Fece sua la condizione di servo
Lectio di Fil 2,5-11
di p. Attilio Franco Fabris
3 Fratelli, non fate nulla per spirito di rivalità o per vanagloria,
ma ciascuno di voi, con tutta umiltà,
consideri gli altri superiori a se stesso,
4 non cercate ciascuno le proprie cose,
ma quelle degli altri.
5Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù:
6egli, pur essendo nella condizione di Dio,
non ritenne un privilegio
l’essere come Dio,
7ma svuotò se stesso
assumendo una condizione di servo,
diventando simile agli uomini.
Dall’aspetto riconosciuto come uomo,
8umiliò se stesso
facendosi obbediente fino alla morte
e a una morte di croce.
“Rabbi Sclomo diceva: “Se vuoi sollevare un uomo dalla melma e dal fango, non credere di poter restare in alto e accontentarti di stendere una mano soccorrevole. Devi scendere giù tutto, nella melma e nel fango. Allora afferralo con forti mani e riconduci lui a te alla luce”” (da “I racconti dei Chassidim). È una breve parabola che illustra bene il significato del mistero dell’Incarnazione e di che cosa essa comporta per Dio stesso. Gesù “è sceso giù tutto nella melma e nel fango della nostra storia” per “afferrarci con mani forti” e ricondurci alla luce.
Non si è limitato di “fare” qualcosa, stando “nell’alto” della sua gloria per ottenerci la salvezza necessaria, ha scelto invece inaspettatamente una strada “in tremenda discesa”: si è fatto uno di noi, per darci non solo qualcosa di sé ma tutto se stesso “sino alla fine” (Gv 13,1).
Noi talvolta nel nostro servizio agli altri siamo sempre preoccupati anzitutto di “dare o dire qualcosa” al bisognoso, al povero, al disperato. Non nego che questo sia importante. Ma non è l’atteggiamento prioritario con cui ci dobbiamo porre al servizio del fratello: ci si chiede anzitutto l’umiltà di “essere poveri come Cristo assumendo la sua condizione di servo”. Parafrasando potremmo usare le parole della Lettera agli Ebrei: Per questo, entrando nel mondo, Cristo dice: Tu o Padre non hai voluto che io facessi chissà quali opere per donare la salvezza ai miei fratelli. Mi hai chiesto solo e sempre che offrissi senza riserve, anche a costo della vita, tutto me stesso fino alla fine. come (cfr 10,5)
LECTIO
Ci vogliamo soffermare nella nostra lectio alla sola prima parte dell’inno cristologico che anche la Liturgia delle Ore ci propone ai primi vespri della domenica. L’inno, lo sappiamo, traccia in modo mirabile il “cammino” compiuto da Gesù: dalla gloria che gli compete da sempre in quanto Dio, accetta di scendere, di abbassarsi, fino ad annientarsi sino nella morte di croce. Per questa obbedienza il Padre gli riconosce la gloria e gli consegna la signoria su tutto l’universo. Il testo, probabilmente ripreso da Paolo da un inno liturgico già esistente nelle comunità cristiane è antichissimo e dunque di grande importanza teologica e catechetica. Esso celebra la centralità del mistero cristiano: dall’incarnazione, alla morte fino alla glorificazione di Gesù in una densissima completezza teologica
L’apostolo desidera fortemente che nella giovane comunità di Filippi regnino pace, carità, unanimità (v.2) e l’inno viene inserito da Paolo proprio con questo intento preciso. Esattamente nel passaggio in cui esorta la comunità alla concordia, alla stima e all’umile servizio reciproco: “Fratelli, non fate nulla per spirito di rivalità o per vanagloria, ma ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso”(v.3; cfr 1,27). Tutto ciò che potrebbe turbare l’unità, in primo luogo la “vanagloria” che è porre se stessi al centro, va allontanato decisamente. Infatti in ogni comunità era ed è sempre presente la tentazione di fare anche il bene con il desiderio, più o meno conscio, di emergere, di mostrarsi, di apparire, d’essere riconosciuti ed applauditi.
