INIZIAZIONE ALL’ASCOLTO
LA COSCIENZA E LE SUE CONTRORISONANZE
a cura di p. Attilio franco fabris su appunti di p. Virginio S. sj
Un Dio che parla all’uomo
L’esperienza di fede di tipo biblico si impernia sulla Parola. Una Parola incarnata che è mediata dagli uomini.
Riconosciamo in quest’esperienza religiosa il primato che viene dato alla PAROLA.
Ma parlare di primato della Parola comporta il parlare del primato dell’ASCOLTO.
Sempre l’incontro con la Parola diviene esperienza di ascolto. Ma un ascolto che non è anzitutto interiore, spirituale (troppo si è dato adito a tale interpretazione!), ma un ascolto che è “acustico”, che interessa anzitutto l’organo fisico dell’udito.
“Ascolta, o Israele, e bada di metterli in pratica; perché tu sia felice e cresciate molto di numero nel paese dove scorre il latte e il miele, come il Signore, Dio dei tuoi padri, ti ha detto. Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo”. (Dt 6,3-4). Il testo riassume l’atteggiamento di Israele nei confronti di Dio nell’unica raccomandazione: “Ascolta… Schemà’ Isra’el”.
Perché devo ascoltare la Parola?
Perché l’uomo non vive di solo pane, ma di quanto esce dalla bocca di Dio. Perché per vivere l’uomo ha bisogno della Parola come del pane: “Egli dunque ti ha umiliato, ti ha fatto provare la fame, poi ti ha nutrito di manna, che tu non conoscevi e che i tuoi padri non avevano mai conosciuto, per farti capire che l’uomo non vive soltanto di pane, ma che l’uomo vive di quanto esce dalla bocca del Signore.” (Dt 8,3; cfr Pr 9,1-5; Sir 24,18-20; 51, 23-24; Am 8,11-12; Gv 6,68).
La tradizione biblica afferma che l’attività essenziale del Dio di Israele è quella di parlare: Dio disse… (cfr. Gn 1,3…).
Cosa significa che Dio “parla”?
Un Dio che vuole parlare dovrebbe scandalizzarci, meravigliarci. Perché la potenza di Dio desidera manifestarsi attraverso la sua parola?
Per intanto sottolineiamo che: se l’attività principale del Dio biblico è quella di “parlare” allora l’attività essenziale dell’uomo, sua creatura, è quella di “ascoltare”. Se no allora per chi e a chi Dio parlerebbe?
Ma cosa significa ascoltare?
Il dizionario italiano (Devoto) da questa definizione: trattenersi volontariamente e attentamente ad udire, prestare attenzione o partecipazione a qualcuno o a qualcosa in quanto informazione o motivo di riflessione o anche devozione.
Trattenersi: ovvero dare tempo fermandosi da tutto il resto.
Volontariamente: implica una decisione, una scelta che si impone fra tante
Attentamente: impiegando tutte le nostre energie
Ad udire: L’ascoltare è anzitutto un fatto acustico
Qualcuno o qualcosa: io posso pormi in ascolto di un’altra persona come anche di un fatto, di una realtà che mi sta dinanzi.
Informazione, riflessione, devozione: qui si dice il motivo per cui ascolto. Quella determinata persona o realtà può offrirmi qualcosa di nuovo in vista della mia esistenza.
Ma ora facciamo attenzione alla valenza del verbo ascoltare che in senso biblico va inteso in senso allargato: dialogare, collaborare, entrare in comunione di vita. E’ la valenza del verbo “Schamà”: sentire, prestare orecchio, accogliere, acconsentire, essere docile, lasciarsi persuadere, mettere in pratica, obbedire. La stessa parola obbedienza deriva dal latino ob-audire: dall’ascolto alla persuasione, dalla persuasione alla docilità, dalla docilità all’obbedienza.
Dunque “ascoltare” è un’azione complessa che non comporta il semplice “udire”. E’ una realtà che viene a toccare il mio io profondo (= la coscienza) interrogandomi.
L’“ascolto”, come forse da noi sinora inteso, è un termine forse per noi troppo astratto. Ad esempio quando vogliamo metterci “in ascolto della Parola”, pensiamo ad una sorta di riformulazione interiore dei contenuti che chiamiamo meditazione, quandi ad una esperienza interiore. In tal modo tendiamo a spiritualizzare l’ascolto.
