L’esychia
Archimandrita Kallistos: da “Sobornost” N ° 3- 19
tratto da: M. BRUNINI: La preghiera del cuore nella spiritualità orientale, ed. Messaggero
I. I DIFFERENTI LIVELLI DELL’ESYCHIA
Una delle storie dei “Detti dei Padri del deserto” descrive una visita di Teofilo, arcivescovo di Alessandria. ai monaci di Scete. Ansiosi di fare una buona impressione al loro illustre ospite. i monaci riuniti chiesero all’abate Pambo: “Di’ qualcosa di edificante all’Arcivescovo“. Ed il vecchio rispose: “Se non è edificato dal mio silenzio, tanto meno sarà edificato dalle mie parole“. Questa storia indica l’estrema importanza data dalla tradizione del deserto alla esychia, la qualità dell’immobilità e del silenzio. “Dio ha scelto l’esychia al di sopra di ogni altra virtù” è detto altrove nei “detti dei padri del deserto”. Come insiste S. Nilo di Ancira: “È impossibile che l’acqua infangata si possa chiarificare se si continua a rimestarla; ed è impossibile diventare monaco senza l’esychia“.
Esychia, comunque, significa ben di più della semplice astenzione dal parlare fisico. Il termine può essere invece interpretato a molti livelli differenti. Tentiamo di distinguere i vari significati, partendo dai più esteriori per arrivare ai più profondi ed interiori.
Esychia e solitudine
Nelle fonti più antiche il termine “esicasta” e il relativo verbo “esichazo” generalmente denota un monaco che vive in solitudine, da eremita, a differenza di quelli che sono membri di un cenobio. Questa accezione si ritrova già in Evagrio pontico ( + 399) e in Nilo e Palladio (inizi V secolo). Si ritrova pure nei “Detti dei Padri del deserto“, in Cirillo di Scitopoli, in Giovanni Mosco, Barsanufio, e nella legislazione di Giustiniano. Il termine esychia continua ad essere adoperato con questo significato anche in autori posteriori, come in S. Gregorio il Sinaita ( + 1346). A questo livello il termine si riferisce soprattutto alla relazione, nello spazio, di un uomo in rapporto ad altri. Questo è il significato più esteriore.
Esychia e la spiritualità della cella
“Esychia – dice l’abate Rufo nei “Detti” – è dimorare nella propria cella nel timore e nella conoscenza di Dio, astenendosi completamente dal rancore e dalla vanagloria. Tale esychia è madre d’ogni virtù e protegge il monaco dalle frecce infuocate del nemico“. Rufo continua mettendo l’esychia in relazione col ricordo della morte e conclude dicendo: “Siate vigilanti sulla vostra anima“. Esychia è qui associata con un altro termine chiave della tradizione del deserto, “nepsis“, sobrietà spirituale o vigilanza. Quando “esychia” è collegata con la cella, il termine si riferisce ancora alla situazione esterna, dell’esicasta nello spazio; ma questo significato è allo stesso tempo più interiorizzato e spirituale. L’esicasta, nel senso di uno che rimane con attenta vigilanza nella sua cella, non è sempre un solitario, ma può essere anche un monaco vivente in comunità. L’esicasta è, allora, uno che obbedisce all’ingiunzione di Abba Mosè: “Vai a sederti nella tua cella e la tua cella ti insegnerà tutto“. Egli tiene a mente il consiglio che Arsenio diede ad un monaco che desiderava fare opera di servizio caritatevole: – Qualcuno domandò ad Arsenio, “I miei pensieri mi tormentano dicendomi: – Non puoi digiunare, né lavorare: almeno vai a visitare gli infermi, che questo è pure una forma di amore”. L’anziano, riconoscendo i germi seminati dal demonio, gli disse: – “Vai, mangia, bevi e dormi senza fare alcun lavoro; solamente non lasciare la tua cella“. Perché egli sapeva che la permanenza paziente in cella, porta il monaco al compimento della sua vocazione.
La relazione tra esychia e la cella è chiaramente definita in un famoso detto di S. Antonio d’Egitto: “I pesci muoiono se s’attardano in terra asciutta; similmente i monaci, quando ciondolano fuori della cella o passano il loro tempo con uomini del mondo, perdono il tono della loro esychia“. Il monaco che rimane nella cella è come la corda d’uno strumento accordato. L’esychia lo mantiene in uno stato di alerte prontezza, ma non di tensione ansiosa né di sovraffaticamento; ma se egli ciondola fuori della cella la sua anima diviene grassa e flaccida.
La cella, compresa come struttura esterna dell’esychia, è vista soprattutto come un laboratorio di incessante preghiera. La principale attività del monaco, quando rimane immobile e in silenzio nella sua cella, è il continuo ricordo di Dio, accompagnato da un senso di compunzione e di cordoglio. “Siedi nella tua cella“, dice abba Ammonas a un vecchio che si propone d’adottare qualche ostentata forma d’ascetismo, “mangia un poco ogni giorno ed abbi sempre nel suo cuore le parole del pubblicano. Allora potrai essere salvato“.
Le parole del pubblicano “Dio abbi compassione di me peccatore” sono strettamente parallele alla formula della preghiera di Gesù, come si trova a partire dal VI secolo in Barsanufio, nella vita di abbà Filemon ed altre fonti. Ritorneremo a tempo debito all’argomento dell’esychia e della invocazione del nome. La clausura della cella monastica e il nome di Gesù sono esplicitamente connessi in una frase di Giovanni di Gaza a proposito del suo confratello eremita Barsanufio: “La cella in cui è rinchiuso vivo come in una tomba, per amore del nome di Gesù, è il suo luogo di riposo; nessun demone vi entra, neppure il principe dei demoni, il Diavolo. È un santuario perché contiene la dimora di Dio“.
