Tappe ascetiche e aspetti pratici della Preghiera di Gesù
O. Clement, J. Serr, LA PREGHIERA DEL CUORE, ed.Ancora
Lo stato « metanico»
L’itinerario verso il “luogo del cuore” comporta tre grandi tappe; più collegate che successive.
– La prima è la metanoia, il pentimento;
– la seconda, l’unificazione estatica dell’uomo, nel crogiolo della grazia;
– la terza, la partecipazione alla luce taborica, alle energie divine, grazie all’incontro personale con Cristo, volto del Padre, nel regno dello Spirito. E’ già la luce della Gerusalemme nuova. Ogni volta che un uomo si illumina di questa luce, questo mondo finisce e comincia il nuovo mondo. Ecco, o monaci: voi siete chiamati a saturare la creazione di Parusia, a mettere delle braci nella legna spenta delle cose. Tutto ciò che noi, laici, possiamo fare di vero, di buono e di bello nella società e nella cultura, entrerà nel Regno grazie a questa breccia escatologica che voi aprite, che voi costituite.
La prima tappa – e il fondamento delle altre due – è dunque quella del pentimento, la praxis, l’azione ascetica. Per l’Oriente cristiano che non ama le opposizioni, e che resta pudico e quasi segreto sugli esiti della vita spirituale, non c’è contrasto tra azione e contemplazione: l’azione suprema è l’opera della preghiera. Chi si dedica alla praxis ascetica è il solo vero attivo; le altre “azioni” umane sono troppo spesso il risultato gesticolante di una grande passività interiore, di una sottomissione inconscia alle passioni individuali o collettive.
« Il pentimento – dice S. Isacco il Siro – conviene sempre e a tutti, al peccatore come al giusto ». E aggiunge: « Fino all’istante della morte, il pentimento non è mai compiuto, né nella durata, né nelle sue opere ». I più grandi asceti, come Sisoe il Grande, affermano sul letto di morte: « Mi pare di non aver neppure cominciato a pentirmi ». I monaci, sapendo che era gravemente ammalato, si erano riuniti al suo capezzale, per raccogliere il suo ultimo messaggio; non ne ebbero altri, ma questo era decisivo.
In questa disposizione di pentimento, la preghiera di Gesù è essenzialmente quella del pubblicano del Vangelo: «Signore, abbi pietà di me peccatore». Essa si ripete spesso quando si può farlo lontano da ogni sguardo – con grandi o piccole prosternazioni, che si chiamano “metanie” (è la stessa parola che significa pentimento).
Questo atteggiamento ha un senso profondamente personale, più che morale. Metanoia deriva da meta, che significa un voltarsi, e da noeo, che significa il nostro comprendere la realtà, individuale e collettiva. La coscienza, staccata dal cuore, è abbandonata alle pulsioni della natura e alle ipnosi della cultura; essa non cessa di proiettare sulla creazione di Dio, onto-logicamente buona (« e Dio vide che ciò era buono », dice la Genesi), quella che gli spirituali chiamano una ragnatela“, un « sogno,,, “un miraggio “, e così si fa complice degli artifici del « padre della menzogna ». Anche qui, bisogna intendere «menzogna» in senso personale e ontologico, o piuttosto “anontologico”: la libertà ribelle, fuorviata, che attribuisce al nulla come un’esistenza paradossale. « Sarete come dei »: senza Dio, l’uomo diventa il piccolo dio di se stesso e del mondo, sarà re senza bisogno di essere sacerdote e di offrire il mondo in eucaristia; offrirà anzi il mondo a se stesso. Nella nostra civiltà che si avventa sul dominio del mondo ma che, secondo la parola di Michel Serres, ignora « la padronanza del dominio », abbiamo un estremo bisogno di uomini che accettano umilmente di essere i sacerdoti del mondo: umilmente e regalmente: come voi, monaci!
Del resto, nella nostra epoca, l’asfissia spirituale dell’uomo si iscrive in modo massiccio nella storia: nell’isteria politica, anzitutto, nella quale si investe la sete di assoluto di tanti esseri la cui vita non ha altro senso, nella disintegrazione della materia e nella distruzione dell’ambiente: “Questo mondo – diceva S. Isacco il Siro – non è il mondo di Dio, ma l’illusione degli uomini”; è un’espressione che riunisce tutto ciò che si chiama «passioni». Le passioni in senso ascetico, sono lo snaturarsi di quello slancio di adorazione che costituisce la natura profonda dell’uomo; se questo slancio non trova in Dio il suo compimento, esso devasterà le realtà contingenti, idolatrandole e odiandole insieme, poiché da esse attende la rivelazione dell’assoluto che esse non sanno dargli (almeno durevolmente, poiché tutto ha sapore di assoluto, ma per essere salvato, non per salvare).
L’uomo vuol sperare tutto da una classe, da una nazione, da una ideologia, dall’arte, dall’amore umano: vuole dimenticare il nulla che sommerge continuamente l’oggi, allargando la sua prigione con la volontà di potenza, con una tenerezza disperata, con le droghe, con “la tecnica dell’estasi”. Si disloca furiosamente nell’immanenza, cambiando terra promessa, finendo col gridare: «Viva la morte», sdoppiandosi, disgregandosi in un gioco fatale di specchi, finché sorga, come nei romanzi di Dostojewskij, l’alter ego diabolico, il “doppio luciferino”. L’uomo diventa «idolatra di se stesso », dice S. Andrea di Creta nel suo canone penitenziale: e in fondo a questa idolatria c’è l’odio di sé, la nostalgia dell’annientamento, la vertigine gelida del suicidio. E ciò che Massimo il Confessore chiama la philautia « principio e madre » di tutte le passioni. Che è, traduce Vladimir Lossky, « ipseità » luciferina, ripiegare il mondo e gli altri verso di sé, dilatare la propria finitudine nell’immanenza, finché l’odio e la morte abbiano il sopravvento. Ciclo senza fine del desiderio, dove Eros si allaccia a Thanatos. Pulsione dell’essere che fa sorgere il nulla. Titolo comune della cronaca giudiziaria: « L’amavo troppo, l’ho assassinato/a ».