A questa tentazione occorre reagire, dice Paolo, perseguendo una virtù fondamentale forse oggi passata un po’ di moda: l’“umiltà” (v.3)! In greco Paolo adopera la parola: “tapeinofrosýne”. È la sapienza di chi si considera… “tapino”! E’ la stessa parola che Maria usa nel Magnificat riguardo a se stessa: «Il Signore ha guardato alla mia condizione tapina». Paolo intende l’umiltà come disponibilità a cercare non il proprio interesse ma il bene dell’altro, la capacità di porsi davanti all’altro come servi gli uni degli altri. È la forza di “perdere se stessi” preferendo il bene dell’altro al proprio: “non cercate ciascuno le proprie cose, ma quelle degli altri” (v.4). Ci sono infatti due posizioni contraddittorie: c’è la ricerca del proprio interesse e c’è, invece, la ricerca dell’interesse, del bene, dell’altro. Paolo, con una forte radicalità, non distingue tra interessi propri legittimi o illegittimi, ma distingue tra due ambiti: l’ambito del proprio io e l’ambito degli altri. Il cristiano deve uscire dal proprio ambito ed entrare nell’ambito dei fratelli, mettendosi al loro servizio.
Dopo aver esortato all’umiltà che scaturisce dalla disponibilità a farsi piccoli, ovvero servi gli uni verso gli altri, l’apostolo Paolo per rafforzare l’esortazione e darvi solido fondamento presenta il luminoso esempio dello stesso Cristo Gesù: “Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù” (v.5).
In luogo del termine “sentimento” forse una traduzione migliore potrebbe essere: “abbiate la stessa mentalità che fu in Cristo Gesù”. Questo cosa significa? Che il cristiano, nel cammino di conformazione sempre più piena a Cristo, apprende a ragionare, pensare, sentire, come il suo Maestro (cfr Ebr 12,2). E’ possibile fare nostri i sentimenti di Cristo, il suo modo di pensare, non in primo luogo per un impegno moralistico e filantropico, ma perché i cristiani sanno di essere, in forza del loro battesimo “una sola cosa” con lui, tralci innestati alla vite e dunque capaci di portare frutti giusti (cfr Gv 15,5). Da questa unione oggettiva, sacramentale, deriva il fatto che è possibile fare nostri i suoi stessi sentimenti.
Ma quali sono i sentimenti, la “mentalità” di Cristo? Quale il suo modo di guardare al senso della vita, alla relazione con Dio e gli altri?
La prima parte dell’inno prende in considerazione la gloria che da sempre compete a Cristo in quanto Dio: “Pur essendo nella condizione di Dio” (v. 6). La parola usata per “condizione” è “morphé” che in sé esprime di solito l’aspetto esteriore che riflette totalmente l’identità profonda dell’essere. Ovvero: Cristo da tutta l’eternità partecipa in sé stesso della stessa gloria divina del Padre suo. Ebbene, nel momento dell’incarnazione, egli rinunciò esteriormente a questa gloria che gli spettava di diritto al fine di condividere totalmente la nostra limitata umanità. Egli scelse perciò l’ordinaria “condizione (morphé) servile” (v.7). Il testo specifica che in tal senso “non ritenne un privilegio essere come Dio” (v.6). Si tratta di una frase un po’ difficile da rendere bene in italiano (la parola greca usata è “arpaghmon” ed è rarissima). Possiamo cercare di intenderla in senso passivo come equivalente di “arpàgma – furto”, nel significato di una “cosa rubata” che si “tiene stretta gelosamente a sé” come appunto fa il ladro con la sua refurtiva. Ricordiamo il celebre “Arpagone” protagonista della commedia di Moliere che incorreggibile taccagno non teme di usare anche i propri figli per i suoi interessi, la sua filosofia di vita è: tutto per me e niente per gli altri. Cristo non è certamente un “Arpagone”! Non ebbe timore di abbandonare il tesoro preziosissimo (arpàgmon) e lo splendore della sua gloria divina per farsi povero come noi senza ricavare nulla per sé. Non la reclamò mai per sé. Paradossalmente essa fu totalmente eclissata durante la sua vita terrena e soprattutto nella sua passione e morte.
