminare i diversi aspetti dell’anima e i principi particolari che la governano. Nel nostro tempo in cui vigono una comunicazione istanta­nea e un apprezzamento immediato dei desideri, sembra che di noi stessi e delle motivazioni che si celano dietro le nostre azioni conosciamo meno che di ogni altro argomento. La conoscenza di sé è invece il cuore della solitudine, la base del silenzio e il centro della quiete.

    In un qualche momento del lungo cammino che conduce dall’infanzia alla maturità, molti di noi hanno perso il contatto con le facoltà vitali che ci permettono di conoscere noi stessi. Forse parte del problema è dovuto al fatto che ci siamo propo­sti traguardi impossibili, che possono essere raggiunti soltanto dagli angeli. La spiritualità del deserto insegnò agli anziani di. Gaza che la perfezione appartiene soltanto a Dio; noi non siamo chiamati a rinunciare alla nostra imperfezione o a dimenticarla. La stessa fragilità e vulnerabilità della vita rivela la primaria importanza di affrontare e accettare i nostri desideri interiori e le nostre personali debolezze. La verità è che la presenza di Dio si può discernere al cuore di queste tensioni e di queste prove.

    Barsanufio e Giovanni certamente comprendono le vie dell’anima e le seduzioni della tentazione. Essi hanno piena coscienza del fatto che se non compiamo la scelta radicale di rinun­ciare ai legami e al modo di pensare che ci è familiare, attraverso un atto di xeniteìa – per mezzo del quale entriamo nel territorio straniero e impariamo a parlare l’estraneo linguaggio della so­litudine – non possiamo cominciare ad articolare il linguaggio dell’anima. Gli Anziani di Gaza erano perciò consapevoli che, sebbene ci siano tante vie di conoscenza di sé quanti sono gli esseri umani, le differenze tra di noi sono di fatto molto lievi. Ancor più, essi riconoscono che la profondità della solitudine, del silenzio e della quiete è determinata da norme specifiche e da regole spirituali. Spesso le nostre vite sono complicate da re­gole e norme; siamo angosciati o spaventati dall’idea di restare soli, incapaci di ascoltare, poco propensi ad amare. Barsanufio e Giovanni propongono vie pratiche e semplici: stare seduti in cella, praticare il silenzio, cercare la quiete. La vita spirituale è una via per spezzare cattive abitudini e stabilirne di nuove al loro posto: “Per chi siede in cella, recidere la volontà è disprez­zare il sollievo della carne in tutto“.

    E Barsanufio adotta l’immagine della costruzione di una casa per descrivere la dura lottae lo sforzo continuo  richiesti dalla pratica del silenzio e della quiete: Se vuoi costruire la tua casa, dapprima prepara il materiale e tutto l’occorrente: spetta quindi all’operaio venire e co­struire. L’occorrente per la costruzione di un tale edificio consiste in una fede salda (cf. 1Pt 5,9) per costruire le mura, luminose finestre di legno che lascino entrare la luce del sole per illuminare la casa, affinché non sia trovata in essa alcuna tenebra (cf. 1Gv 15). Le finestre di legno sono i cinque sensi [spirituali], rafforzati dalla croce preziosa del Cristo, che introducono la luce del sole spirituale di giustizia (cf. Ml 3,20) e non permettono che appaia nella casa alcuna tenebra, intendo dire la tenebra del nemico e di colui che odia il bene. Poi ti occorre un tetto che ripari la casa, affinché di giorno non ti bruci il sole né la luna di notte (Sal 120 [1211,6). Il tetto indica l’amore verso Dio, che non viene mai meno (cf. 1Cor 13,8) e protegge la casa e non lascia che il sole tramonti sulla nostra ira (cf. Ef 4,26), affinché non lo troviamo nel giorno del giudizio (Mt 10,15) come accusatore che ci brucia nel fuoco della geenna (cf. Mt 5,22) e non troviamo la luna ad attestare la rilassatezza e l’indolenza delle nostre notti. Questa casa deve poi avere una porta, che lascia entrare e custodisce chi rimane dentro. Quando dico “porta”, tu, fratello, pen­sa come porta spirituale al Figlio di Dio che dice: Io sono la porta (Gv 10,9).

    Nella casa dell’anima, poi, la qualità fondamentale della soli­tudine è l’attenzione o la vigilanza; la qualità essenziale del silen­zio è l’ascolto o l’obbedienza, e la qualità essenziale della quiete è la comunione o l’amore. Non c’è obbedienza senza vigilanza e non vi può essere comunione senza solitudine. Quando queste tre qualità coesistono, la lotta ascetica ci consente di scoprire l’anima profonda e di prendere con noi la nostra anima ovun­que andiamo: “E se giungerai a praticare la quiete, troverai ri­poso e grazia dovunque tu viva questa quiete”.