La metanoia è la rivoluzione copernicana che fa ormai ruotare il mondo non più attorno all’io e al nulla, ma attorno a Dio-Amore, a Dio fatto uomo, che mi chiede e mi permette di « amare il prossimo come me stesso ».
La metanoia mi fa prendere coscienza delle ramificazioni dell’albero del nulla nella mia stessa vita, come nella storia intera degli uomini. Non è un morboso senso di colpa attorno a una concezione farisaica del peccato, ma una presa di coscienza di questo stato di separazione, di “vita morta”, di rigonfiamento del nulla, stato nel quale siamo realmente « colpevoli per tutto e per tutti ». Allora comprendo quello che sono stati, in tutta la loro portata insospettata, i miei veri peccati. Allora, come vediamo nel destino dei grandi monaci, il pentimento precede il peccato, un peccato che, probabilmente, non sarà mai materialmente compiuto.
Pensate alla Parola di Cristo quando gli presentano la donna colta in flagrante delitto di adulterio, e che la legge ordina dilapidare: « Quelli che non hanno mai peccato, scaglino la prima pietra ». Al che, tutti si ritirano.Cristo ha semplicemente ricordato l’universalità dello stato di separazione che in qualche modo si trovava concentrato nel destino di quella donna. Il vero “monaco» è colui che prende coscienza di questo stato, nel quale « tutti siamo colpevoli per tutti »; colui che stana le potenze deifughe, il “doppio” demoniaco; di qui derivano le visioni diaboliche che troviamo nei vecchi racconti.
Lo spirituale costringe i demoni a obiettivarsi, a diventare esteriori (ciò che essi sono realmente dopo che la grazia battesimale li ha cacciati dall’ “abisso” del cuore); li schiaccia con la forza di Cristo vincitore del loro “principe“, del loro principio, trionfatore dell’inferno e della morte.
Non si è abbastanza messo in luce che l’approccio “apofatico” del mistero, nell’Oriente cristiano, è un approccio «metanico». Se prendete i più grandi testi di teologia apofatica – per esempio le Omelie sulla incomprensibilità di Dio di S. Giovanni Crisostomo, o i Capitoli gnostici di S. Massimo il Confessore, vedrete che l’esigenza di adorare il Dio vivente sempre « al-di-là», l’Hipertheos, al di là delle immagini, dei concetti, dei nomi, al di là della parola stessa «Dio», questa esigenza si accompagna immancabilmente con un invito al pentimento. Solo il timore, il tremore, la morte a se stessi, o piuttosto al proprio molteplice nulla, possono permetterci di volgere la nostra intelligenza verso l’Inaccessibile.
Questo « stato metanico » si precisa necessariamente in memoria della morte, nel senso forte di una anamnesi. « Ricordiamoci a ogni istante, se possibile, della morte » scrive Esichio di Batos; e commenta: « Questo ricordo ha per effetto l’esclusione di ogni vana preoccupazione, la custodia dello spirito e la preghiera costante, il distacco dal corpo, l’odio del peccato: in verità, ogni virtù operante nasce da esso. Pratichiamolo, se è possibile, come noi respiriamo »
La memoria della morte non riguarda la morte biologica in sé (poiché questa è anche una misericordia di Dio) ma lo stato spirituale che la morte biologica simboleggia e sigilla (e al quale, pure, mette fine). Ricordarsi della morte, è scoprire che si è fin d’ora nella morte, che la nostra esistenza è una « vita morta » (l’espressione è di S. Gregorio di Nissa), con una dimensione infernale. Il grande «lutto» dei monaci, nell’Oriente cristiano, è legato a una teologia sperimentale della caduta. Lo starec Silvano ha scritto le mirabili Lamentazioni di Adamo davanti al Paradiso divenuto inaccessibile. E se esaminiamo l’arte e la letteratura della nostra epoca, abbiamo l’impressione di un «lamento» analogo ma che rifiuta di confessarsi, il pianto straziante del nichilismo, con il contrappunto di un sogghigno di derisione e di inutili fughe.
Soltanto la ricerca della nostra epoca scava nel nulla con la sola prospettiva del nulla. Mentre la « memoria » ascetica « della morte » non solo fa largo a Dio, ma si capovolge in memoria della risurrezione.
La teologia apofatica non esige soltanto uno stato “ metanico”; essa culmina nella grande antinomia apofatica e questa si iscrive in una praxis di risurrezione. Dio al di là di Dio si rivela il Crocifisso, e il Crocifisso trionfa della morte e dell’inferno. La separazione tra Dio e l’uomo si identifica misteriosamente con la ferita del fianco aperto dalla lancia, dalla quale sgorgano acqua e sangue, il battesimo e l’eucaristia, la Chiesa. La Chiesa è la notte che si fa luminosa, l’abisso infernale tra il creato e l’increato che diventa in Cristo l’unione beata del creato e dell’increato, la divino-umanità. Dal fianco trapassato del Dio crocifisso spunta l’alba delloSpirito. Ormai, in Cristo, lo spazio della morte si capovolge in spazio dello Spirito, la densità dell’angoscia diventa densità della fede, e, attraverso la fede, la luce divina invade l’uomo.
Così la memoria della morte si muta in memoria di Dio; in memoria di Dio che si lascia afferrare dalla morte per consumarla e per offrirci la sua risurrezione. I monaci d’Oriente insistono così fortemente sul lutto e sulla coscienza dello stato di morte non certo per rinchiudersi in essi, ma per incontrarvi Cristo, per risuscitare con lui.
Qui sarebbe necessario tutto un trattato dei vizi e delle virtù, non nel senso morale, ma nel senso ascetico che mira, attraverso la libera fede dell’uomo, alle modalità della sua partecipazione alle energie divine. Ogni virtù infatti è la manifestazione umana di un attributo divino, e costituisce analogicamente, dice Massimo il Confessore, un aspetto del riscoprimento escatologico del Verbo incarnato. Mi limiterò a ricordare e commentare brevemente la preghiera di S. Efrem, così spesso recitata durante le ufficiature della grande quaresima:
« Signore e maestro della mia vita »…
Questa preghiera, per essenza penitenziale (e che si dice in tre grandi «metanie») comincia dunque con l’affermazione della trascendenza del Dio personale, del Dio vivente, in un atteggiamento di fede. La fede è il punto di partenza della scala delle virtù, di cui la speranza designa il moto ascensionale, e che culmina nell’amore. Dio è Dio, io non esisto se non per sua volontà, egli è la fonte della mia vita.