Per l’esicasta, dunque, la cella è casa di preghiera, santuario e luogo d’incontro tra uomo e Dio. Tutto ciò è espresso con particolare efficacia nel detto “La cella dal monaco è la fornace di Babilonia, in cui i tre fanciulli trovarono il Figlio di Dio; è la colonna di nubi da cui Dio parlò a Mosè“. Questa nozione della cella come punto focale della Presenza divina, si ritrova nelle parole d’ un eremita copto contemporaneo, Abuna Matta al-Meskin. Quando un visitatore gli chiese se avesse mai pensato di andare in pellegrinaggio ai luoghi santi, egli rispose: “Gerusalemme. la santa, è qui, dentro e attorno queste caverne, perché che altro è la mia caverna se non il luogo in cui nacque il mio Salvatore, Cristo; che altro è la mia caverna se non il luogo in cui Cristo, mio Salvatore, fu condotto al riposo, che altro è la mia caverna se non il luogo da cui Egli al massimo della gloria risorse dai morti? Gerusalemme è qui, proprio qui, e tutte le ricchezze spirituali della città santa si possono trovare in questa radura“.
A questo punto, ci stiamo muovendo velocemente dal significato esteriore a quello più interiore del termine “esychia”. Interpretato in termini di spiritualità della cella, la parola significa non solo una condizione esteriore, fisica, ma anche uno stato dell’anima. Denota l’attitudine d’uno che sta nel suo cuore di fronte a Dio. “La cosa principale” dice il vescovo Teofane il Recluso (1815-94) “è stare di fronte a Dio con la mente nel cuore, e continuare a restare di fronte a Lui incessantemente, notte e giorno, fino al termine della vita“. E questo è, praticamente, ciò che la quiete ed il silenzio significano per l’esicasta.
Esychia e il “ritorno in sé stessi”
Questa comprensione più interiorizzata di “esychia” è perfettamente espressa nella definizione classica dell’esicasta come la ritroviamo in S. Giovanni Climaco ( + ca. 649): “L’esicasta è uno che cerca di confinare il suo essere incorporeo nella sua casa corporea, per quanto ciò possa parere paradossale“. L’esicasta, nel vero senso del termine, non è qualcuno che ha viaggiato all’esterno verso il deserto, qualcuno che si separa fisicamente dagli altri, chiudendo la porta della sua cella, ma uno che “ritorna in sé stesso” chiudendo la porta della sua mente. “Ritornò in sé” è detto del figliuol prodigo e questo è ciò che anche l’esicasta fa. Egli risponde alle parole di Cristo “Il Regno di Dio è dentro di voi” e cerca di “guardare il cuore con tutta l’attenzione” (Pr. 4,23).
Reinterpretando la nostra definizione originale dell’esicasta come di un solitario che vive nel deserto, possiamo dire che la solitudine è uno stato dell’anima, non un fatto di collocazione geografica, il deserto reale si trova dentro, nel cuore.
Il “ritorno in sé” è descritto con precisione da S. Basilio il Grande ( + 379) e da S. Isacco di Siria (VII sec.). “Quando la mente non è più dispersa nelle cose esterne“, scrive Basilio, “né sperduta nel mondo a causa dei sensi, allora essa ritorna in sé; e per mezzo di sé stessa ascende al pensiero di Dio“. “Siate in pace con la vostra anima” intima Isacco, “e allora cielo e terra saranno in pace con voi. Entrate prontamente nel tesoro che è dentro di voi, e così vedrete le cose che sono in cielo; perché una sola è l’entrata che conduce ad entrambi. La scala che porta al Regno è nascosta nella vostra anima. Sfuggite il peccato, immergetevi in voi stessi, e nella vostra anima scoprirete la scala su cui ascendere“.
A questo punto sarà utile fare una breve pausa e distinguere con maggior precisione tra i significati interiore ed esteriore della parola “esychia”.
In un famoso detto di abba Arsenio si indicano tre livelli. Quando era ancora tutore dei figli dell’imperatore nel palazzo, Arsenio pregò Dio: “Mostrami come posso essere salvato“. E una voce rispose: “Arsenio. sfuggi dagli uomini e sarai salvato“. Egli si ritirò nel deserto e divenne un solitario; e poi pregò ancora, con le stesse parole. Questa volta la voce rispose: “Arsenio, sta’ lontano, sta, in silenzio, sta’ in quiete, perché queste sono le radici della libertà del peccato“. Fuggire gli uomini, restare in silenzio, rimanere in quiete: tali sono i tre gradi dell’esychia. Il primo è spaziale, il “fuggire gli uomini“, esternamente, fisicamente. Il secondo è ancora esterno, il “rimanere in silenzio“, il desistere dal parlare. Nessuna di queste cose può trasformare un uomo in un reale esicasta; perché anche se vive in una solitudine esteriore e tiene la bocca chiusa, può essere interiormente pieno di irrequietezza e agitazione. Per conseguire la vera quiete è necessario passare dal secondo livello al terzo, dall’esychia esterna a quella interiore, dalla mera privazione di parlare a quella che S. Ambrogio di Milano chiama “Negotiosum silentium“, il silenzio attivo e creativo.