Per l’uomo l’essere fatto “ad immagine e somiglianza” di Dio” (Gn 1,26 ss) comporta il riferimento alla parola: l’uomo è tale in quanto abilitato da Dio al parlare e all’ascoltare. E’ la Parola che abilita alla parola l’uomo stesso, rendendo capace di “inter-loquire/dialogare” con il Creatore. Questa capacità di interloquire con Dio colloca l’uomo nel mondo in una situazione del tutto privilegiata e singolare in rapporto a tutto il resto della creazione (cfr. Gn 1,26-28; 2,8.15.19-20).
Quando la tradizione biblica ribadisce incessantemente il fatto che Dio “parla” cosa vuol significare? Si vuole affermare che Dio desidera essere comunione, comunicazione, interazione. Dio crea perché vuole costituirsi interlocutori, partners, amici realizzando con loro un’esistenza di comunicazione, collaborazione, condivisione, comunione. L’ascolto e la parola sono doni che ci vengono offerti per uscire dalla nostra solitudine e dalla nostra angoscia.
Tutto questo suppone da parte dell’uomo la capacità di ascoltare la Parola che Dio sempre per sua iniziativa gli rivolge, di risponderle.
A questo punto è utile poter constatare nella nostra esperienza quotidiana quanto viviamo l’esperienza dell’ascolto inteso come interazione, comunione, condivisione con i nostri simili:
Da un breve sondaggio potremmo prendere subito atto che:
– dialogare e ascoltare è difficile, faticoso, preferiamo fare altro: “Ci sono cose più importanti”
– che è quanto mai carente nella nostra vita. Ci limitiamo per lo più a comunicare “informazioni”.
– Che questa mancanza ci getta in un clima di solitudine, paura, incertezza e talvolta angoscia.
Questo ci fa comprendere che la prima vocazione dell’uomo che è quella di poter interagire attraverso il dialogo e l’ascolto con l’altro e con l’Altro è spesso disattesa, gettandoci di conseguenza in un mondo nel quale ci ritroviamo soli, incapaci di comunicare.
- 1. natura e dinamiche della coscienza
Il luogo dell’ascolto
La parola che ascoltiamo non raggiunge solo le nostre orecchie.
Sarebbe solo suono e nulla più.
Essa invece raggiunge la nostra interiorità, ovvero viene a toccare la nostra coscienza.
Qui la parola può suscitare una molteplicità di sentimenti, emozioni, ricordi.
La parola non ci lascia indifferenti, sempre però che siamo disposti ad ascoltarla, ovvero ad “accoglierla”.
Cos’è la coscienza?
Anzitutto ci domandiamo: cos’è la coscienza?
La parola deriva dal latino “cum-scire”-“sapere-con”.
Un “sapere” con chi?
Con se stessi evidentemente!
In tal senso la parola coscienza è sinonimo di “autocoscienza” (è una tautologia).
Tentiamo una definizione:
la coscienza è la facoltà immediata di avvertire, comprendere, valutare i fatti che si verificano nella sfera dell’esperienza individuale. E’ la capacità di interagire con la realtà in maniera diversa.
(la coscienza è stata identificata attraverso diversi termini nelle diverse culture: I latini chiamavano la coscienza “anima”, da cui animato (colui che interagisce con la realtà) e inanimato (colui che non può interagire). In greco essa veniva chiamata “psiché”: mente, ovvero la capacità dell’uomo di interagire con la realtà interpretandola, studiandola, modificandola… Gli ebrei la chiamavano “nefesch”: “soffio-respiro-gola-stomaco”. La coscienza come esperienza tangibile del nostro appartenere alla vita (=il grande soffio di Dio)).
Infatti, tutta la realtà continuamente mi offre degli stimoli che provocano in me delle reazioni.
Fatti, persone, parole…
Ogni incontro suscita in me reazioni diverse: queste da dove nascono? Dalla mia coscienza.
Ricordiamo che l’attività della coscienza non è prerogativa del solo uomo, essa appartiene in diversa misura a tutte le forme di vita esistenti (animali e vegetali): anch’esse si pongono in misura differenziata a diverso livello in interazione con la realtà che le circonda.
La differenza è che nell’uomo questa capacità di interazione è al massimo, per cui egli riesce addirittura a governare la realtà stessa.
coscienza e risonanze
Nella coscienza dunque esistono delle reazioni alla realtà:
le chiamiamo “risonanze”.
Che rapporto esiste tra coscienza e risonanza?
Che confini esistono tra le due esperienze?
Dove finisce l’una e inizia l’altra?
Dobbiamo affermare che possiamo conoscere la coscienza non in se stessa ma solo attraverso le sue risonanze.
La coscienza non è un’attività già precostituita e formata nell’uomo. Essa si struttura mano a mano e nella misura in cui essa viene attivata ed educata.
