• 30 Nov

    Il vissuto della prima comunità cristiana:

    Atti 4,32-35

     a cura di p. Attilio Franco Fabris

     

    Il v. 35 con parole lapidarie afferma: “veniva distribuito a ciascuno secondo il suo bisogno”. E’ un’affermazione di grandissima importanza. Veniva dato a ciascuno non secondo i suoi meriti o demeriti, non secondo il grado, il ruolo, il posto che occupa nella comunità, non secondo la sua anzianità o la sua santità, ma secondo il suo bisogno. Si tratta di una gratuità che guarda al bisogno dell’altro.

    Noi saremmo tentati di dare “secondo giustizia” il che sta a significare in base ad una giustizia puramente distributiva (a tutti in parti uguali), o in base ad una giustizia meritocratica (a ciascuno secondo il suo merito). Dare a ciascuno invece secondo il suo bisogno è un’affermazione folle!

    Allo scandalo del buon senso mondano la tradizione biblica offre l’unica risposta possibile: la vita è dono, tutto è dono…Non temere dunque di vivere la gratuità. Il Signore è fedele!

    E’ questo il compimento della promessa biblica contenuta in Deuteronomio 15,7ss. La comunità cristiana si pone come il prolungamento e l’adempimento della Legge e della Promessa. Ecco la buona notizia! Le promesse di Dio finalmente si adempiono nella comunità di Gerusalemme.

    Ma qual è il fondamento di tutto questo, di questo adempimento?

    Esso si colloca nell’esperienza battesimale (cfr v 35 dove “deporre” sta ad indicare un vocabolario battesimale che dice una comune esperienza). In Atti 4,35.37 si “depongono” i beni che si possiedono: essi sono dono di Dio.

    Allora la condivisione dei beni si radica nella condivisione battesimale dell’essere. Cioè: io non depongo i miei beni ai piedi della croce, se prima, ai piedi della croce, non mi sono deposto io stesso.

    Alcuni tuttavia commenteranno: “Mah, sarà vero? Luca non parlerà probabilmente di un ideale mai raggiunto?”. Dobbiamo rispondere: se quella di Atti 2,42-47 3 32-37 è soltanto una prospettiva ideale, e non la certezza e la speranza che l’ideale biblico della fraternità proprio nel nome di Gesù, per dono di Dio, si può realizzare, al cristianesimo che cosa resta? Per rilanciare l’ideale di Dt 15 c’era bisogno che Gesù morisse? Non valeva la pena restare ebrei? L’interpretazione riduttiva di questa testimonianza chiave degli Atti demolisce la novità della prospettiva evangelica, cioè la stessa Buona Notizia.

    In questa interpretazione ci giochiamo la nostra identità ecclesiale.

    Quella comunione instaurata nella primitiva comunità ha un fondamento. Questo fondamento è la condivisione dell’essere.

    Quando si parla di condivisione ricordiamo che il primo bene da mettere in comune è la vita. Questo vuol dire il nostro tempo, il che vuol dire un progetto di vita, il che significa giocare in questo la propria libertà.

    Ma come si fa?

    E’ un dono del Signore che scaturisce dal fare “memoria” ogni giorno della sua Passione. Quando accogliamo, ai piedi della croce, questa gratuità dell’amore di Dio, allora l’amore circola fra di noi e noi diventiamo un cuor solo e un’anima sola. Ecco il segreto della comunità cristiana primitiva, la sua “grande forza”.

    Piste di riflessione

     ∑    La primitiva comunità vive la condivisione: “A ciascuno veniva dato secondo il suo bisogno”. Si mette in atto una giustizia che va al di là dell’equa distribuzione e del merito. E’ la folla “giustizia” della croce. Nelle nostre comunità è possibile parlare di condivisione? Se sì in quale senso? Se no in quale senso?

    ∑    Il fondamento della condivisione dell’avere è la condivisione dell’essere. Il che significa disponibilità a condividere la vita, il tempo, le energie, i progetti, la propria libertà. Ti sembra che in questi anni la provincia abbia camminato in questa direzione, ovvero di una sempre maggior proposta di una condivisione dell’essere?

    ∑    Questa condivisione dell’essere scaturisce dal deporre ai piedi della croce la propria vita. E’ dunque fondamentale la “memoria passionis” affinché nelle nostre comunità scaturisca una autentica comunione di vita. Questo significa accogliere incessantemente nella nostra vita la buona notizia. La proposta del primo annuncio ha trovato concretamente spazio nella vita personale e comunitaria come richiesto dalla programmazione capitolare?

  • 29 Nov

    Una comunità con dei problemi: Atti 6,1-6

     

     a cura di p. Attilio Franco Fabris

    Il capitolo 6 ci offre un quadro della comunità primitiva. Una comunità che ha cura di tutti; ha organizzato un servizio mensa quotidiano per coloro che sono in difficoltà. E’ bello! In questa comunità la parola fraternità non è una parola vuota, non è una dimensione puramente spirituale. Fraternità significa preoccuparsi del necessario per il fratello accanto.

    Ma la fraternità non è perfetta. Il bisogno di tutti viene sì soddisfatto, ma non in maniera equa. I membri provenienti dalla diaspora, senza alcun appoggio, sono discriminati. Ciò suscita malcontento.

    E’ una questione seria, perché viene messa in gioco l’autenticità della fraternità.

    E i responsabili sono investiti in prima persona della questione: sono infatti responsabili dell’unità e della fraternità. Essi non si barricano dietro a scappatoie o autogiustificazioni del tipo: “Ma sì, va tutto bene, sì, certo, sono problemi ma l’importante è… si rimedierà…”. Non cadono nel rischio di minimizzare o di dribblare la realtà. E’ l’autorità dei fatti! La disponibilità si vede dal realismo, dalla libertà interiore, dal senso di responsabilità con cui i fatti vengono accolti e assunti.

    Spesso invece accade che di fronte alle problematiche delle nostre comunità ci accontentiamo di soluzioni di facciata, artificiali: quelle soluzioni che fanno credere di aver aver risolto il problema, mentre non è risolto nulla, perché le cause dei problemi non sono risolte. La fraternità va curata perché è una creatura di Dio, va curata con tutte le nostre forze.

    I Dodici dunque prendono atto del problema, e di questo coinvolgono tutta la comunità: avanzano una soluzione concreta. La comunità avrebbe potuto indietreggiare, giocare allo scaricabarili, delegare. Invece no: tutti si sentono coinvolti in prima persona. Al bene comune dobbiamo provvedere insieme. Si decide per l’istituzione dei sette diaconi.

    Si procede ad una elezione. Non è improvvisata. Avviene in un clima di ascolto e di preghiera, di dialogo comunitario.

    Cosa ricavarne? Anzitutto ci viene detto che i bisogni della comunità, quando vengono assunti responsabilmente da tutti, vengono soddisfatti dal Signore. La risposta che il Signore offre ai bisogni della comunità si chiama “carisma”. Ad ogni bisogno il carisma adatto. Più la comunità cresce, più aumentano i bisogni, più crescono i carismi.

    Ma perché i carismi crescano e fioriscano in seno alla comunità è necessario che i carismi esistenti siano fedeli al signore e collaborino fra di loro. L’integrazione dei carismi è condizione di fecondità della comunità, perché, attraverso questa integrazione, si realizza l’unità.

    A Gerusalemme vi fu in quell’occasione una splendida integrazione di carismi: di vertice, di base, di servizio. Da quella situazione conflittuale nacque la splendida istituzione del diaconato.

    Le imperfezioni della fraternità vanno assunte, riconosciute, ma nel Signore. In una ricerca di integrazione di carismi esse divengono sorgente di fecondità.

    Certamente oggi dobbiamo assumere molte situazioni problematiche nelle quali domandare al Signore la nascita di nuovi carismi, e questo in ordine a:

    – la definizione dell’identità ecclesiale nel mondo

    – per attualizzare la vocazione e il carisma della vita religiosa e passionista

    – per avviare iniziative apostoliche conformi alle esigenze del nostro tempo.

    Piste di riflessione

    ∑    La fraternità è un dono che va curato. Essa non è perfetta. In essa esistono difficoltà, conflitti, tensione in ordine alla sua realizzazione. Tutto questo va riconosciuto e affrontato da tutti, indistintamente, nelle modalità proprie legate alla propria funzione. Nessuno dovrebbe giocare allo scaricabarili o alla delega. Ti pare che questo accada? Avverti una corresponsabilità nell’affrontare le difficoltà della provincia e delle singole comunità?

    ∑    Le soluzioni adottate per risolvere i problemi delle nostre comunità ti sembrano appropriate? Sono soluzioni che raggiungono il cuore del problema, o sono di facciata? Puoi fare qualche esempio.

    ∑     La nascita di carismi è possibile dove i carismi esistenti sono fedeli al Signore e collaborano ed interagiscono tra loro: solo da questa mutua interazione può nascere l’apertura ad ulteriori carismi vitali per la chiesa e le nostre comunità. Esiste questa accoglienza e collaborazione fra i diversi carismi? Cosa fare per incrementarla?

  • 26 Nov

    Una consegna vicendevole
    all’iniziativa dello Spirito: Atti 13,1-5

     a cura di p. Attilio Franco Fabris

    Siamo nella comunità di Antiochia.

    Gli Atti ci descrivono una comunità ricca di carismi profetici, dottorali e magistrali.

    Il testo ci racconta che durante la “celebrazione del culto del Signore” lo Spirito santo dice: “Riservate per me Barnaba e Paolo per l’opera alla quale io li ho chiamati”.

    Quale opera? Non si sa. Sicuramente a servizio dell’annuncio della buona notizia. Ma dove? Come? Quando? Questo non viene detto. Perché questa non precisazione?

    Essa fa parte della pedagogia di Dio. Infatti la tradizione biblica ci insegna che il Signore vuole educare l’uomo a camminare sulla sua parola “hic et nunc”. Del domani, domani se ne parla. Il Signore pone alla scuola dell’ascolto (cfr Gn 12).

    Il Signore chiama ad una missione senza dire ancora di che cosa si tratta, né quali saranno le modalità della sua realizzazione.

    Questo sicuramente avrà fatto problema alla comunità di Antiochia. Si sarà domandata: “Abbiamo ascoltato bene? Il Signore queste precisazioni, indispensabili dal punto di vista organizzativo, logistico, funzionale le dovrà pur dare! Se non sono ancora venute, evidentemente è perché non abbiamo ancora ascoltato abbastanza”.

    Quante incertezze nel nostro programmare. Quante  esitazioni. Dobbiamo interrogarci: certe incertezze che accompagnano i nostri discernimenti, sono dovute alla nostra sordità, o sono dovute alla pedagogia che il Signore adotta nei nostri confronti? La tradizione biblica attesta che certe cose il Signore non ce le dice di proposito, e non le dirà mai, fin quando non ci metteremo in cammino davvero. Questa fedeltà del Signore alla sua pedagogia può essere una chiave per comprendere molte delle nostre attuali difficoltà in ordine alla programmazione. Quando noi ci cimentiamo con una programmazione apostolica vorremmo vedere tutto chiaro. Questo è ragionevole. Ma rischiamo di dimenticarci della pedagogia del Signore.

    Un altro punto di riflessione è questo: perché lo Spirito non dà questa missione direttamente subito a Barnaba e Paolo? Perché la “profezia” deve passare attraverso la comunità?

    La “missio” non appartiene a Barnaba o a Paolo. Essa è della chiesa. E’ necessario che essi la ricevano dalla comunità. E’ la “missio” di tutta la comunità.

    Un terzo punto: gli Atti ci descrivono che tutto questo avviene mentre si “celebra il culto del Signore”. Cosa significa? Celebrare il culto è riconoscere la presenza del Signore nella comunità. In Israele la prima forma di culto era l’ascolto della Parola. L’ascolto è rendere culto al Signore: che nella comunità cristiana giunge al suo vertice nel memoriale eucaristico. La “fractio verbi” diviene “fractio panis”. La comunità di Antiochia è certamente una comunità in cui l’ascolto della Parola è posto al primo posto come atto di culto al Signore.

    A questa forma di culto la comunità associa il digiuno. Non è il digiuno ascetico: ma è il digiuno che richiama Israele che non di solo pane vive l’uomo ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio. Il Signore è disposto a rispondere al bisogno dell’uomo quando l’uomo lo ascolta e cammina sulla sua parola. In questa direzione Israele riconosce che tutto è dono. Imparare a digiunare significa giungere alla libertà di spirito di rimettere tutto ciò che siamo e tutto ciò che abbiamo a Colui dal quale tutto abbiamo ricevuto, senza nulla trattenere.

    In questo atteggiamento la comunità è disposta a consegnare Barnaba e Paolo alla loro missione. E Barnaba e Paolo sono disposti a consegnarsi a ciò che il Signore domanda loro.  I due apostoli e la comunità di Antiochia si consegnano vicendevolmente all’iniziativa del Signore.

    Il tutto termina con il gesto dell’imposizione delle mani. Un gesto caro alla tradizione biblica che sta a significare l’investitura da parte della comunità per la missione richiesta dallo Spirito.

    Piste di riflessione

    ∑    la pedagogia del Signore domanda all’uomo l’affidamento alla promessa. A mettersi in cammino fidandosi della parola, anche quando il futuro appare incerto, nebuloso… Noi vorremmo però vedere subito tutto chiaro, evidente, programmato. Ti sembra che nelle nostre scelte comunitarie e provinciali teniamo presente questa pedagogia? Secondo te perché a volte poniamo resistenza ad adottarla? Perché tante incertezze nel nostro programmare? Quale atteggiamento dovrebbe assumere il prossimo Capitolo?

    ∑    La “Missio” passa attraverso la mediazione della comunità. Nessuno se la può attribuire o rivendicare. A volte invece si ha l’impressione che questo non accada. Ciascuno si appropria della Missio che ritiene sua, gestendola come bene personale in cui gli altri non hanno il diritto di interferire. E’ un  problema che può affliggere il nostro ministero apostolico. Lo avverti? Quali le cause? Quali i rimedi?

    ∑    La parola dello Spirito su Paolo e Barnaba si manifesta mentre si “celebra il culto del Signore”, ovvero mentre la comunità è protesa all’ascolto della parola di Dio. E’ solo da questo “culto” che può scaturire una parola autorevole che trascende le nostre misere visuali e orizzonti ristretti. Nelle nostre comunità le scelte da farsi scaturiscono da un ascolto della Parola o adottiamo altri criteri, quali ad esempio? E con quali frutti?

  • 25 Nov

    Barnaba e Paolo portano fatti: Atti 15,12-21

     a cura di p. Attilio Franco fabris

    All’assemblea di Gerusalemme, Paolo e Barnaba portano fatti. Raccontano ciò che Dio ha operato fra i pagani ai quali è stata annunciata la Buona Notizia. L’esperienza pentecostale della comunità di Antiochia, come la conversione di Cornelio, è un fatto indiscutibile.

