CROCE E POVERTA
di p. Attilio Franco Fabris
La povertà religiosa nel suo significato più profondo è un carisma. Prima ancora di essere una risposta all’amore di Dio, è un suo dono particolare: il dono-il carisma della povertà mi mette in grado di rispondere all’amore di Dio vivendo da povero con lui.
Povero con Gesù povero
Il testo evangelico del giovane ricco si riferisce al consiglio della povertà e si cita come il testo classico riguardo al voto di povertà. «Gli disse Gesù: Se vuoi essere perfetto, va, vendi quello che possiedi, dallo ai poveri, e avrai un tesoro nel cielo; poi vieni e seguimi» (Mt 19, 21).Questo testo spiega perfettamente l’insegnamento di Gesù sulla povertà come valore cristiano: «Non accumulatevi tesori sulla terra, dove tignola e ruggine consumano e dove ladri scassinano e rubano; accumulatevi invece tesori nel cielo… perché là dov’è il tuo tesoro, sarà anche il tuo cuore» (Mt 6, 19-20); «E’ più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno dei cieli» (Mt 19, 24); «Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto in un campo; un uomo lo trova e lo nasconde di nuovo, poi va, pieno di gioia, vende tutti i suoi averi e compra quel campo» (Mt 13, 44).
Le parole più importanti nell’invito di Gesù al ricco sono: «Vieni, seguimi» e devono essere lette nel contesto dell’insegnamento di Gesù ai discepoli dato subito dopo l’episodio narrato. «Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vorrà salvare la propria vita la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà» (Mt 16, 24-25).
Allora, la virtù cristiana della povertà consiste nel rinunciare a se stessi, prendere la croce e seguire Gesù.
Una povertà per meglio seguire Cristo sulla via della Croce
Ma, al di là di una chiamata generale a una certa povertà che è distacco dai beni almeno interiore, e alla croce, c’è un’ulteriore chiamata, una chiamata ad andare più avanti e a dare maggiormente. E’ precisamente la chiamata che Gesù rivolse al giovane ricco.
E, come tutti gli inviti di Gesù, dà la possibilità di accogliere e di rispondere all’invito come di rifiutarlo.
Il carisma della povertà non è altro che questo: la possibilità di rispondere all’invito ad una povertà radicale seguendo Gesù sul cammino della croce.
In quanto carisma, la povertà mi dà la possibilità di servire il Signore con una particolare libertà di spirito. Sono libero di seguire il Signore ovunque egli voglia, di servire nell’apostolato, sia che guadagni molto, poco o niente del tutto. Il denaro o i vantaggi materiali non determinano affatto le mie scelte nel servizio di Dio. E così il carisma della povertà «costruisce il corpo di Cristo» in quanto mi mette nella condizione di servire nella gratuità. Inoltre mi vincola in modo speciale a Gesù, facendomi suo discepolo per una scelta di povertà radicale sul modello della povertà della croce. Gesù muore sul Calvario spoglio di tutto. Non solo muore in estrema miseria, ma è anche privo di qualsiasi onore, dignità e rispetto. Non muore come un comune criminale, ma in modo ancora più vergognoso, come un criminale «speciale», non solo rigettato dal suo popolo, ma quasi allontanato dalla società civile: muore su di una collina fuori dalle mura della città, tagliato letteralmente fuori dalla società umana. Affranto da un’orrenda e crudele tortura, sia fisica sia psicologica, alla fine Gesù muore senza decoro, senza un’ombra di dignità umana, sentendosi abbandonato persino da Dio, al punto da esclamare: «Dio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?».
Il carisma della povertà mi porta al di là di una povertà materiale scelta e vissuta liberamente. Il carisma della povertà mi associa intimamente alla sorte di Gesù nella sua passione e morte, crocifiggendomi per il mondo e il mondo per me (Gal 6, 14): «Sono stato crocefisso con Cristo» (Gal 2, 20).
Esso mi libera dall’ambizione degli onori, del consenso, dell’attenzione da parte degli altri. Il carisma della povertà agisce da antidoto nei confronti di una malattia «professionale» per i religiosi sin dal tempo degli scribi e farisei: il bisogno di autogloriarsi.
Il carisma della povertà mi mette in grado di essere povero con Gesù povero, povero materialmente e povero spiritualmente, privo anche di tutto per amore di Gesù che mi chiama.
