• 15 Giu

    LA VISITAZIONE
    Lc 1,39-56

    di p. Attilio Franco Fabris

     

    Dopo i due dittici delle annunciazioni, Luca riferisce la visita che Maria compie alla parente Elisabetta.

    E’ un racconto gioioso permeato da una atmosfera di preghiera.

    Il vangelo sottolinea anzitutto la fretta di Maria nel recarsi da Elisabetta: è questo il segno della sua totale disponibilità e della  sua incrollabile fede.

    I genitori di Giovanni Battista abitavano, secondo la tradizione a est di Gerusalemme, a sei chilometri un villaggio chiamato ‘Ein Karim posto sulla montagna.

    Nazaret distava circa 150 chilometri: un viaggio a quei tempi lunghissimo e faticoso, circa tre giorni di marcia.

    L’incontro fra le due madri “impossibili” è denso di calore umano e spirituale. Da questo incontro sgorga la gioia e la preghiera.

    Maria porta in sé il grande segreto. Un segreto che ha cambiato radicalmente la sua vita, è un segreto meraviglioso e nello stesso tempo quasi temibile, inenarrabile, agli occhi degli uomini incredibile ed incomprensibile. Ma Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto e debole…

    Maria come ogni madre sente il bisogno di annunciare ciò che porta in sé, la sua maternità è fonte di gioia ma nello stesso tempo di travaglio ed interrogativi. Maria si trova infatti sola a portare il peso del mistero.

    Ella lo comunica all’umile e dimenticata Elisabetta, la sterile già al sesto mese di gravidanza.

    Entriamo con discrezione nel testo.

    Appena Elisabetta  ebbe udito il saluto di Maria, il bambino dentro di lei ebbe un fremito ed essa fu colmata di Spirito santo.

    Letteralmente Giovanni fece le capriole (cfr. Gn 25,22): è la gioia  messianica perché Dio è venuto a visitare il suo popolo (v. 68). Giovanni esprime la sua gioia profetica non a parole ma con tutto il essere.

    La preghiera di Elisabetta

    vv. 42-45

    E’ anche in un certo modo la preghiera del piccolo Giovanni pieno di Spirito profetico. Egli inizia a profetare ancor prima di vedere la luce.

    Elisabetta risponde al saluto di Maria. Ora un saluto ha lo scopo di dare all’altro una sua identità che viene da chi saluta.

    Ora la preghiera di Elisabetta si apre con una benedizione entrata poi nell’Ave Maria: Benedetta tu fra le donne…SI tratta di una proclamazione solenne nella quale è riconosciuta l’azione di Dio (cfr. Gdc 5,24; 13,18; Dt 28,4).

    Elisabetta riconosce in Maria la madre del mio Signore (cfr. 2Sam 6,9): Maria è proclamata madre del Figlio di Dio risorto. Ella è per grazia capace di riconoscere il mistero di Maria e la presenza in lei – nuova arca dell’alleanza – del Signore.

    v.45

    Beata te… E’ una beatitudine. Maria è la credente per eccellenza, a differenza dell’incredulo Zaccaria. La maternità fisica (v 42) e la maternità spirituale (v 45) sono qui, come pure in Lc 8,21 e 11,27-28, inscindibilmente unite.

    Per Luca non esiste contraddizione tra colei che ti ha portato nel grembo e ti ha allattato e colei che ha creduto alla parola di Dio.

    La preghiera di Maria

    E’ un testo antologico, nel quale scopriamo come la preghiera deve trovare la sua fonte nella Scrittura. Lo stile è quello dei salmi.

    Luca attribuisce tale preghiera a Maria in quanto “Figlia di Sion”, che riassume in sé tutti i valori spirituali del popolo eletto.

    Il filo conduttore è l’amore di Dio per la povertà-umiltà, l’amore di Dio per gli anawim. Maria si colloca nella loro schiera.

    Nel Magnificat intravediamo in controluce un’altra preghiera, nata dal cuore di una donna che non poteva avere figli: è il cantico di Anna (1 Sam 2), ma scopriamo pure riferimenti nei libri profetici (Ml 3,12; Ab 3.18)..

    Potremmo dividerlo in due strofe con due protagonisti: Maria e Israele.

    Ogni strofa è conclusa dal memoriale dell’amore di Dio:

    v. 50: la sua misericordia di generazione in generazione su quelli che lo temono.

    V. 54b-55: ricordandosi della sua misericordia come aveva promesso ai nostri padri a favore di Abramo e della sua discendenza per sempre.

    La prima strofa contrappone Maria umile all’onnipotenza di Dio.

    La seconda strofa, parlando di Israele, allinea una serie di parallelismi antitetici:

    forza di Dio / orgogliosi

    potenti / umili

    affamati / ricchi.

    Scopriamo altri preziosi elementi: il Magnificat è invito a scoprire il Dio della gioia e del riso (Gn 18,12-13; Pr 8,30-31; Gb 40,29). Il rapporto con Dio deve essere gioioso, giocoso. Il gioco è visione opposta all’economia del mondo, è contemplazione, speranza e gioia.

    Dio in qualche modo gioca con Maria, come con tutti coloro che a lui si abbandonano.

    L’uomo trova così la gioia nel dare, nella contemplazione, nell’essere lode vivente con tutto il suo essere: Oh Signore, io sarò la tua musica (J. Donne).

    Agli occhi degli uomini Dio compie sempre scelte estrose. E’ la logica di tutta la storia della salvezza, sino ad arrivare al suo culmine che è la croce.

    Il Magnificat è il canto della speranza. Maria guarda la storia partendo, non guardando al mondo così com’è, dalla speranza riposta in Dio.  Esso si colloca così nella linea delle beatitudini.

    Nella sofferenza Maria con tutti i poveri del regno attende nella speranza il ritorno di Dio e la trasformazione dei cieli e della terra. In Lei questa venuta è già iniziata, ed è per questo che ella può celebrarla e cantarla già al presente. Ella infatti ha già sperimentato la salvezza in Dio “mio salvatore”: Maria è la prima tra i salvati.

    In tal senso Maria parte dalla sua esperienza personale per guardare la realtà che la circonda (Non si può conoscere il Dio del Vangelo se uno non fa esperienza della salvezza sua personale, C.M.Martini).

    Nel Magnificat c’è la certezza che Dio ribalterà le sorti di questa “sgemba storia umana” (G: Ravasi).

    In questo senso Il cristiano è un uomo che aspetta (H. Newmann).

    v.56

    Si fa riferimento a 2Sam 6,11. Elisabetta è benedetta e gioiosa per la presenza dell’Arca dell’Alleanza.

    Veramente Dio è ora presente in mezzo al suo popolo che è venuto a salvare.

    Linee di riflessione

    – Dio viene a visitare il suo popolo. E’ lui a prendere l’iniziativa. La salvezza promana sempre dall’amore di Dio che sempre ci precede. Maria è lo strumento attraverso il quale Dio entra nella storia e si fa incontro al suo popolo.