    I giudaizzanti questi fatti non li hanno mai veramente “ascoltati”. Hanno la loro “forma mentis”, i loro principi che si affermano, riconfermano, rifiutando di confrontarsi con i fatti. I fatti per loro non fanno testo, perché essi sanno già come stanno le cose!

    Con questo atteggiamento è possibile attuare un autentico discernimento comunitario e apostolico?

    I fatti devono contare, perché è da questi che la verità deve scaturire. Se manca questo confronto allora inevitabilmente la verità decada ad ideologia: non c’è ascolto, non c’è libertà di spirito nel mettersi in discussione, di lasciarsi interrogare dai fatti.

    Fortunatamente i fatti, cioè la testimonianza di Paolo e Barnaba, trovano credito.

    La soluzione magica adottata è: fare sempre “come se…”.

    E’ faticoso e spesso doloroso il confronto coi fatti. La nave sta a galla, va… Sentiamo sciabordio nel fondo della stiva, ci affacciamo e ci accorgiamo che nella stiva c’è acqua! Ma la nave va… Certo, ci deve essere un buco da qualche parte, prima o poi affonderemo, ma la nave va e va… Si chiude il boccaporto e avanti! La nave intanto va, prima o poi penseremo al problema. Ma sarà troppo tardi.

    Alla fine della testimonianza di Paolo e Barnaba si alza Giacomo, responsabile della comunità di Gerusalemme, vicino al partito dei giudaizzanti. Poco dopo una lettera è inviata a tutte le comunità: chi vuole essere discepolo di Mosè continui pure a fare il discepolo di Mosè, chi vuole essere discepolo di Gesù faccia il discepolo di Gesù.

    La comunità ha partorito una grande decisione, di grandissime conseguenze pastorali. E’ un giro di boa per la vita delle comunità cristiane.

    Ma per arrivarci c’è stato bisogno di un Concilio, un capitolo. Il Signore ha suscitato persone capaci del coraggio della verità, di prendere posizione a difesa dell’originalità della Buona Notizia.

    Piste di riflessione

    ∑    In mezzo a noi i fatti trovano credito? Ovvero: abbiamo il coraggio di guardare la realtà in faccia? O facciamo gli struzzi? Sono o non sono i nostri discernimenti spirituali e apostolici viziati a monte da queste forme di ambiguità? Un’ambiguità che alla fine ci priva delle coordinate per arrivare a conoscere la verità.

    ∑    Quali “fatti” interrogano urgentemente le nostre comunità religiose e il nostro apostolato?

    ∑    Quali “fatti” vorresti che il Capitolo tenesse assolutamente presenti per il suo discernimento spirituale ed apostolico?

     

  • 24 Nov

    La lunga discussione a Gerusalemme e l’intervento di Pietro:
    Atti 15,1-12

     

    a cura di p. Attilio Franco Fabris

    Il brano riporta un momento di discernimento critico e fondamentale nel cammino della prima comunità cristiana.

    Il testo parla di “una lunga discussione”. Proviamo ad immaginarla… quando si discute c’è sempre da temere: la discussione infatti è un rischio, ovvero c’è il rischio della divisione, dello scontro. Eppure questo rischio deve essere corso. Il testo sottolinea l’aggettivo “lunga”: è importante perché ci dice la fatica nel trovare una soluzione, l’arroccarsi ciascuno sulle proprie posizioni: sembra non esserci via d’uscita.

    Il nostro quotidiano è segnato da tanti interrogativi di minor o grave importanza. Questi problemi sono spesso nascosti dietro le apparenze del quotidiano. Covano fra noi, sotto la cenere problemi terribilmente seri. Sappiamo tutti che, se li affrontiamo, c’è il rischio della spaccatura. E allora? Meglio far finta di niente! Ma questa è la soluzione che salvaguardia l’unità? Certamente no!

    Ma una di uscita c’è. E’ l’intervento di Pietro: “Dopo lunga discussione Pietro si alzò e disse…”. Se non c’è il responsabile dell’unità e del bene comune certe situazioni di confronto, di dibattito, di divisione non si possono sbloccare. Non si può pensare che su certe questioni capitali il consenso venga fuori naturalmente, spontaneamente, dalla base. L’esperienza dice che dalla base non ci si può attendere un consenso né spirituale né culturale: occorre l’intervento di colui che nel Signore, dopo un attento ascolto, si fa interprete della verità, dell’unità e del bene comune.

    La base poteva non riconoscere a Pietro questa autorità. Difatti Pietro esita, per timore della disapprovazione… ma poi prende posizione, rischia. Ciò che compromette l’unità e il bene comune è l’ambiguità, quell’ambiguità la quale si manifesta, prima che nelle scelte pratiche, nel disagio nel prendere posizione circa la verità.

    Certo, l’esperienza ci dice che non è sempre facile distinguere bene i problemi a la verità delle loro soluzioni: ma è vero che ci sono delle verità di immediata evidenza sulle quali bisognerebbe prendere posizione, e non si ha il coraggio di farlo.

    Alla fine della “lunga discussione” e dopo l’intervento del responsabile della comunità, l’assemblea tace.

    Piste di riflessione

    ∑    Hai l’impressione che su certi problemi la comunità non si interroga mai? Quale secondo te il motivo? Nella nostre comunità si ha il coraggio della discussione, anche “se lunga”?

    ∑    Quali problemi di capitale importanza, e mai affrontati decisamente, le nostre comunità e la provincia dovrebbero  coraggiosamente porsi nel prossimo Capitolo?

    ∑    Il servizio dell’autorità come attualmente è interpretato e vissuto avrebbe bisogno di essere rivisto alla luce del brano sopra meditato?

  • 23 Nov

     LE VIE ALLA CONOSCENZA DI DIO

    OBIETTIVO DEL CORSO:

    EVIDENZIARE LE DIFFICOLTA’ IN ORDINE ALLA COMUNICAZIONE UMANA E SPIRITUALE

     


    L’approccio al Kerigma non è sufficiente per aprire alla comunicazione spirituale.

    Questa problematica s’inserisce nel processo più vasto della

    • Consegna della Parola
    • Risonanza della Parola

    Questa tematica sta diventando d’attualità; è il servizio della Parola scandito dalla Traditio e dalla Redditio. Essa si propone come Premessa al Primo Annuncio.

    E’ possibile una Traditio Verbi senza una Redditio? La prassi consiste in una proposta d’ascolto, ma non prevede la redditio. Ciò può essere valido nella pastorale ordinaria, ma è senz’altro insufficiente per un’Iniziazione alla fede.

    Come si organizza la Redditio? Nella tradizione cristiana dell’Effatà.

    Nell’ultimo incontro CEI, Mon. Chiarinelli ha rilevato come, nonostante tutti gli aggiornamenti e gli sforzi fatti in ordine ad una catechesi rinnovata, non si è approdati a nulla.

    COME DIRE GESU’ CRISTO AGLI UOMINI DEL NOSTRO TEMPO?

     Il problema non è solo dottrinale, ma operativo.

    L’annuncio della Buona Notizia  propone un’esperienza d’ascolto. Cosa significa Ascoltare?

    Risponde la Santa Scrittura? L’ascolto è la via alla conoscenza di Dio.

    Ma questo è vero per ogni esperienza religiosa? No! L’affermare che la conoscenza di Dio passa attraverso l’ascolto è una scelta culturale che va rispettata; non si tratta di una parola in un senso metaforico, è una parola “acustica”. Privilegia l’orecchio rispetto all’occhio. La forma si coglie: questo ci richiama a quel filone di filosofia che contrapponeva l’epistemologia di tipo occidentale centrata sulla vista, a quella di tipo semitico centrata, invece, sull’ascolto.

    Attraverso lo sguardo cosifico la realtà e la possiedo, perciò anche Dio diventa oggetto. L’udito “si tende”a cogliere una Parola che gli è rivolta.

    L’occhio tende a possedere la verità e spersonalizza il rapporto. Anche nei rapporti interpersonali quando “si scruta con gli occhi” c’è il tentativo di possedere la personalità dell’altro. In questo modo non si costruisce sicuramente una fraternità; essa nasce da un ascolto umile, che pone quindi lo sguardo verso il basso, in atteggiamento di accoglienza dell’altro così com’è e come si manifesta.

    Il primo approccio (fondato sullo sguardo) è quello della tradizione greco/latina, il secondo è quello della tradizione biblica.

    Nell’impostazione semitica la conoscenza dell’oggetto naturale, ha come modello la conoscenza interpersonale che rispetta il soggetto e non lo assimila ad un oggetto da esplorare e possedere.

    La nostra educazione, scolastica e non, è tutta di tipo occidentale; l’apprendimento è stato fondato sull’occhio e sulla ragione, piuttosto che sull’ascolto.

    Alla luce della nostra esperienza di conoscenza e di riflessione religiosa, quali sono le vie della conoscenza di Dio?

    • La contemplazione della natura
    • L’interiorità
    • L’intelligenza
    • La mediazione della tradizione

    LA CONTEMPLAZIONE DELLA NATURA

    E’ la via universale alla conoscenza di Dio; Dio s’identifica con una manifestazione della natura: il vulcano, il tuono, il turbine ecc…

    La conoscenza di Dio a livello universale passa attraverso la contemplazione (sguardo che insiste, che si sofferma sulla realtà e la interpreta); da qui nasce il mito.

    Chiediamoci: quanto ha inciso nell’evoluzione della nostra esperienza religiosa l’incontro con Dio attraverso la natura?

    • La dolcezza della natura
    • La maestosità della natura
    • L’immensità del mare, la distesa placida delle acque illuminate dall’alba o dal tramonto
    • Il mormorio della risacca sulla riva del mare
    • Il mare in burrasca

    La montagna è il luogo dell’incontro con Dio; sulle alture si respira il mondo di Dio.

    Ma perché il senso religioso mette Dio nella natura? Si tratta di un’oggettivazione cosmologica che evidenzia la percezione della trascendenza di Dio. Dio E’ in alto e non lo posso raggiungere. Che cosa mi è inesplorabile? Il cielo.

    Pensate:

    • Al silenzio
    • Al fruscio del vento
    • Al miracolo della primavera: sui rami secchi e spogli spunta una gemma verde
    • Alla nascita di un bambino….

    Vi siete ricordati alcuni particolari nella vostra storia? Quegli incontri con la natura sono stati mediazioni dell’incontro con Dio?

    Come può la nostra pastorale ricuperare quel patrimonio che è legato al vissuto di fede e di provvidenza vissuto dalle nostre persone anziane?

    • Pastorale delle stelle: “I cieli narrano la gloria di Dio…”
    • Pastorale della montagna “Alzo gli occhi verso i monti, da dove mi verrà l’aiuto?”

    Purtroppo il recupero di questi valori è affidato ai movimenti ambientalisti, così che la natura è proposta in chiave antireligiosa:

    Che cosa dice l’esperienza di fede al riguardo? Che il Signore prende l’iniziativa attraverso queste manifestazioni della natura, per toccarci, per visitarci; è come se il Signore aspettasse il momento in cui la nostra attenzione si posa su un particolare e una voce interiore c’invitasse:”Guarda, solleva lo sguardo, mi manifesto a te attraverso un riflesso della gloria del mio Volto”.

    Il contatto con la natura ha un aspetto particolare, ma non sempre questo ha un seguito di tipo religioso….

    Dall’analisi delle vostre esperienze si comprende che attraverso la contemplazione della natura possiamo vivere sentimenti contrastanti:

    • Sintonia, pace, armonia che acquieta, placa (in questo senso possiamo parlare di un’efficacia sacramentale).
    • Senso d’estraneità, di lontananza, d’esilio.

    Risonanze contrastanti, antagoniste, ambivalenti:le stelle affascinanti possono essere molto calde e molto fredde; l’universo sterminato segno di un Assoluto vicino, prossimo, è nello stesso tempo infinitamente lontano…A volte accanto alla sensazione di essere protetti e custoditi, sperimentiamo l’esperienza del naufrago, dell’abbandonato, del derelitto alla deriva.

    “Sono qui su questa terra, trafitto da un raggio di sole”.

    La natura svela l’infinito; è cifra e icona dell’infinito, ma Dio è al di là.

    Ma chi è Dio? Che cosa è il mio quotidiano che nello stesso tempo è prevedibile e imprevedibile?

    In questo contrasto si colloca il momento religioso.

    Dio merita fiducia oppure no?

    Quest’esperienza dell’incontro con Dio nella natura è segnata DALL’AMBIGUITA’: bellissima la natura, ma questa si trasforma in orrore; incantevole il paesaggio fino a che tutto va e non si trasforma in disagio…

    Bella la vita, ma  poi c’è la morte! Chi ha l’ultima parola, la vita o la morte?

    Dio chi è? Nostro creatore e anche nostro carnefice, Colui che ci ha creato a termine? Ma perché la vita è segnata dalla morte?

    Queste sono le grandi tematiche in cui la nostra coscienza deve addentrarsi! Noi non svegliamo gli interrogativi perché viviamo di rendita delle risposte che ormai sono diventate nostre.

    Mi lascio interrogare dalle angosce dell’uomo del nostro tempo il quale dice: ma DIO DOVE E’?Che cosa  può dire ad un malato terminale l’esuberanza della natura?Da una parte contempla i fiori spuntare su un ramo secco e, dall’altra, sperimenta il disfacimento della carne nel suo fisico

    ABBIAMO UN’ALTRA RISPOSTA ATTRAVERSO QUELLO CHE CI VIENE CONSEGNATO CON LA MORTE E LA RISSURREZIONE DI GESU’

    La vita è per la morte? Se si, la vita è la celebrazione della morte!

    Israele ha vissuto molto quest’interrogativo e non ha mai sviluppato in proprio la credenza dell’immortalità dell’anima. La risposta a quest’interrogativo era: La generazione, i figli!

    Oggi la nostra società ha abolito questa risposta;

    e allora cosa resta agli uomini del nostro tempo? La speranza cristiana no, la risposta della generazione neppure e così restiamo con la nostra incertezza, tiriamo avanti con la nostra vista corta per poi cadere nella voragine della solitudine e della vecchiaia, con la prospettiva dell’eutanasia.

    Oggi ci si proietta nella prospettiva del CARPE DIEM dove va a finire l’amore? Diventa solo una rapina. La vita è una benedizione o una maledizione? (cfr. Giobbe).

    Nel nuovo Testamento troviamo spunti del genere (cfr. Rom. 1 ecc…) Ma le riflessioni che abbiamo fatto sull’ambiguità della conoscenza di Dio attraverso la natura non smentiscono, ma completano la riflessione di S. Paolo.

    Oggi si deve pretendere che una conoscenza naturale di Dio trasferisca sul piano della teologia biblica. C’è o non c’è Dio!Il vero problema è quello di sempre: chi è Dio. La nostra tradizione culturale si è intestardita per mostrare l’esistenza di Dio, all’uomo biblico interessa sapere CHI E’ DIO!