S. Giovanni Climaco distingue gli stessi tre livelli: “Chiudi la porta della tua cella materialmente, la porta della lingua al parlare, e la porta interiore ai cattivi spiriti“. Questa distinzione tra i livelli di esychia, ha importanti implicazioni per i rapporti dell’esicasta con la società. Uno può fuggire nel deserto visibilmente e geograficamente, eppure nel cuore rimanere ancora nel mezzo della città; inversamente un uomo può continuare a restare fisicamente nella città ed essere esicasta vero nel cuore. Per un cristiano ciò che importa non è la posizione spaziale, ma il suo stato spirituale. È vero che alcuni scrittori dell’oriente cristiano, e in particolare S. Isacco di Siria, sono giunti molto vicino all’affermazione che non ci può essere esychia interiore senza solitudine esteriore. Ma questo non è certo opinione comune. Ci sono storie nei “Detti”, in cui laici, completamente impegnati in una vita di servizio attivo nel mondo, sono paragonati ad eremiti e solitari; un dottore d’Alessandria è considerato, per esempio, spiritualmente pari a S. Antonio il grande stesso. S. Gregorio il Sinaita rifiutò la tonsura ad un suo discepolo chiamato Isidoro, e lo rimandò dal Monte Athos a Tessalonica, per essere di esempio e guida ad un gruppo di laici. Ben difficilmente Gregorio avrebbe potuto fate questo, se avesse considerato la vocazione di esicasta urbano come una contraddizione. S. Gregorio Palamas insiste, nella maniera più chiara, che il comando di S. Paolo “pregate incessantemente” si applica a tutti i cristiani senza eccezioni. A questo proposito si dovrebbe ricordare che, quando scrittori ascetici greci come Evagrio o Massimo il confessore, usano i termini “vita attiva” e “vita contemplativa” per essi “vita attiva” non significa la vita di servizio diretto al mondo, come la predicazione, l’insegnamento, il lavoro sociale ecc., ma la battaglia interiore per sottomettere le passioni ed acquistare le virtù. Usando il termine in questa accezione, si può dire che molti eremiti e molti religiosi viventi in stretta clausura, sono ancora coinvolti nella “vita attiva“.
E così ci sono uomini e donne completamente impegnati nella vita di servizio al mondo che pure posseggono la preghiera del cuore; e di essi si può dire che vivono la “vita contemplativa“. S. Simeone il nuovo teologo ( + 1022) affermava che la pienezza della visione di Dio è possibile “nel mezzo delle città” come “nelle montagne e nelle celle“. Egli credeva che persone sposate, con lavori secolari e bambini, e gravati delle ansietà di condurre una grande famiglia, potessero nondimeno ascendere le vette della contemplazione; S. Pietro aveva obblighi familiari eppure il Signore lo chiamò a salire il Tabor e ad assistere alla gloria della trasfigurazione. Il criterio non sta nella situazione esterna, ma nella realtà interna. E così come è possibile vivere nella città ed essere esicasta, ci sono analogamente alcuni il cui dovere è di parlare sempre e che tuttavia sono interiormente in silenzio. Secondo le parole di abba Poemen, “un uomo appare rimanere silenzioso e pure condanna gli altri in cuore: una tal persona sta parlando tutto il tempo. Un altro parla da mattina a sera eppure resta in silenzio; cioè, egli non dice nulla all’infuori di ciò che è utile agli altri“.
Ciò concorda esattamente con la posizione degli startsi come S. Serafino di Sarov e i padri spirituali di Optimo della Russia del XIX secolo: costretti dalla loro vocazione a ricevere un flusso interminabile di visitatori – dozzine e anche centinaia in un sol giorno – non perciò tralasciavano la loro esychia interiore. Invero, era proprio a causa di questa esychia interiore che potevano agire da guida agli altri. Le parole che dicevano a ciascun visitatore erano cariche di potere, perché erano parole che provenivano dal silenzio.
In una delle sue risposte, Giovanni di Gaza fece una chiara distinzione tra silenzio interiore ed esteriore. Un fratello vivente in una comunità che trovava nei suoi doveri di lavoro come falegname una causa di disturbo e distrazione chiese, se non avesse dovuto divenire eremita e “praticare il silenzio di cui i padri parlano“. Giovanni non fu d’accordo “come i più” rispose “tu non capisci cosa s’intende col silenzio di cui parlano i padri. Silenzio non consiste nel tenere la bocca chiusa. Un uomo può dire diecimila parole utili, e ciò vale come silenzio; un altro dice una sola parola non necessaria, ed è rompere il comandamento del Signore: Nel giorno del giudizio renderete conto di ogni parola oziosa che esce dalla vostra bocca“.
Esychia e povertà spirituale
La quiete interiore, quando è intesa come custodia del cuore e ritorno in sé, implica un passaggio dalla molteplicità all’unità, dalla diversità alla semplicità e alla povertà spirituale. Per usare la terminologia di Evagrio, la mente deve diventare “nuda“. Questo aspetto dell’esychia è reso esplicito in un’altra definizione di S. Giovanni Climaco: “Esychia è mettere da parte i pensieri“. In ciò egli adatta una citazione di Evagrio “preghiera è mettere da parte i pensieri“. La esychia implica un progressivo autosvuotamento, in cui la mente è spogliata di tutte le immagini visuali e di tutti i concetti umani, e così contempla in purezza il mondo di Dio. L’esicasta, da questo punto di vista, è uno che è avanzato dalla “praxis” alla “theoria“. Dalla vita attiva alla contemplativa. S. Gregorio dei Sinai contrappone l’esicasta al “praktikos” e continua a parlare “degli esicasti che son contenti di pregare a Dio solo nel loro cuore e di astenersi dai pensieri“. L’esicasta, quindi, non è tanto uno che s’astiene dall’incontrare e parlare con gli altri, quanto chi, nella sua vita di preghiera, rinuncia ad ogni immagine, ogni parola, e ragionamento discorsivo, e che è “sollevato al di sopra dei sensi nel puro silenzio“.
Questo “puro silenzio”, sebbene sia denominato “povertà spirituale“, è lontano dall’essere una semplice assenza o privazione. Se l’esicasta spoglia la propria mente da ogni concetto di provenienza umana, per quanto sia possibile, il suo scopo in questo “autoannullamento” è del tutto costruttivo. Che egli possa essere riempito dall’Onnicomprensivo senso della presenza Divina, è fatto notare bene da S. Gregorio il Sinaita: “Perché dilungarsi nel parlare? La preghiera è Dio, che fa ogni cosa in ogni uomo“. “La preghiera è Dio“; “non è tanto qualcosa che io faccio, ma qualcosa che Dio sta facendo in me” … “non io, ma Cristo in me” . Il programma dell’esicasta è delineato esattamente nelle parole del Battista riguardo al Messia: “Egli deve crescere ma io diminuire“.