    – La visita di Dio è evangelo, fonte di gioia. Maria è portatrice della grazia e della gioia.

    – Dall’incontro con Dio, dal riconoscere le sue opere sgorga il ringraziamento e la preghiera di lode.

    – Dio si rende prossimo, vicino al suo popolo in modo concreto e fattibile. Maria è segno di questa concretezza d’amore di Dio.

    Dall’enciclica Redemptoris mater, 36

    Nella visitazione la fede di Maria acquista una nuova consapevolezza ed una nuova espressione. Le parole usate da Maria costituiscono una ispirata professione di questa fede, nella quale la risposta alla parola della rivelazione si esprime con un’elevazione religiosa e poetica di tutto il suo essere verso Dio.

    In queste sublimi parole traspare la personale esperienza di Maria, l’estasi del suo cuore. Splende in esse un raggio del mistero di Dio, la gloria della sua ineffabile santità, l’eterno amore che, come un dono irrevocabile, entra nella storia dell’uomo

    Da CdA, 777

    Maria non si ripiega su se stessa, ma va a far visita a Elisabetta sua parente. La prima evangelizzata diventa la prima evangelizzatrice: proclama le meraviglie del Signore, con la presenza gioiosa e santificante, il cantico di lode e il servizio.

  • 14 Giu

    Lode alla donna forte
    Lectio di Giuditta 8,1-35 (passim)

     

    di p. Attilio Franco Fabris

    La città di Betulia è assediata dall’esercito di Oloferne generale delle truppe assire. Gli abitanti sono angosciati perché sono all’estremo e prevedono ormai imminente la catastrofe, non c’è più acqua! L’angoscia percorre le strade e i cuori di tutti e fa prendere decisioni insensate. La fede vacilla e si giunge a voler mettere alla prova Dio stesso. Solo una donna rimane ferma e sicura di sé; la sua vita poggia tutta nel Signore salda roccia che mai vacilla.

    Anche oggi esistono nella Chiesa e nel mondo tante “Betulie”: ovvero situazioni in cui ci si sente assediati, finiti e rischiamo di fare a nostra volta scelte sbagliate dettate dalla paura. Occorre una saldezza e un coraggio che il nostro cuore da solo non può darsi.

    Domandiamo lo Spirito di fortezza e di sapienza per i tanti assediati di oggi e invochiamo nuovi profeti che sappiamo intraprendere vie nuove di salvezza che la nostra cecità non riesce a vedere:

    Io so, o Padre, che mi stai vicino: con tutto lo slancio del mio essere ti supplico di accordarmi il tuo Spirito santo. Grazie a lui, sarò liberato dalla mia fragilità. Il tuo Spirito mi farà amare Te con tutta la mia vita: egli è la radice di ogni vero amore. Se tu non vegli su di me, io sono una creatura perduta! Ti supplico, Padre amato: riversa nel mio cuore lo Spirito santo, perché la sua presenza mi ristori e mi riscaldi con l’Amore. Allora potrò con fermezza rischiare la mia vita su di te, amarti con tutto il cuore, con la mia anima, con il mio respiro e con tutte le mie forze” (s. Tommaso Moro, scritta nella Torre di Londra pochi mesi prima della sua esecuzione capitale 1535).

    Lectio

    Difficile è datare storicamente il nostro autore e definire il genere letterario a cui appartiene il libro da lui composto. I dati cronologici presentati nel testo sono inconciliabili con quelli della storia: nel personaggio nemico di Israele che è il re Nabucodosor re degli assiri il nostro autore vuole concentrare simbolicamente tutto ciò che sempre rischia di distruggere l’opera di Dio e la fede del suo popolo.

    Per ben sette capitoli il nostro autore si dilunga a narrare la drammatica situazione in cui il popolo di Betulia (città inesistente!) si trova a dover far fronte. L’assedio dell’esercito nemico diviene giorno per giorno sempre più insostenibile. La penuria d’acqua in città ha ridotto i suoi abitanti allo stremo e in questa situazione disperata hanno costretto i capi ad un ultimatum di cinque giorni rivolto a Dio stesso: o egli interverrà donando l’acqua oppure si consegneranno tutti al nemico (7,30-31). Tale prova a cui i capi, stretti dalle proteste del popolo, vogliono sottomettere Dio, fissandogli un termine per essere liberati è naturalmente una pretesa assurda dettata da una mancanza di autentica fede.

    È in questo momento così teso che entra all’improvviso in scena una donna: Giuditta (il nome significa “giudea”). Dal nostro testo ci viene presentata come un’autentica figlia d’Israele, alla pari di altre grandi donne che l’hanno preceduta e che hanno operato salvezza per il loro popolo quali  sono state Giaele e Debora (Giudici 5). La genealogia di Giuditta – la più lunga riservata ad una donna nella bibbia – risale fino al patriarca Giacobbe-Israele (v.1). Suo marito, grande proprietario terriero morto per un’insolazione durante la mietitura, era della sua stessa tribù (v 2-3). Un tale matrimonio denota una stretta osservanza della Legge tipica del post esilio (cf Tb 5,11). Giuditta dunque è rimasta vedova repentinamente e in giovane età e senza discendenza di figli: la sua maternità si eserciterà nei confronti dell’intero popolo di Israele. Nei vv. 4-8 Giuditta viene presentata come donna dedita ad una saggia amministrazione dell’eredità del marito, la sua vita di fede è intensa, fatta di ritiro, penitenza, digiuno e preghiera. In pochi tratti è dipinta magistralmente nel ritratto ideale della donna israelita che unisce fascino e spiritualità, ricchezza e bellezza, benessere e fede.

    Giuditta, viene a conoscenza della decisione dei capi della sua città e con un’autorevolezza inusuale per una donna, li convoca a casa sua per discutere la stolta decisione che hanno preso. Le sue parole, dettate dalla sua “sapienza” (v.29) e dai toni che possiamo rintracciare nei testi profetici, sono anzitutto di rimprovero e ammonizione: “Ora, chi siete voi che avete tentato Dio in mezzo ai figli degli uomini? Certo, voi volete mettere alla prova il Signore onnipotente, ma non comprenderete mai nulla” (vv. 12-13). Essi sono caduti nell’insipienza di voler tentare Dio, quasi sfidandolo, mettendolo alla prova affinché operi nei termini e nei modi da loro prestabiliti: l’uomo di fede al contrario deve confidare senza condizioni nel Dio che salva: “Voi non vogliate ipotecare i disegni del Signore, nostro Dio, perché Dio non è come un uomo cui si possano fare delle minacce, o un figlio d’uomo sul quale si possano esercitare delle pressioni” (v. 16).

    Le sua parole vogliono riconfermare e ribadire ai capi e al popolo il primato del Signore che dona la sua salvezza nella sua liberalità e non secondo “ultimatum” dell’uomo dettati dalla sfiducia: “Se non vorrà aiutarci in questi cinque giorni, egli ha pieno potere di difenderci i giorni che vuole” (v.15).