    LA VIA DELL’INTERIORITA’= VIA DELLA COSCIENZA

    Le quattro vie della conoscenza di Dio non sono separate tra loro ma si intersecano, portano a dare a ciascuno di noi un particolare volto di Dio; un forte legame esiste tra la via della conoscenza di Dio attraverso la natura e la via della conoscenza di Dio nell’interiorità. Il contatto con la natura porta l’uomo a contatto con Dio: il nostro desiderio di contemplare Dio attraverso la natura si trasforma in un desiderio interiore: sentire Dio dentro di sé, nel profondo del proprio cuore, un dolore acuto, una necessità che se non consumata ci porta ad una consumazione.

    Nel cuore dell’uomo abita la verità. Ascolta la profondità della tua coscienza e nel profondo coglierai la voce di Dio: Già nel tempio di Gerusalemme la parte più interna è la CELLA; nel Santo dei Santi abitava Dio. La presenza del Signore nel tempio di Gerusalemme era legata al fatto che lì vi erano conservate le Tavole della Legge, la Verga d’Aronne, un vasetto con la manna….

    La nostra coscienza è un tempio e, nella sua parte più intima, vi abita Dio.

    Fare silenzio…fare vuoto…Interiorità abissale! Nella notte del profondo della coscienza si accende l’alba della verità! l’interiorità è una via sapienziale.

    “Anche di notte il mio cuore m’ istruisce…” E S: Paolo “…Lo Spirito prega dentro di noi con gemiti inesprimibili!” Sono inesprimibili proprio perché veniamo associati alla preghiera dello Spirito che prega così: sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno….

    L’interiorità comporta delle condizioni:

    • Il silenzio: dove c’è confusione è difficile raggiungere quello stato necessario per guardare dentro di sé
    • Il raccoglimento
    • La separazione dalla vita ordinaria troppo chiassosa e dispersiva : l’effetto delle preoccupazioni disperdono la nostra vita, occorre quindi fare ordine, trovare il tempo dello stare con e non del fare.                     
    • La guida di un compagno di cammino, di una guida più esperta di noi: fare luce nel cuore attraverso l’esperienza di un altro cuore; nel cuore c’è il bene e il male, abbiamo bisogno di aiuto perché quello che abbiamo dentro può essere il tutto o il contrario del tutto.
    • L’iniziazione alla vita dello Spirito

    La coscienza è una realtà sacra, perché nel profondo di essa scopro di Dio

    La domanda che facciamo è questa:

    Quanto ciascuno di noi ha conosciuto il Signore attraverso la via dell’interiorità?

    L’allontanamento dagli uomini, dal chiasso, ecc… comporta sempre uno strappo; tale strappo è compensato dalla presenza di Dio. Il Sapiente è colui che “riconosce i sapori”, “tasta” il gusto interiore della coscienza; conosce il sapore delle cose, le cose che valgono e quelle che non valgono.

    La tradizione cristiana dice: di Dio non si dice nulla, quindi mettiamoci in ascolto.

    Molti sono gli interrogativi che sorgono nell’animo umano. Io chi sono? Una realtà definita o l’avventura del mio essere io? Più cresco nella conoscenza di me e più mi accorgo di non conoscermi; più so chi sono e più io so di non sapere chi sono.Questo comporta dolore, perché è una profonda sofferenza. L’identità è un dono, non è una conquista. Per crescere ognuno di noi ha bisogno di assumere il rischio della propria soggettività: è il rischio della solitudine e la strada per arrivarvi è quella dell’interiorità.

      • Se comincio a aderire al cammino della verità, dove andrò a finire?
      • Mi troverò d’accordo con quello che sono stato, con quello che credo di essere?Ma è possibile che la nostra pastorale, portatrice di tanti tesori, debba essere sopraffatta dall’ultimo guru

    L’umanità del nostro tempo, così superficiale, ha abbandonato la via dell’interiorità, così che chiunque venga dall’Oriente può aprire una sua scuola e trova ADEPTI proprio perché risponde ad un bisogno.

    Le questioni di tipo psicologico e spirituale si sovrappongono. Nella realtà del nostro tempo la coscienza è talmente poco coltivata che nessuna proposta di tipo spirituale può essere fatta senza una presa di coscienza di carattere psicologico.

    Il bisogno di fare branco è così grande che i giovani sono sempre più incapaci di stare da soli, “farsela con sé è sempre una gran fatica”.Questo porta a una gran povertà interiore.

    Attraverso l’animazione di gruppo è possibile portare ad una scoperta dell’interiorità e da lì, poi, si farà gustare il poter stare da soli.

    Una grande operazione culturale sarebbe quella di aiutare gli uomini del nostro tempo a ritrovare una coscienza, proprio perché i mezzi d’evasione di cui si dispone sono potenti e pericolosi.

    • Quanto credito merita il mio sentire?
    • La mia percezione interiore di Dio è autentica oppure è una mia costruzione?
    • Sto davvero parlando con qualcuno, o il mio è un monologo?

    Anche questa via, però, è segnata da ambiguità e ambivalenza!

    Resta però sempre il dubbio e se anche per quanto ci riguarda, viviamo serenamente questo dubbio, di fronte al mondo la nostra esperienza interiore non dice nulla.

    Il credente deve imparare a stare al mondo in umiltà, per portare con mansuetudine i sospetti e i dubbi degli altri. Dobbiamo riconoscere questa difesa, per permettere al mondo di sospettare e di diffidare della nostra esperienza. L’esperienza interiore si dà, è antitrionfalistica e non è arrogante!

    Attraverso questa via sperimentiamo quindi che Dio è buono e cattivo, è presenza amorosa ed accogliente e, nello stesso tempo, giudice rigoroso e severo.

    San Giovanni dice: “se la tua coscienza ti rimprovera, ricordati che Dio è più grande del tuo cuore! (Cfr. Ps. 138-63)

    L’interiorità spirituale ci interroga sulla nostra identità, ma al fondo della verità di noi stessi non arriveremo mai; non potremo mai conoscerci come siamo conosciuti.

    Nolite judicare! Il processo conclusivo della conoscenza è il giudizio, quando Gesù dice: non giudicate! ci sollecita a non tirare delle conclusioni, perché gli elementi che noi abbiamo delle persone non sono mai esaustivi. La maturità sapienziale della coscienza porta ad usare verbi tipo “mi sembra, mi pare…”, nel senso che nelle decisioni bisogna procedere, ma in punta di piedi, consapevoli della precarietà delle nostre conoscenze.

    Le nostre non sono mai conclusioni assolute, ma sempre provvisorie, aperte alla verifica. Nella parrusia vedremo più chiaro e conosceremo così come siamo conosciuti.

    LA VIA DELL’INTELLIGENZA

    L’intelligenza è lo strumento privilegiato per ogni tipo di conoscenza, anche attraverso l’intelligenza, la coscienza s’interroga:

    • Qual è il senso della vita?
    • Da dove vengo?
    • Dove vado?

    Una coscienza superficiale chiaramente si pone questi interrogativi in modo superficiale.

    Questo è un problema di consapevolezza antropologica, di serietà, di maturità. Questi interrogativi a volte si conciliano con un’esperienza di fede, altre volte si scontrano. “Dio è un rischio” dice Prezzolino. Come spiegare questo? Dio, attraverso la sua assenza, confonde la sapienza degli intelligenti.

    Chiediamoci :

    • Che ruolo ha avuto l’intelligenza nella nostra esperienza di fede? (Nel passato)
    • Che ruolo ha oggi l’intelligenza nella mia esperienza di fede?
    • L’intelligenza è un appoggio o uno strumento?
    • Prima il credere per capire o prima il capire per credere?
    • La presentazione del Kerigma esige di avere davanti delle persone credenti o non credenti?

     

     

     

    Se rispondiamo “credo ut intelligam” siamo in una posizione pre-biblica. La fede è una questione di livelli.

    • Cosmo-biologico (panteista)
    • Dio trascendente e personale (teista)
    • Teismo veterotestamentario
    • Teismo biblico pre-pasquale (N.T.: Dio incarnato)
    • Teismo biblico post-pasquale (N.T.: Gesù Cristo morto e risorto)

    La nostra formazione teologica è servita a supportare in maniera organizzativa la nostra fede preesistente, oppure è venuta a seminare scompiglio?

    Oggi ci troviamo in un contesto del tutto particolare che possiamo così definire:

    la cultura attuale non ha punti fermi, ci troviamo a confronto con un pensiero debole.

    Come si usa l’intelligenza? Esiste un’intelligenza di tipo sapienziale laico che prende Dio sul serio, ed è premessa per l’esperienza sapienziale di tipo biblico.

    Esiste anche un’esperienza sapienziale di tipo laico, che comporta una “ riverenza” per la verità

    E una scelta di tipo morale. L’intelligenza non ha da essere superba, perché quando si pone con superbia siamo alle prese con un’intelligenza stupida, proprio perché non riconosce i suoi limiti.

    L’umile non è colui che si fa piccolo, ma colui che riconosce d’ essere piccolo. L’umiltà non è un processo di “abbassamento”, ma il riconoscimento del proprio essere limitati. La superbia è la perdita del senso della misura, quindi l’intellettuale superbo è uno stupido.  

    ,         Il luogo in cui si realizza la conoscenza della verità oggettiva è l’intersoggettività! Per cui

    • La coscienza credente ricorre all’intelligenza per comunicare quanto ha imparato e non solo attraverso l’intelligenza
    • La coscienza non credente ricorre all’intelligenza per riuscire a dimostrare le proprie tesi

    Nella tradizione biblica l’importanza dell’intelligenza è attestata: confronta il libro di Giobbe, in particolare i capp. 6-16. L’uomo non difende Dio, ma difende se stesso e le sue posizioni.

    La sapienza di Dio è insondabile…ma Dio ascolta l’uomo nella sofferenza, non lo censura come fa l’apologeta.Forse gli uomini del nostro tempo non ci ascoltano perché trovano in noi solo dei difensori della fede e non dei consolatori  

    LA VIA DELLA TRADIZIONE

    Comprende tutto quanto è legato al contesto in cui siamo inseriti, alla cultura dominante, alla testimonianza degli altri. A questo si possono aggiungere le rappresentazioni sacre, gli oggetti religiosi, gli edifici religiosi, ecc…

    La nostra esperienza di fede è stata alimentata dal contesto delle persone con le quali abbiamo vissuto.

    Ci possiamo chiedere:

    • Quello che vivo, in che misura è mio e in che misura mi è stato dato dall’ambiente?
    • Riusciamo ad evidenziare che la nostra esperienza personale è “indotta”, alimentata, nutrita dalla realtà circostante, al punto che diventa difficile distinguere quello che è della nostra coscienza e quello che ci è mediato dall’esterno?
    • Come, dove e quando posso essere davvero me stesso? Da solo? No! Ma attraverso la comunione.

      

     

    Il saggio è colui che ha la bocca sul cuore; lo stolto è colui che ha il cuore sulla bocca. Non c’è una parola senza un cuore, non c’è un cuore senza una parola!

    Le ambiguità e l’ambivalenza sono presenti anche in quest’ultima via, come del resto, lo sono anche quelle precedenti.

    Per convincerci è sufficiente che ci chiediamo:

    • I miei contenuti mentali sono o non sono autentici?
    • Le mediazioni ambientali che ho ricevuto sono o no autentiche?
    • In che misura sono presenti gli uni o le altre e come faccio a stabilirlo?

     Queste quattro vie della conoscenze di Dio, comuni all’uomo universale, sono state segnate dall’ambiguità e dall’ambivalenza.

    Possiamo ora stendere una piccola tabella avendo a disposizione 100 punti che suddivideremo in base all’incidenza che le quattro vie hanno avuto IERI ed OGGI, NELLA NOSTRA ESPERIENZA DI FEDE:

    IERI (ANNO ORIENTATIVO)                                   OGGI

     . natura _____________                                               ___________

    . interiorità __________                                           ___________

    . intelligenza _________                                          ___________

    . tradizione __________                                             ___________

     

    Conclusioni 
    Dai confronti fatti usciamo tutti confermati sia nella conoscenza di queste quattro vie come pure nella solidarietà con qualsiasi credente sulla faccia della terra.Non c’è credente in questo mondo che non arrivi alla conoscenza di Dio attraverso la mediazione della natura, l’interiorità, l’esercizio della ragione e la mediazione dell’ambiente.Queste quattro vie, comunque, portano in sé l’ambiguità e l’ambivalenza. C’è quindi nella nostra vita il momento dello strappo; costa molto dolore e comporta pure il rischio di “ buttare il bambino con l’acqua sporca”.Ps. 27 : “Mio Padre e mia madre mi hanno abbandonato, ma il Signore mi ha raccolto”

    Applicazioni

    Sono stato generato dall’ambiente in cui sono nato, cresciuto e poi mi sono distaccato; io sono stato generato sotto tanti punti di vista, ma all’esperienza di generazione si accompagna sempre l’esperienza d’abbandono. Ciò è indispensabile per passare ad un atteggiamento adulto e dire: Signore, fammi assumere la responsabilità di portare il mio mattoncino.

    E’ l’esperienza del compromesso istituzionale. Fino a quando siamo soli coltiviamo la fede ma in modo molto idealista, quando entriamo in confronto ci accorgiamo dello scarto che esiste tra l’ideale e il reale.

    Ad es: Quando io annuncio la Buona Notizia, chi mi ascolta può dire “che bravo, eccezionale…”, quando vivo nella comunità cosa diranno i miei confratelli?

    Quando presentiamo la Buona Notizia ad un catecumeno rimane entusiasta; quando entra nella Chiesa (istituzione) coglie la profonda distanza tra Vangelo e vita.

    E’ difficile trovare un credente che faccia Chiesa con sé stesso! Il credente vuole condividere con gli altri la sua esperienza di fede. Il rapporto con Dio passa attraverso il rapporto con i defunti! La prima divinità che l’uomo conosce sono gli antenati; attraverso il rapporto affettivo con i trapassati si apre alla percezione divina. Ecco perché il culto dei morti è la matrice d’ogni esperienza religiosa. Qual è il primo invisibile di cui si fa esperienza? La persona cara defunta!

    Le quattro vie appena analizzate usano un linguaggio particolare:

    • La natura
    • L’interiorità
    • L’intelligenza
    • La tradizione
    La tradizione biblica ci presenta la via particolare dell’incontro con la PAROLA E IN PARTICOLARE CON LA PAROLA DEL PROFETA. Questa via s’inserisce nella quarta (quella della tradizione), ma si differenzia da essa. La differenza tra questa Parola e quella dell’ambiente è che questa Parola è l’unica capace di risolvere il dramma dell’ambivalenza e dell’ambiguità delle quattro vie. Il fenomeno della profezia è tipico della cultura biblica.
  • 22 Nov

    L’EMOROISSA

    Mc 5,25-36

    la paura di essere (diventare) se stessi

     

     di p. Attilio Franco Fabris

     

    In ciascuno di noi esiste una dinamica di crescita, evoluzione, cambiamento. Avvertiamo una tensione interiore che ci spinge ad essere di più, di affrontare la vita con coraggio e speranza, insomma a vivere essendo e diventando sempre più pienamente noi stessi.