Sono proprio le reti fittissime delle risonanze a strutturare la nostra coscienza.
Hanno perciò un ruolo determinante nella formazione della coscienza la rete di relazioni e l’ambiente con cui essa si trova ad interagire (soprattutto nei primi tre anni di vita).
Io sono frutto delle mie risonanze, ovvero del mio vissuto.
E’ per questo che è difficilissimo de-strutturare una coscienza.
Il ragionamento non serve. Occorreranno esperienze di relazioni e un ambiente tali da poter ristrutturare la coscienza, ma è impresa faticosissima che provoca moltissime resistenze e sofferenze.
Il nostro contesto culturale non facilita l’ascolto della coscienza.
I nostri ritmi sono spesso frenetici, i tempi liberi sono imbottiti da TV e mass media, la pubblicità ci assedia. In famiglia il dialogo e l’ascolto vicendevole è spesso molto carente….
Tutto questo lo potremmo definire quasi un “complotto” al fine di impedire all’uomo di ascoltarsi e di ascoltare. E’ bombardato da sollecitazioni, immagini, suoni, falsi bisogni….
La pubblicità, ad esempio, sa bene che quando l’uomo ascoltasse la sua coscienza il suo potere svanirebbe all’istante perché l’uomo ritornerebbe ad essere padrone della sua vita e delle sue scelte.
L’uomo di oggi, così apparentemente immerso nella realtà, si ritrova angosciosamente sempre più solo, perché lontano dal nucleo centrale della sua stessa esistenza.
Vive all’esterno, lontano dal sé, e quindi solo e sperduto in questo mondo.
Per ovviare a tale angoscia non rimane altro che incrementare ancor più l’imbottimento di sollecitazioni esterne che vengano a colmare il vuoto esistente. Droga, alcol, sesso, denaro, lavoro stressante, mass-media, gioco d’azzardo… sono gli strumenti più usati a raggiungere tale scopo.
LIVELLI E STRUTTURAZIONE DELLA COSCIENZA
Esistono più livelli della coscienza in cui le risonanze possono sorgere.
Alcune risonanze sono facili da cogliere e da individuare, altre invece si collocano a livello più profondo e quindi sono più difficili da cogliere.
Questo perché?
Per il fatto che la nostra coscienza sussiste a più livelli: da un livello conscio ad uno in-conscio.
L’uomo infatti può vivere in diversi modi e a diversi livelli il suo essere presente a se stesso, ovvero l’ascolto della sua coscienza: da un massimo di autoconsapevolezza ad una coscienza quasi assente.
Teniamo tuttavia presente che la pienezza della consapevolezza di sé non è data alla natura dell’uomo. Infatti per tutti noi esistono tanti aspetti (bisogni, avvenimenti, traumi…) che non sono accessibili alla nostra coscienza. Tuttavia questi aspetti continuano a far parte del nostro essere e contribuiscono a creare atteggiamenti e comportamenti di cui non riusciamo a dare a livello conscio una risposta adeguata. Molto di noi, forse la maggior parte, rientra in ciò che non riusciamo a spiegare perché non conosciamo.
Questo ci ricorda che l’obiettività e la libertà umana soffrono di una certa qual limitazione.
Se il livello conscio è la punta dell’icemberg, quello subconscio e inconscio rappresenta il resto (il 90% !).
Definizioni
Ciò che fa la differenza tra conscio e inconscio, tra coscienza e non, è il grado di accessibilità o consapevolezza del comportamento alla propria introspezione, cioè l’ampiezza con la quale possiamo avvertire e riferire ciò che si muove nel nostro essere interiore.
Possiamo suddividere la nostra coscienza a tre livelli differenti:
- la coscienza conscia: esprime il normale campo di coscienza che la persona ha di sé. Comprende tutto ciò che è immediatamente presente o accessibile alla consapevolezza.
- Il subconscio: è costituito da tutti quei contenuti psichici non imnmediatamente presenti alla coscienza ma che possono essere richiamati alla consapevolezza mediante mezzi ordinari quali la riflessione, l’intrispezione, l’esame di coscienza, la meditazione…
- L’inconscio: è l’insieme di tutti quei contenuti che giacciono nel più profondo di noi stessi, depositati e accumulatisi per anni e anni. Essi possono essere riportati alla luce della consapevolezza solo attraverso strumenti professionali quali ad esempio le tecniche psicoterapeutiche. L’inconscio è conosciuto indirettamente tramite i suoi effetti (es. atti sintomatici, perturbati, rimossi, sogni,…)
La conoscenza delle nostre aree subconsce e inconsce (quando necessario) è di fondamentale importanza per la crescita della persona. Spesso soffriamo e facciamo soffrire perché non ci conosciamo a sufficienza, perché manchiamo di consapevolezza.