    La solitudine: la porta dell’anima

    La solitudine è ciò che ci accorda il tempo e lo spazio per di­ventare attenti agli altri e a noi stessi. È un prerequisito nella via del progresso spirituale. In risposta a un tale che gli chiedeva preghiere, Barsanufio scrive: “Fratello, non costringermi a par­lare poiché io desidero abbracciare quiete e silenzio “.

    E con un monaco che gli chiedeva se doveva accettare de­naro per nutrire i poveri, abba Giovanni è parimenti radicale, apparentemente privo di carità: devi evitarlo a tutti i costi “an­che se tu vedessi davanti alla tua cella un uomo strangolato“. Ambedue gli Anziani avvertono con quanta facilità la carità e il servizio sono utilizzati come giustificazione per sfuggire al la­voro interiore di conversione. Riconoscono che perfino la pre­ghiera può diventare un pretesto per evitare il difficile lavoro della solitudine e del silenzio. E’ per questo motivo che abba Giovanni stabilisce: “Trattandosi di elemosina, non tutti sono in grado di comprendere l’argomento, ma solo quelli che hanno raggiunto la quiete e l’afflizione per i propri peccati”.

    Barsanufio spiega in che cosa anzitutto consista la solitudi­ne: “Entrare nella cella significa entrare nella cella dell’anima ed esaminarla e raccogliere il nostro pensiero distaccandolo da ogni uomo“. E Giovanni aggiunge: “Stare in cella è ricordar­si dei propri peccati e piangerli e affliggersi (cf. Gc 4,9); vigilare perché la mente non sia fatta prigioniera. Ma, se lo fosse, ricon­durla in fretta nel suo luogo”.

    Purtroppo, tuttavia, noi tendiamo a confondere la conoscen­za di sé con il ripiegamento su se stessi. Ma in realtà la conoscenza di sé ci conduce dal ripiegamento su di sé all’oblio di se stessi: Fratello, odia perfettamente per amare perfettamente; allontanati perfettamente, per avvicinarti perfettamente; aborrisci l’adozione, per ricevere l’adozione (cf. Gal 4,5); rinuncia a fare la tua volontà, e fa’ la volontà di Dio; taglia te stesso e lega te stesso; fa’ morire te stesso e fa’ vivere te stesso (cf. 1Pt 3,18); dimentica te stesso, e conosci te stesso. Ed ecco che hai le opere del monaco.

    Curiosamente, mentre promuoviamo la necessità di conoscere e amare gli altri, in cambio tralasciamo spesso di conoscere noi stessi nella solitudine. Barsanufio ripete la ferma convinzione di abba Alonio: “Io e Dio siamo soli al mondo”. Barsanufio afferma: “Che tu sia solo e ti affatichi un pò, ti giova più che avere un altro“. Davvero, non siamo mai meno soli di quando siamo soli: “Mentre lottate in questa lotta non siete soli, ma anche molti altri lottano insieme a voi con le loro preghiere (cf. Col 4,12)”.

    Essere consapevoli delle ragioni per cui facciamo quello che facciamo facilita la consapevolezza delle ragioni per cui gli altri fanno quello che fanno e infine l’accettazione degli altri per quello che sono. Il narcisismo non è tanto conoscenza di sé, quanto piuttosto insufficiente conoscenza del vero io. Le persone ripiegate su se stesse e centrate su di sé normalmente soffrono per un io troppo piccolo piuttosto che per un io troppo grande.

    Spesso cerchiamo la comunione in una direzione sbagliata. Invece di guardare dentro di noi, ci volgiamo fuori di noi, verso gli altri. Per questa via il movimento di separazione della so­litudine non diventa affatto il primo passo verso la comunione con gli altri: “Fratello, scruta il tuo cuore da solo nella tua cella e troverai donde ti è venuta la durezza del tuo cuore“. La comunione si sviluppa a partire dall’interno e riflette il mondo interiore dell’anima. Essa costituisce il solido fondamento a partire dal quale possiamo raggiungere gli altri, perfino Dio stesso. Dice un detto apocrifo attribuito a Gesù nel Vangelo di Tommaso: 

    Quando di due farete uno,  allorché farete la parte interna come l’esterna,  la parte esterna come l’interna  e la parte superiore come l’inferiore allora entrerete nel Regno.

    La solitudine allora è ciò che dona stabilità. È come una bussola segreta nella nostra relazione con Dio, con gli altri e con noi stessi. Ci mette in grado di distinguere tra coinvolgimento personale e desiderio di piacere agli altri (anthroparéskeia) che deve essere rigorosamente confessata. La solitudine conduce al silenzio, che altro non è «se non chiudere il proprio cuore al dare e al ricevere (cf. Fil 4,15), al cercare di piacere agli uomini, e a ogni altra attività».

    La solitudine concerne la dimensione dell’essere e non semplicemente quella del fare. Essa rende l’anima attenta e recettiva, disposta semplicemente a chiedere e attendere umilmente: “Se non ti scoraggi per la fatica, troverai l’umiltà; e se troverai l’umiltà, riceverai anche il perdono dei peccati… Se ti lasci umiliare, riceverai la grazia e la grazia ti aiuterà“.