    Giuditta nel suo discorso fa leva anche sul tema della responsabilità della gente di Betulia nei confronti di tutto il rimanente popolo di Israele: la loro resa o la loro resistenza avrà una ricaduta su tutti: “Perché se noi saremo presi, resterà presa anche tutta la Giudea e sarà saccheggiato il nostro santuario e Dio chiederà ragione di quella profanazione al nostro sangue” (v. 21)  Le scelte operate dall’uomo non sono mai senza conseguenze né per sé né per gli altri.

    Quello che il popolo di Betulia sta vivendo è una grande e dolorosa prova ma è necessario leggere tale situazione alla luce della parola per non cadere nella disperazione: le prove a cui si va incontro non sono che una purificazione da accogliere umilmente: “Ringraziamo il Signore nostro Dio che ci mette alla prova, come ha già fatto con i nostri padri” (v. 25). Giuditta rinvia dunque alla memoria dei patriarchi (v.27); tutti costoro infatti sono stati provati da Dio rimanendo fedeli. Così sul loro esempio, tutti sono invitati alla fiducia sostenendo la prova purificatrice permessa da Dio: “È a scopo di correzione che il Signore castiga quelli che gli sono vicini” (v. 27; cfr Dt 8,2-5).

    Una cosa è certa: se Israele si manterrà fedele all’alleanza Dio non potrà non intervenire a salvare il suo popolo donandogli ancora salvezza e colpendo l’oppressore.

    La reazione dei capi al discorso della donna è enigmatica. Il capo politico della città che è Ozia reagisce in modo ambiguo: anzitutto scarica la colpa della decisione sul popolo (v. 30) poi dice di affidarsi alle preghiere e alla saggezza di Giuditta (v.32) ma non si comprende se queste parole sono dette con convinzione oppure con ironia. Da parte dei capi c’è ancora la pretesa che la salvezza giunga da Dio nel modo da loro già prestabilito (v.31).

    A questo punto Giuditta trova il coraggio di staccarsi da queste esitazioni e compromessi che denotano solo calcoli umani. Per ben otto volte (nei cc. 8-16)  ripeterà l’espressione: “per mano mia il Signore visiterà Israele” indicando che attraverso di lei Dio donerà la salvezza al suo popolo. L’espressione ha un senso profondo: la “mano” di Mosè, nel libro dell’esodo, è lo strumento che Dio usa per agire (“visiterà”) nella storia (Es 9,22-23;…). Ora Dio usa la mano di una donna per ripetere le gesta gloriose di un nuovo esodo. Sappiamo dal proseguo del racconto che Giuditta “uscirà” (v.33) dalla città per entrare nell’accampamento nemico. Con uno stratagemma tutto femminile sedurrà il generale Oloferne, e al momento propizio, nella notte, gli mozzerà il capo con una spada. Le truppe senza più comandante si disperderanno e la città di Betulia e tutto Israele ritroverà la sua libertà.

    Questo piano d’azione non è rivelato da Giuditta a nessuno, è un segreto! Il che sta ad indicare che ella vi vede una collaborazione col nascosto disegno divino. Ai capi della città domanda solo fiducia.

    Meditatio

    L’istituzione, nel brano biblico commentato, fa una ben magra figura. I tre capi di Betulia  sono disposti a tradire il fondamento della fede israelita quando sono messi di fronte a scelte difficili e rischiose per la loro posizione: tra assalitore e assaliti essi cercano in ogni modo di salvare se stessi e la situazione a scapito dei valori più sacri. Per far fronte al malumore e all’insoddisfazione dei più l’istituzione corre sull’onda del “political correct” che non scontenta nessuno mancando tuttavia allo scomodo servizio alla verità.

    Certamente non è facile la situazione dei capi di Betulia che li porta ad una decisione inaccettabile e che non esitano a scaricare sul popolo (v. 30). D’altra parte il popolo è disorientato, in preda al terrore dell’imminente assalto dei nemici. Ma quel che vale la pena sottolineare è che qui si assiste all’ennesimo palleggio delle responsabilità in cui man forte e ultima parola l’ottiene la paura e più precisamente la paura di perdere. Quell’ultimatum posto a Dio non è certo atto di fede ma estremo e disperato tentativo di rimandare il problema al fine di mantenere lo “status quo” il più a lungo possibile a costo di piegarvi addirittura il Signore.

    La parola, mediata da Giuditta è quella che sempre i profeti hanno annunciato ad Israele quando si è trovato in situazioni simili: un invito alla fiducia, alla speranza, “facendo memoria” delle liberazioni-esodi operate ripetutamente da Dio: “attendiamo fiduciosi la salvezza che viene da lui” (v. 17).

    Giuditta appare donna determinata, sicura, anticonformista, autorevole, saggia. Ha del “carisma” si direbbe oggi! Pur vedova e senza figli non è una donna che si è lasciata trascinare nel rimpianto e nel dolore a causa della sua triste situazione, non ci appare ripiegata nella sofferenza come sarebbe naturale attendersi da chi improvvisamente si trova a dover far fronte alle improvvise “disgrazie” della vita. Si direbbe in termini psicologici che abbia attraversato brillantemente la fase dell’elaborazione del suo lutto riaprendosi alla vita e a nuovi valori. Punto di forza è sicuramente il suo agganciarsi ad una fede autentica in cui essa trova una sicurezza e un’audacia inusuali: Giuditta è donna di preghiera e di penitenza, e dotata nel medesimo tempo anche di un forte senso pratico (vv 7-8) che saprà dimostrare anche in questa situazione. Dimostra in effetti di aver mantenuto un sano rapporto con la realtà che la circonda, il suo sguardo e il suo cuore abbracciano la sorte del popolo di Betulia  e anche di tutto Israele (v. 24), e in questo “prendersi a cuore” il suo popolo essa vive una nuova maternità e sponsalità più allargata e spirituale. Per questo suo “figlio” e “sposo” sarà disposta a mettere a repentaglio la sua stessa vita perché se ne sente responsabile a differenza dei capi.

    Il suo discorso assume i toni forti della profezia e in questa libertà di “spirito” Giuditta non teme di criticare aspramente la decisione presa dall’istituzione definendola stolta ed insensata e andando coraggiosamente, unica fra tutti perché unica “saggia” (v. 29) controcorrente.