L’esicasta cessa le sue attività, non per essere ozioso, ma per entrare nella attività di Dio. Il suo silenzio non è assenza, non è negativo – una pausa vuota tra due parole, un breve riposo prima di riprendere il discorso – ma del tutto positivo; un atteggiamento di attenzione, di vigilanza, e soprattutto di ascolto. L’esicasta è per eccellenza colui che ascolta, che è aperto alla presenza di un Altro: “Stai in quiete e sappi che io sono Dio” .
Nelle parole di S. Giovanni Climaco “L’esicasta è uno che dice dormo, ma il mio cuore resta vigile” . Ritornando in sé stesso, l’esicasta entra nella camera segreta del suo cuore e può così, restando là di fronte a Dio, ascoltare il linguaggio senza parole del suo creatore. “Quando preghi” osserva uno scrittore ortodosso contemporaneo della Finlandia “devi tu stesso star in silenzio e lasciar parlare la preghiera“. – o più esattamente – lasciar parlare Dio. L’uomo dovrebbe sempre star zitto e lasciar Dio solo parlare. Questo è ciò che l’esicasta mira ad ottenere. Esychia perciò denota la transizione della “mia” preghiera alla preghiera di Dio che opera in me – o per usare una terminologia del vescovo Teofane – dalla preghiera strenua o laboriosa, alla preghiera ‘che agisce da sé‘ o che ‘muove da sé’.
Il vero silenzio interiore o esychia, nel senso più profondo, è identico all’incessante preghiera dello Spirito Santo dentro di noi. Come dice S. Isacco di Siria “Quando lo Spirito prende dimora in un uomo questi non cessa di pregare, perché lo Spirito continuerà a pregare costantemente in lui. Allora né nel sonno, né nella veglia, la preghiera potrà essere separata dalla sua anima; ma quando mangia, quando beve, quando giace e quando fa qualsiasi lavoro, i profumi della preghiera saliranno spontaneamente dal suo cuore“.
Altrove Isacco paragona questo entrare nella preghiera spontanea, ad un uomo che varca una porta, dopo che la chiave è stata girata nella serratura, e al silenzio dei servi quando il padrone sopraggiunge fra loro. “Ciò che avviene in seguito è l’ingresso nel tesoro. A questo punto ogni bocca ed ogni lingua tace. Il cuore, tesoriere dei pensieri, la mente, che governa i sensi, e lo spirito, quell’uccello veloce, tutti debbono stare quieti; perché è arrivato il padrone della casa“. Compresa in questo senso, come ingresso nella vita e nell’attività di Dio, l’esychia è qualcosa che, durante l’età presente, gli uomini possono ottenere solo ad un grado limitato e imperfetto. È una realtà escatologica, che è riservata nella sua pienezza nell’età a venire. Nelle parole di Isacco “Il silenzio è un simbolo del mondo futuro“.
II. ESYCHIA E PREGHIERA DI GESU’
In linea di principio esychia è un termine generico per la preghiera interiore, ed abbraccia una varietà di più specifici modi di pregare. In pratica, comunque, la maggioranza degli scrittori ortodossi più recenti, usano la parola per designare un sentiero spirituale in particolare: l’invocazione del nome di Gesù. Occasionalmente, sebbene con minor giustificazione, il termine “esicasmo” è impiegato in un senso ancor più ristretto ad indicare la tecnica fisica e gli esercizi di respirazione che talvolta sono usati in connessione con la “preghiera di Gesù”.
L’associazione dell’esychia col nome di Gesù e, come sembra, col respiro – si ritrova già in S. Giovanni Climaco: “Esychia è restare di fronte a Dio in incessante adorazione. Fate che il ricordo di Gesù sia unito al vostro respiro e allora conoscerete il valore dell’esychia“. Qual’è la relazione tra preghiera di Gesù ed esychia? In che modo l’invocazione del Nome aiuta il raggiungimento del silenzio interiore, ora descritto?
La preghiera, è stato detto, è “metter da parte i pensieri“, un ritorno dal molteplice all’unità. Ora chiunque faccia un serio sforzo di pregare interiormente, stando di fronte a Dio, con attenzione raccolta, diviene immediatamente conscio della sua disintegrazione interiore – della sua incapacità di concentrarsi nel momento presente, nel “Kairos”. I pensieri si muovono senza posa nella testa, come mosche ronzanti (vescovo Teofane) o come il capriccioso saltare di ramo in ramo delle scimmie (Ramakrishna). Questa mancanza di concentrazione, questa incapacità di essere qui ed ora con l’intero essere, è una delle più tragiche conseguenze della caduta. Che si deve fare? La tradizione ascetica dell’Oriente ortodosso distingue due principali metodi per superare i “pensieri”. Il primo è diretto: contraddire i nostri “logismi”, incontrarli faccia a faccia, tentando di espellerli per uno sforzo di volontà. Un tal metodo può, comunque, dimostrarsi controproducente. Quando sono represse con violenza, le nostre fantasie, tendono a tornare con forza accresciuta. A meno che si sia estremamente sicuri di sé; è più sicuro usare il secondo metodo che è indiretto. Invece di combattere direttamente i pensieri e cercare di scacciarli con uno sforzo di volontà, si può cercare di distogliere l’attenzione da essi e guardare altrove. La strategia spirituale diviene così positiva invece che negativa: l’obiettivo immediato non è tanto svuotare la mente da ciò che è male, quanto di riempirla di ciò che è buono. E questo secondo metodo che è raccomandato da Barsanufio e Giovanni di Gaza. “Non contraddire i pensieri suggeriti dai tuoi nemici” consigliano “perché è esattamente ciò che vogliono, e non desisteranno. Ma rivolgiti al Signore per ricevere aiuto contro di essi, ponendo di fronte a Lui la tua impotenza; perché Lui è capace di espellerli e di ridurli a niente“.