« allontana da me lo spirito di accidia, di abbattimento, di dominazione, di vane parole…».
Questa domanda enumera i “vizi” capitali, la cui radice, e quasi il principio, è l’accidia. Il termine significa la dimenticanza, spinta fino a un vero sonnambulismo, l’opacità, l’insensibilità al mistero, ciò che la Filocalia, con il Vangelo, chiama la « durezza di cuore » (e talvolta la sua « pesantezza »).
Questo stato di insensibilità spirituale genera l’abbattimento, l’estremo il disgusto di vivere, la dispersione, l’abbandono al vuoto, tutte manifestazioni di un nichilismo che in quest’epoca prende le dimensioni di un fenomeno storico: epoca di bambini viziati che vogliono tutto, subito, e, presto delusi, si scoraggiano e si abbandonano alla vertigine del nulla.
E’ vero che vi sono anche condotte di fuga. Le principali sono lo spirito di dominazione e quello delle vane parole. La dominazione può dimenticare il nulla ipertrofizzando l’io. L’io, gonfiato di nulla, distrugge o asservisce gli altri, presume di un sapere e di un potere assoluti, svuota gli altri del loro mistero e li fa gravitare attorno al proprio vuoto. E’ l’auto-deificazione del nulla.
Le vane parole designano non soltanto, nella vita quotidiana, le parole che «cosificano» l’altro e lo respingono infinitamente lontano – in definitiva, un gesto di uccisione – ma, più ampiamente, ogni esercizio del pensiero e dell’immaginazione che si separa dalle forze del cuore, per diventare un gioco autonomo della volontà di potenza o dei fantasmi.
« Concedi, a me tuo servo, uno spirito di integralità, di umiltà, di pazienza e di amore… ».
Ecco, invece, il movimento delle “virtù“: la fede, che sta a fondamento, è ricordata innanzitutto: l’uomo è un servitore. L’integralità sintetizza l’insieme: essa evoca l’unificazione dell’esistenza nell’incontro con il Dio vivente, e dunque con il prossimo, l’assunzione nella fede, nella speranza e nell’amore, sia dell’intelligenza come di tutta la forza vitale.
L’umiltà è l’iscrizione concreta della fede nel quotidiano, l’espressione della rivoluzione copernicana che ci strappa dalla «filautia» per restituire a Dio la sua distanza e la sua prossimità. Per i Padri neptici, è la virtù fondamentale, propriamente evangelica, l’atteggiamento che differenzia il pubblicano (le cui parole sono riprese nella “preghiera di Gesù“) dal fariseo infinitamente virtuoso ma così poco sensibile alla grazia, alla gratuità della salvezza… S. Giovanni Climaco ha vigorosamente ricordato la forza paradossale della debolezza: « Non ho digiunato, non ho vegliato, non ho dormito sulla nuda terra, ma mi sono umiliato, e il Signore mi ha salvato ».
Dalla fede e dall’umiltà nasce la pazienza che è l’umiltà in atto. Come questa esprime la fede, così la pazienza è animata di speranza. E’ il contrario dell’abbattimento che proviene dal desiderio di avere tutto e subito; è la riconoscenza per le briciole che cadono dalla tavola del festino messianico; è, soprattutto, una fiducia totale quando Dio si ritira, quando le sue vie appaiono incomprensibili. I Padri hanno spesso evocato la « pazienza di Giobbe »: Giobbe rifiuta i ragionamenti dei teologi patentati, ma, pur contestando Dio, non lo nega, rimane con lui, sa che Qualcuno lo cerca attraverso l’esperienza stessa del male radicale.
E tutto culmina nell’amore che costituisce il contrario della « dominazione ». Colui che ama, « dà la propria vita per i suoi amici »; non cerca il dominio, ma il servizio. Svuotandosi di sé per far posto a Dio, si trova aperto all’altro, accoglie senza giudicare, discerne la persona al di là dei suoi « personaggi »che sa esorcizzare in silenzio; e fa irradiare la vita vera.
« Sì, Signore, concedimi di vedere i miei peccati e di non giudicare il mio fratello, perché tu sei benedetto nei secoli dei secoli. Amen ».
L’ultima domanda, che chiude la preghiera su una benedizione, ricorda le condizioni dell’amore: « vedere i propri peccati», e « non giudicare ».
Vedere i propri peccati introduce nel primo ammonimento del Vangelo: « Pentitevi, poiché il Regno di Dio è vicino ». L’uomo misura la sua separazione e il suo orgoglio. Egli si apre alla gioia del regno. Non ha altro spazio per esistere, ormai, se non la misericordia di Dio. « E’ cosa più grande vedere i propri peccati che risuscitare da morte », dicono i Padri neptici. In verità, vedere i propri peccati è entrare nella risurrezione dai morti. Con ciò si diventa capaci di accogliere l’altro come un fratello, senza giudicarlo. Io devo tutto a Dio – per parafrasare una domanda del Padre nostro – e l’altro non deve nulla a me: tutto è grazia, lui stesso è grazia, è mio fratello: io non giudico, io sono giudicato, e la Croce è il « giudizio del giudizio »; e il Signore è « benedetto nei secoli dei secoli ».
La preghiera di S. Efrem riassume il digiuno, che non riguarda solo il nutrimento del corpo, ma anche quello delle immagini (il che non è facile, nella nostra “civiltà dello spettacolo”), delle passioni, del desiderio di dominare e di giudicare gli altri. Attraverso questa sobrietà di tutto l’essere, con la quale l’uomo impara a vivere non soprattutto pascendosi di immagini (fisiche, ma anche psichiche) ma « di ogni parola che esce dalla bocca di Dio », non si instaura un masochismo morboso, ma una libertà regale: « Sii re nel tuo cuore, regna dall’alto ma con umiltà, comandando al sorriso: va’! ed esso va; alle dolci lacrime: venite! ed esse vengono; e al corpo, servo e non più tiranno: fai questo, ed esso lo fa ».