    Ma questo aprirsi al futuro provoca insicurezza.

    Un’insicurezza che spesso ci blocca; infatti ci poniamo in “stato di sorveglianza” del nostro io in quanto non ci fidiamo di noi stessi. Sospettiamo di noi stessi.   Questa insicurezza nasce nel profondo. Da un dettato che quasi ci precede. Esso afferma categoricamente: “Io sono fatto male, sono sbagliato; non mi posso fidare di me!”.

    Ci sentiamo inadeguati, e perciò non riusciamo ad “accettare noi stessi” nella nostra autentica realtà. E’ la sensazione di non valere nulla.

    Esistono particolari ambiti del nostro essere che possono rivelare questa sensazione.

    Quali sono le realtà di noi stessi dinanzi alle quali ci sentiamo insicuri, inadeguati?

    John Powell ne indica alcune:

    –         il nostro corpo (mi piaccio fisicamente, o rifiuto parti di me? Vorrei essere diversamente?)

    –         le nostre capacità (es. l’intelligenza,…)

    –         la nostra storia (vi sono aspetti della mia storia che non riesco ad accettare? Che vorrei cancellare e che creano in me sofferenze insanabili?)

    –         i nostri errori (gli sbagli che ho fatto tanto tempo fa come li giudico? Gli ho integrati scoprendovi un insegnamento oppure mi fanno tuttora soffrire?)

    –         le emozioni (esistono emozioni “inaccettabili” che io devo rifiutare e negare? Le mie emozioni hanno libero accesso alla mia consapevolezza?)

    Vie di soluzione generalmente ricercate

    Dinanzi al rifiuto, alla paura e insicurezza nei miei stessi confronti esistono delle soluzioni:

    • rifugiarci e aderire solamente al nostro “io ideale” rifuggendo dall’”io reale” (“vorrei essere”, “devo diventare…”, “mi costringo ad apparire…”)
    • Il ricorso a modelli ideali esterni (i miti di qualsivoglia categoria, le star, ecc.…penso, agisco, parlo, mi vesto come loro, vivo della loro ombra)
    • Il ripiegamento su se stessi e sulla propria “incapacità” e inadegnatezza nei confronti della vita: mi chiudo in me stesso, non voglio più aver a che fare con gli altri, vorrei scomparire a me stesso…

    Queste vie di soluzione provocano alla fin fine ulteriore sofferenza e  divisione interiore.

    Una sofferenza che porta a trovare sollievo in forme di appagamento artificiale: fumo, alcol, droga, sesso, lavoro, divertimenti, ecc….

    La paura e l’insicurezza non ci lasciano la libertà né di essere, né di pensare né di agire. Soffriamo ma … il più delle volte preferiamo questa situazione all’accettazione del rischio di vivere. Questa accettazione vuol dire iniziare a cambiare, e il cambiamento provoca sempre paura.

    IL BRANO EVANGELICO

    v. 24. Una gran folla segue Gesù. Lo pressa d’ogni lato. E’ una massa anonima in mezzo alla quale la donna si nasconde.

    La seguire Gesù può contenere quest’aspetto di ambiguità, di un percorso di massa. Esso rischia di offrire la scusa di evitare un confronto diretto e personale dell’incontro con Cristo.

    v. 25. Una donna malata da anni, ridotta allo stremo, povera. Una donna che non ha nome, ma che è presentata col volto del suo male, della sua sofferenza. Una donna che si vergogna della sua malattia.  L’emoraggia è una secrezione gonorreica sanguigna e purulenta della donna.

    La donna è ammalata da “dodici anni” ovvero da sempre. Dodici è il numero della totalità. Essa perde la sua vita (=sangue) lontano dal Signore, è destinata alla morte.

    La sua malattia la isola e la separa da tutti gli altri, in quanto culturalmente e cultualmente impura. Come la lebbra essa la escludeva addirittura dalla società umana. (leggi Lv 15,19-30). La sua è una femminilità in gran parte negata: tutto ciò che ha a che fare con la sessualità, è visto come sporco, come colpa…. Probabilmente preclusa al matrimonio e alla maternità. Dunque una vita segnata drammaticamente dall’esperienza della morte.

    Per questo genere di persone ogni richiesta d’aiuto è avvertita come un’onta. Occorre nascondersi, dissimulare il più possibile. Solo alla fine si manifesta il proprio male perché costretti. Ma finché è possibile all’esterno si cerca di dare una buona impressione, di risparmiare agli altri e a se stessi il confronto con il proprio male: “Se gli altri sapessero cosa accadrebbe?”.

    La sofferenza di questa contraddizione è terribile: da un alto dover dire a ciascuno con la parola e con l’atteggiamento: “Non farti troppo vicino, non mi toccare, sono impura!”. Un continuo farsi da parte, in preda al proprio senso colpa e alla propria insicurezza. E dall’altro lato vi è in lei un bisogno incessante di stare con gli altri, di essere come gli altri.

    v. 26. Molti medici! Questa donna non si è mai accontentata. Non si è rassegnata.

    E’ l’ansia della vita, la paura di perderla, che costringe l’uomo a tentare tutte le vie, ad affannarsi per trovare una soluzione alla sua paura. Ma invano! Il rimedio peggiora il male, un po’ come chi sta annegando e si agita. E quando la medicina non può far nulla…!!!??

    Risultato della sua ansia e della sua paura è la progressiva dilapidazione delle sue sostanze. Un’ulteriore esperienza di fallimento.

    Questa donna ha dovuto dare e dare… i medici sempre più ricchi e lei … sempre più povera, sola.

    Un sacrificarsi interminabile sperando di guarire affidandosi agli altri.

    Per lei ormai nulla le è dovuto gratuitamente. Neppure lontanamente passa l’idea nella sua mente che vi sia finalmente qualcuno a cui affidare la sua vita senza riserve, senza cadere in una nuova voragine di angoscia, senza dover anticipatamente “pagare” la sua prestazione.

    E’ un cerchio diabolico che sembra non doversi più spezzare. La situazione appare irrimediabile.

    v. 27aAvendo udito”: la fede procede dall’ascolto.

    Da chi ha udito? Con quali risonanze?

    v. 27b-28. Venne alle spalle di Gesù…: è convinta che basti “toccare” le vesti di Gesù per essere guarita. Ella ricerca non solo una guarigione fisica, ma una salvezza-liberazione che le permetta di riaprirsi alla vita in una ripresa della comunione con gli altri, con Dio.

    Usa il passivo: Sarò salvata. Ovvero riconosce che tale salvezza ormai non le può provenire se non attraverso un dono dall’alto. Essa si azzarda a compiere un gesto sacrilego contrastante la legge (Lv 15,19-30). Essa trova il coraggio di andare contro la legge. Di compiere un atto sacrilego.

    (Riguardo al “toccare il mantello” cfr. 3,10; 5,56).

    Vuole “toccare” ma di spalle: ha paura!  Infrange sì la legge ma di nascosto. Spera di farla franca. Non vuole scoprirsi nella sua povertà. Non vuole esporsi: è immonda. Ha paura di dire se stessa.

    A questo punto facciamo un’osservazione: questa donna pur veramente disperata avverte che in lei la paura di essere se stessa è più forte della sua stessa disperazione. Logica vorrebbe che gridasse il suo bisogno guardando in volto Gesù, ma questo non accade! Perché? Vuole il miracolo, ma strappandolo di nascosto. Ma un miracolo ottenuto così è un miracolo a metà! Non è occasione per un incontro con Dio che riapre alla fiducia nei confronti della vita, di se stessi, degli altri e di Dio stesso. La paura allora fa da padrona anche sulla sua sofferenza.

    In mezzo alla folla la donna avrà faticato a trovare un varco per avvicinarsi a Gesù (rendendo tutti immondi!).

    v. 29. la guarigione è immediata. In questo mutuo toccare e lasciarsi toccare da parte di Gesù passa un flusso d’amore capace di guarire. Dove è presente la fede la potenza di Dio si libera, non per magia, ma perché Gesù testimonia come Dio renda disponibile la sua potenza regale per coloro che credono: la fede della donna ha dunque reso possibile il dispiegarsi in lei della potenza divina che l’ha guarita. Il racconto potrebbe finire qui. La guarigione è ottenuta: Gesù continua inconsapevole dell’accaduto il suo cammino, e la donna tenendo ben nascosto il suo segreto se ne torna a casa sua, (per condividere con chi la sua gioia? Vera gioia non è l’incontro con chi ti ha salvato?) . Ma proprio qui il racconto continua, anzi è ripreso quasi daccapo. La donna ha bisogno di qualcosa di più importante, che porti a compimento quello che in lei è già in parte è avvenuto e di cui è solo segno.

    v. 30. La potenza che esce da Cristo è la sua vita. Ci dona la sua vita perdendola.

    Gesù se ne accorge ovvero è attento e partecipa con la sua compassione alle sofferenze di chi gli si accosta. Il gesto di contatto della donna è estremamente personale, carico di attese e speranze: è intenzionale e dunque estremamente personalizzato. E’ tale contatto profondo che ha reso possibile il liberarsi, per tramite di Gesù, della potenza salvifica. Si può quasi dire che la fede e la speranza della donna fanno prendere coscienza a Gesù della sua qualità di Salvatore.

    E’ l’umanità di Cristo lo strumento salvifico di Dio (Caro cardo salutis).

    La duplice presa di coscienza, di Gesù e della donna, pur diverse, hanno in comune un gioco di attività-passività che va evidenziato. Soprattutto il momento della passività segnala una “potenza” che sfugge al dominio e si presenta come una terza realtà, che li coinvolge entrambi. E’ la presa di coscienza di questa presenza-azione divina e l’aperura verso di essa che crea l’ambito di un incontro profondo tra Gesù e la donna. Questa solidarietà, da cui sono esclusi discepoli e folla, può ora divenire parola e comunicazione profonda.

    v. 31. I discepoli non comprendono perciò la domanda di Gesù. Non sanno distinguerne la verità. Sono ancora fermi all’esterno del mistero di Cristo.

    Vi sono diversi modi di toccare:  quello della folla, che solo opprime, non produce nulla, non cambia nulla. E’ un “toccare” esteriore. C’è poi un toccare possessivo che è prendere, impossessarsi.

    Ma vi è invece un “toccare” diverso che è segno rimando alla comunione e all’amore: che riconosce l’altro nella sua diversità. I discepoli non comprendono ancora questo (v 31).

    v. 32. Lo sguardo di Gesù interpella: esprime elezione, salvezza, giudizio. L’incontro con lo sguardo mette sempre a disagio, ma apre a nuovi orizzonti.

    Il dialogo dunque si instaura non senza difficoltà. Questa fatica orienta a comprendere come sia proprio nel dialogo personale, e non primariamente nella guarigione, che si ha la trasformazione più profonda.

    La domanda di Gesù è un appello personale che attende una risposta che è un esporsi, un mettersi in gioco nella relazione.

    La sua domanda è ancora come un giudizio di misericordia: vuole mostrare che lui non ha paura di lasciarsi toccare dall’impurità della donna.

    Un uomo comune al posto di Gesù sarebbe stato ben attento a tenere nascosta l’identità della donna, dovrebbe esporre questa e lui stesso al giudizio della folla.

    Gesù invece ha il coraggio di svelare l’audacia della donna. Non si vergogna di lei, e vuole che lei non si vergogni più della sua malattia.

    Il momento più coraggioso della storia di questa donna non deve passare come un gesto nascosto, un furto dissimulato. Questo incontro è uno snodo fondamentale nella vita e nel futuro di questa donna.

    v. 33. Vi è contrasto tra la paura della donna che si sente “sacrilega” e la dolcezza di Gesù che la riconsegna alla vita. La donna si presenta vergognosa e colpevole: ha infranto i limiti imposti dal tabù.

    Ma da parte di Gesù essa riceve incoraggiamento ed approvazione.

    In lei vi è un misto di gioia esplosiva e di paura. E’ la prima volta che questa donna non si sente più ferita per il fatto di essere donna.

    Questo incontro col volto di Cristo la sta liberando da ogni paura e vergogna, ella può dire ormai tutta la verità.  Ed è questa la guarigione più profonda: finalmente la libertà di essere e di dire se stessa. In Gesù si sente ormai riconciliata con se stessa e con la vita.

    Perché? L’unica forza capace di rompere questo cerchio è la saggezza dell’amore, una relazione nella quale ci si sente accolti e amati per quello che si è, indipendentemente perfino dalle questioni di purezza o impurità. Una mano che si tende gratuitamente che non chiede nulla per sé.

    La forza risanante sperimentata dal contatto con Gesù la sopraffà di gioia, si sente ormai libera dal suo incubo che per dodici anni aveva in lei bloccato la gioia del vivere. Ora il miracolo è compiuto perché finalmente Gesù ha compiuto la guarigione più importante: la liberazione dalla paura di essere se stessa.

    Questa donna è finalmente riconsegnata a se stessa in quella fiducia dinanzi alla vita alla quale anelava senza riuscire a trovarla. Finalmente può essere se stessa. L’incontro con lo sguardo di Gesù ha operato il miracolo.

    v. 34. “Figlia”: espressione di confidenza e tenerezza. Vi è ormai una profonda comunione tra lei e Gesù. E’ come una bimba che viene nuovamente alla luce, donata nuovamente alla vita.

    La tua fede ti ha salvata”: tutto il percorso compiuto dalla donna è riconosciuto da Gesù come un itinerario di fede. La fede che salva viene così svelata non tanto come un sistema di credenze o di pratiche, ma come personale e immediato coinvolgimento. E’ solo la fede che può aprire all’efficacia dell’agire salvifico di Dio

    “Va’ in pace”: non è solo augurio di benessere (“Stammi bene!”), ma proclamazione che la salvezza ha toccato questa donna, la quale è giunta di nuovo ad un’esperienza di comunione con Dio e con gli altri.

    Egli riconduce l’uomo ad una relazione fiduciosa con Dio: è una fede che risana dalla paura di Dio.

    Lo stato di Schalom definisce lo stato di integrità e di salute dell’uomo, il suo benessere.