    Dobbiamo riconoscere la grande valenza che assume all’interno della rivelazione biblica il racconto di Giuditta: il nostro autore non teme di affidare ad una donna un ruolo così determinante e inusuale. D’altra parte il genio femminile è legato all’intuizione, è attento ai profondi risvolti della realtà e della vita, sa cogliere una diversa verità nella realtà che il più delle volte ci sfugge ed è dotato di un senso pratico immediato che a volte all’uomo manca. La donna, fatta per accogliere e donare la vita, è più portata al dono di sé, al coraggio di perdersi per il bene dell’altro. L’uomo, che simbolicamente raffigura l’istituzione e la legge, è più portato alla prudenza, al calcolo, alle attente valutazioni, nelle situazioni complesse rischia di perdersi nei suoi interminabili ragionamenti. Giuditta non si pone a far calcoli elaborando strategie di autodifesa ma si pone totalmente in gioco con quello che è ed ha; più disarmata di Davide perché senza fionda e di Giuda Maccabeo perché senza armate ella ritenendo con certezza che Dio può operare salvezza e giustizia anche attraverso di lei si rende disponibile usando l’unica “arma” che possiede ovvero la sua femminilità unita alla fede (v.33).

    L’incontro tra istituzione e profezia nella scrittura e nella storia appare quasi sempre conflittuale.  Questa tensione irrimediabile assume tuttavia un valore pedagogico per entrambe. Le spinte sono  diverse: l’istituzione è conservatrice per natura e compito, la profezia è tensione in avanti, al nuovo anche a costo di veder distrutto quel che si è faticosamente realizzato. La profezia, con il suo “occhio spirituale” vede già realizzato quel che l’occhio “carnale” non vede ancora o ritiene impossibile. Una sana dialettica tra entrambe queste tensioni è necessaria ad un discernimento corretto e prudente dinanzi ai problemi a cui occorre dare risposta.

    L’incontro tra Giuditta e i capi non si risolve apparentemete in conflitto, ma a ben vedere sembra che ben volentieri i capi vedano la responsabilità della situazione ricadere finalmente su altri (v.35). E’ questo un altro infelice modo di risolvere la tensione tra istituzione e carisma! Solo alla fine – come d’altronde quasi sempre avviene – l’istituzione riconoscerà l’opera di Dio: “Appena furono entrati in casa sua, tutti insieme le rivolsero parole di benedizione ed esclamarono al suo indirizzo: «Tu sei la gloria di Gerusalemme, tu magnifico vanto d’Israele, tu splendido onore della nostra gente. Tutto questo hai compiuto con la tua mano, egregie cose hai operato per Israele, di esse Dio si è compiaciuto. Sii sempre benedetta dall’onnipotente Signore». Tutto il popolo soggiunse: «Amen!»” (15,9-10).

    Come non ribadire a questo punto che nella rivelazione biblica Dio si compiace sempre di scegliere strumenti umanamente inadeguati perché poveri e deboli. Qui sta la sapienza divina che fa risplendere la sua potenza nella debolezza dell’essere umano, in questo caso di una donna (cf 1Cor 1,27). In Giuditta appare la forza dirompente della profezia nei confronti dell’istituzione (sia israelita come assira!) che vorrebbe preservare o allargare il proprio potere (i capi attraverso uno stolto ultimatum a Dio, Nabucodonosor attraverso le sue strategie politiche e militari). La donna debole esce vincitrice dal confronto con entrambe queste logiche ristrette. Ella infatti si pone su un altro livello e su un orizzonte più vasto ovvero quello della fede nel Dio sposo fedele e liberatore del suo popolo. Per l’uomo e la donna carismatici vi è sempre un’alternativa alla soluzione dei problemi dettata dalle visioni spesso difensive dell’istituzione. A quest’ultima l’umiltà di riconoscere umilmente l’indicazione coraggiosa del profeta, anche se apparentemente e umanamente stolta e debole. Al profeta l’umiltà del dialogo e il coraggio della parola scomoda unita all’obbedienza allo Spirito vagliato nel discernimento attento della comunità e dei suoi responsabili.

     

    Oratio

     

    Difficile giocarsi la vita per il bene altrui, prendersi a cuore concretamente l’altro, avere una parola forte e coraggiosa, affidarsi unicamente nella forza che proviene dall’alto. Più facile rifugiarsi nella sicurezza del già stabilito, nel culto della legge che rassicura la coscienza e premunisce dal rischio di giocarsi la libertà su strade nuove e rischiose. Giuditta è la “donna forte”: audace nella parola, energica nell’iniziativa, capace di rischio. Dio si è servito proprio “della sua mano per visitare il suo popolo”. E Giuditta generosamente gliel’ha offerta.

    Chiediamo al Signore la grazia di renderci disponibili alla sua opera con al stessa generosità. Sono tante le situazioni problematiche e umanamente insolubili nel mondo, nella Chiesa, nelle comunità da cui ci sembra d’esser inevitabilmente schiacciati. Ma Dio vuole ancora farci compiere nuovi esodi e per far questo ha bisogno di profeti che indichino strade nuove e siano strumenti nuovi.

    Con forza Teresa d’Avila ribadiva che Dio nella sua sapienza può scegliere modi e mezzi dinanzi ai quali il “mondo” sarebbe portato a scuotere la testa perplesso fosse anche la debolezza sapiente della donna: “Signore dell’anima mia, tu, quando pellegrinavi quaggiù, non aborrivi le donne, anzi le favorivi con benevolenza e in loro trovavi tanto amore e maggior fede che negli uomini. Tra loro vi era anche la tua santissima Madre. Perché, allora, non dovremmo riuscire a fare qualcosa di valido per te in pubblico? Perché non dovremmo osare di dire apertamente alcune verità che piangiamo in segreto? Perché tu non dovresti esaudirci quando ti rivolgiamo una giusta richiesta? Tu sei giudice giusto e non fai come i giudici del mondo, tutti uomini, per i quali non esiste virtù di donna che non ritengono sospetta. O mio Re, dovrà pur venire il giorno in cui tutti  vengano riconosciuti solo per quel che valgono!” (Cammino di perfezione).

     

     

     

     

  • 13 Giu

    LA SEQUELA E L’IMITAZIONE Dl CRISTO

    « Seguire » nei testi biblici neotestamentari è usato in diverse accezioni. Esprime il rapporto differenziato sorto tra Gesù Cristo e gli uomini che si unirono a lui, e si riferisce sia a coloro che, nel tempo del ministero pubblico, lo seguirono più o meno costantemente, sia a coloro che credettero in lui per la predicazione degli Apostoli dopo la Pentecoste e sia alla schiera innumerevole di coloro che vivono nella definitiva e piena unione con lui in Dio (cf. Gv 13, 36b).

    Il Bacht, che ha studiato la cristologia delle fonti pacomiane afferma che nel retroterra di tale cristologia c’è il motivo dell’imitazione e della sequela del Cristo. Nella lettera 5ª di Pacomio leggiamo: « lavoriamo, portando i pesi gli uni degli altri (cf. Gal 6, 1), come Cristo ha preso le nostre infermità (cf. Mt 8,17) sul suo corpo, e non si è sottratto. Se Cristo è nostro maestro, noi siamo i suoi imitatori e portiamo il suo obbrobrio ». Diventate monaco non significa altro per Pacomio che essere un perfetto discepolo di Cristo. Come ogni credente, il monaco non conosce altra legge che questa: « seguire in ogni cosa il Signore ».