    Barsanufio e Giovanni affermano chiaramente che la preghiera non è mai esaudita per le vie che ci attendiamo: “Dio regolerà la cosa in un modo che non conosci“. In realtà la preghiera è esaudita per vie che trascendono – e forse addirittura annientano – una fiducia in se stessi che cerca risultati immediati o mete prestabilite. Allora la solitudine non può essere identificata con l’egoismo; la solitudine dissolve l’autoreferenzialità, conduce a considerarsi un nulla, a ciò che Barsanufio e Giovanni chiamano apséphiston: Sii libero da ogni sollecitudine e allora sarai completamente libero per Dio; muori ad ogni uomo; questo è il vivere da stranieri; tieni alla disistima di te stesso e troverai il tuo pensiero imperturbato.

    Barsanufio e Giovanni si muovono costantemente sul filo del rasoio tra l’importuno demone della vanagloria da un latoe il tenebroso abisso della disperazione: Fratello, quanto più l’uomo sprofonda nell’umiltà, tanto più progredisce. Rimanere nella tua cella ti è inutile, perché così tu resti senza afflizione; e se sei senza sollecitudine prima del tempo, il nemico ti prepara un turbamento maggiore – della quiete in cui credi di essere, così da condurti a dire: Magari non fossi mai nato (Gb 3,3; Ger 20,14).

    Spesso è raccomandato l’equilibrio: «Non camminare né dentro, né fuori, ma nel mezzo delle due cose, comprendendo qual è la volontà del Signore“. E ancora: “Il non presumere riguardo al ritiro, né disprezzare la distrazione degli affari, questa è la via di mezzo“.

    Il progresso nella via dell’anima richiede però fatica e tempo. Non cambiamo all’improvviso, divenendo in modo magico persone nuove e dimenticando tutte le nostre colpe passate. Non possiamo mai fuggire da ciò che siamo; non possiamo mai sfuggire alle tentazioni e alle passioni, al nostro carattere, alla vanità, alla paura, all’invidia, alla delusione o all’arroganza. Barsanufio ci ammonisce a non entrare in cella “a motivo della viltà”, ma solo “a motivo della preghiera”. Giovanni aggiunge: “Quando ricorri al silenzio per ascesi, allora è buono; quando invece non è così ma taci temendo il turbamento, allora è dannoso”.

    In ultima analisi, il grado di comprensione e accettazione dell’altro sarà proporzionato al grado di comprensione e tolleranza di noi stessi. Siamo uniti l’uno all’altro più dalla nostra debolezza e dai nostri fallimenti che dalla nostra forza e dai nostri successi. Nella solitudine della cella, attraverso tentazioni e tensioni, l’asceta diventa dolorosamente cosciente di ciò che gli manca. Allora l’asceta è tormentato dall’assenza di amore e aspira a una comunione profonda. La cella simbolizza il porto sicuro dell’anima, che nessuno lascia e al quale ciascuno può sempre volontariamente fare ritorno per scoprire sempre di più l’io profondo, senza temere la prova dolorosa o la lotta fino al sangue che ciò può portare con sé. Tale scoperta attraverso la solitudine può diventare una fonte di salvezza. Abbracciare la solitudine nel deserto della cella o dell’anima significa conoscere che cosa pensi, capire come stai e infine accettare gli altri senza il bisogno di difendere te stesso. Significa ancora diventare responsabile senza la minima ombra di autogiustificazione. Ciò è fonte di vulnerabilità e di apertura.

    In questo senso, cioè come fonte di vulnerabilità, la solitudine ci mette in rapporto con la croce di Cristo. Giovanni scrive: “Allora sarà solitudine, perché ha portato la croce“. Chi è stato spinto – da sofferenze personali o da condizioni di vita difficili – a un “punto di rottura” possiede spesso una visione della realtà estremamente ricca, che appare molto meno in chi non ha conosciuto conflitti. In verità la realtà del conflitto come parte costante e cruciale della vita è difficile da accettare. Il modo in cui noi viviamo le tensioni e le difficoltà influenza il nostro modo di accettare noi stessi e gli altri. La solitudine ci ricorda che l’anima non è una regione libera da conflitti dove possiamo evadere o ignorare i pericoli del mondo e le tentazioni dell’anima: Entrare nella cella significa entrare nella cella dell’anima ed esaminarla e raccogliere il nostro pensiero distaccandolo da ogni uomo: allora sentiamo dolore e compunzione. Ciò che impedisce la compunzione è la tua volontà propria; se infatti l’uomo non taglia la sua volontà, il cuore non sente dolore.