L’inno sottolinea questo spogliamento totale del Figlio di Dio usando una forte forma verbale: “svuotò se stesso” (v.7). Il verbo greco è più incisivo dell’italiano “umiliare”; è il verbo “ekènosen-svuotare”. Nella Volgata latina la traduzione è “exinanivit”, ossia “rese se stesso inutile, vuoto, senza incidenza”. È un’espressione scandalosa affermare che il Figlio di Dio possa “svuotare se stesso”! Eppure è questo il cuore del mistero dell’agape divina: per amore della vita dell’uomo Dio accetta di rinunciare alla propria vita, di svuotarsi della sua vita, per riempire con la sua la nostra morte.
È sorprendente che nell’inno non si parli immediatamente del suo diventare uomo, ma si affermi in primo luogo che Cristo accetti per sé anzitutto la condizione di “schiavo” (v.7a). Gesù sceglie di vivere in questo mondo facendo sua un’umanità banale, comune, quotidiana: “diventando simile agli uomini” (v.7b). E si tratta di una “somiglianza” oggettiva, autentica, non apparente come sostenevano alcuni eretici gnostici dei primi secoli del cristianesimo scandalizzati da un Dio che potesse sporcasi con la nostra carne. Ed una “somiglianza” così perfetta da non poter che essere riconosciuto esteriormente se non come uomo come tutti noi: “dall’aspetto riconosciuto come uomo” (v.7c).
L’espressione “svuotare se stesso” acquista ora tutta la sua valenza: essa comporta il farsi “schiavo”, “simile (o uguale) agli uomini“. In questo modo da parte dell’uomo Gesù il mondo di Dio è interamente abbandonato, e la povertà, il fango, del nostro mondo terreno è definitivamente raggiunto e perciò salvato.
Come se questo non avesse bastato, l’itinerario di abbassamento di Gesù non aveva raggiunto il suo fondo. All’umiliazione dell’incarnazione, Cristo ne assomma un’altra ancor più sconcertante e scandalosa: quello di accettare liberamente per sé, lui che è Dio, la morte, e non una morte qualsiasi ma quella maledetta della “croce” (v.8; cfr Dt 21,23). La parabola della discesa dalla gloria celeste qui raggiunge il punto “nadir”. Gesù sprofonda nel tessuto dell’esistenza umana segnata dalla sua drammatica contingenza accogliendone anche non solo il dramma della morte, ma di una morte violenza, provocata, voluta da altri, in totale obbedienza da schiavo.
È questa la via attraverso la quale Dio ha voluto raggiungerci per stenderci la mano. Non ha scelto la via del miracolo, del cambiamento di strutture di peccato e sistemi sbagliati, ha percorso la strada, come ad Emmaus, del farsi compagno di cammino condividendo la nostra fatica, incertezza, dolore speranza. Ma proprio attraverso questa scelta ha potuto stenderci amichevolmente e in tutta libertà una mano trafitta unicamente dall’amore.
MEDITATIO
Paolo ci invita ad avere nelle nostre comunità uno stesso sentire (cfr Fil 2,2). Ma questo comune modo di sentire e di pensare a chi deve appartenere? Supponiamo di essere tutti radunati in assemblea e di pensarla ognuno in un modo diverso. Quando alla fine si deve decidere dobbiamo giungere a pensarla tutti allo stesso modo, ma di chi assumiamo il modo di pensare, il criterio di verità sarà sempre e solo della maggioranza in uno stile… democratico? Paolo ci ricorda che il modo univoco di pensare dei cristiani non è il modo di pensare di questo o di quell’altro, e neppure della maggioranza democratica fosse pure del consiglio pastorale o del capitolo provinciale, ma deve essere quello corrispondente ai “sentimenti” di Cristo. Dove “sentimento” è far nostro il suo modo di essere nel mondo, di vivere la relazione col Padre e tutti noi, soprattutto di come intendere la via, ricalcata sulla sua, attraverso la quale annunciare la salvezza dell’evangelo.