È evidente che non è possibile fermare il flusso dei pensieri con un violento sforzo della volontà. È di poco o di nessun valore il dire a noi stessi “smetti di pensare”; si potrebbe dire ugualmente “smetti di respirare”. “La mente razionale non può restare oziosa” insiste S. Marco il monaco. Come posso conseguire, la povertà spirituale ed il silenzio interiore? Anche se non è possibile far desistere completamente l’inquieta intelligenza dalla sua instabilità, ciò che si può fare è semplificare e unificare la sua attività ripetendo in continuazione una certa formula di preghiera. Il flusso di immagini e pensieri continuerà, ma si sarà gradualmente resi capaci di distaccarci da esso. L’invocazione ripetuta ci aiuterà a “lasciare andare” i pensieri presentatici dal nostro io conscio o inconscio. Questo “lasciar andare” sembra corrispondere a ciò che Evagrio aveva in animo quando parlava della preghiera come di un “mettere da parte” i pensieri. Non un selvaggio conflitto, non una campagna spietata di furiosa aggressione, ma un gentile eppur persistente atto di distacco.
Tale è la psicologia ascetica presupposta nell’uso della preghiera di Gesù. L’invocazione del nome ci aiuta a focalizzare la nostra personalità disintegrata su un singolo punto. “Attraverso il ricordo di Gesù Cristo” scrive Filoteo del Sinai (IX-X sec.) “raccogliete la vostra mente dispersa“. La preghiera di Gesù è da considerarsi come un ‘applicazione del secondo metodo: l’indiretto, di combattere i pensieri; invece di cercare di scordare le nostre corrotte e triviali immaginazioni attraverso un confronto diretto, ci distogliamo e guardiamo al Signore Gesù; invece di fare affidamento sulle nostre forze, prendiamo rifugio nella forza e nella grazia che agiscono tramite il Nome Divino. L’invocazione ripetuta ci aiuta a “lasciar andare” e a distaccarci dal continuo chiacchierio dei nostri “logismi“. Concentriamo ed unifichiamo la nostra mente, continuamente attiva, nutrendola con una dieta spirituale che è ad un tempo ricca eppur estremamente semplice. “Per fermare il continuo ribollire dei nostri pensieri” dice il vescovo Teofane “dovete legare la mente con un pensiero, o con il pensiero di uno solo – il pensiero del Signore Gesù“.
Diadoco di Foticea (V sec.) afferma: “Quando abbiamo bloccato tutte le uscite della mente per mezzo del ricordo di Dio, allora essa ci richiede ad ogni costo qualche impegno che soddisfi il suo bisogno di attività. Diamole allora, come sola attività il Signore Gesù“.
Tale in generale è il modo in cui la “preghiera di Gesù” può essere usata per stabilire l’esychia all’interno del cuore. Ne derivano due importanti conseguenze.
Primo, per conseguire il suo proposito l’invocazione dovrebbe essere ritmica e regolare, e nel caso di un esicasta d’esperienza provata (ma non di un principiante che deve procedere con cautela) dovrebbe essere ininterrotta e continua per quanto è possibile. Aiuti esterni, come l’uso del comboschini (= una specie di “rosario” ortodosso) e il controllo del respiro, hanno come loro principale scopo precisamente di stabilire questo ritmo regolare.
In secondo luogo, durante la recitazione della “preghiera di Gesù“, la mente dovrebbe essere vuota d’immagini mentali, per quanto ciò è possibile. Perciò è meglio praticare la preghiera in un luogo dove vi siano rari rumori o nessuno del tutto; dovrebbe essere recitata nell’oscurità o con gli occhi chiusi, piuttosto che di fronte ad un’icona illuminata da candele o da lampada votiva.
Lo starets Silvano del Monte Athos (1866-1938), quando diceva la preghiera usava riporre l’orologio nell’armadio per non udire il ticchettio, e poi si tirava sugli occhi e le orecchie il suo spesso cappuccio monacale. Anche se immagini visive sorgeranno inevitabilmente quando preghiamo, non per questo debbono essere deliberatamente incoraggiate.
“La preghiera di Gesù” non è una forma di meditazione discorsiva sugli eventi della vita di Cristo. Quelli che invocano il Signore Gesù dovrebbero avere in cuore un’intensa e bruciante convinzione che essi stanno nella immediata presenza del Salvatore, che egli è di fronte e dentro di loro, che egli sta ascoltando la loro invocazione e rispondendo a sua volta. Tale consapevolezza della presenza di Dio non dovrebbe comunque essere accompagnata da alcuna immagine visiva, ma confinata a una semplice sensazione o convinzione; come dice S. Gregorio di Nissa ( + 395) “lo Sposo è presente, ma non è visibile“.
III. PREGHIERA E AZIONE
Esychia, dunque, implica una separazione dal mondo – separazione esteriore oppure interiore, e talvolta entrambe: esteriore per mezzo della fuga nel deserto; interiore attraverso il “ritorno in sé” e il “mettere da parte i pensieri“. Per citare i “Detti dei Padri del deserto”: “A meno che uno non dica nel suo cuore: io solo e Dio siamo nel mondo, non troverà riposo“. “Da solo al Solo“. Ma non è forse ciò egoistico, un rifiutare il valore spirituale della creazione materiale ed un evadere le proprie responsabilità verso i propri simili? Quando l’esicasta chiude gli occhi e le orecchie al mondo esterno, come faceva Silvano nella sua cella al monte Athos, quale servizio positivo e pratico sta egli rendendo al suo prossimo?