    Il tema della sequela e quello dell’imitazione non combaciano esattamente, soprattutto sul piano del vocabolario. Il primo implica un cammino esteriore, un linguaggio fatto di gesti e di decisioni, che esprimono chiaramente che uno cammina sulle orme di Gesù e che si aggrega pubblicamente al gruppo dei suoi discepoli. Il secondo richiama lo sforzo morale e mistico per riprodurre i tratti di Gesù, modello-esempio a cui dopo il battesimo lo Spirito Santo non cessa di far comunicare il credente. Di fatto però, nelle antiche fonti monastiche, ambedue i temi si corrispondono e complementano a vicenda.

     

    1.   Crocifissi con Cristo

    All’origine della vita monastica c’è la chiamata a una sequela esplicita e generosa del Cristo nel suo annientamento e nella sua passione. Nella spiritualità dell’antico monachesimo il tema della sequela-partecipazione alla vita di Cristo e, in particolare, di Cristo crocifisso, è centrale. Per i monaci il cammino che conduce alla Vita è quello angusto della Croce. Tutta l’intera vita del monaco viene considerata, in sostanza, come una comunione con Cristo nella sofferenza per raggiungere poi la comunione con lui nella vita: « la loro rinuncia non è altro che l’impronta della croce e della morte in se stessi », afferma Cassiano. La vita dei monaci è considerata una vita di « crocifissi ». Di Pacomio si dice che « sempre portava nella sua carne la croce di Cristo ». Da parte sua, Basilio asserisce che i monaci « portano nel corpo la morte di Gesù e, prendendo la propria croce, seguono Dio ». E nelle Regole ampie afferma che « la regola del cristianesimo consiste nell’imitazione di Cristo, nella misura (en to métro) dell’incarnazione ». La misura e la regola del cristianesimo è che ci si conformi pienamente all’incarnazione, cioè al mistero del Verbo per noi umiliato e fatto ubbidiente fino alla morte; che si diventi, in altre parole, così perfetti imitatori del Cristo da continuarne in noi il suo mistero personale.

    Il desiderio di donarsi a Cristo si realizza nella ubbidienza e nella rinuncia di di sé. Ideale dei monaci era vivere non più secondo i propri desideri ed egoismi, ma secondo la volontà di Dio. Nei Detti dei padri del deserto, leggiamo che Iperecchio diceva: « la gloria del monaco è la ubbidienza. Chi la possiede sarà esaudito da Dio, e con franchezza starà di fronte al Crocifisso, perché il Signore crocifisso si fece ubbidiente fino alla morte ». Da parte sua, Cassiano afferma: « Così come colui che è crocifisso non ha più la possibilità di muovere le sue membra e di voltarsi verso dove vuole, così noi dobbiamo regolare la nostra volontà ed i nostri desideri non più secondo ciò che ci piace, ma secondo la legge del Signore, lì dove essa ci ha collocati ».

    L’atteggiamento di rinuncia accresceva nei santi monaci il desiderio dei sacrifici, dei dolori e delle afflizioni. Essi infatti credevano che quanto più erano crocifissi con Cristo, tanto più sperimentavano la realtà dell’amore di Dio che, come dicevamo prima, era il grande scopo della vita del monaco. I monaci credevano che questo amore, che Cristo mostrò intensamente nella sua passione essi potevano sperimentarlo più profondamente quando soffrivano con lui. Volendo i monaci prendere su di sé la croce di Cristo e con essa abbracciare la realtà del suo amore, si sentivano più fortemente spinti a soffrire con lui (com-patire). Essi non volevano lasciare solo il Cristo nelle sue sofferenze. Quando nel giorno di Pasqua, Pacomio preparò per il suo maestro Palamone alcune erbe condite con olio,  « questi dandosi colpi sulla fronte disse piangendo: “il Signore è stato crocifisso, ed io mangio cibi conditi con olio?” », e rifiutò il cibo offertogli.

    2.   Partecipanti in tutto alla sorte di Cristo

    Come rileva la Mortari (Vita e detti dei padri del deserto, Città Nuova, Roma 1975), nella spiritualità dei padri del deserto non c’è solo la scelta primaria e globale di essere conformi al Cristo nella sua sofferenza, e la convinzione che tale conformità si possa realizzare in grado massimo in una vita di sacrificio e di rinuncia; c’è anche una corrispondenza puntuale di contesti – talora evidente, tal ‘altra più sottile – tra gli episodi evangelici e gli episodi della vita degli anziani asceti. Non a caso riguardo ai fratelli che chiedono se c’è salvezza in base alle loro opere, il santo asceta Pambone ripete il gesto compiuto una volta da Gesù, scrivendo in terra le loro azioni, come il Signore fece con i farisei, che gli avevano condotto la donna colta in adulterio. Del padre Daniele si dice che passò incolume attraverso dei barbari, come il Signore quando volevano ucciderlo, ma non era ancora giunta la sua ora (cf. Lc 4, 30). Come il Cristo « fu condotto dallo Spirito nel deserto per essere tentato dal diavolo » (Mt 4,1), così il monaco che si ritira nel deserto sa che sarà tormentato da un combattimento diretto e serrato con le potenze maligne… C’è quindi la consapevolezza che la sequela del Cristo conduce ad una intima partecipazione alla sorte stessa del Signore.

    La partecipazione del monaco al dolore di Cristo Gesù si riallaccia al tema del lutto per i propri peccati, causa della morte in croce di Cristo: « il monaco – dice Poemen – deve avere sempre in sé il lutto per i suoi peccati. E san Giovanni Crisostomo rimprovera il monaco dissipato dicendo: « Tu ridi senza misura, e sei comunque un monaco? Tu che sei un crocifisso, uno che è in lutto? Dove hai visto che Cristo abbia fatto simile cosa? ». Questa spiritualità del lutto ha però nei padri del deserto una dimensione per così dire pasquale: questo lutto viene detto dai padri Charmopoiós, cioè operatore di gioia. Per esprimere la compresenza – che sfugge ai canoni razionali – della « Tristezza secondo Dio » (cf. 2 Cor 7, 10) e della gioia spirituale, i padri hanno coniato un termine intraducibile, la Charmolúpe. Giovanni Climaco scrive: « Chi cammina continuamente nel lutto secondo Dio, non cessa di far festa ogni giorno ». A scanso di equivoci, bisogna mettere in luce tutti gli elementi che integrano i diversi temi della spiritualità dell’antico monachesimo, troppo spesso giudicata unilateralmente.

    Come dicevamo all’inizio, la sequela di Cristo è alimentata dalla certezza che attraverso la partecipazione alla croce di Gesù, il monaco ha parte anche alla Sua vita divina. La lotta, la fatica e le difficoltà sono il cammino naturale che conduce alla vita. « La croce è il principio della nostra vita », afferma Orsiesi, e poi aggiunge: « Dobbiamo sapere che senza le tribolazioni e le angosce, nessuno otterrà la vittoria».