    La solitudine, insomma, possiede la capacità di assorbire ogni sorta di dolore e di trasformare ogni genere di tentazione e di tensione in speranza e gioia: “La tentazione porta l’uomo a pro­gredire; dove c’è il bene, là scoppia la lotta. Non temere dunque le tentazioni ma gioisci, poiché ti portano a progredire”. Non c’è da meravigliarsi che gli Anziani di Gaza ripetano insistentemente la necessità di gioire nel Signore: Gioisci nel Signore; gioisci nel Signore; gioisci nel Signore! Il Signore custodirà la tua vita, il tuo corpo, il tuo spirito da ogni male, da ogni attacco diabolico, da ogni fantasia angosciosa

    E ancora: Non possiamo essere senza tentazioni. D’altra parte esse ci insegnano la pazienza … Il nostro Maestro ha sopportato ogni patimento per amor nostro; e come mai noi, ricordandoci di lui, non sopportiamo, per divenire suoi compartecipi (cf. 1Cor 9,23)? Guarda che noi abbiamo ricevuto il comandamento di rendere grazie in tutto (cf. 1Ts 5,18).

    È qui che la solitudine incontra il servizio agli altri e la cella si apre al mondo intero: “Per raccogliere il proprio spirito non ci sono momenti fissi, né ore, né tanto meno giorni; si deve invece sopportare, con rendimento di grazie … Questa è la compassione“.

    Il silenzio: la via dell’anima

     Se la solitudine ci fa dono della consapevolezza e della vigilanza, il silenzio ci educa all’arte dell’ascolto e dell’attenzione. Nella solitudine è importante lo spazio tra le persone; nel silenzio quello tra le parole. Questo spazio è sempre necessario; “il silenzio è più ammirabile e più glorioso“, è sempre migliore, “bello e meraviglioso più di ogni altra cosa“, “bello in ogni caso“, “più necessario e utile di ogni altra cosa“. Il contatto fisico e la comunicazione verbale sono unite alla comunione e all’amore quanto il silenzio. È questo il motivo per cui Barsanufio afferma che il silenzio ci è chiesto da Dio; non dirà mai questo della quiete, che è un dono. La solitudine offre lo spazio e la possibilità di ascoltare e di assumere quello che l’altro sta dicendo e comunicando. Questo avviene perché nella relazione noi portiamo quello stesso io con cui noi siamo o non siamo in rapporto a quando restiamo soli. Gli Anziani infatti rim­proverano severamente quelli che si lamentano di aver perduto, nell’incontrare i fratelli, i doni spirituali conseguiti nella solitudine, come ad esempio, il silenzio.

    Il silenzio è una qualità che ci porta ad avere coscienza che ciò che sta accadendo nel mondo degli altri è importante. Al contrario, il canale di congiunzione tra l”‘io” e il “tu” può accrescere la “consapevolezza” della forza dei miei desideri e dei miei pregiudizi, nella mia mente e nel mio cuore. Quale risultato, io creo la mia versione del “tu”, con infima o nulla possibi­lità di contatto o comunicazione con l’altro. Domanda. Mi accade, mentre mi intrattengo con qualcuno, di distrarmi improvvisamente, al punto sia di sembrare al di là di me, sia di dimenticare l’argomento in corso, non perché la mente sia trasportata verso qualcos’altro, ma perché è fuori di se… Risposta. Questa è una guerra del diavolo, che vuole confondere l’uomo davanti ai presenti. Ma se manifesti loro la cosa con libertà, dicendo: “Perdonatemi, il diavolo mi ha distratto”, è lui a restare confuso e la guerra cessa. Parla dunque con sobrietà.

    Questi anziani riconoscono che dove l’io è impoverito, anche la relazione è compromessa. Ora, Barsanufio e Giovanni sono ben consci che per giungere alla conoscenza di sé abbiamo bisogno di fidarci almeno di un’altra persona: Domanda del medesimo allo stesso. Ti prego, padre, di dirmi come posso sapere se sono nella sottomissione e se abbandono la mia volontà… Risposta. Da questo puoi sapere se vivi da cenobita: se non fai niente di tua volontà, né il mangiare da solo, né con i fratelli, ma se fai senza discutere le cose che ti vengono ordinate. Domanda dello stesso. Quando faccio una carità ai fratelli, mi viene la tentazione di vantarmene; è male se lo faccio di nascosto per mezzo dell’igumeno, piuttosto che personalmente? …Risposta. Tu devi fare attenzione in tutti e due i casi, perché entrambi offrono un’occasione alla vanagloria. Tuttavia, farlo per mezzo dell’igumeno è più leggero, perché il tuo cuore ci trova una sola occasione di lotta: contro se stesso. Se invece lo fai direttamente, il combattimento è duplice: non solo con il tuo cuore, ma anche con gli uomini.