Ovvero siamo poco capaci di ascolto della nostra coscienza.
Ricordiamo che non esiste una divisione netta, tra i due mondi c’è un rapporto di sfumatura. Tra conscio e inconscio esiste una certa qual comunicazione. Una comunicazione che si attua però secondo modalità diversificate.
Nessuno può giungere a possedere in toto la sua coscienza.
L’uomo è mistero a se stesso. E questo provoca inquietudine e insicurezza.
Quando ci troviamo di fronte alla risonanze della nostra coscienza non dobbiamo demonizzarle: esse esistono e basta, e chiedono che noi ne prendiamo atto.
Troppo spesso le nostre risonanze, quelle che emergono a livello di “subconscio e inconscio” non sono prese in considerazione, non vengono accolte né amate. Mentre esse rappresentano il nostro vissuto più profondo. La conseguenza è che noi viviamo fuori casa, ovvero lontano da noi stessi, non ci conosciamo e abbiamo paura di farlo.
RISONANZE DELLA COSCIENZA E INTERAZIONE CON LA CORPOREITÀ
Generalmente noi opponiamo vita interiore (coscienza) a vita esteriore (corporeità).
Invece esiste un rapporto strettissimo di interdipendenza tra le risonanze della coscienza e la nostra corporeità: pensiamo ad esempio all’esperienza del dolore, della gioia, del pianto…
Le risonanze trasbordano nella corporeità, si “somatizzano”.
Possiamo affermare che la corporeità “drammatizza” le nostre risonanze. Noi continuamente e il più delle volte inconsapevolmente “drammatizziamo” il nostro vissuto interiore. Quindi vi è una strettissima interazione tra corporeità e coscienza.
La risonanza oggettivata nella corporeità cerca una comunicazione: Perché infatti allora “somatizzerei” la risonanza? Perché ho bisogno di comunicarla! Perché attraverso la manifestazione-comunicazione la risonanza ottiene il suo massimo livello di autoconsapevolezza.
In questo senso io ho bisogno degli altri. Un bisogno disperato di confidare il mio vissuto a qualcuno.
Cosa succede in ogni relazione?
Una continua interazione delle coscienze che in tal modo si manifestano e si strutturano.
Ora il dialogo tra due coscienze è possibile solo attraverso la comunicazione delle risonanze e attraverso la loro manifestazione attraverso la corporeità.
Ecco l’itinerario:
– Concepimento della risonanza
– oggettivazione della risonanza
– manifestazione della risonanza (e viceversa)
Ma questa interazione è trasparente, naturale, spontanea?
Oppure, come il più delle volte succede, è conflittuale? Ovvero a livello di concepimento della risonanza provo un determinato sentimento e a livello di corporeità lo nego, e viceversa.
Dobbiamo riconoscere, prendendo in esame la nostra stessa quotidianità, che tra coscienza e corporeità l’interazione non è quasi mai fluida. Essa incontra resistenze, ostacoli.
Queste resistenze, questi ostacoli noi le possiamo chiamare controrisonanze.
Le controrisonanze ossia sono quelle barriere che più o meno coscientemente noi frapponiamo all’emergere delle risonanze della coscienza.
Le potremmo così elencare:
– la paura di essere (diventare) se stessi
– la paura degli altri
– la gelosia di sé
– l’inerzia
– la frenesia
– il conflitto con la verità
– la rivalità
LE CONTRORISONANZE
1. PAURA DI ESSERE (DIVENTARE) NOI STESSI
In ciascuno di noi esiste una dinamica di crescita, evoluzione, cambiamento.
Ma questo aprirsi al futuro provoca insicurezza.
Un’insicurezza che spesso ci blocca; infatti ci poniamo in “stato di sorveglianza” del nostro io in quanto non ci fidiamo di noi stessi. Sospettiamo di noi stessi.
Esiste nel profondo della coscienza un dettato: “Io sono fatto male, sono sbagliato; non mi posso fidare di me!”. Ci sentiamo inadeguati, e perciò non riusciamo ad “accettare noi stessi” nella nostra autentica realtà.
Quali sono le realtà di noi stessi dinanzi alle quali ci sentiamo insicuri, inadeguati?