La “vigilanza” e la “tenerezza”
L’oblio è il gigante del peccato, dicono spesso i Padri neptici. Oblio: durezza del cuore – dicevamo poc’anzi – pesantezza opaca del cuore. L’uomo troppo spesso vive come un automa, in una temporalità senza presente, dove l’avvenire non cessa di sprofondare nel passato. L’uomo non sa che Dio esiste, e viene verso di lui, e l’ama. Non sa che nel perdono e nella luce di Dio, tutto esiste per sempre.
La memoria della morte scompagina questa zona apparentemente chiara e ben segnalata che l’uomo si ritaglia alla superficie dell’esistenza. Il capovolgimento della memoria della morte in memoria di Dio provoca il risveglio, come quello di Giacobbe visitato dal sogno (per noi, Cristo è la nostra “scala”, per sempre): « Certo, il Signore è in questo luogo, e io non lo sapevo – Ebbe timore e disse: Quanto è terribile questo luogo! Qui è proprio la casa di Dio, questa è la porta del cielo » (Gn 28, 16-17). Il risveglio è escatologico: Cristo è la Scala, è l’Istante ultimo, il giudizio e « il giudizio del giudizio », l’universale trasfigurazione. Il risveglio, è la veglia delle vergini sagge: non che esse siano più virtuose delle compagne – nota S. Serafino di Sarov – perché anche le altre avevano saputo conservare la loro integrità; ma la loro lampada è fornita di olio, e l’olio è la grazia dello Spirito che col suo fremito risponde alla fede e all’umiltà.
Nicola Cabasilas, che scrisse per i laici immersi nelle preoccupazioni del secolo, chiede loro soltanto di ricordarsi, in ogni circostanza, che Dio ci ama d’amore folle – manikos eros – . Quando vai o vieni, lavori o conversi, un improvviso pensiero deve scuoterti: Dio ti ama, ti ama al punto che è uscito per te dalla sua impassibilità, fino a morire per te. Per te ha voluto diventare colui che dà la sua vita per quelli che ama, lui l’Inaccessibile. « Egli discende, alla ricerca dello schiavo che ama; lui, il ricco, viene verso la nostra povertà. Si presenta da sé, dichiara il suo amore, prega che lo si contraccambi… Respinto, non si formalizza: attende pazientemente come un vero amante ». Mendicante d’amore, ladro d’amore che viene di notte, viene nella mia notte. Il fiat della Vergine gli ha permesso di riprendere dall’interno la sua creazione: egli ci attende nell’abisso del cuore, bussa alla porta della nostra coscienza partendo dal cuore, dal più profondo di noi. Perché egli è divenuto il nostro alter ego dice Cabasilas – E non ci chiede subito di amarci, ma di capire anzitutto quanto egli ci ama. Allora noi ci svegliamo.
Nepsis: è il risveglio, la veglia, la vigilanza; nel senso più ampio, poiché la nostra esistenza intera è torpore; ma anche nel senso più preciso, che ci ricorda il simbolismo liturgico del giorno e della notte, della luce e delle tenebre, della luce che brilla ormai nelle tenebre. Il « neptico » pratica la « custodia del cuore »: tiene aperta la via tra la coscienza e il santuario interiore, il sole segreto che le nubi delle “passioni” cercano continuamente di coprire. Egli « attraversa l’oceano fetido che ci separa dal nostro paradiso interiore ».
La coscienza, armata del Nome di Gesù, deve scrutare attentamente i logismoi – la parola viene dal Vangelo – ossia i pensieri come pulsioni germinative che cercano di offuscare il cuore. O il pensiero è buono, creativo, e bisogna rafforzarlo rivestendolo della benedizione del Nome, o il pensiero è il germe di una ossessione, di una passione, e allora bisogna sbatterlo contro la pietra come i figli di Babilonia: e la pietra è il Nome, avendo cura di disinvestire la forza vitale che queI pensiero mobilitava, per pacificarla e trasformarla. Nella lotta contro la nascente ossessione, l’invocazione deve accelerarsi, finché torni la pace.
La notte è particolarmente propizia a questo esercizio di discernimento e di metamorfosi, aspetto fondamentale della nepsis: sia perché essa è silenzio e raccoglimento, ma anche perché è tenebra. Il monaco affronta la notte come affronta il deserto, le potenze deifughe, per far irradiare nell’infraconscio non soltanto individuale, ma pan-umano e cosmico, la luce del sopra-cosciente. E’ importante saper penetrare questo blocco di notte e di deserto che portiamo in noi. Il sonno deve essere moderato, qualche volta interrotto dall’ufficio di mezzanotte, altre volte soppresso da una lunga veglia. Bisogna cercare di addormentarsi invocando il Nome divino-umano, perché la preghiera penetri il sonno stesso. « Preghiera in una sola parola, tu devi essere presente al nostro coricarci come al nostro risveglio ».
Per i laici, per quelli che sono deboli, Cabasilas raccomanda di affidare la custodia del cuore al sangue eucaristico. Un grande monaco potrebbe (come fece Maria Egiziaca) comunicarsi una sola volta, dopo un intera vita di preparazione, ricevendo allora, in piena coscienza, la comunione come una folgore deificante; i deboli invece, dice Cabasilas, devono comunicarsi spesso. Allora il sangue eucaristico stesso custodirà il loro cuore; e Cabasilas si limita a raccomandare semplicemente brevi meditazioni nelle quali prendiamo coscienza dell’« amore folle » di Dio per noi.
Qui, in questa memoria della morte che diventa memoria di Dio, troviamo il mistero e il carisma delle lacrime. La civiltà occidentale è diventata una civiltà nella quale non si piange più; per questo ci si mette – nell’arte come per strada – a urlare ciecamente. Come se i giovani volessero liberare in se stessi i gemiti dello Spirito, e non sapessero come farlo… Ora, quando l’uomo riceve il dono delle lacrime, lo Spirito piange dolcemente in lui, dice Simeone Metafraste commentando Macario il Grande. Le lacrime spirituali sono un’acqua battesimale nella quale si stempera la durezza del cuore. Quando piange, lo spirituale ridiventa come le acque originali offerte al soffio dello Spirito.