    La “cura” è il risanamento operato dalla fede. Gesù non l’ha trasmesso come medico, ma come colui che ha risvegliato la fede in Dio, una fede capace di sciogliere l’uomo dalla voragine della sua angoscia:

    “Ciò che hai fatto –sembra dire Gesù – non era una colpa; è un segno di grande fiducia, del fatto che tu, senza domandare il permesso, hai fatto e preteso ciò di cui hai bisogno per vivere. Infatti è proprio questo che Dio desidera, e questo egli intende con “fede”: superare l’angoscia e il timore, che può rovinare e distruggere la vita portandola fino alla malattia, ed avere la certezza che Dio vuole che noi viviamo, anche se il tenore della legge sembra contraddire questa volontà: Va’ dunque, la tua fede ti ha salvata!”.

  • 21 Nov

    INIZIAZIONE ALL’ASCOLTO

    LA COSCIENZA E LE SUE CONTRORISONANZE

     

    a cura di p. Attilio franco fabris su appunti di p. Virginio S. sj

     

     

     

    Un Dio che parla all’uomo

     L’esperienza di fede di tipo biblico si impernia sulla Parola. Una Parola incarnata che è mediata dagli uomini.

    Riconosciamo in quest’esperienza religiosa il primato che viene dato alla PAROLA.

    Ma parlare di primato della Parola comporta il parlare del primato dell’ASCOLTO.

    Sempre l’incontro con la Parola diviene esperienza di ascolto. Ma un ascolto che non è anzitutto interiore, spirituale (troppo si è dato adito a tale interpretazione!), ma un ascolto che è “acustico”, che interessa anzitutto l’organo fisico dell’udito.

    Ascolta, o Israele, e bada di metterli in pratica; perché tu sia felice e cresciate molto di numero nel paese dove scorre il latte e il miele, come il Signore, Dio dei tuoi padri, ti ha detto. Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo”. (Dt 6,3-4). Il testo riassume l’atteggiamento di Israele nei confronti di Dio nell’unica raccomandazione: “Ascolta… Schemà’ Isra’el”.

    Perché devo ascoltare la Parola?

    Perché l’uomo non vive di solo pane, ma di quanto esce dalla bocca di Dio. Perché per vivere l’uomo ha bisogno della Parola come del pane: “Egli dunque ti ha umiliato, ti ha fatto provare la fame, poi ti ha nutrito di manna, che tu non conoscevi e che i tuoi padri non avevano mai conosciuto, per farti capire che l’uomo non vive soltanto di pane, ma che l’uomo vive di quanto esce dalla bocca del Signore.” (Dt 8,3; cfr Pr 9,1-5; Sir 24,18-20; 51, 23-24; Am 8,11-12; Gv 6,68).

    La tradizione biblica afferma che l’attività essenziale del Dio di Israele è quella di parlare: Dio disse… (cfr. Gn 1,3…).

    Cosa significa che Dio “parla”?

    Un Dio che vuole parlare dovrebbe scandalizzarci, meravigliarci. Perché la potenza di Dio desidera manifestarsi attraverso la sua parola?

    Per intanto sottolineiamo che: se l’attività principale del Dio biblico è quella di “parlare” allora l’attività essenziale dell’uomo, sua creatura, è quella di “ascoltare”. Se no allora per chi e a chi Dio parlerebbe?

    Ma cosa significa ascoltare?

    Il dizionario italiano (Devoto) da questa definizione: trattenersi volontariamente e attentamente ad udire, prestare attenzione o partecipazione a qualcuno o a qualcosa in quanto informazione o motivo di riflessione o anche devozione.

    Trattenersi:  ovvero dare tempo fermandosi da tutto il resto.

    Volontariamente: implica una decisione, una scelta che si impone fra tante

    Attentamente: impiegando tutte le nostre energie

    Ad udire: L’ascoltare è anzitutto un fatto acustico

    Qualcuno o qualcosa: io posso pormi in ascolto di un’altra persona come anche di un fatto, di una realtà che mi sta dinanzi.

    Informazione, riflessione, devozione: qui si dice il motivo per cui ascolto. Quella determinata persona o realtà può offrirmi qualcosa di nuovo in vista della mia esistenza.

    Ma ora facciamo attenzione alla valenza del verbo ascoltare che in senso biblico va inteso in senso allargato: dialogare, collaborare, entrare in comunione di vita. E’ la valenza del verbo “Schamà”: sentire, prestare orecchio, accogliere, acconsentire, essere docile, lasciarsi persuadere, mettere in pratica, obbedire. La stessa parola obbedienza deriva dal latino ob-audire: dall’ascolto alla persuasione, dalla persuasione alla docilità, dalla docilità all’obbedienza.

    Dunque “ascoltare” è un’azione complessa che non comporta il semplice “udire”. E’ una realtà che viene a toccare il mio io profondo (= la coscienza) interrogandomi. 

    L’“ascolto”, come forse da noi sinora inteso, è un termine forse per noi troppo astratto. Ad esempio quando vogliamo metterci “in ascolto della Parola”, pensiamo ad una sorta di riformulazione interiore dei contenuti che chiamiamo meditazione, quandi ad una esperienza interiore. In tal modo tendiamo a spiritualizzare l’ascolto.

    Per l’uomo l’essere fatto “ad immagine e somiglianza” di Dio” (Gn 1,26 ss) comporta il riferimento alla parola: l’uomo è tale in quanto abilitato da Dio al parlare e all’ascoltare. E’ la Parola che abilita alla parola l’uomo stesso, rendendo capace di “inter-loquire/dialogare” con il Creatore. Questa capacità di interloquire con Dio colloca l’uomo nel mondo in una situazione del tutto privilegiata e singolare in rapporto a tutto il resto della creazione (cfr. Gn 1,26-28; 2,8.15.19-20).

    Quando la tradizione biblica ribadisce incessantemente il fatto che Dio “parla” cosa vuol significare? Si vuole affermare che Dio desidera essere comunione, comunicazione, interazione. Dio crea perché vuole costituirsi interlocutori, partners, amici realizzando con loro un’esistenza di comunicazione, collaborazione, condivisione, comunione. L’ascolto e la parola sono doni che ci vengono offerti per uscire dalla nostra solitudine e dalla nostra angoscia.

    Tutto questo suppone da parte dell’uomo la capacità di ascoltare la Parola che Dio sempre per sua iniziativa gli rivolge, di risponderle.

    A questo punto è utile poter constatare nella nostra esperienza quotidiana quanto viviamo l’esperienza dell’ascolto inteso come interazione, comunione, condivisione con i nostri simili:

    Da un breve sondaggio potremmo prendere subito atto che:

    –         dialogare e ascoltare è difficile, faticoso, preferiamo fare altro: “Ci sono cose più importanti”

    –         che è quanto mai carente nella nostra vita. Ci limitiamo per lo più a comunicare “informazioni”.

    –         Che questa mancanza ci getta in un clima di solitudine, paura, incertezza e talvolta angoscia.

    Questo ci fa comprendere che la prima vocazione dell’uomo che è quella di poter interagire attraverso il dialogo e l’ascolto con l’altro e con l’Altro è spesso disattesa, gettandoci di conseguenza in un mondo nel quale ci ritroviamo soli, incapaci di comunicare.

    1. 1.  natura e dinamiche della coscienza

    Il luogo dell’ascolto

     La parola che ascoltiamo non raggiunge solo le nostre orecchie.

    Sarebbe solo suono e nulla più.

    Essa invece raggiunge la nostra interiorità, ovvero viene a toccare la nostra coscienza.

    Qui la parola può suscitare una molteplicità di sentimenti, emozioni, ricordi.

    La parola non ci lascia indifferenti, sempre però che siamo disposti ad ascoltarla, ovvero ad “accoglierla”.

    Cos’è la coscienza?

    Anzitutto ci domandiamo: cos’è la coscienza?

    La parola deriva dal latino “cum-scire”-“sapere-con”.

    Un “sapere” con chi?

    Con se stessi evidentemente!

    In tal senso la parola coscienza è sinonimo di “autocoscienza” (è una tautologia).

    Tentiamo una definizione:

    la coscienza è la facoltà immediata di avvertire, comprendere, valutare i fatti che si verificano nella sfera dell’esperienza individuale. E’ la capacità di interagire con la realtà in maniera diversa.

    (la coscienza è stata identificata attraverso diversi termini nelle diverse culture: I latini chiamavano la coscienza “anima”, da cui animato (colui che interagisce con la realtà) e inanimato (colui che non può interagire). In greco essa veniva chiamata “psiché”: mente, ovvero la capacità dell’uomo di interagire con la realtà interpretandola, studiandola, modificandola… Gli ebrei la chiamavano “nefesch”: “soffio-respiro-gola-stomaco”. La coscienza come esperienza tangibile del nostro appartenere alla vita (=il grande soffio di Dio)).

    Infatti, tutta la realtà continuamente mi offre degli stimoli che provocano in me delle reazioni.

    Fatti, persone, parole…

    Ogni incontro suscita in me reazioni diverse: queste da dove nascono? Dalla mia coscienza.

    Ricordiamo che l’attività della coscienza non è prerogativa del solo uomo, essa appartiene in diversa misura a tutte le forme di vita esistenti (animali e vegetali): anch’esse si pongono in misura differenziata a diverso livello in interazione con la realtà che le circonda.

    La differenza è che nell’uomo questa capacità di interazione è al massimo, per cui egli riesce addirittura a governare la realtà stessa.

    coscienza e risonanze

     Nella coscienza dunque esistono delle reazioni alla realtà:

    le chiamiamo “risonanze”.

     

    Che rapporto esiste tra coscienza e risonanza?

    Che confini esistono tra le due esperienze?

    Dove finisce l’una e inizia l’altra?

    Dobbiamo affermare che possiamo conoscere la coscienza non in se stessa ma solo attraverso le sue risonanze.

    La coscienza non è un’attività già precostituita e formata nell’uomo. Essa si struttura mano a mano e nella misura in cui essa viene attivata ed educata.

    Sono proprio le reti fittissime delle risonanze a strutturare la nostra coscienza.

    Hanno perciò un ruolo determinante nella formazione della coscienza la rete di relazioni e l’ambiente con cui essa si trova ad interagire (soprattutto nei primi tre anni di vita).

    Io sono frutto delle mie risonanze, ovvero del mio vissuto.

    E’ per questo che è difficilissimo de-strutturare una coscienza.

    Il ragionamento non serve. Occorreranno esperienze di relazioni e un ambiente tali da poter ristrutturare la coscienza, ma è impresa faticosissima che provoca moltissime resistenze e sofferenze.

    Il nostro contesto culturale non facilita l’ascolto della coscienza.

    I nostri ritmi sono spesso frenetici, i tempi liberi sono imbottiti da TV e mass media, la pubblicità ci assedia. In famiglia il dialogo e l’ascolto vicendevole è spesso molto carente….

    Tutto questo lo potremmo definire quasi un “complotto” al fine di impedire all’uomo di ascoltarsi e di ascoltare. E’ bombardato da sollecitazioni, immagini, suoni, falsi bisogni….

    La pubblicità, ad esempio, sa bene che quando l’uomo ascoltasse la sua coscienza il suo potere svanirebbe all’istante perché l’uomo ritornerebbe ad essere padrone della sua vita e delle sue scelte.

    L’uomo di oggi, così apparentemente immerso nella realtà, si ritrova angosciosamente sempre più solo, perché lontano dal nucleo centrale della sua stessa esistenza.

    Vive all’esterno, lontano dal sé, e quindi solo e sperduto in questo mondo.

    Per ovviare a tale angoscia non rimane altro che incrementare ancor più l’imbottimento di sollecitazioni esterne che vengano a colmare il vuoto esistente. Droga, alcol, sesso, denaro, lavoro stressante, mass-media, gioco d’azzardo… sono gli strumenti più usati a raggiungere tale scopo.

    LIVELLI E STRUTTURAZIONE DELLA COSCIENZA

     Esistono più livelli della coscienza in cui le risonanze possono sorgere.

    Alcune risonanze sono facili da cogliere e da individuare, altre invece si collocano a livello più profondo e quindi sono più difficili da cogliere.

    Questo perché?

    Per il fatto che la nostra coscienza sussiste a più livelli: da un livello conscio ad uno in-conscio.

    L’uomo infatti può vivere in diversi modi e a diversi livelli il suo essere presente a se stesso, ovvero l’ascolto della sua coscienza: da un massimo di autoconsapevolezza ad una coscienza quasi assente.

    Teniamo tuttavia presente che la pienezza della consapevolezza di sé non è data alla natura dell’uomo. Infatti per tutti noi esistono tanti aspetti (bisogni, avvenimenti, traumi…) che non sono accessibili alla nostra coscienza. Tuttavia questi aspetti continuano a far parte del nostro essere e contribuiscono a creare atteggiamenti e comportamenti di cui non riusciamo a dare a livello conscio una risposta adeguata. Molto di noi, forse la maggior parte, rientra in ciò che non riusciamo a spiegare perché non conosciamo.

    Questo ci ricorda che l’obiettività e la libertà umana soffrono di una certa qual limitazione.

    Se il livello conscio è la punta dell’icemberg, quello subconscio e inconscio rappresenta il resto (il 90% !).

    Definizioni

     Ciò che fa la differenza tra conscio e inconscio, tra coscienza e non, è il grado di accessibilità o consapevolezza del comportamento alla propria introspezione, cioè l’ampiezza con la quale possiamo avvertire e riferire ciò che si muove nel nostro essere interiore.

    Possiamo suddividere la nostra coscienza a tre livelli differenti:

    1. la coscienza conscia:  esprime il normale campo di coscienza che la persona ha di sé. Comprende tutto ciò che è immediatamente presente o accessibile alla consapevolezza.
    2. Il subconscio: è costituito da tutti quei contenuti psichici non imnmediatamente presenti alla coscienza ma che possono essere richiamati alla consapevolezza mediante mezzi ordinari quali la riflessione, l’intrispezione, l’esame di coscienza, la meditazione…
    3. L’inconscio:  è l’insieme di tutti quei contenuti che giacciono nel più profondo di noi stessi, depositati e accumulatisi per anni e anni. Essi possono essere riportati alla luce della consapevolezza solo attraverso strumenti professionali quali ad esempio le tecniche psicoterapeutiche. L’inconscio è conosciuto indirettamente tramite i suoi effetti (es. atti sintomatici, perturbati, rimossi, sogni,…)

    La conoscenza delle nostre aree subconsce e inconsce (quando necessario) è di fondamentale importanza per la crescita della persona. Spesso soffriamo e facciamo soffrire perché non ci conosciamo a sufficienza, perché manchiamo di consapevolezza.

    Ovvero siamo poco capaci di ascolto della nostra coscienza.

    Ricordiamo che non  esiste una divisione netta, tra i due mondi c’è un rapporto di sfumatura. Tra conscio e inconscio esiste una certa qual comunicazione. Una comunicazione che si attua però secondo modalità diversificate.

    Nessuno può giungere a possedere in toto la sua coscienza.

    L’uomo è mistero a se stesso. E questo provoca inquietudine e insicurezza.