John Powell ne indica alcune:
– il nostro corpo e le sue capacità
– la nostra storia e i nostri errori
– i nostri sentimenti ed emozioni
– la nostra personalità
Dinanzi al rifiuto, alla paura e insicurezza nei miei stessi confronti esiste allora solo una soluzione: rifugiarci e aderire solamente al nostro “io ideale” rifuggendo dall’”io reale”. La coscienza rifugge dunque o nell’io ideale o a modelli ideali esterni, e questo per rifuggire dal confronto imbarazzante con il proprio io reale avvertito come pericoloso.
Ma questo provoca ulteriore divisione interiore, sofferenza ed esperienze di frustrazione.
La paura e l’insicurezza non mi lasciano la libertà né di essere, né di pensare né di agire, ma preferiamo questa situazione all’accettazione del rischio di vivere.
Questa controrisonanza viene messa a tacere sin dall’inizio, nel cuore della coscienza, che si trova così subito divisa, impedendosi di ascoltarsi veramente se stessa. (cfr “L’emoroissa” Mc 5)
B. PAURA DEGLI ALTRI
E’ la paura di non essere come gli altri si aspettano da noi. Ci sentiamo in dovere di rispondere alle aspettative degli altri.
Questa situazione è data dalla paura di non essere accettati dagli altri, rifiutati. Abbiamo paura della solitudine.
Ma tale controrisonanza ci trasforma in “maschere” che cambiano a seconda delle persone e delle situazioni.
Alla fin fine ci condanniamo alla vera solitudine che è quella dell’isolamento del nostro io che non sa più riconoscersi.
Es. biblico: Gv 5 “Il paralitico guarito”
C. LA GELOSIA DI SE’
E’ la ricerca di un angolo della mia vita di cui non devo rendere conto a nessuno. E’ data dalla paura di essere spossessati. Non voglio condividere i miei segreti, perché voglio essere io il padrone di me stesso.
“Sono io che decido quanto, come, dove dare me stesso agli altri”.
Io sono mio: e basta! Io mi comunico tanto quanto io decido. Faccio entrare l’altro nella mia vita tanto quanto voglio. Tale risonanza riguarda quelli che sono i rapporti seri e vitali della nostra esistenza.
“Ho già condiviso tutto e basta!” dove il tutto sono io che lo decido.
In questo contesto l’evoluzione della mia coscienza si ferma, non evolve. La conseguenza è che intere regioni della mia coscienza rimangono inesplorate perché non condivise. La coscienza si atrofizza.
Non bisogna mai affermare il principio della gelosia di sé (la “privacy”)m ma occorre al contrario aprirsi progressivamente alla relazione nello scambio delle nostre risonanze.
Questa controrisonanza è una perdita secca per la coscienza. Nego al mio io più profondo la crescita dell’interazione, mi ritrovo in un isolamento mortale. Quello che chiamo la mia ricchezza è la mia più grande povertà. Se impedisco all’altro di entrare, non mi permetto di entrare in relazione con il mio io più vero e più profondo e dunque mi impedisco di conoscermi sempre più. L’interazione che avviene nell’incontro e nel dialogo è negata.
Cosa distingue la gelosia di sé dalla privacy? Sicuramente la sua impermeabilità e la sua intransigenza.
Es. Biblico: Anania e Saffira: Atti 5,1-12
D. L’INDOLENZA, L’INERZIA DI MOTO E DI QUIETE
La coscienza fatica a mettersi in moto al presentarsi della risonanza. L’inerzia di quiete impedisce il prendere atto della risonanza nella coscienza.
La coscienza si perde di vista, disattende il momento presente, la risonanza emergente infatti disturba e indispone.
Quante possibilità di sviluppo infatti vengono mortificate dall’indolenza della coscienza? Quante potenzialità sono frustrate?
Questa controrisoananza è all’origine del conservatorismo perché il cambiamento scomoda.
O al contrario non sto mai fermo, mi agito, sempre in movimento ma non ho il coraggio di fermarmi per ascoltare la mia coscienza: con la scusa delle urgenze dimentichiamo l’essenziale.
Anche questa è una resistenza al cambiamento.
Es. biblico: le dieci vergini, la parabola dei due figli.
E. IL CONFLITTO CON LA VERITA’
La coscienza è affamata di informazioni.
Ma alcune verità fanno male, disturbano.
Perché? Perché provocano dei conflitti nella coscienza.
E allora la coscienza si trova a far fronte a verità di questo tipo che emergono in lei; si difende diventando parziale: si schiera dalla parte che decido io perché fa più comodo.
Anche la ricerca dell’assoluta infallibilità significa rifiuto della verità di me stesso la quale comporta la mia fallibilità. Le certezze assolute ricercate ad ogni costo sono il tentativo estremo di tamponare le nostre insicurezze.