Le lacrime sono anzitutto lacrime di penitenza: nascono « da una umiltà assai profonda ». Sono lacrime della memoria della morte, del peccato compreso in tutta la sua profondità, nelle sue ramificazioni e nelle sue concatenazioni insospettate. Ma a poco a poco, grazie alla memoria di Dio, le lacrime del pentimento diventano lacrime di gratitudine, di meraviglia, di gioia. «La fonte delle lacrime dopo il battesimo è qualcosa di più grande del battesimo » diceva S. Giovanni Climaco. « Chi si è rivestito delle lacrime come di un abito nuziale, ha conosciuto il beato sorriso dell’anima »: sorridere attraverso le lacrime, simbolo di risurrezione. E le lacrime carismatiche, che scorrono dolcemente, sono ricomposizione del viso, hanno già qualcosa di una materialità trasfigurata.
Il canto delle lacrime è già una delle chiavi dell’arte liturgica ortodossa: già avvertibile nel monachesimo bizantino, si manifesta particolarmente nell’ortodossia di lingua araba, dal canto un pò nasalizzato: è la voce delle lacrime. Ugualmente, questa « dolente letizia », questa « beata afflizione » è probabilmente una delle chiavi dell’iconografia ortodossa, il cui capolavoro è forse la « Vergine della tenerezza ».
Tenerezza, katanyxis oumilenie, altra parola decisiva del vocabolario esicasta. Le lacrime sono « lacrime di dolcezza ». Il contrario della sklero-kardia è la « tenerezza divina del cuore ». Tutta la forza di passione dell’asceta, disinvestita dalle “passioni”, crocifissa dalla « memoria della morte », purificata e illuminata dalle lacrime carismatiche, diventa un’immensa tenerezza paterno-materna, una capacità di accogliere senza giudicare, cogliendo sempre, al di là del peccato, il mistero irriducibile della persona. Carisma della «simpatia», che avvolge l’altro d’una gioia di risurrezione, e gli fa comprendere di essere amato. Carisma di femminilità spirituale ad immagine di Maria, « capacità di generare Dio nelle anime devastate », come diceva Paul Evdokimov.
Una unificazione fuori dal centro: gli aspetti pratici e tecnici della Preghiera di Gesù
Non è giusto separare le due tappe seguenti – di cui lo stato « metanico » costituisce il fondamento indispensabile – quella dell’unificazione della coscienza e del cuore, e quella della trasfigurazione nella luce divina.
L’unificazione, infatti, non è per se stessa; è estatica l’uomo esce da se stesso e dalla sua natura, per unirsi a Dio, e solo così può pacificare questa natura e riunificarla. L’approfondimento nell’esistenza, il risveglio progressivo del « cuore cosciente » nel quale si trasfigurano insieme l’intelligenza e la forza vitale dell’uomo, l’esperienza simultanea della consostanzialità di tutti gli uomini, « membra gli uni degli altri » in Cristo, tutto contribuisce, nel dinamismo che va dalla fede all’amore attraverso la speranza, ad attuare a poco a poco una unificazione fuori dal centro.
Fuori dal centro, perché l’uomo si raccoglie nel suo cuore, che a sua volta, altro non è che il luogo di trasparenza a una luce increata, cioè la cui sorgente è sempre al di là; e anche perché l’uomo assume la natura umana riunificata in Cristo nella misura in cui, per un autotrascendimento personale, aderisce con tutta la sua fede alla persona di Cristo. Questa autotrascendenza dell’uomo nella non-conoscenza risponde misteriosamente alla trascendenza di Dio vivente nella kenosi. Le energie divine unificate sono il contenuto di un incontro.
La « preghiera di Gesù » può assumere delle forme “tecniche”, psico-somatiche, per favorire l’unificazione dello spirito e del cuore. Indicazioni molto precise si trovano in tutti i testi del XIII e XIV secolo, quando si ebbe nel mondo bizantino un potente rinnovamento dell’esicasmo. Il ricorso allo scritto prova che i maestri erano scomparsi, o quasi, e anche che l’esicasmo non è un esoterismo (con le sue linee ininterrotte di maestri e di discepoli, come il “sufismo”) ma la realizzazione cosciente del mistero cristiano, sempre suscettibile di rinascere dalla vita sacramentale e dalla penetrazione spirituale delle Scritture. Nil Sorskij, nel XVI secolo, lo starec Silvano nel XX, rinviano il discepolo, se non trova un maestro, alla meditazione della Bibbia e dei Padri, a una profonda vita sacramentale,al rispetto dei « comandamenti di Cristo », infine ai consigli di ogni confessore di buona volontà, anche se non comprende niente del “metodo”; se ci si affida a lui nella fiducia e nell’umiltà, Dio stesso ci guiderà per mezzo suo.
Alla fine del XIII secolo, e nel corso del XIV, in un’epoca assai turbata, molte cose sono state così affidate allo scritto: abbiamo in tal modo i testi di Niceforo il Solitario (che costituiscono una piccola Filocalia nella grande), dell’autore anonimo del “Metodo”, di S. Gregorio Palamas, di S. Gregorio il Sinaita, di Callisto e di Ignazio Xantopuloi. La raccolta di estratti riguardanti le tecniche della preghiera è stata redatta da J. Gouillard che l’ha completata con alcune indicazioni di S. Nicodemo Agiorita.
All’alba, e soprattutto al calar del sole, dicono questi testi, è importante, per pregare, ritirarsi « in una cella tranquilla e oscura », « appartata in un angolo ». Mentre per i principianti la “preghiera di Gesù » si dice in piedi, con o senza prosternazioni, qui si raccomanda di sedersi su un basso sgabello e di inchinarsi comprimendo il petto, sia semplicemente coll’appoggiare il mento su di esso, sia curvandosi al massimo, in un movimento “circolare” del corpo, tendendo il capo verso le ginocchia, non senza un « dolore del petto, delle spalle e della nuca ». Se ci si limita a curvarsi appoggiando mento o barba sul petto, « a chiudere il cerchio sarà lo sguardo che si fisserà sul petto stesso, o sul centro del ventre, ossia sull’ombelico ».