Ma quali sono i “sentimenti di Cristo”, le vie da lui percorse? Li potremmo riassumere in una parola: il dono gratuito di un amore incondizionato e a fondo perduto che non si preoccupa di “dare semplicemente qualcosa” ma che si fa essenzialmente “dono di tutto se stesso per noi”.
Leggendo i vangeli ci accorgiamo che Gesù non dà mai “qualcosa” per noi, ma sempre e solo dona tutto se stesso dall’inizio alla fine della sua esistenza: “Questo è il mio corpo dato per voi… questo è il mio sangue versato per voi”. Fugge quando la gente lo rincorre solo per ottenere qualcosa (cfr Gv 6,26ss). Non ritenne necessario divenire uomo potente e facoltoso capace di risolvere i problemi della povertà, della malattia, dell’ingiustizia, non si pensò neppure di presentarsi come il “deus ex machina” che all’ultimo istante con miracoli strabilianti potesse risolvere magicamente le contraddizioni della vita.
Gesù scelse un’altra strada, contrapposta a quella propostagli dal nemico nei quaranta giorni nel deserto (cfr Mt 4,1ss). Accettò la strada “in discesa” del “servo di JHWH”, quella che l’avrebbe fatto percorrere una via marginalità, sconfitta, incomprensione, senza ruolo sociale, politico o religioso di prestigio, senza ricorso ad alcuna forma di potere. Scelse di nascere in un paesino sperduto, figlio di persone senza nome e senza storia. Scelse di vivere in un ambiente povero, senza mai comandare, mai governare, senza mai ottenere un titolo onorifico…neppure di “dottor o monsignore”! Scelse di camminare sulle nostre stesse strade, di sentire la fame, la sete, la fatica, il dolore. Ha pianto e ha riso. Anche la sua morte avvenne tra due delinquenti, come all’inizio del suo ministero scelse di mettersi tra la fila dei peccatori in attesa del battesimo. Dio, in Lui, decise di raggiungerci in questo modo sconcertante e scandaloso per l’uomo “religioso”, così apparentemente inutile. Scelse ovvero la strada del “condividere in tutto la nostra condizione umana” (dalla Liturgia), non temendo di “abbassarsi”… troppo sino a terra (humus-terra da cui “umiltà”) e di sporcarsi le mani con essa. Solo così Dio poteva farsi povero e dunque capace di stare vicino al povero e al peccatore, al malato e al bambino, alla prostituta e al fariseo. Riusciremo mai a stupirci, magari, auguriamocelo! a scandalizzarci di queste scelte estrose di Dio? Sarebbe una grande grazia!
Accogliere questa unicità della rivelazione cristiana esige accettare che da parte di Dio vi sia la libertà di un suo radicale limitarsi ad un’esistenza umana nel suo concreto agire e patire storico, accettandone le casualità e i limiti, la provvisorietà e frammentarietà. Significa stupirci del fatto che Egli scelga di “abbassarsi-svuotarsi” fino al massimo limite per caricarsi anche del nostro peccato come agnello sacrificale perfetto fino ad accettare liberamente la morte maledetta di croce. Più in basso di così Dio non poteva scendere… “Discese agli inferi” professa ancora il credo apostolico, affermando la sua condivisione totale anche del nostro discendere nel nulla spaventoso della morte.
Ma tutto questo perché? La verità è semplicissima, essenziale e rivelatrice del cuore di Dio: Egli in Gesù, “come colui che serve”, scese nel nostro fango, “negli inferi del nostro nulla” senza timore, per poter afferrare la nostra mano e trascinarci fuori da quell’abisso, per innalzarci con lui alla sua gloria e alla sua luce. In questo mettere se stesso all’ultimo posto sta il più profondo “sentimento” di Cristo che “ha cercato fino in fondo le cose degli altri, ovvero la nostra vita.
Il cristiano è chiamato a costruire la propria vita su questo parametro evangelico. Non è facile! Comporta infatti un capovolgimento del modo di interpretare il nostro essere presenti nel mondo e del nostro agire. Istintivamente istituti, parrocchie, movimenti ecclesiale, la chiesa intera, tutti vorremmo avere anzitutto mezzi, risorse finanziarie, rilevanza sociale perché potessimo diffondere con maggior efficacia e incidenza il vangelo del regno, e risolvere tante situazioni di ingiustizia e povertà sempre più crescenti e talvolta intollerabili.