Consideriamo questo problema sotto due principali punti di vista. In primo luogo: l’esicaismo è colpevole delle stesse distorsioni di cui fu colpevole il quietismo nell’occidente del XVII sec.? Finora si è deliberatamente evitato di tradurre “esychia” con “quiete” a causa del significato sospetto connesso al termine “quietista”. L’esicasta non si trova in pratica a sostenete posizioni analoghe a quelle quietiste? In secondo luogo, qual’è l’attitudine dell’esicasta rispetto al suo ambiente fisico e umano? Di che utilità è agli altri?
Il principio fondamentale del quietismo – è stato detto – è la condanna di ogni sforzo umano. Secondo i quietisti, l’uomo per essere perfetto, deve ottenere una completa passività e annichilazione della volontà, abbandonandosi a Dio, a tal punto, da non curarsi né di cielo, né d’inferno, né della propria salvezza. L’anima rifiuta coscientemente non solo tutte le meditazioni discorsive, ma anche ogni atto distinto quale il desiderio per la virtù, l’amore di Cristo, l’adorazione delle persone divine, per restare semplicemente nella presenza di Dio in pura fede. Una volta che si sia conseguito l’apice della perfezione il peccato è impossibile.
Se questo è il quietismo, la tradizione esicasta è decisamente non quietista. Esychia significa non passività ma vigilanza, “non l’assenza di lotta ma l’assenza di incertezza e confusione“. Anche qualora un esicasta sia avanzato al livello della “Theoria” o contemplazione, egli non deve desistere dall’impegno della “praxis” o azione, cercando con sforzo positivo di acquistare virtù e rigettare il vizio. Praxis e theoria, la vita attiva e la contemplativa, nel senso definito più sopra, non dovrebbero essere considerate come alternative, né come due stadi, cronologicamente successivi, l’uno cessante quando l’altro inizia; ma piuttosto come due livelli d’esperienza spirituale interpenetrantesi e presenti simultaneamente nella vita di preghiera. Ciascuno deve lottare al livello della praxis fino al termine della vita. Questo è il chiaro insegnamento di S. Antonio d’Egitto: “Il compito principale dell’uomo è d’essere memore dei suoi peccati al cospetto di Dio, e di aspettarsi tentazioni fino all’ultimo respiro. Chi siede nel deserto da esicasta ha sfuggito tre guerre: udire, parlare, vedere; ma c’è una cosa che deve continuamente combattere – la battaglia che è dentro il suo cuore“.
È vero che l’esicasta come il quietista, non usa la meditazione discorsiva nella sua preghiera, ma sebbene l’esychia comporti un “lasciare andare” o un “mettere da parte i pensieri e immagini“, ciò non implica da parte dell’esicasta un atteggiamento di “completa passività“, né l’ assenza di “ogni atto distinto quale… l’amore di Cristo“. Il “lasciare andare” del male o dei logismi banali, durante la ripetizione della “preghiera di Gesù”, e la loro sostituzione con l’unico pensiero del Nome, non è passività, ma un modo positivo in sé stesso per controllare i pensieri. L’invocazione del nome è certamente una forma del “restare in presenza di Dio in pura fede“, ma allo stesso tempo è contrassegnata da un attivo amore per il Salvatore e da un’acuta nostalgia di condividere ancora più pienamente la vita divina. I lettori della Filocalia non possono non restare colpiti dall’ardore di devozione mostrato da autori esicasti, dal senso di immediata e personale amicizia per il “mio Gesù”.
A differenza del quietista, l’esicasta non fa alcuna dichiarazione d’essere senza peccato o immune da tentazioni. L’apatheia o “indifferenza”, di cui parlano i testi ascetici Greci, non è uno stato di disinteresse passivo o di insensibilità, e ancor meno una condizione in cui sia impossibile peccare. “Apatheia” dice S. Isacco di Siria: “Non consiste nel non sentire più le passioni, ma nel non accettarle“. Come insiste S. Antonio, l’uomo deve “aspettarsi tentazioni fino all’ultimo respiro” e con le tentazioni c’è sempre la genuina possibilità di cadere nel peccato. “Le passioni restano vive” dice abba Abraham “ma son legate dai santi“. Quando un anziano afferma: “Sono morto al mondo” il vicino replica gentilmente “Non essere così fiducioso, fratello, finché non hai lasciato il corpo. Tu puoi dire: ‘ Sono morto ‘ ma Satana non è morto“.
Negli scrittori Greci a partire da Evagrio, apatheia è strettamente connessa con l’amore, ciò indica il contenuto dinamico e positivo del termine. Nella sua essenza fondamentale è uno stato di libertà spirituale, in cui l’uomo è capace di levarsi verso Dio con desiderio ardente. Non è una mera mortificazione delle passioni fisiche del corpo, ma la sua nuova e rinnovata energia; è uno stato dell’anima in cui l’ardente amore per Dio e per l’uomo non lascia spazio per passioni egoistiche e animalesche. A denotare il suo carattere dinamico, S. Diadoco usa la frase espressiva: “Il fuoco dell’apatheia“. Tutto ciò a dimostrare l’abisso tra esicasmo e quietismo.
Per venire ora alla seconda questione: dato per scontato che la tradizione esicasta di preghiera non è “quietista”, in un senso sospetto ed eretico, fino a che punto essa è negativa nei confronti del mondo materiale e antisociale nel suo rapporto con gli altri?