    L’obbedienza è essenzialmente un atto di attento ascolto; è l’arte di ascoltare profondamente (hypakoé). Barsanufio è cer­to che ogni volta che si fa silenzio di propria iniziativa, quel si­lenzio viene dal diavolo e produce turbamenti e ire. Insomma, l’ammonimento fondamentale è una sorta di reminiscenza dell’educazione ricevuta in una buona scuola elementare: “Non parlare mai prima di essere interrogato”. Ma lo scopo che ci si prefigge non è quello di soffocare o reprimere la volontà, bensì di rafforzare e rinsaldare la volontà: “Non esaltarti se il tuo di­scorso è accettato, né affliggerti se non lo è”.

    L’obbedienza è la misura e il criterio dell’autentica solitudine e del silenzio: “Se vuoi sapere se è dannoso o vantaggioso stare in cella per conto proprio, considera questo segno: se ci stai per obbedienza, sappi che è vantaggioso “.

    Naturalmente il delicato equilibrio tra solitudine e comunio­ne non può essere veramente raggiunto senza la grazia divina. Il vero silenzio e la vera quiete sono un riflesso della quiete che esiste nella santa Trinità: Se hai preparato così la tua casa [nel silenzio] … ecco che [il Figlio di Dio] viene col Padre benedetto e con lo Spirito santo e pone la sua dimora presso di te (cf. Gv 14,23) e ti insegna cos’è la quiete e illumina il tuo cuore (cf. Ef 1,18) di gioia ineffabile (cf. 1Pt 1,8).

    Ma ancora, è difficile reggere il sottile equilibrio tra solitudine e comunione senza l’aiuto di un padre spirituale. Grazie a qualcun altro che ha fiducia in noi, cominciamo fiduciosamente – cioè attraverso la fiducia e l’apertura del cuore – a riscoprire il solido terreno interiore. Condividere apertamente i nostri pensieri e le nostre tentazioni con almeno un’altra persona, ci porta a conoscere i desideri e i conflitti che guidano il nostro comportamento. E l’essere preparati ad ascoltare e ad accettare la realtà della nostra natura e noi stessi, ci rende più consapevoli e più attenti agli altri. La nostra capacità di entrare in noi stessi per imparare e crescere è in definitiva anche la possibilità che noi abbiamo di diventare consapevoli della presenza degli altri e attenti ai pesi degli altri.

    Una ragione valida per condividere con gli altri i propri pensieri è che la maggior parte di noi sono critici severi verso se stessi; noi ci ergiamo contro noi stessi con durezza, proprio quando più avremmo bisogno di tolleranza e di compassione, virtù proprie degli Anziani di Gaza. E benché l’obbedienza sia un concetto in contrasto con le contemporanee nozioni di liberazione e di indipendenza, è vero che quando si è incapaci di costruire anche un piccolo pezzetto di terreno solido, termini come libertà e volontà hanno scarsa risonanza.

    Citando frequentemente Gal 6,2 – “Portate i pesi gli uni degli altri” – Barsanufio e Giovanni sottolineano che la responsabilità per “i pesi degli altri” è un punto critico per la crescita spirituale. Assumere e riconoscere la propria responsabilità dinanzi agli effetti dei pensieri e delle azioni implica rinunciare ad accusare gli altri, che di conseguenza divengono meno minac­ciosi per noi: Il medesimo aveva letto nei detti dei padri che colui che vuole davvero essere salvato, deve anzitutto, vivendo insieme agli uomini, sopportare oltraggi, ingiurie, danni, disprezzo, perché i suoi sensi siano liberati e così si innalzi alla quiete perfetta … Disse dunque a se stesso: “Io miserabile non ho fatto nemmeno una di queste cose ma, scandalizzando tutti a motivo della mia infermità, mi sono separato dagli uomini. Devo forse allora ritornare in mezzo agli uomini? E, con l’aiuto di Dio, fare come dicono i padri e così giungere alla quiete perché la mia fatica non sia vana (cf. 1Ts 3,5)

    Il silenzio poi è l’alfabeto del linguaggio della tolleranza e dell’amore. La comunione è spesso travolta sotto il rullo compressore delle nostre parole! Barsanufio preferisce il silenzio; Giovanni invece confessa di amare la conversazione: “Se la persona che mi interroga fosse come me, la mia loquacità non mi lascerebbe star zitto senza rispondergli, perché la mia lingua non si lascia trattenere“. E afferma: “Poiché noi, per la nostra debolezza, non siamo giunti a percorrere la via dei perfetti, parliamo“. Dopo tutto, come osserva a un certo punto: Quanto al silenzio di cui parlano i padri, tu non sai che cos’é, e sono molti a non saperlo. Questo silenzio infatti non è tacere con la bocca: ci può essere un uomo che dice migliaia di parole utili, e questo gli viene contato come silenzio; e un altro che dice una sola parola inutile, e gli viene contata come trasgressione degli insegnamenti del Salvatore.