Es biblico: Acab e Michea: 1 Re 22
F. LA RIVALITA’
La controrisonanza della rivalità si scontra con la risonanza della coscienza dell’altro, di fronte alla verità. E’ come se dovessi darla vinta all’altro.
Il confronto con l’altro è faticoso, a volte doloroso e ci pone sulle difensive.
La rivalità ricerca una vittoria fasulla.
Esiste una rivalità aperta ed una occulta, mimetizzata.
Essa si manifesta nella fatica di dire: “Ho sbagliato!”. Ci può essere un apparente consenso in cui scindo la coscienza dalla sua manifestazione.
Es biblico: Gv 9 “il cieco nato”;
CONCLUSIONE
Al termine dell’itinerario circa le nostre controrisonanze possiamo dire che al fondo di tutto esse dicono la non accettazione di crescere, di seguire sino in fondo la nostra strada. Crescere vuol dire soffrire e io a questo non ci sto. Esse dicono ancora la nostra volontà di salvarci da soli (il vero peccato), di risolvere da noi stessi i problemi restando all’interno del nostro orizzonte umano senza riconoscere la nostra dipendenza da Dio. L’autosufficienza dice chiusura, incomunicabilità: non ho bisogno degli altri.
Vero peccato è dunque il ritrovarsi incapaci di crescere, di essere noi stessi, confusionati dai nostri tentativi di salvarci da soli e di evitare le fatiche del cambiamento che è invece la stessa vita.
Queste controrisonanze esplicitano l’esperienza di disgregazione della nostra coscienza.
Mettono alla luce la frattura che esiste tra coscienza e corporeità, tra coscienza e coscienza.
Esse sono barriere che ostacolano le nostre risonanze.
Occorre aiutare la coscienza a riprendere contatto con la nostra corporeità, questa è fondamentale non un’appendice della coscienza.
Questo fa comprendere il perché nella spiritualità biblica il corpo è tanto importante.
Es. l’importanza della prostrazione, dell’imposizione delle mani, dell’alzare le mani…
Il linguaggio corporeo può divenire strumento di discernimento delle mozioni spirituali.
L’iniziativa di Dio dovrà fare i conti con tutte queste nostre resistenze.
Se Dio parla non lo fa per arenarsi nei problemi della comunicazione, ma per risolverli. La Parola di Dio è viva ed efficace proprio per ridare all’uomo gli strumenti di una comunicazione nella verità.
Il punto di partenza è l’uomo sordo e muto, che non sa né ascoltare e dunque parlare veramente. C’è bisogno che Dio, l’unico che sa veramente comunicare, intervenga su questa povera realtà dell’uomo per trasformarla.
***
Es. biblico Mc 7,31-37
(si drammatizza il gioco infantile sulla piazza del villaggio con la presenza del bambino sordomuto)
Il sordomuto dalla nascita non può interagire.
Con il sordomuto non si può giocare bene. A giocare con lui non ci si diverte. Gli altri (i forti, gli intelligenti) sono preferiti e scelti.
In questo mondo si delineano due schieramenti: i forti e i deboli. I deboli si arrangino: peggio per loro.
Il sordomuto è sempre più emarginato: egli non risponde alle aspettative degli altri. Perciò si sente scartato.
Colui che è emarginato, scartato può reagire a questa situazione in diversi modi.
- con il servilismo: accetto un ruolo subalterno e insignificante pur di non essere allontanato dal gruppo
- con la ricerca di potere: cerco di acquistare la benevolenza del gruppo magari rimettendoci
- con la rappresaglia: cerco di farla pagare al gruppo, attraverso propositi di sabotaggio o di violenza.
- L’alleanza con un salvatore: il quale si mette dalla parte del debole (ma fino a quando? E con quali motivazioni?)
Dunque la relazione con il sordomuto non è una relazione facile.
Non riesce a giocare con gli altri, manca della capacità di comunicazione e quindi di interazione che è fondamentale per il collocarsi all’interno del gruppo.
La mancanza di comunicazione rende dunque estremamente difficile la relazione del sordomuto con il resto del gruppo.
Vi è un disagio vicendevole per cui:
– il sordomuto sempre più si apparta dal “gioco” di gruppo, relegandosi in una sempre più grande solitudine
– il gruppo estranea sempre più il sordomuto, in quanto diverso e quindi difficile da integrare con gli altri.
Il sordomuto vive perciò una grande esperienza di solitudine e perciò di sofferenza. Le sue risonanze sono: “Io non sono importante per gli altri come io vorrei”, “Non mi sento amato come desidererei, anzi rifiutato”, “Non c’è posto per me nel mondo… nessuno mi vuole”.