Queste posizioni hanno un senso nel quale si esprime la realtà simbolica, o “sacramentale” del corpo. Esse manifestano, e perciò assecondano, la concentrazione di tutto il composto umano sul cuore, in un movimento che essendo scomodo (a differenza della facilità sovrana ricercata dallo yoga) non è di padronanza ma di offerta. « Così, nota Nicodemo Agiorita, l’uomo offre a Dio tutta la natura sensibile e intellettuale, di cui egli è il legame e la sintesi ». Gli esicasti si riferiscono a questo riguardo al « movimento circolare dell’anima » di cui parla Dionigi nei Nomi divini: « Il movimento circolare dell’anima è il suo entrare in se stessa mediante il distacco dagli oggetti esteriori e la mobilitazione unificante delle sue potenze »
Allo stesso modo, la fissazione dello sguardo sull’ombelico, ossia sul centro vitale dell’uomo (qui si imporrebbe tutto uno studio per sapere se si può proporre un raffronto con lo hara giapponese), non è un semplice artificio di concentrazione, ma significa che tutta la forza vitale dell’uomo, trasmutandosi nel « cuore cosciente », deve anch’essa farsi offerta. Dio può così fare sua, dice S. Gregorio Palamas, la « parte concupiscibile » dell’anima, può « ricondurre il desiderio alla sua origine », cioè all’eros per Dio di cui parlano così profondamente S. Giovanni Climaco e l’Apocalisse, che lancia il suo appello all’ « uomo del desiderio ».
Così il corpo stesso aderisce a Dio « con la forza di questo desiderio ». « Coloro che si danno ai piaceri sensibili della corruzione esauriscono nella carne tutta la potenza del desiderio della loro anima, e diventano essi stessi interamente carne. Lo Spirito non può dimorare in loro. Al contrario, in quelli che elevano il loro spirito a Dio e stabiliscono la loro anima nell’amore di Dio, la carne trasformata partecipa allo slancio dello spirito e si unisce a lui nella comunione divina. Essa stessa diventa dominio della casa di Dio ». La trasfigurazione dell’eros nell’agape è una costante di questa tradizione: « Che l’eros fisico sia per te un modello nel tuo desiderio di Dio », scriveva S. Giovanni Climaco, che soggiungeva: « Beato colui che ha una passione non meno violenta per Dio di quella dell’amante per la sua fidanzata ».
In questa posizione, è necessario « raccogliere il proprio spirito » e « farlo discendere », « spingerlo » nel cuore, utilizzando il movimento dell’inspirazione, curvarsi del corpo permette di « comprimere » la respirazione: « trattiene il respiro » il più a lungo possibile, pronunciando le parole della preghiera. Poi si emette l’aria « a labbra chiuse ». Questo all’inizio. Lo spirito, attratto dalla posizione scomoda del corpo, « si raccoglie più facilmente »; il cuore, a disagio per lo sforzo di trattenere il respiro, è più facile « da trovare ». In seguito, il « ritmo del respiro si fa più lento ». L’invocazione non è più pronunciata con le labbra, anche quasi in silenzio, ma si compie in una maniera puramente interiore. Viene il giorno nel quale lo spirito, allenato, ha fatto progressi, e riceve potenza dallo Spirito per pregare totalmente e intensamente: allora non ha più bisogno della parola.
Quando si è « calato » lo spirito nel cuore, esso non deve avere altra preoccupazione che il grido: « Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me». La formula usata sarà – ma senza che il cambiamento sia troppo frequente, « perché gli alberi troppo trapiantati non attecchiscono più », ora: « Signore Gesù Cristo, abbi pietà di me », ora « Figlio di Dio, abbi pietà di me ». Quando lo spirituale « avrà progredito nell’amore mediante l’esperienza » e avrà ottenuto per grazia l’evidenza della misericordia divina, abbandonerà l’« abbi pietà di me » per concentrarsi sulle parole: « Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio », che « dirigono lo spirito immaterialmente verso colui che esse nominano » I proficienti” e i “perfetti” si accontenteranno della sola invocazione del Nome di Gesù.
La preghiera deve essere detta « con tutto il proprio amore » e la propria intelligenza, facendo attenzione al senso delle parole; essa elimina la polvere delle immagini mentali che offusca lo « specchio » del cuore. Il cuore così purificato « vede se stesso interamente luminoso », « si eleva nell’amore e nel desiderio di Dio », si scopre ripieno della « luce taborica » che irradia da Cristo trasfigurato, diventa quel placido « specchio di Dio » nel quale si imprime la « fotofania » di Cristo e, in essa, la verità degli esseri e delle cose.
Bisogna tener conto tuttavia del fatto che l’occidentale di oggi è assai diverso dal tipo di uomo per il quale sono stati scritti questi testi. L’uomo delle antiche civiltà disponeva di una solida base vitale: era radicato nel silenzio e nella lentezza; conosceva la fatica profonda che, a suo modo, purifica e rinnova. Era vicino agli esseri e alle cose. L’uomo di oggi, l’uomo della civiltà urbana e industriale, vive assai più alla superficie di se stesso, frastornato da rumori e da immagini fuggitive; ha i nervi tesi ma raramente conosce la grande e benefica fatica corporale. E’ solo nella folla, ha perso il contatto con le cose, con le vere realtà materiali. Si stordisce di cibo e di impressioni. Per rompere il guscio dell’artificiale e del meccanico, non gli resta che l’erotismo; ma anche questo diventa artificiale e meccanico.
Bisogna dunque trascrivere qui alcune righe pertinenti di Paul Evdokimov: « Nelle condizioni della vita moderna, sotto il peso dell’affaticamento e dell’usura nervosa, la sensibilità cambia. La medicina protegge e prolunga la vita, ma nello stesso tempo diminuisce la resistenza alla sofferenza e alle privazioni. L’ascesi cristiana è solo un metodo al servizio della vita, perciò cercherà di adattarsi ai bisogni nuovi. La Tebaide eroica imponeva digiuni estremi e costrizioni assai dure: il combattimento di oggi si sposta. L’uomo non ha bisogno di un dolorismo supplementare che rischierebbe di spezzarlo inutilmente: la mortificazione consisterà nel liberarsi da ogni bisogno di doping: velocità, rumore, eccitanti, inebrianti di ogni specie. L’ascesi sarà piuttosto il riposo imposto, la disciplina di calma e di silenzio, periodico e regolare, nel quale l’uomo ritrova la facoltà di arrestarsi per la preghiera e per la contemplazione, anche in mezzo a tutti i rumori del mondo. Il digiuno sarà la rinuncia al superfluo, la condivisione con i poveri, un equilibrio sorridente ».