    Questo equilibrio tra solitudine e comunione caratterizza il monastero di Serido. Le celle avevano finestre che permettevano la conversazione con i visitatori; e i monaci erano incoraggiati a rispondere ai bisogni degli ospiti, inclusi i laici e i parenti, “non per compiacere gli uomini, né come chi cerca lode, ma con cuore puro” (cf. 1Tm 1,5). Infine abba Giovanni parla di “non-silenzio” ( asiòpeton o tò mé siopàn) quando uno è si silenzioso, però non manifesta sinceramente i suoi pensieri e perciò non ottiene la guarigione. Ambedue, parola e silenzio, possono essere falsi. Quando la nostra teologia è disgiunta dagli altri, quando essa non ha relazione con questo mondo, allora è un falso linguaggio, è cattiva comunicazione. Barsanufio e Giovanni sono poco tolleranti verso le chiacchiere spiritualiche riducono Dio a un oggetto piccolo e maneggevole. Non ci offrono un libro di ricette per la nostra guarigione e salvezza, per quanto seducente possa essere il “rattoppo”. Barsanufio e Giovanni sanno che l’essere umano è imprevedibile; è troppo complesso perché un tale procedimento possa portare benefici duraturi. Più diventa possibile fare previsioni su qualcuno, meno tale persona è reale. Stiamo in guardia dalle persone che hanno sempre la risposta pronta!

    La quiete: la risurrezione dell’anima

    La solitudine e il silenzio sfociano infine nel mistero della quiete. Questo è il momento in cui percepiamo che Dio è il fondamento del nostro essere, “la solida pietra”della nostra costruzione, davanti alla quale non siamo più spaventati della nostra debolezza o della nostra piccolezza. Abba Giovanni dice: “Dove c’è quiete, mitezza e umiltà, abita Dio”. E Barsanufio afferma che la quiete è un dono spirituale, dato da Dio “nei tempi opportuni”.

    La quiete è strettamente legata alla morte. Essa riflette la nostra attesa del mondo a venire. Sii vigilante, ammonisce Barsanufio: “vigila, fratello: sei mortale e sono brevi i tuoi giorni”. Dice ancora: “La cella nella quale uno è sepolto come in una tomba, per il nome di Gesù, è un luogo di riposo … è diventata un santuario, dato che contiene la dimora di Dio (cf. Ef 2,22).

    La quiete può in certo senso rassomigliare alla morte, è simile alla lenta crescita silenziosa di germogli seminati profondamente nel terreno: crescita nascosta, ma reale. Barsanufio paragona “la quiete perfetta“a una nave che giunge nel porto; dapprima essa “è sbattuta e agitata dalle onde e dai flutti; ma quando giunge nel porto, si trova in una grande calma“.

    Si vive la vita in pienezza solo quando ci si è posti di fronte alle cose ultime, cioè alla mancanza di senso e alla morte. Dal modo con cui noi ci confrontiamo e ci sottraiamo a queste cose ultime, derivano profonde conseguenze per la nostra esperienza di solitudine, di silenzio e di quiete. Il ricordo della morte è fondamentale nella vita spirituale, è una memoria quotidiana e tangibile della nostra debolezza e imperfezione. Se vogliamo uscire dalla vita nella bellezza e nella luce, dobbiamo semplicemente pensare alla morte. A fatica si può trovare, in case di cura e ospedali, un senso di perfezione, che per giunta è solo apparente. Il ricordo della morte permette alla debolezza di essere rivelata in verità; allora la falsità può essere apertamente svelata e la guarigione può cominciare.

    La quiete tuttavia non è soltanto qualcosa che fa paura; è anche qualcosa di sacro. La quiete è strettamente legata al desiderio della “vita in abbondanza (cf. Gv 10,10), al di là della “mera sopravvivenza“. La maggior parte di noi tende a negare la relazione tra la morte e la quiete entrando nel turbine dell’attivismo che fa della morte una realtà improbabile o forse impossibile. La quiete è come un’attesa rispettosa e riverente. Essa e un rinnovato senso di anticipazione, un’apertura alla risurrezione in cielo. Nella quiete siamo consapevoli di essere vivi e non morti, di avere bisogni e tentazioni e di essere capaci di affrontarli e di assumerli senza fuggire. Nella quiete non siamo vuoti, non siamo soli, non siamo timorosi. Nella quiete sappiamo che Dio è (cf. Sal 45 [46],11); quest’esperienza può accadere in un istante oppure occupare tutta una vita.

    Infine la quiete introduce un elemento apofatico nella via della comunione e dell’amore. Perché attraverso la quiete giunge il consolante invito ad avvicinare gli altri tramite la “non-conoscenza”. Se restiamo fermi alle nostre precomprensioni o alle nostre paure dell’altro, non potremo mai godere di un perfetto silenzio. Quando “conosciamo” qualcuno, finiamo per chiudere subito gli occhi al processo continuo di cambiamento e di crescita dell’altro. Noi limitiamo noi stessi quando fissiamo gli altri unicamente nel passato e non sappiamo gioire della loro potenzialità. Nell’isolamento della solitudine possiamo rischiare di essere quello che siamo; nell’eco prodotta dal silenzio possiamo rischiare di porci davanti agli altri come essi sono; e nella comunione della quiete possiamo accogliere gli altri nella loro interezza, nella loro dimensione eterna, al di là di quello che possiamo comprendere, sopportare o semplicemente sfruttare.