    Se in questo mondo sono possibili la pace e la gioia, si tratta sempre solo della pace e della gioia che derivano dalla speranza del Regno futuro e che ora sono raggiungibili soltanto attraverso l’accettazione della croce e della fatica. In fondo a questa concezione della vita ascetica c’è una certa relazione di opposizione tra il mondo attuale e il mondo futuro, che i monaci vedono come contrapposizione tra mondo o vita mondana e vita nuova in Cristo Gesù: allearsi con il mondo è un impedimento a compiere un autentica scelta per Cristo: « Rinunciare mondo dice Orsiesi – perché, perfetti, possiamo seguire Gesù perfetto ».

    3.   La “vita apostolica”

    I primi monaci erano convinti che il loro genere di vita non era in sostanza qualcosa di singolare. Come dicevamo prima, essi cercavano di seguire le orme della lunga schiera di coloro che li avevano preceduti nella sequela del Cristo. La sequela di Gesù è vissuta dal monaco« secondo il modello e l’esempio di coloro che lo hanno preceduto in questo cammino ». In un modo del tutto particolare, i monaci sono i seguaci dei martiri, i quali nella sequela di Cristo sofferente hanno raggiunto il massimo di partecipazione dando la loro vita per Cristo.

    Il monaco trova già nell ‘AT i suoi predecessori e modelli, specie nei profeti e in altri santi personaggi che offrirono la loro vita per la causa di Dio, secondo quando leggiamo nella lettera agli Ebrei: « Altri subirono scherni e flagelli, catene e prigione. Furono lapidati, torturati, segati, furono uccisi di spada, andarono in giro coperti di pelli di pecora e di capra, bisognosi, tribolati, maltrattati…, vaganti per i deserti, sui monti, tra le caverne e le spelonche della terra » (Eb 11, 36-38). Questo brano neotestamentario è citato frequentemente dalle antiche fonti monastiche: da Teodoreto, Basilio, Cassiano ed altri.

    Ma i veri e più immediati modelli biblici del monaco sono soprattutto gli Apostoli. Come gli Apostoli lasciarono tutto e seguirono Cristo partecipando pienamente anche della sua croce, così pure i monaci, seguendo il loro esempio, rinunciano al mondo per diventare perfetti discepoli di Cristo. Già nella vocazione del padre degli eremiti, Antonio, esercita un forte influsso il pensiero di « come gli Apostoli lasciassero la loro casa per seguire il Salvatore ». Il proposito di conformare la propria vita a quella degli Apostoli diventa così un punto di riferimento della spiritualità monastica, soprattutto di quella cenobitica.

    Le vite copte di Pacomio raccontano che, allorquando i fratelli, desolati per la morte del loro padre, vennero da Tabennesi a far visita ad Antonio malato, questi avrebbe detto di Pacomio: « Aver riunito le anime attorno a sé, allo scopo di offrirle pure al Signore, è un fatto che dimostra ch’egli è superiore a noi e che ch’egli ha seguìto è la via apostolica, voglio dire la congregazione ». Queste parole, che fanno eco al complesso del dossier pacomiano, sono assai ricche di significato. Teodoro, uno dei primi discepoli di Pacomio, parlerà della vita cenobitica come « vita apostolica ». L’espressione “vita apostolica”, che nella storia della spiritualità cristiana e più in concreto della vita religiosa assumerà una varietà di significati non esprime altro in fondo che il desiderio di « vivere alla maniera degli Apostoli ». È chiaro in questo caso il riferimento alla vita condotta dal gruppo apostolico alla sequela di Gesù e alla vita della primitiva comunità cristiana di Gerusalemme.

    Concludendo, diremo molto succintamente che il cristocentrismo della spiritualità dell’antico monachesimo si riallaccia a una serie di tematiche il cui asse è costituito dal motivo centrale dell’imitazione e sequela del Cristo sofferente: l’intera vita monastica viene considerata come una comunione con Cristo nella sofferenza per raggiungere poi la comunione con lui nella sua vita divina.

  • 13 Giu

    Una lettura del “Decreto su “L’apostolato dei laici” (Apostolicam actuositatem)

     

    a cura di p. attilio franco fabris

     

    Il ritorno dei laici

    Il Concilio Vaticano II presenta la chiesa come un grande cantiere in cui lavorano diverse categorie di operai, tutti indispensabili e complementari; un cantiere in cui non devono esserci disoccupati.

    Il Vaticano II assegna a ciascuno il suo compito: c’è un “ufficio pastorale” da svolgere, e viene affidato ai vescovi; ci sono un “ministero e una vita presbiteriale” da assumere, in diretta  collaborazione con loro, e questo riguarda i preti; c’è poi un “apostolato” di tutti i battezzati, ed è il compito dei laici; se questi sono “religiosi” è urgente “rinnovare e aggiornare la loro vita religiosa”.

    La chiesa ha un compito da affidare a te, a tempo pieno. Non abbandonare il tuo posto. Ecco l’elenco delle tue mansioni”. Leggiamo nel documento “Decreto sull’apostolato dei laici”

    Come nella compagine di un corpo vivente nessun membro si comporta in maniera puramente passiva, ma insieme con la vita del corpo ne partecipa anche l’attività, così nel corpo di Cristo, che è la chiesa, tutto il corpo “secondo l’attività propria ad ogni singolo membro (…) contribuisce alla crescita del corpo” (Ef 4,16). Anzi in questo corpo è tanta l’armonia e la compattezza delle membra che un membro, il quale non operasse per la crescita del corpo secondo la propria attività, dovrebbe dirsi inutile per la chiesa e per se stesso” (2/916).

    Un linguaggio nuovo

    Nel regno della grazia tutti sono considerati “adulti”! Tutti?… Sono tutti veramente adulti responsabili?… Si fa presto a dirlo… La commissione preparatoria che si occupava dell’apostolato dei laici ha avuto l’onestà di cancellare, nello schema che stava mettendo a punto, le parole: “sempre, nel corso dei secoli”, i battezzati hanno avuto un loro posto nella chiesa di Dio.

    Non si può ignorare in questo modo le lunghe deviazioni che si sono verificate nel corso della storia! Il concilio riporta alla luce la tradizione dopo quindici secoli di oblio. Il suo linguaggio risulta nuovo. Si tratta di rimettere in piedi il popolo della pentecoste.

    Il popolo della Pentecoste

    Nel nuovo testamento la parola laico non esiste. Tutti indistintamente, dal vescovo ai battezzati nell’ultima notte di pasqua, i membri della comunità cristiana vengono chiamati i santi! gli eletti, i discepoli, e soprattutto i fratelli. La comunità è una fraternità. Tutti sono responsabili della fede, della testimonianza, della chiesa, e della salvezza da suscitare nella vita degli uomini.