    Quando ci troviamo di fronte alla risonanze della nostra coscienza non dobbiamo demonizzarle: esse esistono e basta, e chiedono che noi ne prendiamo atto.

    Troppo spesso le nostre risonanze, quelle che emergono a livello di “subconscio e inconscio” non sono prese in considerazione, non vengono accolte né amate. Mentre esse rappresentano il nostro vissuto più profondo.  La conseguenza è che noi viviamo fuori casa, ovvero lontano da noi stessi, non ci conosciamo e abbiamo paura di farlo.

    RISONANZE DELLA COSCIENZA E INTERAZIONE CON LA CORPOREITÀ

     Generalmente noi opponiamo vita interiore (coscienza) a vita esteriore (corporeità).

    Invece esiste un rapporto strettissimo di interdipendenza tra le risonanze della coscienza e la nostra corporeità: pensiamo ad esempio all’esperienza del dolore, della gioia, del pianto…

    Le risonanze trasbordano nella corporeità, si “somatizzano”.

    Possiamo affermare che la corporeità “drammatizza” le nostre risonanze. Noi continuamente e il più delle volte inconsapevolmente “drammatizziamo” il nostro vissuto interiore. Quindi vi è una strettissima interazione tra corporeità e coscienza.

    La risonanza oggettivata nella corporeità cerca una comunicazione: Perché infatti allora “somatizzerei” la risonanza? Perché ho bisogno di comunicarla! Perché attraverso la manifestazione-comunicazione la risonanza ottiene il suo massimo livello di autoconsapevolezza.

    In questo senso io ho bisogno degli altri. Un bisogno disperato di confidare il mio vissuto a qualcuno.

    Cosa succede in ogni relazione?

    Una continua interazione delle coscienze che in tal modo si manifestano e si strutturano.

    Ora il dialogo tra due coscienze è possibile solo attraverso la comunicazione delle risonanze e attraverso la loro manifestazione attraverso la corporeità.

    Ecco l’itinerario:

    – Concepimento della risonanza

    – oggettivazione della risonanza

    – manifestazione della risonanza (e viceversa)

    Ma questa interazione è trasparente, naturale, spontanea?

    Oppure, come il più delle volte succede, è conflittuale? Ovvero a livello di concepimento della risonanza provo un determinato sentimento e a livello di corporeità lo nego, e viceversa.

    Dobbiamo riconoscere, prendendo in esame la nostra stessa quotidianità, che tra coscienza e corporeità l’interazione non è quasi mai fluida. Essa incontra resistenze, ostacoli.

    Queste resistenze, questi ostacoli noi le possiamo chiamare controrisonanze.

    Le controrisonanze ossia sono quelle barriere che più o meno coscientemente noi frapponiamo all’emergere delle risonanze della coscienza.

    Le potremmo così elencare:

    –         la paura di essere (diventare) se stessi

    –         la paura degli altri

    –         la gelosia di sé

    –         l’inerzia

    –         la frenesia

    –         il conflitto con la verità

    –         la rivalità

    LE CONTRORISONANZE

    1.     PAURA DI ESSERE (DIVENTARE) NOI STESSI

    In ciascuno di noi esiste una dinamica di crescita, evoluzione, cambiamento.

    Ma questo aprirsi al futuro provoca insicurezza.

    Un’insicurezza che spesso ci blocca; infatti ci poniamo in “stato di sorveglianza” del nostro io in quanto non ci fidiamo di noi stessi. Sospettiamo di noi stessi.

    Esiste nel profondo della coscienza un dettato: “Io sono fatto male, sono sbagliato; non mi posso fidare di me!”. Ci sentiamo inadeguati, e perciò non riusciamo ad “accettare noi stessi” nella nostra autentica realtà.

    Quali sono le realtà di noi stessi dinanzi alle quali ci sentiamo insicuri, inadeguati?

    John Powell ne indica alcune:

    –         il nostro corpo e le sue capacità

    –         la nostra storia e i nostri errori

    –         i nostri sentimenti ed emozioni

    –         la nostra personalità

    Dinanzi al rifiuto, alla paura e insicurezza nei miei stessi confronti esiste allora solo una soluzione: rifugiarci e aderire solamente al nostro “io ideale” rifuggendo dall’”io reale”. La coscienza rifugge dunque o nell’io ideale o a modelli ideali esterni, e questo per rifuggire dal confronto imbarazzante con il proprio io reale avvertito come pericoloso.

    Ma questo provoca ulteriore divisione interiore, sofferenza ed esperienze di frustrazione.

    La paura e l’insicurezza non mi lasciano la libertà né di essere, né di pensare né di agire, ma preferiamo questa situazione all’accettazione del rischio di vivere.

    Questa controrisonanza viene messa a tacere sin dall’inizio, nel cuore della coscienza, che si trova così subito divisa, impedendosi di ascoltarsi veramente se stessa. (cfr “L’emoroissa” Mc 5)

    B.     PAURA DEGLI ALTRI

    E’ la paura di non essere come gli altri si aspettano da noi. Ci sentiamo in dovere di rispondere alle aspettative degli altri.

    Questa situazione è data dalla paura di non essere accettati dagli altri, rifiutati. Abbiamo paura della solitudine.

    Ma tale controrisonanza ci trasforma in “maschere” che cambiano  a seconda delle persone e delle situazioni.

    Alla fin fine ci condanniamo alla vera solitudine che è quella dell’isolamento del nostro io che non sa più riconoscersi.

    Es. biblico: Gv 5 “Il paralitico guarito”

    C.     LA GELOSIA DI SE’

    E’ la ricerca di un angolo della mia vita di cui non devo rendere conto a nessuno. E’ data dalla paura di essere spossessati. Non voglio condividere i miei segreti, perché voglio essere io il padrone di me stesso.

    “Sono io che decido quanto, come, dove dare me stesso agli altri”.

    Io sono mio: e basta! Io mi comunico tanto quanto io decido. Faccio entrare l’altro nella mia vita tanto quanto voglio. Tale risonanza riguarda quelli che sono i rapporti seri e vitali della nostra esistenza.

    “Ho già condiviso tutto e basta!” dove il tutto sono io che lo decido.

    In questo contesto l’evoluzione della mia coscienza si ferma, non evolve. La conseguenza è che intere regioni della mia coscienza rimangono inesplorate perché non condivise. La coscienza si atrofizza.

    Non bisogna mai affermare il principio della gelosia di sé (la “privacy”)m ma occorre al contrario aprirsi progressivamente alla relazione nello scambio delle nostre risonanze.

    Questa controrisonanza è una perdita secca per la coscienza. Nego al mio io più profondo la crescita dell’interazione, mi ritrovo in un isolamento mortale. Quello che chiamo la mia ricchezza è la mia più grande povertà. Se impedisco all’altro di entrare, non mi permetto di entrare in relazione con il mio io più vero e più profondo e dunque mi impedisco di conoscermi sempre più. L’interazione che avviene nell’incontro e nel dialogo è negata.

    Cosa distingue la gelosia di sé dalla privacy? Sicuramente la sua impermeabilità e la sua intransigenza.

    Es. Biblico: Anania e Saffira: Atti 5,1-12

    D.    L’INDOLENZA, L’INERZIA DI MOTO E DI QUIETE

    La coscienza fatica a mettersi in moto al presentarsi della risonanza. L’inerzia di quiete impedisce il prendere atto della risonanza nella coscienza.

    La coscienza si perde di vista, disattende il momento presente, la risonanza emergente infatti disturba e indispone.

    Quante possibilità di sviluppo infatti vengono mortificate dall’indolenza della coscienza? Quante potenzialità sono frustrate?

    Questa controrisoananza è all’origine del conservatorismo perché il cambiamento scomoda.

    O al contrario non sto mai fermo, mi agito, sempre in movimento ma non ho il coraggio di fermarmi per ascoltare la mia coscienza: con la scusa delle urgenze dimentichiamo l’essenziale.

    Anche questa è una resistenza al cambiamento.

    Es. biblico: le dieci vergini, la parabola dei due figli.

    E.     IL CONFLITTO CON LA VERITA’

     La coscienza è affamata di informazioni.

    Ma alcune verità fanno male, disturbano.

    Perché? Perché provocano dei conflitti nella coscienza.

    E allora la coscienza si trova a far fronte a verità di questo tipo che emergono in lei; si difende diventando parziale: si schiera dalla parte che decido io perché fa più comodo.

    Anche la ricerca dell’assoluta infallibilità significa rifiuto della verità di me stesso la quale comporta la mia fallibilità. Le certezze assolute ricercate ad ogni costo sono il tentativo estremo di tamponare le nostre insicurezze.

     

    Es biblico: Acab e Michea: 1 Re 22

    F.      LA RIVALITA’

    La controrisonanza della rivalità si scontra con la risonanza della coscienza dell’altro, di fronte alla verità. E’ come se dovessi darla vinta all’altro.

    Il confronto con l’altro è faticoso, a volte doloroso e ci pone sulle difensive.

    La rivalità ricerca una vittoria fasulla.

    Esiste una rivalità aperta ed una occulta, mimetizzata.

    Essa si manifesta nella fatica di dire: “Ho sbagliato!”. Ci può essere un apparente consenso in cui scindo la coscienza dalla sua manifestazione.

    Es biblico: Gv 9 “il cieco nato”;

    CONCLUSIONE

    Al termine dell’itinerario circa le nostre controrisonanze possiamo dire che al fondo di tutto esse dicono la non accettazione di crescere, di seguire sino in fondo la nostra strada. Crescere vuol dire soffrire e io a questo non ci sto. Esse dicono ancora la nostra volontà di salvarci da soli (il vero peccato), di risolvere da noi stessi i problemi restando all’interno del nostro orizzonte umano senza riconoscere la nostra dipendenza da Dio. L’autosufficienza dice chiusura, incomunicabilità: non ho bisogno degli altri.

    Vero peccato è dunque il ritrovarsi incapaci di crescere, di essere noi stessi, confusionati dai nostri tentativi di salvarci da soli e di evitare le fatiche del cambiamento che è invece la stessa vita.

    Queste controrisonanze esplicitano l’esperienza di disgregazione della nostra coscienza.

    Mettono alla luce la frattura che esiste tra coscienza e corporeità, tra coscienza e coscienza.

    Esse sono barriere che ostacolano le nostre risonanze.

    Occorre aiutare la coscienza a riprendere contatto con la nostra corporeità, questa è fondamentale non un’appendice della coscienza.

    Questo fa comprendere il perché nella spiritualità biblica il corpo è tanto importante.

    Es. l’importanza della prostrazione, dell’imposizione delle mani, dell’alzare le mani…

    Il linguaggio corporeo può divenire strumento di discernimento delle mozioni spirituali.

    L’iniziativa di Dio dovrà fare i conti con tutte queste nostre resistenze.

    Se Dio parla non lo fa per arenarsi nei problemi della comunicazione, ma per risolverli. La Parola di Dio è viva ed efficace proprio per ridare all’uomo gli strumenti di una comunicazione nella verità.

    Il punto di partenza è l’uomo sordo e muto, che non sa né ascoltare e dunque parlare veramente. C’è bisogno che Dio, l’unico che sa veramente comunicare, intervenga su questa povera realtà dell’uomo per trasformarla.

    ***

    Es. biblico Mc 7,31-37

    (si drammatizza il gioco infantile sulla piazza del villaggio con la presenza del bambino sordomuto)

    Il sordomuto dalla nascita non può interagire.

    Con il sordomuto non si può giocare bene. A giocare con lui non ci si diverte. Gli altri (i forti, gli intelligenti) sono preferiti e scelti.

    In questo mondo si delineano due schieramenti: i forti e i deboli. I deboli si arrangino: peggio per loro.

    Il sordomuto è sempre più emarginato: egli non risponde alle aspettative degli altri. Perciò si sente scartato.

    Colui che è emarginato, scartato può reagire a questa situazione in diversi modi.

    1. con il servilismo: accetto un ruolo subalterno e insignificante pur di non essere allontanato dal gruppo
    2. con la ricerca di potere: cerco di acquistare la benevolenza del gruppo magari rimettendoci
    3. con la rappresaglia: cerco di farla pagare al gruppo, attraverso propositi di sabotaggio o di violenza.
    4. L’alleanza con un salvatore: il quale si mette dalla parte del debole (ma fino a quando? E con quali motivazioni?)

    Dunque la relazione con il sordomuto non è una relazione facile.

    Non riesce a giocare con gli altri, manca della capacità di comunicazione e quindi di interazione che è fondamentale per il collocarsi all’interno del gruppo.

    La mancanza di comunicazione rende dunque estremamente difficile la relazione del sordomuto con il resto del gruppo.

    Vi è un disagio vicendevole per cui:

    –         il sordomuto sempre più si apparta dal “gioco” di gruppo, relegandosi in una sempre più grande solitudine

    –         il gruppo estranea sempre più il sordomuto, in quanto diverso e quindi difficile da integrare con gli altri.

    Il sordomuto vive perciò una grande esperienza di solitudine e perciò di sofferenza. Le sue risonanze sono: “Io non sono importante per gli altri come io vorrei”, “Non mi sento amato come desidererei, anzi rifiutato”, “Non c’è posto per me nel mondo… nessuno mi vuole”.

    L’emarginazione produce sempre un movimento di autoemarginazione. L’autoemrginazione si strutturalizza e le dinamiche di sviluppo della persona ne vengono ad essere sempre più mortificate.

    E’ utile analizzare come il sordomuto-emarginato ed autoemarginato vivrà l’esperienza del bisogno di affetto nell’esperienza sessuale ( ci si vergogna di stare col sordomuto, mi squalifica: per cui lo allontano), si prendono le distanze da lui, non ci si associa con i perdenti, e come si collocherà nel mondo del lavoro…. E il sordomuto si vergognerà di essere quel che è, si sentirà in colpa, non accetterà la sua situazione, la vivrà come una “morte”.

    Confronto con la mia esperienza

    A questo punto sarà possibile una lettura della mia storia personale alla luce della vicenda del sordomuto.

    • riconosco una qualche corrispondenza fra il vissuto del sordomuto e il mio? Lo sento affine? Lo sento cugino o fratello?
    • Mi sento a mio agio nella piazza del villaggio? Ossia in mezzo agli altri?

    Lettura dell’esperienza

    Come mai io, pur non avendo l’handicap fisico del sordomuto, sento una consonanza con il suo vissuto?

    Quale sarà il mio handicap?

    Sono le mie controrisonanze.

    Esse vengono a distorcere la mia comunicazione e interazione con la realtà e con gli altri. Le controrisonanze generando difficoltà di comunicazione ed interazione  mettono in moto gli stessi dinamismi del sordomuto.

    Siamo perciò a livello della coscienza. Essa è sordomuta!

    Certo, con una buona analisi, vedremo come in noi le controrisonanze hanno una ricaduta sulla corporeità.

    L’incontro con Gesù

    Drammatizzazione dell’incontro con Gesù…

    Dove è il sordomuto?