    Conclusione

    Secondo una leggenda conservata nella Storia ecclesiastica di Evagrio Scolastico, al tempo in cui Evagrio scrive (593 ca.) circa cinquant’anni dopo la data presunta della morte di Barsanufio, si credeva che il Grande anziano fosse ancora vivo. Quando il patriarca di Gerusalemme diede ordine di aprire la porta della sua cella, ne uscì una fiamma di fuoco. Il silenzio di Barsanufio fu una dimostrazione più forte della sua stessa morte.

    Solitudine, silenzio e quiete sono valori monastici che presentano sottili, ma significative, variazioni dell’anima. Per molti aspetti esse costituiscono un equivalente della triplice distinzione evagriana tra praktiké, theorìa e theologhìa. Tuttavia, con la loro particolare distinzione delle variazioni dell’anima, che aprirà la via al pensiero monastico delle generazioni successive, Barsanufio e Giovanni offrono una nuova prospettiva alternativa di questo mondo, e non un’occasione di fuggire la realtà del mondo. Definendo i tre stadi della vita solitaria essi sottoli­neano il fatto che noi possiamo essere veramente uniti quando siamo veramente separati. Questa è essenzialmente l’esperienza di lasciare la presa e di affidarsi. È la capacità di dimenticare se stessi nello sforzo di raggiungere l’altro. Solitudine, silenzio e quiete riguardano veramente “ogni pensiero, ogni affare e condotta e preoccupazione“della nostra vita. Ogni relazione richiede la stessa prossimità e la stessa separazione, la stessa accoglienza e la stessa distanza.

    In questo senso i tre stadi della vita solitaria rappresentano una sfida per la paradossale o ideologica collisione che talvolta è messa in luce nella tradizione del deserto tra l’ideale del silenzio e la realtà della verbosità. Questa era la via dei padri del deserto trasmessa attraverso Evagrio Pontico e abba Zosima. Era l’insegnamento ricevuto e ripetuto da Barsanufio e Giovanni che dichiara che uno può essere con gli altri anche quando non è presente. Questa è l’idea che ispira la poesia australiana di Michael Leunig intitolata Sedendo sul muretto:

                “Vieni a sederti accanto a me”
    ho detto a me stesso;
    e, anche se non ha senso,
    mi sono tenuto per mano
    come un piccolo segno di fiducia
    e insieme sedevo [solo] sul muretto.

     

     

  • 01 Nov

    Cosa avviene leggendo la Bibbia?

    Da S. Fausti, Per una lettura laica della Bibbia, EDB 2010

     

    Ogni seme accolto nella terra germoglia e la trasforma secondo la propria specie. Ogni parola deposta nella mente e nel cuore, l’humus umano, germoglia e lo trasforma secondo la sua specie. La parola accolta si ferma nella testa e dà la forma all’intelligenza, scende poi nel cuore e informa la volontà, amore di bellezza, arriva infine ai piedi e alle mani, con cui si cammina e agisce secondo ciò che si capisce e ama. La parola ascoltata sia buona o cattiva determina il capire, il volere e l’agire, tutto l’essere dell’uomo.

    L’uomo è o meglio diventa la parola che ascolta. Perché ogni parola non è solo comunicazione di notizie, ma “contiene” anche chi parla ed è “contenuta” in chi ascolta. Il dire è un “dirsi”, e il “dirsi” un “darsi”. Ogni parola è gravida di chi la trasmette e ingravida chi la riceve.

     Dio si dice e si dà attraverso la parola e l’uomo dinanzi a lui è essenzialmente “ascolto”. Se lo ascolta e risponde diventa partner, altra parte, di Dio stesso. Divento la Parola di Dio!

     Ma vi può essere la possibilità che si rifiuti l’ascolto di questa parola preferendo la propria o l’altrui, magari del nemico. Rifiuto possibile alla mia libertà e motivato da mille propri motivi, ma che porta inevitabilmente alla mia esclusione dalla possibilità di essere trasformato-divinizzato dalla Parola. L’uomo che rifiuta la Parola come i bambini di Federico II si condanna inevitabilmente alla morte.

    Quando leggo la scrittura accade una realtà mai esistita prima. La Parola ascoltata produce in me una inedita parola interiore del cuore. E’ una realtà nuova che si innesca nella mia vita e la cambia.

    L’esperienza che fa il lettore del vangelo è quella di essere trasformato: egli è come Gesù che è puro ascolto della parola del Padre da essere lui stessa questa Parola divina, e così egli mi dà la possibilità di essere figlio come lui, “generato non da un seme corruttibile, ma immortale, cioè dalla Parola di Dio viva ed eterna” (1 Pt 1,23).