In questo contesto, alcuni dei più esperimentati spirituali ortodossi di oggi sconsigliano di « far discendere » la preghiera nel cuore in una maniera volontarista. Si rischia così di turbare il proprio equilibrio nervoso e di perdere irrimediabilmente la possibilità di « trovare il proprio cuore ». Meglio contentarsi di utilizzare il ritmo della respirazione e di pregare, quando si può, « con tutto il cuore » nel senso attuale dell’espressione. Un giorno, forse, Dio con la sua grazia farà discendere la preghiera nel cuore: ma bisogna affidarsi totalmente a lui, non irrigidirsi, non volere. L’uomo d’Occidente, dice Heidegger, è caratterizzato da una « volontà di volontà ». Egli deve innanzitutto imparare ad abbandonarsi, e questo è proprio il senso profondo della “preghiera di Gesù”.
Nicola Cabasilas, che scriveva per dei laici, per gli abitanti delle grandi città, ci è su questo punto di grande aiuto. Non bisogna, dice, voler amare Dio, ma sapere umilmente che egli ci ama. Non bisogna voler conservare il proprio cuore, ma affidarlo al sangue eucaristico. Bisogna partire dal centro, e centro è Cristo, cuore della Chiesa, alter ego di ogni fedele. L’amore risponde all’amore, le forze del cuore irradiato dalla presenza del Signore si liberano. Quel che occorre non è tanto rompere la corteccia dell’esistenza per trovare il luogo del cuore, quanto lasciar irradiare il sole del cuore; e questa irradiazione modificherà a poco a poco, dal di dentro, la corteccia dell’esistenza.
Si sa bene, oggi, che un difetto combattuto alla superficie della psiche si nasconde, ma non viene guarito. Si diventa continenti, ma si amano i cibi zuccherati e si hanno suscettibilità da zitella. Si trionfa di ogni vizio apparente, ma si succhia il sangue alle anime col pretesto di guidarle. Cristo, nel Vangelo, parte sempre dal centro, si rivolge direttamente alla persona, provoca il cambiamento del cuore. La metanoia nel senso pieno del termine, è appunto questo: rovesciare il proprio cuore, lasciare che il Signore lo riempia di luce. L’ascesi, poi, consisterà nell’eliminare a poco a poco gli ostacoli che fanno schermo alla luce.
Quando il futuro S. Doroteo entrò in monastero, voleva subito praticare le virtù più ardue e la preghiera perpetua. Il suo padre spirituale, il vegliardo recluso Barsanufio, gli chiese invece di costruire un piccolo ospedale e dedicarsi ai malati. Più tardi Doroteo si lamentava dell’ossessione carnale, e Baranufio, in un “contratto” rimasto famoso nella storia della paternità spirituale, gli chiese di non preoccuparsene, poiché egli prendeva tutto su di sé; per contro, Doroteo si impegnava, su punti precisi, a un atteggiamento di umiltà, di fiducia, di carità. Egli partiva dal centro, lasciava irradiare il sole interiore: a poco a poco, le sue tentazioni scomparvero da sole. La “preghiera di Gesù” può aiutarci assai in questa ricostruzione di una base vitale sotto il sole del cuore.
I vecchi monaci dicono che non bisogna temere i momenti di « pleroforia », di pienezza sperimentata nel corpo stesso; essi insegnano, nella prospettiva della risurrezione, un uso non passionale della gioia di essere; chiedono di « circoscrivere l’incorporeo nel corporale », fino a vivere con gratitudine una umile e grave sensazione. Camminare, respirare, nutrirsi, toccare la corteccia dell’albero, tutto può diventare celebrazione. « Il nome di Gesù diventa una specie di chiave che apre il mondo, uno strumento di offerta segreta, una apposizione del sigillo divino su tutto quello che esiste. L’invocazione del nome di Gesù è un metodo di trasfigurazione dell’universo ».
E’ bene che un esercizio di distensione, di presa di coscienza del corpo, termini non con una euforia immanente – o con il sonno – ma con l’invocazione. Più l’uomo si pacifica e si interiorizza, più deve pregare nell’umiltà e nella fiducia, in spirito « di infanzia », teso verso un incontro, in Cristo, con Dio Padre, « abba, Padre », come se pregasse per la prima volta. Solo questo atteggiamento può permettere di utilizzare discretamente certe tecniche asiatiche di concentrazione, tanto di moda oggi.
E’ bene che l’invocazione sia presente nell’amicizia e nell’amore. Quanto alla sua irradiazione necessaria nelle relazioni sociali e nei ritmi di lavoro, potrebbe essere la misura, il criterio di un’azione perseverante e creatrice dei cristiani nella società.
Simultaneamente, ma a poco a poco, interviene la terza tappa, quella della partecipazione alla luce increata nella comunione con il Signore Gesù, comunione trinitaria, come abbiamo detto; perché nell’interiorità dello Spirito ci conduce verso « il seno del Padre ». Gregorio il Sinaita dice che la preghiera comincia a sgorgare nel cuore come le scintille da un fuoco giulivo: la luce increata sì manifesta dapprima con fiammate di indicibile dolcezza. Poi, dice lo stesso Gregorio, nel cuore divenuto cosciente, la preghiera « opera come una luce di buon odore ». Non si tratta tanto di estasi e di visioni: le esaltazioni mistiche dei principianti devono essere rapidamente superate, poiché potrebbero essere fonte di compiacenza e di orgoglio. Il Signore allora si ritira perché l’uomo conosca l’ultimo spogliamento, partendo dal quale verrà deificato, ma per pura grazia.