Ma intuiamo alla luce della Parola che il modo con cui il nostro Maestro desidera che testimoniamo il suo amore all’uomo non è anzitutto questo. Potremmo forse dare anche molto in termini di denaro, strutture e aiuti per far fronte a tante necessità. Ma tutto questo non potrebbe forse confondersi in generosa filantropia, ma niente di più. Offrire cose, servizi, strutture, può essere necessario non lo neghiamo di certo, talvolta è indispensabile; ma non può forse diventare se assolutizzato un percorso ambiguo e rischioso quando questi aspetti divengono prioritari e i più determinanti? Se ci fermassimo a questo livello la nostra testimonianza cristiana rischierebbe a mio parere di svaporare, di far svanire il suo autentico profumo che deve essere quello di Cristo (cfr 2Cor 2,15). Non possiamo poi nascondere il fatto che talvolta operiamo sì in vista del bene degli altri, portando avanti magari con immani sacrifici di personale e di denaro grandi opere, ma forse non accorgendoci che tutto ciò serve. Speriamolo almeno solo in parte, a nostro vantaggio fosse pure dell’istituto, della parrocchia, della congregazione? Si tratterebbe in tal caso di un nostro “arpagmon-tesoro” che non ci vogliamo lasciar strappar via. Ma san Paolo avverte che: “se anche dessi il mio corpo per essere bruciato, ma non avessi la carità, non servirebbe a nulla” (1Cor 12).
Mi sembra che più procederemo dentro questa nostra storia più la nostra presenza risulterà meno incisiva, meno capace di approntare risorse, strutture per far fronte ai vari bisogni degli altri. Saremo poveri sotto tutti gli aspetti! Non avremo grandi mezzi, strutture, risorse! Un male? Umanamente questo apparirà certamente come una sconfitta, una limitazione di presenza e di servizio. Ma alla luce del cammino “in discesa” percorso da Cristo, forse proprio in questa situazione potremo dire la cosa più importante come fecero Pietro e Giovanni col paralitico della Porta Bella del Tempio: «Non possiedo né argento né oro, ma quello che ho te lo do: nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno, cammina!» (At 3,6). Ci sarà evitato il rischio di porci in mezzo ai poveri come “ricchi” (fosse anche di virtù!) che dall’alto della loro generosità fanno orgogliosamente il bene. Impariamo ad accettare finora di saperci “abbassare e svuotare”. Lo Spirito di Gesù ci insegnerà così che la cosa più importante è dapprima imparare ad “essere con” più che il “fare per”. Impareremo i sentimenti del cuore di Cristo costituiti essenzialmente dalla sua capacità di “com-patire” e di “con-dividere”.
Questo passaggio non si opera semplicemente con programmi, documenti e sforzi di volontà. Occorre l’aiuto della grazia dello Spirito che ci conformi sempre più a Cristo. Questo esige un ascolto continuo, perseverante, mai interrotto della sua Parola antivirus per immunizzarci da percorsi che, anche se apparentemente buoni, in realtà ci potrebbero allontanare dal vangelo. L’atto sacramentale del Battesimo e dell’Eucarestia poi fondano ontologicamente la nostra comunione con Cristo Gesù, siamo innestati in lui e dunque non solo possiamo ma dobbiamo “pensarla” come lui.