    L’importante è che tutti i fedeli del Cristo. pieni di meraviglia di fronte alla radicale novità dell’evento pasquale – la morte e risurrezione – si mettano al lavoro per annunciare dovunque la buona notizia. Non c’è un minuto da perdere.

    È  vero che Pietro, Paolo, gli apostoli, i presbiteri occupano un posto a parte, per poter assicurare il servizio della Parola (cf. At 6,2) e spazio alla preghiera; ma tutti i fratelli sono ugualmente impegnati ad annunciare il Cristo nel loro ambiente di vita.

    Una eredità dal medioevo

    Il termine laico compare per la prima volta in un documento scritto intorno nell’anno 95. Si tratta della prima lettera di san Clemente papa, che lo usa per distinguere i fedeli dai ministri: E non per accordare un qualsiasi privilegio al clero. Infatti “ministro” significa servo, e il servizio non è una promozione.

    Almeno in teoria, perché la polvere imperiale accumulata sul trono di Costantino ricade sulle spalle della chiesa, come diceva Giovanni XXIII. Quando l’impero viene battezzato, quando la società diventa una chiesa cristiana a tutti i livelli, il mondo clericale si trova in mano le leve del potere e il mondo dei laici sente sempre meno l’urgenza di annunciare Gesù Cristo.

    Una missione specifica nella chiesa e nel mondo? A che scopo, dal momento che tutto è chiesa, o almeno così si crede? Se qualcuno pensa che sto esagerando, può rileggere il Decreto di Graziano, una raccolta di diritto ecclesiastico compilata intorno al 1140: “i laici sono coloro a cui si concede di prender moglie, di coltivare la terra, di agire secondo giustizia, di deporre le proprie elemosine sull’altare, di pagare la decima. Potranno salvarsi, nonostante tutto se eviteranno i vizi di questo mondo e faranno il bene“.

    Ma lo Spirito santo non legge il decreto di Graziano e continua a soffiare sui laici a raffiche improvvise. Generazioni di cristiani cresciute in famiglie borghesi e colte leggono direttamente il vangelo e cominciano a desiderare di viverlo. Attraversano gli oceani. e aspirano a portarlo in capo al mondo. Gruppi sempre più vasti di poveri di Cristo vivono ed evangelizzano come i primi cristiani. Il movimento di Francesco d’Assisi che non è prete è un movimento di laici che predicano la povertà e la penitenza con l’approvazione di papa Innocenzo III.

    Dopo Trento

    Dopo Trento, il medioevo risulta rinforzato. Il dinamismo cristiano dei laici è stato per timore del movimento protestante che favoriva oltremodo i laici facendo addirittura scomparire il ruolo ministeriale risulta ancor più “imprigionato”. Così la comunità dei fedeli vive unicamente sottomessa. Questa pesante eredità viene raccolta dal Codice di diritto canonico del 1917, su cui è modellata la chiesa pre-conciliare. Al canone 107 si legge praticamente che: “laico è chi non è chierico”. Sarebbe come definire la donna dicendo che non è un uomo! Il canone 682 precisa poi i diritti dei laici: “Ricevere dal clero i beni spirituali e soprattutto gli aiuti necessari alla salvezza“. Tutto qui? E’decisamente poco.

    Non critichiamo per il gusto di criticare. Nella stessa situazione non saremmo certo stati più geniali degli altri! Ma è importante conoscere la storia, per rendersi conto dei passi da gigante che sono stati fatti negli ultimi cento anni sotto l’impulso dello Spirito, e per prendere coscienza della conversione di mentalità appena avviata!

    Verso il Vaticano II

    Nel frattempo sorgono riviste e movimenti nuovi, che portano avanti un lavoro di sensibilizzazione sui problemi dell’apostolato laico in una prospettiva veramente cattolica. Fra le due guerre nascono una Conferenza delle organizzazioni internazionali cattoliche e un Comitato permanente dei Congressi internazionali per l’apostolato dei laici.

    Le condizioni odierne richiedono sempre più che l’apostolato dei laici sia assolutamente più intenso e più esteso. Infatti l’aumento costante della popolazione, il progresso scientifico e tecnico. Le relazioni sempre più strette fra gli uomini, non solo allargano straordinariamente i campi dell’apostolato dei laici, in gran parte accessibili solo ad essi ma suscitano nuovi problemi che richiedono il loro sollecito impegno e zelo.

    Il secondo congresso mondiale (1957) ha come tema: “I Laici nella crisi del mondo moderno: responsabilità e formazione”.

    Questo contributo nuovo alla vita della chiesa non manca di dare i suoi frutti: delle otto commissioni preparatorie create da Giovanni XXIII in vista del concilio. una ha come oggetto l’apostolato dei laici (4 giugno 1960). Nella commissione sono rappresentate ventisei nazioni ma…non sono presenti i laici! È un’anomalia purtroppo assai significativa di una certa mentalità dura a morire; è in un certo senso il peccato originale del decreto “Apostolicam actuositatem” sull’apostolato dei laici.

    Il decreto del Vaticano II

    Grazie al concilio la Chiesa iniziò a rimettersi in piedi sulle sue gambe: il popolo di Dio e i vescovi.

    La grande novità del concilio infatti consiste nella riscoperta di queste due realtà che appartenevano alla tradizione, ma si erano completamente offuscate col passare dei secoli: da un lato, la collegialità dei vescovi e dall’altro l’importanza fondamentale e la missione di tutto il popolo di Dio.

    I laici sono presenti in tutti i documenti conciliari. Pensate soprattutto alla costituzione dogmatica Lumen Gentium in cui il mistero della chiesa, della sua santità, del suo sacerdozio, viene collocato in primo luogo all’interno del popolo di Dio.

    Sulla linea della Lumen gentium si pone il Decreto sull’apostolato dei laici, che costituisce uno dei grandi avvenimenti del concilio.

    La vocazione battesimale dei laici

    Ci può essere dunque stata una teologia povera e deformante, come è stata la teologia della chiesa prima del Vaticano II. Durante la discussione della Lumen gentium, il 16 ottobre l963, ad esempio, il cardinal Ruffini (+ 1967) è insorto contro un paragrafo che trattava dell’apostolato dei laici  dicendo: “La missione dei laici non assomiglia a quella degli apostoli. All’interno della chiesa non

    si può riconoscere ai laici il diritto, e tanto meno il dovere, di dire quello che pensano. Si può parlare della fraternità di tutti i fedeli, vescovi e preti compresi, ma non senza ricordare con forza che la gerarchia comanda e il laico deve obbedire. Il senso infallibile dei fedeli nelle questioni di fede? Non è altro che un prodotto, un’eco dell’attività infallibile dei vescovi. Non attribuiamo carismi ai laici: la persistenza di questo fenomeno non è provata né dalla storia, né dall’insegnaniento della chiesa. I laici, i laici… Quali laici? Il battesimo non basta a creare

    quello, che per tradizione si intende un laico…”. Il buon cardinale era rimasto fermo alla misera teologia del XIX secolo. E’ quella che faceva scrivere a Leone XIII “E’ chiaro ed evidente che nella chiesa ci sono due categorie ben distinte: i pastori e il gregge, cioè i capi e il popolo. La prima categoria ha la funzione di insegnare. di governare, di dirigere gli uomini nella vita, di imporredelle regole: la seconda ha il dovere di essere sottomessa alla precedente, di obbedirle, di eseguire i suoi ordini e di renderle omaggio”.