I grandi spirituali chiedono di diffidare delle visioni, perché Satana può travestirsi in angelo di luce. La liturgia, la salmodia, le icone soprattutto, tendono a introdurre l’asceta, al di là di ogni fantasma, in una sobria e realissima comunione. I criteri del cammino giusto sono la pace, la dolcezza, l’umiltà, e non l’esaltazione che lascia l’anima turbata; soprattutto la capacità di amare i propri nemici, secondo il precetto evangelico. Certo, i più grandi – i più umili – quelli che hanno raggiunto lo stadio della preghiera ininterrotta hanno, per di più, attraversato i mondi angelici, penetrando fino al trono di Dio (il cuore infiammato si identifica qui con il carro di Elia, come nella mistica ebraica), hanno conosciuto i fondamenti del mondo creato e gli esiti finali della storia, sono stati visitati dalla Madre di Dio e dai santi. Ma il risultato normale di questa ascesi è, partendo dal cuore, la trasfigurazione del quotidiano con una luce che è anche un fuoco e che non è un’emanazione anonima, ma l’irradiazione stessa del Risorto, la presenza segreta dello Spirito, la trasformazione della trascendenza inaccessibile in paternità amorevole. La visione, l’audizione, l’intelligenza, l’amore, tutto si raccoglie in un’unica sensazione di Dio: tutto è luce, ma questa luce è increata, ossia rimanda a una sorgente insieme inaccessibile per essenza e partecipabile per grazia. Tutto è luce, ma questa luce è il contenuto di un incontro, di una comunione.
L’uomo entra allora in un ritmo inesauribile di in-stasi/ex-stasi. S. Gregorio di Nissa, partendo da un participio paolino (« teso verso ») ha formato qui il termine di epectasi , dove epi designa l’in-stasi, l’infinita prossimità di Dio che tutto intero si rende partecipabile, mentre ek designa l’e-stasi, la tensione amante verso questo Dio la cui distanza non si cancella, « quello che si cerca sempre » nell’in-conoscenza della fede, poiché tutto intero egli resta inaccessibile.
Questa distanza incessantemente colmata in Cristo, e incessantemente riaperta verso l’abisso del Padre, questa distanza-partecipazione costituisce il luogo stesso dello Spirito; si iscrive e ci iscrive nel mistero della Trinità. L’anima in via di deificazione, il cuore cosciente che s’infiamma e s’invola con le ali della colomba, diventa, per riprendere un’espressione di Jean Daniélou, un universo spirituale in espansione. E ciò che è vero della relazione con Dio, lo diventa della relazione con il prossimo, come dello stupore davanti alla cosa più umile. L’ascesi neptica ci fa definitivamente comprendere che il cristianesimo non è una ideologia, che non è un sapere assoluto, ma è la non-conoscenza amante della fede e della diaconia. Più conosco Dio, e più egli mi diventa meravigliosamente sconosciuto; più conosco il prossimo, e più lo incontro con lo stupore della prima volta. Più conosco la creazione di Dio, e più sono colto dal suo mistero (vi sarebbe qui, io credo, il germe di una nuova logica scientifica, che mostri che cos’è l’irriducibilità del mistero che suscita il dinamismo della ricerca).
La vita eterna comincia così fin da quaggiù. Si va « di inizio in inizio, attraverso inizi che non hanno mai fine », come dice Gregorio di Nissa. Non si tratta di « evadere dal tempo », come nella mistica dell’India, o di abolire il tempo come nel nirvana buddistico, ma di accedere a una temporalità propriamente ecclesiale, calcedonese nella quale il tempo e l’eternità si uniscono « senza separazione e senza confusione ». Il ritmo di questa temporalità è quello della morte-risurrezione, della croce pasquale. Esso introduce nelle situazioni di morte della nostra esistenza – fino all’estrema agonia – l’esperienza che si concentra in quella del martire. I martiri, nella storia della Chiesa, sono stati i primi venerati come santi. Un martire non è semplicemente, come troppo spesso si è creduto, qualcuno che dà la vita per le sue idee: un martire è colui che, nell’orrore della tortura e della morte, si abbandona umilmente al Crocifisso-Risorto, e così si trova ripieno della gioia della risurrezione. « Macinato dal dente delle fiere », diventa « pane eucaristico », come diceva Ignazio il Teoforo. Ugualmente, il monaco, nella tradizione antica, è insieme « stauroforo » e « pneumatofòro », portatore della croce e portatore dello Spirito, colui che « dà il suo sangue e riceve lo Spirito », e con ciò stesso « un risuscitato », capace di conoscere fin nel suo corpo una pienezza ineffabile.
Questa temporalità fa affiorare grandi falde di pace e di luce nella densità degli esseri e delle cose, nella monotonia dei compiti quotidiani. L’instasi-estasi nell’incontro con l’altro diventa servizio, amore attivo e inventivo. Questa temporalità, infine, ha sapore di silenzio. Non il cattivo silenzio del vuoto e della disperazione, il silenzio gelido della solitudine, ma il silenzio pieno, il silenzio divino, quel « linguaggio del mondo futuro », come diceva Isacco il Siro. L’invocazione deve allora aprirsi sul silenzio. All’inizio con brevi momenti di silenzio intercalati tra gli appelli. Poi in una specie di aleggiamento interiore, nell’azzurro d’un cuore cosciente, secondo una penetrazione dell’interiorità “pneumatica” del Nome di Gesù. Poiché il silenzio riposa nel Nome come lo Spirito, da tutta l’eternità, riposa nel Verbo, come costituisce l’unzione messianica, cristica, del Verbo incarnato. E quando lo Spirito è presente, non bisogna più pregare, ma tacere in lui, per riprendere, ad esempio, l’insegnamento di S. Serafino di Sarov. Si dice sempre che la mistica liturgica, nella Chiesa ortodossa, è al servizio della Parola; ma è anche al servizio del silenzio: apre la parola su un interno di silenzio. La stessa cosa avviene per il gregoriano.
La “preghiera di Gesù” fa del cuore di ciascuno una cella monastica, dove egli è « solo con il Solo », nel silenzio. L’ascesi neptica insegna a tacere. Ma il silenzio cristiano è inseparabile da una parola rinnovata. A un dato momento, il silenzioso, l’esicasta, riceve il carisma della parola di vita: che va dal cuore al cuore, parola-seme.
Uno degli affreschi più noti dell’Athos rappresenta un monaco crocifisso, ma che emana fiamme. Quelli che sono come lui, sono “uomini apostolici”, che parlano di ciò che esperimentano, e la cui parola è piena di tutta la potenza dello Spirito. Gli altri – ed è quello che io sto tentando – si contentano, facendosi piccoli, di portare la loro testimonianza, e cercano di essere, con la parola o con la penna, ciò che un pittore di icone è con il pennello.