Mi piace qui portare una testimonianza concreta di cosa significhi tutto questo. Padre Damiano de Veuster morto nell’isola di Molokai ammalato di lebbra nel 1889, giunse in quell’isola “maledetta” abitata da lebbrosi solo “con il breviario e un piccolo crocifisso”. Le prime settimane visse all’aperto, dormendo sotto un albero e mangiando su una roccia piatta. E scelse subito di immergersi volontariamente in quel mondo in putrefazione. Capì, quasi per istinto di carità, che i malati non lo avrebbero mai accettato se egli avesse cominciato a preservarsi, a usare precauzioni, a evitare i contatti, a mostrare ripugnanza. Di poter essere contagiato non si preoccupava. Diceva “d’aver affidato la questione a Nostro Signore, alla Vergine e a san Giuseppe”. I superiori gli scrivevano sempre di badare al contagio, ma egli sapeva che era assolutamente inutile essersi recato a Molokai se restava un “haole”, un “bianco”, di quelli che per definizione si “rifiutavano di toccare”. Egli non agiva così solo per rispettare la sensibilità degli hawaiani e quella ancora più acuta dei malati. Egli fece questa scelta per far suoi anzitutto “i sentimenti di Cristo” che non temeva di toccare i lebbrosi. Se quel desiderato “contatto” era per gli hawaiani una questione culturale, per padre Damiano era una questione di fede.
Si tratta certamente di una testimonianza estrema ed eroica, ma che, insieme a infinite altre, ci dice una cosa fondamentale: che la vera carità di Cristo non si presenta in primo luogo come organizzazione per far fronte e risolvere tutti i bisogni, ingiustizie, mali in termini di cose e strutture. Essa ci descrive che la prima carità deve prendere il volto della “con-divisione”, della “com-passione”, dell’abbassamento di Cristo. Paolo nella prima ai Corinti dirà : “Mi sono fatto debole con i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto a tutti, per salvare ad ogni costo qualcuno” (9,22), ovvero l’apostolo ricorda che la cosa essenziale è poter stare accanto ai deboli come debole, povero come poveri, al fine di portane insieme il peso, la fatica, la sofferenza, la gioia, la speranza, accettando con umiltà e pace di non aver grandi gesti da fare e cose da dare. A volte basta un sorriso, una carezza. Costa meno che mettere solo la mano al portafoglio e rende di più. Certamente se poi ho la possibilità di estrarre anche qualcosa dal portafoglio ben venga, ma sarà espressione di un qualcosa che è venuto prima ed è più vero. Scriveva a proposito don Primo Mazzolari : “Quando non si ha più niente da dare perché si è dato tutto, allora si diventa capaci di “veri doni”. Dare tutto: ecco la carità! Con niente puoi dare a chiunque, se vuoi bene a tutti. Se non hai roba, hai del cuore, e ognuno ne può prendere quanto vuole, perché il cuore cresce spendendosi e si arricchisce spogliandosi”.
ORATIO
Terminiamo la nostra lectio con una preghiera composta da madre Teresa di Calcutta. Come non ricordarla sempre “abbassata” sul malato, il moribondo? Si tratta di una preghiera sorprendente per lei che di bene concreto ne fece moltissimo: Teresa non chiede anzitutto al Signore la grazia di avere strumenti e risorse per soddisfare e cancellare gli infiniti bisogni propri e degli altri. Chiede soprattutto la forza di saper condividere col fratello la stessa fatica, lo stesso dolore, la stessa speranza. E’ il mistero dell’incarnazione, dell’abbassamento del Figlio di Dio, povertà apparente ma capace di arricchire l’altro del bene più profondo più vero ed eterno: l’amore.
“Signore, quando sono affamato, mandami qualcuno che ha bisogno di mangiare.
Quando ho sete, mandami qualcuno che ha bisogno di acqua.
Quando ho freddo, mandami qualcuno da riscaldare.
Quando sono ferito, fammi incontrare qualcuno da consolare.
Quando la mia croce diventa pesante, fammi condividere la croce di un altro.
Quando sono povero, conducimi qualcuno che è nel bisogno.
Quando non ho tempo, mandami qualcuno che io possa aiutare un istante.
Quando sono umiliato, dammi qualcuno di cui debba fare l’elogio.
Quando sono scoraggiato, mandami qualcuno da incoraggiare.
Quando ho bisogno della comprensione degli altri, mandami qualcuno che abbia bisogno della mia.
Quando ho bisogno che ci si prenda cura di me, inviami qualcuno di cui io mi debba curare.
Quando non penso che a me stesso, volgi i miei pensieri verso gli altri” .