    Chi lo porta a Gesù? Come?

    Quali risonanze?

    Come l’approccio con questo profeta straniero?

    Quali i passi da dover fare per acquistare la fiducia del sordomuto da parte di Gesù?.

    Gesù deve  portare lontano dalla piazza il sordomuto, lontano dai condizionamento nei quali è incappato, Ricreare con lui e per lui una situazione verginale di comunicazione.

    Gesù avrà intrapreso dei passaggi graduali di avvicinamento… deve necessariamente passare attraverso l’economia umana della relazione.

    Ovvero occorre una iniziazione.

    Gesù si propone al sordomuto, cerca una via per entrare in relazione con lui.

    Gesù tocca le orecchie.

    E’ il punto debole di quell’uomo, da cui parte tutto il suo disagio.

    Mette realmente il dito nella piaga di quell’uomo.

    Avrà resistito il sordomuto nel vedere Gesù toccare la sua piaga?

    Probabilmente per il sordomuto è faticoso accettare che Gesù entri nella sua vita, nella sua morte. In questo modo infatti egli la oggettiva, la sottolinea, Lasciar entrare l’altro nelle mie piaghe fa soffrire. Quanto quelle orecchie furono oggetto di scherno e di vergogna!

    E Gesù vuole mettere le dita proprie in quelle ferite della sua vita.

    Ma questa accoglienza della mia morte rende la mia morte vivibile.

    Dice il Signore: “Lasciamo condividere la tua morte e la tua morte si metterà  a servizio della tua vita”.

    La rivalità direbbe: “No! Le mani nelle mie orecchie non le metti!”.

    Quanto tempo sarà stato necessario affinché il sordomuto si lasci fare da Gesù? Tutto il tempo necessario, minuti, ore, giorni, anni…..

    Che esperienza straordinaria di accoglienza finalmente vive il sordomuto. In quel gesto Gesù si lancia totalmente e vi si coinvolge totalmente con la sua corporeità. Quella corporeità che diviene strumento di salvezza per il sordomuto.

    Gesù mette la sua saliva sulla lingua del sordomuto. E’ un trapianto di bocca espresso simbolicamente. Un gesto non violento, che chiede tempo, inventiva, collaborazione, fiducia.

    Gesù prega. Emette un respiro: è faticoso quello che sta avvenendo per lui e per l’uomo. Esso esprime attesa e speranza. È già preghiera.

    Il sordomuto osserva attentamente.

    Gesù pronuncia una parola autorevole, un comando: “Apriti! Effatà!”.

    Gesù va all’origine del male.

    E subito è il miracolo: ode, parla correttamente.

    “Che mi hai fatto?”.

    Risonanze del sordomuto guarito….

    Tutti abbiamo problemi di comunicazione. In essi ci dibattiamo oscillando tra il rifiuto degli altri, il rancore, il risentimento, il bisogno…

    Solo Gesù di Nazaret fa uscire dal carcere della solitudine il sordomuto facendolo entrare nuovamente in comunione con sé, con gli altri, con Dio.

    Riconosciamo un circolo vizioso tra incapacità di comunicare ed indurimento della coscienza: l’uno crea l’altro e viceversa.

    Solo una Parola, la parola di qualcuno che sa parlare davvero, sa penetrare nella coscienza attraverso il corpo, è capace di sbloccare l’ascolto e la comunicazione in quest’uomo e quindi di strapparlo dalla sua solitudine e dal suo conflitto con la realtà.

    Attualizzazione

    Vi sono tre livelli di attualizzazione:

    –         catechetico-didattico

    –         parenetico

    –         kerigmatico

    Dice il catecheta:

    L’uomo vive una condizione di sordomutismo, ma Dio sa ascoltare e sa parlare.

    Il Dio biblico è specialista nella comunicazione con l’uomo. Dio è energia di comunicazione e perciò di vita. Per questo egli può aprire le orecchie e sciogliere la lingua, per entrare in comunicazione con noi.

    Le nostre sordità e i nostri mutismi non hanno l’ultima parola. Non bisogna dare spazio alle risonanze che parlano della sordità e del mutismo di Dio.

    Ma è proprio vero? Chi mi assicura che questa accadrà?

    Risponde il pareneta:

    Non ti scoraggiare. Non aver paura. Vedrai…. Il signore viene a salvarti. Egli metterà la sua capacità di comunicare al tuo servizio. Non dire “Non ci posso far niente. Sarò sempre fuori posto nel mondo”.  Ravviva la speranza.

    L’esortazione non può dire di più.

    Occorre l’intervento dell’evangelista-profeta.

    Io ho una buona notizia da darti.

    Il Signore vuole operare nella tua vita. Quando? Ora!

    Quello che il Signore ha fatto al sordomuto lo vuole fare anche a te. Adesso.

    Le tue controrisonanze, che sono la tua sordità, sono talmente forti che non puoi liberartene da solo.

    Non accanirti contro di esse, non ti colpevolizzare. Io lotterò per te.

    Se ti senti come il sordomuto, qui ed ora, vieni in mezzo. E il Signore che ha operato sul sordomuto opererà anche in te.

    Io dirò alle tue orecchie e alle tue labbra nel suo nome “Effatà”.

    Non ti propongo una teoria, ma un’esperienza.

    Metti la parola di Gesù alla prova.

    Infatti l’ascolto è un dono suo non una tua conquista.

    Quella che ti faccio è una proposta semplicissima contro la quale si scagliano le tue controrisonanze.

    Ma sarà solo l’esperienza a dirti se questa parola è vera o no.

    E’ solo la verifica che può accreditare la catechesi e la parenesi. Queste senza profezia rimangono senza fondamento.

    Quali gli effetti dell’Effatà?

    Comincio a distinguere le controrisonanze con più lucidità e velocità. Divengo perciò più trasparente a me stesso.

    In un certo qual senso un maggior ascolto aggrava la mia consapevolezza della mia sordità e del mio mutismo. Ma è via obbligata per una progressiva liberazione.

    Trovo più libertà nel contraddire le mie controrisonanze. Trovo il coraggio di dissubbidire ad esse.

    L’effatà è un vero è proprio esorcismo, il primo esorcismo nel cammino dell’iniziazione.

    Infatti la mia situazione di sordo e di muto risponde ad una situazione oggettiva di peccato, di schiavitù. Le controrisonanze sono più forti di me, non provengono infatti da me ma da colui che è il divisore, il separatore, l’accusatore.

    Chi può compiere l’effatà?

    Lo può fare chiunque crede nell’efficacia del nome di Gesù. Certo occorre uno che dia l’avvio: è il profeta-evangelista.

    Perché è così efficace, spesso più di un sacramento:

    perché finalmente porto davanti al signore la mia morte. E questo dà una valenza forte perché vi gioco totalemente e liberamente la mia disponibilità. Questo porre la mia morte ai piedi della croce ha una forte carica battesimale.

    La comunità in mezzo alla quale si pronuncia l’effatà è la nuova piscina battesimale.

    Il movimento pendolare

    Sarà tipico nella persona emarginata un movimento pendolare. Ovvero tentativi di proposte di tecniche di inserimento che possono avere più o meno successo.

    Se va bene è un’esperienza gratificante ( “pur di essere dei vostri sono disposto a qualsiasi cosa”)

    Se non va bene è esperienza di progressivo isolamento (“Io vi voglio bene, ma voi non mi volete bene, allora anch’io non vi voglio bene”)

    Quanto durerà l’allontanamento? Finché il bisogno non rimetterà in moto il tentativo di riavvicinamento (“Io ho bisogno di voi!”).

     

     

     

     

  • 20 Nov

    La problematica dell’ascolto nella s. Scrittura

     a cura di p. Attilio Franco Fabris su appunti di p.Virgino S. sj

    L’esperienza di fede di tipo biblico si impernia sulla Parola. Una Parola incarnata che è mediata dagli uomini.

    Riconosciamo in quest’esperienza religiosa il primato che viene dato alla PAROLA.

    Ma parlare di primato della Parola comporta il parlare del primato dell’ASCOLTO.

    Sempre l’incontro con la Parola diviene esperienza di ascolto. Ma un ascolto che non è anzitutto interiore, spirituale (troppo si è dato adito a tale interpretazione!), ma un ascolto che è “acustico”, che interessa anzitutto l’organo fisico dell’udito.

    Ascolta, o Israele, e bada di metterli in pratica; perché tu sia felice e cresciate molto di numero nel paese dove scorre il latte e il miele, come il Signore, Dio dei tuoi padri, ti ha detto. Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo”. (Dt 6,3-4). Il testo riassume l’atteggiamento di Israele nei confronti di Dio nell’unica raccomandazione: “Ascolta… Schemà’ Isra’el”.

    Perché devo ascoltare la Parola?

    Perché l’uomo non vive di solo pane, ma di quanto esce dalla bocca di Dio. Perché per vivere l’uomo ha bisogno della Parola come del pane: “Egli dunque ti ha umiliato, ti ha fatto provare la fame, poi ti ha nutrito di manna, che tu non conoscevi e che i tuoi padri non avevano mai conosciuto, per farti capire che l’uomo non vive soltanto di pane, ma che l’uomo vive di quanto esce dalla bocca del Signore.” (Dt 8,3; cfr Pr 9,1-5; Sir 24,18-20; 51, 23-24; Am 8,11-12; Gv 6,68).

    La tradizione biblica afferma che l’attività essenziale del Dio di Israele è quella di parlare: Dio disse… (cfr. Gn 1,3…).

    Cosa significa che Dio “parla”?

    Un Dio che vuole parlare dovrebbe scandalizzarci, meravigliarci. Perché la potenza di Dio desidera manifestarsi attraverso la sua parola?

    Per intanto sottolineiamo che: se l’attività principale del Dio biblico è quella di “parlare” allora l’attività essenziale dell’uomo, sua creatura, è quella di “ascoltare”. Se no allora per chi e a chi Dio parlerebbe?

    Facciamo attenzione alla valenza del verbo ascoltare che in senso biblico va inteso in senso allargato: dialogare, collaborare, entrare in comunione di vita. E’ la valenza del verbo “Schemà”: sentire, prestare orecchio, accogliere, acconsentire, essere docile, lasciarsi persuadere, mettere in pratica, obbedire. La stessa parola obbedienza deriva dal latino ob-audire: dall’ascolto alla persuasione, dalla persuasione alla docilità, dalla docilità all’obbedienza.

    Per l’uomo l’essere fatto “ad immagine e somiglianza” di Dio (Gn 1,26 ss) comporta il riferimento alla parola: l’uomo è tale in quanto abilitato da Dio al parlare e all’ascoltare. E’ la Parola che abilita alla parola l’uomo stesso, rendendo capace di “inter-loquire/dialogare” con il Creatore. Questa capacità di interloquire con Dio colloca l’uomo nel mondo in una situazione del tutto privilegiata e singolare in rapporto a tutto il resto della creazione (cfr. Gn 1,26-28; 2,8.15.19-20).

    Quando la tradizione biblica ribadisce incessantemente il fatto che Dio “parla” cosa vuol significare? Si vuole affermare che Dio desidera essere comunione, comunicazione, interazione. Dio crea perché vuole costituirsi interlocutori, partners, amici realizzando con loro un’esistenza di comunicazione, collaborazione, condivisione, comunione.

    Tutto questo suppone da parte dell’uomo la capacità di ascoltare la Parola che Dio sempre per sua iniziativa gli rivolge, di risponderle.

    Davar: parola/fatto

    Alla ricchezza semantica del verbo “shamà” corrisponde l’altrettanta ricchezza del termine “davar”: parola” e “dibber”: dire.

    Davar però non significa solo “parola” bensì anche “fatto, accadimento, evento”.

    Se “davar” oltre che parola significa “fatto”, essa può essere oltre “fatto” anche “parola”. 

    Noi occidentali facciamo fatica a cogliere il nesso tra queste due valenza.

    Noi tenderemmo istintivamente a privilegiare l’accezione di “davar” come “parola”: nella cultura biblica questo è impossibile: tra i due significati ci è un’inscindibile interazione (cfr. Dei Verbum, 2ss).

    Per capire meglio bisogna partire dal fatto che le culture antiche riconoscevano il valore dell’uomo a partire dal valore della sua parola. L’uomo – per esse- è la sua parola, si misura sulla sua parola.

    Per analogia: l’unica parola che ha veramente il massimo valore è quella di Dio, in quanto infallibile e vera: fa quel che dice e dice quel che fa.

    In Israele l’uomo vero non è il chiacchierone e neppure uno che tace. E’ piuttosto uno che ascolta e pensa molto, e che quando parla pesa, pondera le sue parole. Quando parla sa quel che dice, manifesta senza paura la verità del suo cuore, e si assume la responsabilità delle sue parole. Ciò che dice è e ciò che dice fa. (cfr. Sir 21,25-26; 27,5-6… Mt 5,37).

    Questo substrato antropologico ha fatto sì che Israele si sia trovato un giorno a fare i conti con la serietà della “Parola” di Dio mediata dall’incontro con i mediatori di cui Dio stesso si è servito. Una parola che si presenta sovrana della storia, in grado immancabilmente di fare quel che dice. Questo incontro ha fatto sì che si applicasse a Dio l’antropomorfismo del suo “parlare” all’uomo. Dio di per sé non “parla”, ma gli uomini sì.

    Dunque la riflessione teologica di Israele sull’operatività della Parola suppone l’esperienza dell’incontro con questa stessa parola nella storia mediata dai servi della Parola.

    Ma l’incontro con la Parola per l’uomo diviene scontro in quanto è inevitabile che la Parola debba fare i conti con la diffidenza e la sfiducia da parte dell’ascoltatore.

    Teniamo presente che il punto di arrivo dell’ascolto non si risolve infatti in qualche azione isolata e puntuale, ma piuttosto richiede un atteggiamento permanente, un modo diverso di stare al mondo, che può essere riassunto con l’espressione: “Cammina davanti a Dio, con lui, sulla sua Parola” (cfr. Gn 17,1; Mi 6,8).

    Il servizio della Parola

    Parlare di primato della Parola significa “dire la Parola” e dunque del “servizio della Parola”. Infatti non c’è Parola se non c’è parola (cfr. Rm 10,14).

    Il Dio della rivelazione biblica parla agli uomini servendosi della mediazione di altri uomini.

    A questo punto possiamo già ricavare due coordinate fondamentali dell’esperienza religiosa di tipo biblico e che scaturiscono proprio dal primato della parola:

    1. la centralità del servizio della Parola
    2. la centralità dell’ascolto.

    Quando si parla di “servizio della Parola” occorre parlare di una molteplicità di servizi.

    Infatti questo servizio abbraccia una grande varietà di forme che vanno dalla più semplice ed elementare divinazione (es. il consulto degli “urim”) a quella più raffinata che è la “profezia”.