Povertà e liberazione
Una buona intuizione della teologia americana della liberazione è che la povertà religiosa mi mette in grado di sentirmi una cosa sola con chi vive realmente nella povertà, mi fa essere solidale con i reietti, i sofferenti, i poveri, gli emarginati; con Gesù siamo con loro «fuori le mura della città», fuori dalla società umana rispettabile. In loro, gli ultimi fra i miei fratelli e sorelle, vedo Gesù e, in intima unione con lui, entro in fraterna solidarietà con i più oppressi, i più poveri, i più emarginati fra tutti. Non è facile incontrare Gesù, nei più bisognosi, nei ritardati, nei carcerati, negli ammalati sia nel fisico sia nella mente o in ambedue i sensi, nei più tormentati e miserabili. Lo posso fare se condivido con essi la mia povertà (cfr. J. Vanier: Ogni uomo è una storia sacra).
Con questo non voglio dire che il sentirmi in solidarietà con i più bisognosi sia il motivo del mio vivere in povertà. Il motivo è l’amore. E’ Gesù che mi chiama a rispondere al suo amore per me volgendomi al fratello. Questa risposta d’amore, sostenuta dalla potenza dello Spirito, mi porta a vivere la povertà religiosa e a preferire i poveri.
Nella sua vita pubblica Gesù si reca dagli oppressi, mangia con le meretrici e i pubblicano, guarisce gli ammalati, rialza gli sfiduciato. Questa preferenza evangelica per i poveri rimane sempre una priorità apostolica. Essere poveri con Gesù significa essere poveri con l’ultimo dei suoi fratelli e sorelle, così da poter partecipare alla missione redentiva di Cristo: «Mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista, per rimettere in libertà gli oppressi … » (Lc 4, 18).
Poveri per essere liberi
La libertà che mi dona il carisma della povertà è principalmente una libertà interiore. La chiamerei una dipendenza radicale e profonda da Dio, dipendenza che chiede a Dio la salvezza e la liberazione dalle difficoltà presenti, le difficoltà mie e di quelli che il Signore mi chiama a servire. Nell’Antico Testamento, l’evento dell’Esodo domina la teologia di Israele quale categoria di salvezza. E la liberazione dalla schiavitù dell’Egitto inizia con la povertà interiore che innalza il suo grido al Signore. Il più antico passaggio della Bibbia dà delle indicazioni e suggerisce una preghiera per le offerte nel tempio delle primizie del raccolto; ecco come si esprime: «Il sacerdote prenderà la cesta dalle tue mani e la deporrà davanti all’altare del Signore tuo Dio e tu pronuncerai queste parole davanti al Signore tuo Dio: mio padre era un arameo errante; scese in Egitto, vi stette come un forestiero con poca gente e vi diventò una nazione grande, forte e numerosa. Gli Egiziani ci maltrattarono, ci umiliarono e ci imposero una dura schiavitù. Allora gridammo al Signore, al Dio dei nostri padri, e il Signore ascoltò la nostra voce, vide la nostra umiliazione, la nostra miseria e la nostra oppressione; il Signore ci fece uscire dall’Egitto con mano potente e braccio teso, spargendo terrore e operando segni e prodigi, e ci condusse in questo luogo e ci diede questo paese, dove scorre latte e miele. Ora, ecco, io presento le primizie dei frutti del suolo che tu, Signore, mi hai dato» (Dt 26, 4-10).
Nel Nuovo Testamento la categoria-evento analogo all’Esodo e il suo compimento è la morte e risurrezione di Gesù. La liberazione di Cristo dal potere delle tenebre è il suo passaggio dalla morte alla risurrezione, passaggio che ha inizio col grido, simile a quello del popolo schiavo in Egitto, al Padre: «Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?» (Mt 27, 46). Gesù prega col versetto che apre il salmo 22 e che esprime la sua paura d’essere abbandonato dal Padre: è una preghiera di lamentazione, un’espressione di profonda povertà, di radicale dipendenza dal Padre. Come lamentazione, la preghiera di Gesù esprime non solo il suo timore d’essere abbandonato ma anche, implicitamente, il suo reale abbandono nelle mani del Padre.
Questo abbandono nelle mani del Padre è lo «spirito» della povertà interiore.
Il carisma della povertà religiosa mi dà la capacità di abbandonarmi a Dio, di dire «sì» al Padre con Gesù, per lui e in lui.
L’intera vita di Gesù trova compimento e significato nella morte in croce, infatti la morte come tutta la vita fu un atto di abbandono, un «sì» al Padre. «Gesù Cristo… non fu sì e no, ma in lui c’è stato il sì. E in realtà tutte le promesse di Dio in lui sono divenute sì. Per questo sempre attraverso lui sale a Dio il nostro Amen per la sua gloria» (2 Cor 1, 19-20).