L’emarginazione produce sempre un movimento di autoemarginazione. L’autoemrginazione si strutturalizza e le dinamiche di sviluppo della persona ne vengono ad essere sempre più mortificate.
E’ utile analizzare come il sordomuto-emarginato ed autoemarginato vivrà l’esperienza del bisogno di affetto nell’esperienza sessuale ( ci si vergogna di stare col sordomuto, mi squalifica: per cui lo allontano), si prendono le distanze da lui, non ci si associa con i perdenti, e come si collocherà nel mondo del lavoro…. E il sordomuto si vergognerà di essere quel che è, si sentirà in colpa, non accetterà la sua situazione, la vivrà come una “morte”.
Confronto con la mia esperienza
A questo punto sarà possibile una lettura della mia storia personale alla luce della vicenda del sordomuto.
- riconosco una qualche corrispondenza fra il vissuto del sordomuto e il mio? Lo sento affine? Lo sento cugino o fratello?
- Mi sento a mio agio nella piazza del villaggio? Ossia in mezzo agli altri?
Lettura dell’esperienza
Come mai io, pur non avendo l’handicap fisico del sordomuto, sento una consonanza con il suo vissuto?
Quale sarà il mio handicap?
Sono le mie controrisonanze.
Esse vengono a distorcere la mia comunicazione e interazione con la realtà e con gli altri. Le controrisonanze generando difficoltà di comunicazione ed interazione mettono in moto gli stessi dinamismi del sordomuto.
Siamo perciò a livello della coscienza. Essa è sordomuta!
Certo, con una buona analisi, vedremo come in noi le controrisonanze hanno una ricaduta sulla corporeità.
L’incontro con Gesù
Drammatizzazione dell’incontro con Gesù…
Dove è il sordomuto?
Chi lo porta a Gesù? Come?
Quali risonanze?
Come l’approccio con questo profeta straniero?
Quali i passi da dover fare per acquistare la fiducia del sordomuto da parte di Gesù?.
Gesù deve portare lontano dalla piazza il sordomuto, lontano dai condizionamento nei quali è incappato, Ricreare con lui e per lui una situazione verginale di comunicazione.
Gesù avrà intrapreso dei passaggi graduali di avvicinamento… deve necessariamente passare attraverso l’economia umana della relazione.
Ovvero occorre una iniziazione.
Gesù si propone al sordomuto, cerca una via per entrare in relazione con lui.
Gesù tocca le orecchie.
E’ il punto debole di quell’uomo, da cui parte tutto il suo disagio.
Mette realmente il dito nella piaga di quell’uomo.
Avrà resistito il sordomuto nel vedere Gesù toccare la sua piaga?
Probabilmente per il sordomuto è faticoso accettare che Gesù entri nella sua vita, nella sua morte. In questo modo infatti egli la oggettiva, la sottolinea, Lasciar entrare l’altro nelle mie piaghe fa soffrire. Quanto quelle orecchie furono oggetto di scherno e di vergogna!
E Gesù vuole mettere le dita proprie in quelle ferite della sua vita.
Ma questa accoglienza della mia morte rende la mia morte vivibile.
Dice il Signore: “Lasciamo condividere la tua morte e la tua morte si metterà a servizio della tua vita”.
La rivalità direbbe: “No! Le mani nelle mie orecchie non le metti!”.
Quanto tempo sarà stato necessario affinché il sordomuto si lasci fare da Gesù? Tutto il tempo necessario, minuti, ore, giorni, anni…..
Che esperienza straordinaria di accoglienza finalmente vive il sordomuto. In quel gesto Gesù si lancia totalmente e vi si coinvolge totalmente con la sua corporeità. Quella corporeità che diviene strumento di salvezza per il sordomuto.
Gesù mette la sua saliva sulla lingua del sordomuto. E’ un trapianto di bocca espresso simbolicamente. Un gesto non violento, che chiede tempo, inventiva, collaborazione, fiducia.
Gesù prega. Emette un respiro: è faticoso quello che sta avvenendo per lui e per l’uomo. Esso esprime attesa e speranza. È già preghiera.
Il sordomuto osserva attentamente.
Gesù pronuncia una parola autorevole, un comando: “Apriti! Effatà!”.
Gesù va all’origine del male.
E subito è il miracolo: ode, parla correttamente.
“Che mi hai fatto?”.
Risonanze del sordomuto guarito….
Tutti abbiamo problemi di comunicazione. In essi ci dibattiamo oscillando tra il rifiuto degli altri, il rancore, il risentimento, il bisogno…
Solo Gesù di Nazaret fa uscire dal carcere della solitudine il sordomuto facendolo entrare nuovamente in comunione con sé, con gli altri, con Dio.