Questo dubbio può essere illustrato da una storia dei “Detti” su tre amici che divennero monaci. Il primo adotta come lavoro ascetico il compito di rappacificatore, cercando di riconciliare coloro che ricorrono alla legge l’uno contro l’altro. Il secondo cura gli ammalati ed il terzo va nel deserto. Dopo un certo tempo, i primi due diventano completamente logorati e scoraggiati. Per quanto duramente combattano, essi sono fisicamente e spiritualmente incapaci di fronteggiare tutte le richieste a loro poste. Prossimi alla disperazione, vanno dal terzo monaco, l’eremita, e gli dicono i loro affanni. Dapprima egli sta in silenzio; poi versa acqua in una ciotola e dice: “guardate”. L’acqua è torbida e turbolenta. Attendono alcuni minuti. L’eremita dice “guardate ancora”. Il sedimento è affondato e l’acqua interamente chiara; essi possono vedere i propri volti come in uno specchio. “Questo è ciò che avviene – dice l’eremita – a chi vive tra gli uomini: a causa della turbolenza non vede i suoi peccati, ma quando ha imparato la quiete, soprattutto nel deserto, riconosce le proprie colpe“. Così finisce la storia. Non ci è detto come i primi due monaci abbiano applicato la parabola dell’eremita; forse saranno ritornati nel mondo portando dentro di sé qualcosa dell’esychia del deserto. In questo caso, le parole del terzo monaco sarebbero interpretate nel significato che l’azione sociale, di per sé stessa, non è sufficiente, se non c’è un centro immobile nel mezzo della tempesta. Se uno, pur nel mezzo delle sue attività, non preserva una stanza segreta nel cuore dove restare solo davanti a Dio, perde ogni senso di direzione spirituale e vien fatto a pezzi.
Senza dubbio questa è la morale che molti lettori del XX sec. sarebbero propensi a trarre: tutti dobbiamo, in una certa misura, essere eremiti del cuore. Ma era questa l’intenzione originale della storia? Probabilmente no. Molto più facilmente essa fu intesa come propaganda in favore della vita eremitica nel senso più letterale e geografico. E ciò solleva subito l’intero problema dell’apparente egoismo e negatività di questo tipo di preghiera contemplativa. Qual è, allora, la vera relazione dell’esicasta con la società? Deve essere immediatamente ammesso che, similmente al movimento esicasta del XIV sec., nella rinascenza esicasta del XVIII sec., e nella Ortodossia contemporanea i centri principali di preghiera esicasta sono stati i piccoli sketes, gli eremitaggi che accolgono solo un minuscolo gruppo di fratelli, viventi come una piccola famiglia monastica strettamente integrata, nascosta dal mondo. Molti autori esicasti esprimono una preferenza definita per lo “skete” nei confronti dei cenobi completamente organizzati, la vita in una grande comunità è considerata troppo distraente per la pratica intensiva della preghiera interiore. Pure, anche se l’ambiente esterno dello “skete”, considerato come ideale, pochi arriverebbero al punto di affermare che esso gode un monopolio esclusivo. Sempre il criterio è quello non della condizione esteriore ma del suo stato interiore. Certe condizioni esterne possono risultare più favorevoli di altre per il silenzio interiore; ma non c’è alcuna situazione di sorta che renda il silenzio interiore del tutto impossibile.
S. Gregorio del Sinai, come abbiamo visto rimanda il suo discepolo Isidoro nel mondo; molti dei suoi compagni più vicini del monte Athos e del deserto di Paroria divennero patriarchi e vescovi, capi e amministratori della Chiesa. S. Gregorio Palamas, insegnò che la preghiera continua è possibile per ogni cristiano; concluse egli stesso la sua vita come arcivescovo. Il laico Nicola Cabasilas (XIV sec.) servitore civile e cortigiano, amico di molti celebri esicasti, afferma con grande enfasi: “Ciascuno dovrebbe mantenere la propria arte o professione. Il generale dovrebbe continuare a comandare, il contadino a lavorare la terra, l’artigiano a praticare la sua arte. E vi dirò perché: non è necessario ritirarsi nel deserto, prendere cibo senza sapore, cambiare d’abito, compromettere la propria salute, o fare in genere cose non sagge, perché è del tutto possibile rimanere nella propria casa senza abbandonare tutto ciò che si ha, eppure praticare la meditazione continua“.
Nello stesso spirito, Simeone il nuovo teologo insiste che la “vita più alta” è lo stato a cui Dio chiama ciascuno personalmente: “Molti considerano la vita eremitica come la più beata, altri la vita in una comunità monastica, oppure il lavoro di governo, di istruzione o di educazione o d’amministrazione della chiesa… Da parte mia, comunque, non porrei nessuno di questi modi di vita sopra gli altri, né loderei l’uno a scapito degli altri. Ma in ogni situazione è la vita per Dio ed in accordo a Dio che è veramente beata“. La via dell’esychia è dunque aperta a tutti: l’unica cosa necessaria è il silenzio interiore non esteriore. E sebbene questo silenzio interiore presupponga il “mettere da parte” le immagini nella preghiera, l’effetto finale di questa negazione è l’asserzione vivida del valore ultimo di tutte le cose e di tutte le persone in Dio. La via della negazione è contemporaneamente la via della superaffermazione.
Ciò risulta molto dalla “Via del pellegrino“. L’anonimo russo che è l’eroe del racconto trova che la costante ripetizione della “preghiera di Gesù” trasfigura la sua relazione con la creazione materiale, cambiando tutte le cose in un sacramento della presenza di Dio e rendendole trasparenti. “Quando… pregavo con tutto il mio cuore” egli scrive “tutto attorno a me sembrava delizioso e meraviglioso. Gli alberi, l’erba, gli uccelli, la terra, l’aria, la luce sembravano volermi dire che esistevano per amore dell’uomo, che testimoniavano l’amore di Dio per l’uomo, che tutto provava l’amore di Dio per l’uomo, che tutto pregava a Dio e cantava la sua lode. Così arrivai a capire quello che la Filocalia chiama: la conoscenza del linguaggio di ogni creatura … sentii un ardente amore per Gesù Cristo e per tutte le creature di Dio“. Analogamente l’invocazione del Nome trasforma la relazione del pellegrino con i suoi simili “… ripartii per il mio pellegrinaggio. Ma ora non camminavo più come prima, pieno di preoccupazioni. L’invocazione del nome di Gesù rallegrava il mio cammino. Tutti erano gentili con me era come se ciascuno mi amasse… se qualcuno mi fa del male, mi basta pensare ‘come è dolce la preghiera di Gesù’ e l’offesa e la rabbia svaniscono e dimentico tutto“.