    L’A.T. presenta almeno sei tipi diversi di servizi e relativi mediatori:

    –         l’angelo del Signore o di Dio

    –         il sacerdote

    –         il veggente (ro’eh)

    –         il visionario (horeh)

    –         l’uomo di Dio

    –         il profeta (navì)

    Quest’ultimo è il termine più usato (più di trecento volte) ma è alquanto generico. Navì è “colui che parla davanti” ovvero che ha il coraggio di dire in faccia le cose come stanno (cfr. 1Re 22; 2Re 5); ed è “colui che parla in vece e in nome di un altro”. Tali valenze comportano un raggio alquanto allargato di tale servizio alla Parola.

    La pedagogia della Parola

    L’intento fondamentale della Parola, a cui spetta sempre l’iniziativa, è quello di porsi al servizio dell’uomo proponendogli un rapporto di comunione e collaborazione (è il tema fondamentale dell’Alleanza).

    Ma nel perseguire questo intento la Parola incontra grandi ostacoli: anzitutto la paura e la diffidenza dell’uomo nei riguardi di Dio; vi si aggiungono inoltre l’incredulità, lo scetticismo, il sospetto. Il tutto in qualche modo “avvalato” “giustamente” dalla kenosi con cui la Parola generalmente si manifesta.

    Cosa ne segue?

    Che la Parola non può fare breccia nel cuore dell’uomo se non conquistando anzitutto la sua fiducia.

    Come raggiunge questo obiettivo?

    Mettendo anzitutto in conto queste resistenze e sviluppando al fine di superarle una sua pedagogia che prevede un suo accostarsi all’uomo non in modo casuale, irruente, improvviso, violento ma al contrario in modo graduale, progressivo, ovvero proporzionato alla capacità e alla disponibilità all’ascolto dell’uomo stesso.

    Potremmo enucleare in sei tappe tale pedagogia adottata dalla Parola

    1. l’iniziativa della Parola. E’ lei che cerca l’uomo rassicurandolo: “Non temere!”
    2. Offerta della solidarietà di Dio al fine di realizzare la vita dell’uomo.
    3. Dialogo con l’incredulità dell’uomo, persuasione circa l’affidabilità della proposta.
    4. Indicazione di una via e dei mezzi al fine di verificare tale affidabilità.
    5. Se l’uomo accetta: offerta della propria guida e accompagnamento: “Io sarò con te”
    6. Compiuta la verifica nuovo invito alla collaborazione in funzione della sua vita per una realizzazione ancora più ampia.

    Tale pedagogia la possiamo chiamare: pedagogia della promessa.

    Infatti quando la Parola si presenta all’uomo gli si fa incontro come una promessa per la sua vita.

    Si tratta di una promessa unilaterale, gratuita, incondizionata, attraverso la quale Dio offre all’uomo di porsi al servizio della sua vita. Dio in cambio non chiede nulla, non pretende di insegnare nulla (non fa la predica!), né lo esorta ad alcunché. Domanda solo fiducia.

    Non è questa già una buona notizia?

    L’ebraico non conosce il termine “promessa”. In tutti i testi questa valenza è sempre resa con la parola “davar”.

    Infatti, come abbiamo visto, la pregnanza di davar “parola-fatto riportata a Dio indica una davar che immancabilmente produce, effettua quel che dice, ovvero costituisce già attuale il futuro che annuncia. Tale pregnanza esime dalla ricerca di un vocabolo specifico per “promessa”.

    Affermare che la parola si presenta all’uomo come promessa comporta un’importante conseguenza:

    l’uomo non può dare fiducia alla parola fintanto che non ne sperimenta, almeno in parte, l’affidabilità ovvero l’adempimento.

    La Scrittura testimonia che il più delle volte l’uomo non giunge a dare fiducia alla parola, al profeta, a Dio se non dopo averlo messo alla prova secondo le indicazioni della Parola stessa, verificandone così l’autenticità e l’attendibilità.

    Ovvero l’uomo biblico non giunge alla fede, se non sperimenta il già ( è la promessa innesco/caparra). Il che non esclude, anzi è in vista, del non ancora, ovvero un successivo rilancio per un’ulteriore promessa ancor più vasta (la promessa maggiore).

    La pedagogia della parola nell’AT mira a condurre l’uomo ad una fiducia assoluta nella promessa, tale da far un giorno a meno della rassicurazione dell’adempimento parziale storico (cfr. il sacrificio di Isacco Gn 22).

    La fiducia pura nella promessa è il modello della speranza biblica. Paolo la chiamerà: “speranza contro ogni speranza” (Rm 4,18).

    Il Kerigma

    Che nome daremo a tale servizio della Parola? Un servizio che asseconda la pedagogia della Parola stessa al servizio dell’uomo?

    Tale servizio nella tradizione biblica si chiama: Kerygma.

    Tale servizio si presenta perciò come il fondamento per ogni ulteriore servizio della Parola: ovvero come fondamento della catechesi e della parenesi.

    Concludendo

    Al termine di queste nostre riflessioni possiamo così giungere a specificare alcune coordinate essenziale su cui si struttura l’esperienza biblica e il servizio della Parola che ad essa fa riferimento:

    1. 1.      la centralità del servizio della Parola
    2. 2.      la centralità dell’ascolto
    3. 3.      la centralità della promessa
    4. 4.      la centralità dell’adempimento (anche parziale)
    5. 5.      la centralità del kerygma come servizio della Parola/promessa
    6. 6.      la dipendenza delle altre forme di servizio alla parola del Kerygma.
  • 13 Nov

    L’uomo: un pellegrino
    sempre in attesa

    di p. Attilio Franco Fabris

     

    Il poeta G. Gibran, nel suo libro più famoso intitolato, Il Profeta scrive: Noi gli erranti sempre alla ricerca della strada più solitaria, mai iniziamo un giorno là dove ne abbiamo terminato un altro, ed ogni levare di sole non ci trova là dove abbiamo ammirato la luce del vespro. Anche quando la terra dorme viaggiamo”.

    L’uomo è presentato come un pellegrino , un pellegrino del tempo. Un tempo inarrestabile, che scorre senza che possa essere afferrato mai, l’uomo non ne è il padrone.

    Ma è proprio questa “drammaticità” del tempo che scorre che colloca l’uomo sempre in posizione nuova nei confronti del suo passato e del suo futuro. E’ il tempo che permette un cammino, un progresso, una crescita, una progettualità, un’attesa.

    Il cammino, il pellegrinaggio,è stato assunto nelle diverse culture come una simbolica di primaria importanza per esprimere lo scorrere del tempo e della vita: per affermare che la vita è un cammino verso un incontro.  Bene perciò il filosofo G. Marcel definisce l’uomo come viator, viaggiatore.

    L’uomo dunque simbolizza se stesso, come un essere in cammino. Ma verso dove? Quale significato dare all’ineffarrabile scorrere del tempo e della vita? Si tratta di darvi un significato.

    Certamente si vuol camminare verso la pienezza della vita e della gioia. Dalla vita attendiamo proprio questo. Tutto l’uomo è teso a questa meta ma è dato costante che la nostra attesa rimane sempre insoddisfatta. Non fosse altro perché sappiamo che all’ultimo orizzonte si delineano le sponde del fiume Lete con la barca di Caronte pronta a farci transitare, per l’ultimo viaggio!

    Ma dentro di sé la nostalgia del desiderio di vita e di gioia permane, non si può soffocare: “esule o pellegrino, in fuga o in marcia, l’uomo è spinto da una nostalgia struggente. Un disagio lo rende inquieto; un dolore lo porta a tornare alla sua vera casa. In nessun luogo trova la patria stabile del suo desiderio. Per questo è essenzialmente un camminatore” (S. Fausti).

    Il cammino della vita e della storia, con le attese che comporta, suggerisce il progredire, il crescere. Dunque il cammino presuppone la durata nel tempo, la pazienza, l’accettazione dell’inevitabile fatica e del rischio, il ravvivare in noi la consapevolezza del cammino stesso e della meta da raggiungere, onde evitare il rischio di percorrere la strada in modo distratto, superficiale e in fin dei conti insensato e inconsapevole.

    Senza durata, senza attesa, non vi è vita né storia, non vi è crescita. E l’uomo non si trova già bell’e fatto all’inizio, quando esce dal grembo della madre: occorre una vita per costruire l’uomo e … non basta! L’esistenza dell’uomo (e come individuo e come società)  ha bisogno perciò della storia. Solo l’uomo è capace di storia (Heidegger parlerà di geschicthe: storia vivente).

    Ma questo dato di fatto forse ovvio per noi non bisogna darlo poi per scontato: esso è il frutto, possiamo affermarlo a pieno diritto, di una rivelazione.

    Se guardiamo alle civiltà arcaiche (all’antica Grecia per esempio o anche alle filosofie orientali) restiamo colpiti dal fatto che il tempo è svuotato in un certo senso di rilevanza. In esse è viva l’angoscia della vita che sfugge sia a livello di individuo come di cosmo… occorre sfuggirvi ad ogni costo. Lo strumento è la visione mitica di un tempo ciclico,  ovvero di un eterno ritorno e incessabile ripetersi delle cose: e questo rende possibile il recupero di tutto ciò che sembra vada irrimediabilmente perduto. Il viaggio di Ulisse, dove l’attesa si risolve in un ritorno e non in un avanzare, ne è l’emblema più significativo. Ovvio che per far questo sia indispensabile sganciarsi dal valore della continuità degli eventi quotidiani; essi assumono significato solo alla luce di un proiettarsi al di là di essi, in un tempo mitico che solo è reale.

    Sulla stessa linea, ma con motivazioni diverse, le filosofie dei secoli passati, tralasciando l’insegnamento biblico, posero l’accento e l’attenzione sugli aspetti immutabili dell’uomo: ovvero sulla sua essenza, sulla sua natura, sulla sua anima. La sua storicità passava in second’ordine. Non interessava più di tanto perché ciò che è più vero e più importante è ciò che è al di là del tempo, ciò che è eterno.

    Per la storia rimaneva uno sguardo di commiserazione e rassegnazione: una povera valle di lacrime dalla quale occorre sfuggire al più presto. E dove l’attesa si risolveva solo in un al di là posto dopo la morte.

    La filosofia esistenzialista porterà al centro proprio l’uomo, in questo figlia del rinascimento e dell’illuminismo, nel suo collocarsi nel mondo e nella storia. L’esistenza appare come un “cammino”, un “compito da assolvere”. Si è compreso, reagendo alla visione precedente che guardava all’essenza e all’eterno, che l’esistenza umana è esistenza temporale, che non si realizza in un solo momento, ma in una continua successione di tempi, strettamente vincolati tra loro. Ed è così che si approda ad una visione di uomo “adulto”, trasformato dalla storia che vive ma altresì capace di trasformare la storia stessa.

    In questa linea nuove correnti filosofiche accentueranno che ormai l’unico protagonista della storia è l’uomo e solo lui. (Si pensi al marxismo, alle correnti storicistiche, ad autori esistenzialisti come J.P. Sartre). Per essi: “L’uomo sarà in seguito, e sarà quale si sarà fatto… l’uomo non è altro che ciò che si fa”). Ma queste filosofie fanno sì che le attese si restringano all’esistere limitato in questo mondo con tutta la loro carica di contraddittorietà e delusione. La nostra attesa ha invece come misura l’infinito.

    Uno sguardo alla nostra cultura rivela un ulteriore accostamento alla storia.

    L’uomo di oggi ha scelto di rinunciare alla storia – e quindi all’attesa – per ripiegarsi sull’istante. Il momento attuale va vissuto con la massima intensità (di piacere) possibile. La nostra cultura vede una ricerca affannosa, angosciata di una moltiplicazione di istanti, che vorrebbero tentare di riempire il vuoto lasciato da una mancanza “di attesa”verso il futuro e “di memoria” per il proprio passato. Disancorato dal passato e dal futuro l’uomo di oggi si ritrova sospeso sull’istante, ma sospeso sul vuoto. E nessuno è più perso di colui che non sa dove andare o di chi e che cosa attendere.

    Ma la rivelazione biblica si parla di un Dio personale e creatore, che intesse un dialogo con l’uomo. Un Dio che ha dato un inizio alla storia e al quale questa appartiene. Con la rivelazione nasce il concetto di storia come luogo teologico, in cui si intesse un rapporto, una storia di alleanza che apre la storia continuamente al futuro di Dio e dunque all’attesa del suo compimento, impedendo al credente di ricadere sia in una visione ciclica della storia stessa, come nel suo svuotamento di significato.

    Ciascuno di noi si colloca in un punto preciso del tempo, con una tensione aperta a diverse possibilità. Ci vediamo situati in una tensione tra un passato già realizzato e un futuro sempre aperto e da costruire insieme al Signore altrimenti “si lavora invano”.

    Per ciascuno il presente è l’aspetto predominante, l’unico realmente posseduto. Un presente però che si estende sia nelle radici del passato come nell’attesa di un futuro che sappiamo essere nelle mani di Dio. Il passato è passato in quanto rimane nel presente come “memoria”, fondamento del mio attuale esistere. Il futuro appare futuro perché già ora, nel presente è anticipato come appello, compito, progetto di crescita. L’uomo è soggetto di speranza.

    Si tratta dunque di un presente teso dinamicamente tra passato e futuro. Se ciò non fosse sarebbe ridotto ad un semplice istante sospeso nel vuoto, nel nulla.

    Non possiamo assumere atteggiamenti errati.

    Essi potrebbero essere sintetizzati così:

    –       il fatalismo e la rassegnazione: è una forte tentazione in questa fase storica di passaggio in cui ci  sembra  di brancolare del buio.

    –       L’alibi: il cercare giustificazioni per non assumersi la resposabilità del proprio e altrui cammino

    –       Il ripiegamento sull’istante privo di “memoria” e di “speranza”, e di progettualità.

    Possiamo assumere atteggiamenti corretti:

    –       La consapevolezza che la storia è in mano a Dio che ci annuncia in Cristo la promessa della vita divina in comunione con lui. Ci ha rivelato perciò il nostro destino ultimo.

    –       La nostra storia non è dunque un girare in tondo ma un pellegrinaggio verso la meta, il ritorno alla casa del Padre. Essa ha una direzione e non possiamo fallire!

    –       Sapremo guardare alla nostra storia e alla storia con gli occhi di Dio, ma occorre un cuore puro, per scorgere che in ogni istante, sia buono o cattivo, Egli ci è vicino e ci apre dinanzi una strada da percorrere, saremo aperti dunque alle sorprese di Dio.

    –       Non vivremo dunque da rassegnati ma responsabili nel camminare ogni giorno nell’umiltà di un sì ai passi che Dio ci chiede di compiere.

    –       Infine consapevolezza che non camminiamo da soli: siamo in cordata con la Chiesa tutta, con i santi che in cielo intercedono, con gli angeli che ci accompagnano. Non siamo dunque mai soli.

     

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