Riconosciamo un circolo vizioso tra incapacità di comunicare ed indurimento della coscienza: l’uno crea l’altro e viceversa.
Solo una Parola, la parola di qualcuno che sa parlare davvero, sa penetrare nella coscienza attraverso il corpo, è capace di sbloccare l’ascolto e la comunicazione in quest’uomo e quindi di strapparlo dalla sua solitudine e dal suo conflitto con la realtà.
Attualizzazione
Vi sono tre livelli di attualizzazione:
– catechetico-didattico
– parenetico
– kerigmatico
Dice il catecheta:
L’uomo vive una condizione di sordomutismo, ma Dio sa ascoltare e sa parlare.
Il Dio biblico è specialista nella comunicazione con l’uomo. Dio è energia di comunicazione e perciò di vita. Per questo egli può aprire le orecchie e sciogliere la lingua, per entrare in comunicazione con noi.
Le nostre sordità e i nostri mutismi non hanno l’ultima parola. Non bisogna dare spazio alle risonanze che parlano della sordità e del mutismo di Dio.
Ma è proprio vero? Chi mi assicura che questa accadrà?
Risponde il pareneta:
Non ti scoraggiare. Non aver paura. Vedrai…. Il signore viene a salvarti. Egli metterà la sua capacità di comunicare al tuo servizio. Non dire “Non ci posso far niente. Sarò sempre fuori posto nel mondo”. Ravviva la speranza.
L’esortazione non può dire di più.
Occorre l’intervento dell’evangelista-profeta.
Io ho una buona notizia da darti.
Il Signore vuole operare nella tua vita. Quando? Ora!
Quello che il Signore ha fatto al sordomuto lo vuole fare anche a te. Adesso.
Le tue controrisonanze, che sono la tua sordità, sono talmente forti che non puoi liberartene da solo.
Non accanirti contro di esse, non ti colpevolizzare. Io lotterò per te.
Se ti senti come il sordomuto, qui ed ora, vieni in mezzo. E il Signore che ha operato sul sordomuto opererà anche in te.
Io dirò alle tue orecchie e alle tue labbra nel suo nome “Effatà”.
Non ti propongo una teoria, ma un’esperienza.
Metti la parola di Gesù alla prova.
Infatti l’ascolto è un dono suo non una tua conquista.
Quella che ti faccio è una proposta semplicissima contro la quale si scagliano le tue controrisonanze.
Ma sarà solo l’esperienza a dirti se questa parola è vera o no.
E’ solo la verifica che può accreditare la catechesi e la parenesi. Queste senza profezia rimangono senza fondamento.
Quali gli effetti dell’Effatà?
Comincio a distinguere le controrisonanze con più lucidità e velocità. Divengo perciò più trasparente a me stesso.
In un certo qual senso un maggior ascolto aggrava la mia consapevolezza della mia sordità e del mio mutismo. Ma è via obbligata per una progressiva liberazione.
Trovo più libertà nel contraddire le mie controrisonanze. Trovo il coraggio di dissubbidire ad esse.
L’effatà è un vero è proprio esorcismo, il primo esorcismo nel cammino dell’iniziazione.
Infatti la mia situazione di sordo e di muto risponde ad una situazione oggettiva di peccato, di schiavitù. Le controrisonanze sono più forti di me, non provengono infatti da me ma da colui che è il divisore, il separatore, l’accusatore.
Chi può compiere l’effatà?
Lo può fare chiunque crede nell’efficacia del nome di Gesù. Certo occorre uno che dia l’avvio: è il profeta-evangelista.
Perché è così efficace, spesso più di un sacramento:
perché finalmente porto davanti al signore la mia morte. E questo dà una valenza forte perché vi gioco totalemente e liberamente la mia disponibilità. Questo porre la mia morte ai piedi della croce ha una forte carica battesimale.
La comunità in mezzo alla quale si pronuncia l’effatà è la nuova piscina battesimale.
Il movimento pendolare
Sarà tipico nella persona emarginata un movimento pendolare. Ovvero tentativi di proposte di tecniche di inserimento che possono avere più o meno successo.
Se va bene è un’esperienza gratificante ( “pur di essere dei vostri sono disposto a qualsiasi cosa”)
Se non va bene è esperienza di progressivo isolamento (“Io vi voglio bene, ma voi non mi volete bene, allora anch’io non vi voglio bene”)
Quanto durerà l’allontanamento? Finché il bisogno non rimetterà in moto il tentativo di riavvicinamento (“Io ho bisogno di voi!”).
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