     Differenza tra catechesi narrativa e catechesi dottrinale

     Normalmente i testi sacri sono in prevalenza normativi e dottrinali: dicono che cosa fare e cosa credere. La Bibbia invece riporta per lo più testi narrativi.

    Ora i fatti non sono da fare: sono già fatti. Non sono da credere perché sono fatti e non promesse. Essi sono da osservare, ascoltare, contemplare. La dottrina è da credere, la norma da fare, il racconto e da ascoltare.

    I testi dottrinali hanno la loro utilità. Ma se non scaturiscono da narrazioni di fatti e non si misurano con la narrazione di ciò che producono sono sterili, anzi nocivi (cfr il decalogo e la sua premessa tralasciata). Il catechismo sta alla Bibbia coma una parafrasi alla Divina Commedia, o un menù al pasto concreto.

     Il racconto ci cambia molto più di una dottrina e di una norma (gli spot pubblicitari non sono forma narrativa per coinvolgere a sua insaputa il telespettatore?). Nella terapia psicologica non il sapere concettuale aiuta, ma il rivivere l’esperienza mediante il racconto. Il valore specifico della catechesi biblica rispetto ad altre forme di catechesi è quello del racconto che fa rivivere l’esperienza.

    Ciò che leggo, mi legge dandomi una nuova interpretazione di me. Mentre mi applico al testo, vedo che il testo si applica a me. Fabula de me narratur! Il racconto mi ri-racconta. E la Parola mi fa scoprire nel mio profondo la presenza del volto del padre e del mio essere figlio.

    La mia vita non è altro che esecuzione dell’interpretazione che do di me stesso. In questo senso il vangelo è una logoterapia. È un antivirus che mi riconsegna nella sua integrità il significato delle parole fondamentali (la grammatica fondamentale dell’essere) che la menzogna vorrebbe sempre stravolgere conducendomi a schiavitù e frutti di morte.

    Il modo migliore per parlare di Dio è quello con il quale si è rivelato: il racconto del suo rapporto con noi e del nostro rapporto con lui. Da qui la necessità di prendere la Bibbia come un’unica grande catechesi narrativa, che viene dalla tradizione viva della comunità che l’ha sperimentata e la testimonia.

    Elementi e funzioni della catechesi narrativa dei vangeli

     Il vangelo non è un resoconto di cronaca giornalistica dei fatti non è neppure un’antologia di episodi. È il racconto dell’esperienza di fede che la prima comunità ha fatto del Dio fatto uomo. Fotogrammi e sequenze sono montati al posto giusto: stanno bene dove si trovano, frutto di quanto precede e seme di quanto segue.

    Ogni vangelo propone un suo cammino articolato diverso dall’altro, per giungere allo stesso fine: conoscere e amare Gesù, per essere con lui e come lui. Sono quattro vie diverse che portano alla stessa cima partendo da lati diversi. Questo permette una visione pluridimensionale della stessa realtà.

    Marco (lo sottolineiamo questa sera) si rivolge al pagano che crede in molti dei perché capisca dalla croce chi è veramente Dio. Il suo è il vangelo del catecumeno. Lui è un ebreo che scrive nel greco del koiné a Roma dove si parla il latino per gente che non è ebrea, né romana né greca. Lo può fare perché usa un trucco semplicissimo: usa solo un migliaio di parole comuni riferiti all’ambiente in cui l’uomo vive concretamente, parla di parti del corpo. Di azioni e passioni che tutti provano. Parla di semi, piante, uccelli pesci, pane asini e cani… Queste parole evocative tipiche del racconto, sono capaci di grandi evocazioni dell’immaginario umano comune a tutti e cono giocate in racconti elementari che risvegliano sensazioni, colori, suoni, sapori, sentimenti. Le nostre azioni sono per lo più legate a queste sensazioni e sentimenti. Amiamo e andiamo verso ciò che desideriamo e odiamo e fuggiamo da ciò che temiamo.

    Luca si rivolge ad una comunità mista di credenti della terza generazione perché si senta responsabile di aprirsi al mondo intero. È il vangelo del missionario

    Matteo si rivolge ad una comunità ebraica perché capisca come il Cristo crocifisso sia il compimento delle promesse di Israele. È il vangelo del catecheta.

    Giovanni è il grande teologo che presenta e racconta il mistero che già vive nel credente. È il vangelo del cristiano maturo perché confermi la sua fede.

    Tutti costoro sanno che si potrebbe scrivere all’infinito sull’argomento senza mai riuscire a dire tutto di colui che è tutto. Sono però coscienti di dire quanto basta al loro scopo.

    Il fine del vangelo è che ogni lettore sia in grado di scrivere il suo quinto vangelo, ancora non scritto, che è la sua vita concreta vissuta in Cristo, da lui trasfigurata. Chi ascolta la Parola diventa a sua volta vangelo vivo.


     

     

     

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