Un ‘ulteriore evidenza della natura affermativa dell’esychia rispetto al mondo, è da trovarsi nella posizione centrale data dagli esicasti al mistero della trasfigurazione. Il metropolita Antony Bloom dà una impressionante descrizione delle due icone della trasfigurazione che vide a Mosca, una di Andrei Rublev e l’altra di Teofane il greco: “L’icona di Rublev mostra Cristo nello splendore delle sue abbaglianti vesti bianche che illuminano tutto ciò che è attorno. Questa luce cade sui discepoli, sulle montagne e le pietre, su ogni filo d’erba. In questa luce, che è… la Gloria divina, la luce divina stessa inseparabile da Dio, tutte le cose acquistano una intensità di essere che non potrebbero altrimenti avere; in essa raggiungono una pienezza di realtà che è possibile avere solo in Dio“. Nell’altra icona “le vesti di Cristo sono argentate dai riflessi blu, e i raggi di luce che emanano attorno sono pure bianchi argento e blu. Tutto dà un’impressione di minore intensità. Poi si scopre che tutti questi raggi di luce che cadono dalla presenza divina… non danno rilievo ma trasparenza alle cose. Si ha l’impressione che questi raggi di luce divina tocchino le cose o affondino in esse, le penetrino, tocchino qualcosa dentro di esse cosicché dal nucleo delle cose, di tutte le cose create, la stessa luce riflette e risplende come se la vita divina accrescesse le capacità e potenzialità di ogni cosa e le facesse tutte tendere verso se stessa. A questo punto la situazione escatologica è realizzata nelle parole di S. Paolo “Dio è tutto in tutto“. Tale è il duplice effetto della “Gloria” della trasfigurazione: di far risaltare ogni cosa e ogni persona in perfetta distinzione, nella sua essenza, unica e irripetibile; e allo stesso tempo di rendere ogni cosa e ogni persona trasparenti, da rivelare la presenza divina al di là e dentro di loro.
Lo stesso duplice effetto è prodotto dall’esychia. La preghiera del silenzio interiore non è negativa rispetto al mondo, ma anzi gli dà risalto. Permette all’esicasta di guardare al di là del mondo verso l’invisibile creatore; e in questo modo gli permette di ritornare al mondo e di vederlo con occhi nuovi. Viaggiare, è stato spesso detto, è ritornare al punto di partenza e vedere di nuovo la nostra casa, come per la prima volta. Ciò è vero del viaggio della preghiera come anche di altri viaggi. L’esicasta può apprezzare il valore di ogni cosa più del sensuale o del materialista, perché vede ciascuna in Dio e Dio in ciascuna.
Non è per caso che nella controversia Palamita del XIV sec., san Gregorio ed i suoi sostenitori esicasti erano impegnati a difendere precisamente le potenzialità spirituali della creazione materiale ed in particolare il corpo fisico dell’uomo. Tale, in breve, è la risposta a quelli che vedono l’esicasmo come negativo e dualista nel suo atteggiamento verso il mondo. L’esicasta nega per riaffermare; si ritira per ritornare. Con una frase che riassume la relazione tra esicasta e società, tra preghiera interiore ed azione esteriore, Evagrio Pontico dice: “Monaco è chi è da tutto separato e a tutto unito“. L’esicasta opera un atto di separazione esternamente, ritirandosi in solitudine; interiormente “mettendo da parte i pensieri”. Eppure l’effetto di questa fuga è di congiungerlo agli uomini più intimamente di prima, di farlo più profondamente sensibile ai bisogni altrui, più acutamente consapevole delle loro possibilità nascoste. Ciò è visibile con maggior evidenza nel caso dei grandi “startsi”. Uomini come S. Antonio d’Egitto e S. Serafino di Sarov vissero per decenni in silenzio totale ed isolamento fisico. Eppure l’effetto ultimo di tale isolamento fu di conferir loro chiarezza di visione ed eccezionale compassione.
Proprio perché avevano imparato ad essere soli, potevano identificarsi istintivamente con gli altri. Potevano discernere immediatamente le caratteristiche profonde di ogni uomo e forse parlare con due o tre sole frasi, ma quelle poche parole erano la sola cosa che, in quella particolare occasione, si doveva dire. S. Isacco dice che è meglio acquistare purezza di cuore che convertire intere nazioni di pagani. Non è che egli disprezzi il lavoro di apostolato, ma vuol dire che finché non si sia ottenuta una certa misura di silenzio interiore, è improbabile che si converta qualcuno a qualsiasi cosa. Questo è reso meno paradossalmente da Ammonas discepolo di Antonio (IV sec.): “Perché essi avevano prima praticato profonda esychia, essi possedettero il potere di Dio abitante in loro; e poi Dio li mandò in mezzo agli uomini“. E anche se molti solitari non sono mai, in pratica, rimandati al mondo come apostoli o startsi, ma continuano la pratica di silenzio interiore per tutta la vita, completamente sconosciuta agli altri, ciò non significa che la loro nascosta contemplazione sia inutile e la loro vita sprecata. Essi servono la società non con lavori attivi, ma con la preghiera; non con ciò che fanno, ma con ciò che sono, non esternamente ma esistenzialmente. Essi possono dire con le parole di S. Macario di Alessandria: “Sto a guardia delle mura“.