    Questo modo di concepire la chiesa non è stato ereditato dalla Scrittura, né dalla tradizione, ma dalle strutture politiche dell’impero e del feudalesimo: da una parte la chiesa, cioè la piramide papa – vescovi – preti, e dall’altra il popolo di Dio.

    In effetti il Vaticano II è ritornato alle fonti, al vangelo e agli Atti degli apostoli, ed ha consacrato una prassi avviata linea dalla metà del XIX secolo, che vede una presenza sempre più numerosa e responsabile dei laici agli avamposti dell’apostolato.

    Ma in che cosa consiste esattamente l’apostolato, la missione?

    Lo sappiamo già, ma è bene sentirlo dire dai padri conciliari: “La chiesa…. (ma, per carità, non pensate che questa parola si riferisca ai pastori, al governo della chiesa, come avveniva molto spesso nei testi ufficiali di prima del concilio! Nell’ecclesiologia restaurata dal Vaticano II la chiesa è l’intero popolo di Dio. Ciascuno di noi ne fa parte! Dunque:) la chiesa è nata con il fine di rendere, mediante la diffusione del regno di Cristo su tutta la terra a gloria di Dio Padre, partecipi tutti gli uomini della redenzione salvifica e per mezzo di essi ordinare effettivamente il mondo intero a Cristo“.

    Ascolta ancora: “Tutta l’attività del corpo mistico ordinata a questo fine si chiama apostolato, che la chiesa esercita mediante tutti i suoi membri, naturalmente in modi diversi; la vocazione cristiana infatti è per sua natura anche vocazione all’apostolato“.

    Nessun concilio aveva ancora solennemente dichiarato queste realtà. E ci vorrà ancora molto tempo prima che penetri veramente nella coscienza della massa dei battezzati. ”Mediante tutti i suoi membri… per sua natura…Tutti chiamati all’apostolato..”? E’ incredibile!

    La vocazione cristiana è vocazione all’apostolato

    Per diventare preti ci vuole la chiamata del vescovo. Per trovarsi attivamente impegnati nella missione della chiesa non c’è bisogno che i battezzati aspettino di essere mandati dal vescovo o di essere convocati dal parroco; basta che prendano sul serio il loro battesimo e confermazione:

    Il sacro concilio (…) si rivolge ai fedeli laici dei quali già altrove ha ricordato la parte propria e assolutamente necessaria, nella missione della chiesa. L’apostolato dei laici, infatti, derivando dalla loro stessa vocazione cristiana, non può mai venir meno nella chiesa“.

    Dunque ogni battezzato ha una “parte assolutamente necessaria nella missione della chiesa“. Anche tu personalmente, e una “parte propria” (vedremo subito che cosa significa). Questo deriva “dalla stessa vocazione cristiana“. Allora, se sei battezzato non sei un ritardato mentale un sottosviluppato dello spirito, ma sei responsabile della tua chiesa e della sua missione nel mondo. Altrimenti paralizzi il tuo battesimo, neutralizzi la tua cresima, incateni lo Spirito santo che abita in te: afferma il nostro documento: “I vescovi, i parroci e gli altri sacerdoti dell’uno e dell’altro clero. ricordino che il diritto e il dovere di esercitare l’apostolato è comune a tutti i fedeli sia chierici sia laici e che anche i laici hanno compiti propri nell’edificazione della chiesa. Perciò lavorino fraternamentc con i laici nella chiesa e per la chiesa. ed abbiano una cura speciale dei laici nelle loro opere apostoliche” (25)

    E’ vero che il Cristo “ha stabilito alcuni come apostoli altri come profeti, altri come evangelisti, altri come pastori e maestri” – i vescovi, i preti -, ma a che scopo? Per smobilitare i fedeli concentrando nelle mani di pochi i compiti e le responsabilità? Niente affatto, anzi, “per rendere idonei i fratelli a corhpiere, il .ministero. al fine di edificare il corpo di Cristo” (Ef 4,11-12).

    Quindi, dice il concilio: “C’è nella chiesa diversità di ministero, ma unità di missione. Gli apostoli e i loro successori hanno avuto da Cristo l’ufficio di insegnare, santificare e reggere in suo nome e con la sua autorità. Ma i laici, resi partecipi dell’ufficio sacerdotale profetico e regale di Cristo, nella missione di tutto il popolo di Dio assolvono compiti propri nella chiesa e nel mondo” (2).

    Hai letto? “Nella missione di tutto il popolo di Dio”. Il papa o il vescovo non sono più missionari di te. Lo sono soltanto in un altro modo. Su una nave, uno sta al timone, un altro alla radio, un terzo alle macchine; ma nessuno è più o meno marinaio degli altri. Nella chiesa tutti, dal comandante all’ultimo mozzo, sono missionari al cento per cento e ventiquattro ore su ventiquattro. Non esistono i battezzati “part time”. La responsabilità attiva dell’apostolato è una conseguenza naturale dell’essere cristiani.

    Che posto ha nella tua vita Cristo e il suo mandato?

    Tutti i battezzati hanno il “mandato” dice il nostro decreto. Collettivamente in quanto gruppi e personalmente, in quanto battezzati. Tu hai il mandato. Sempre. Ma il mandato di Cristo, in via diretta.

    È chiaro che una missione particolare può comprendere un mandato speciale del vescovo. Pensiamo ad esempio al direttore di un ufficio catechistico o all’ispettore delle scuole cattoliche di una regione. Ma anche allora, precisa il concilio, l’apostolato del laico che ha ricevuto un mandato dal vescovo conserva la sua “natura propria” ed esige “la necessaria libertà d’azione” (24).

    In ogni caso la responsabilità e la missione apostolica di ogni cristiano nel mondo, al livello del suo ambiente di vita, deriva “dal mandato sacramentale del battesimo e della cresima“.

    I laici derivano il dovere e il diritto all’apostolato dalla loro stessa unione con Cristo capo. Infatti, inseriti nel corpo mistico di Cristo per mezzo del battesimo, fortificati dalla virtù dello Spirito santo per mezzo della cresima, sono deputati dal Signore stesso all’apostolato. Vengono consacrati per formare un sacerdozio regale e una nazione santa onde offrire sacrifici spirituali mediante ogni attività e testimoniare dappertutto il Cristo. Inoltre con i sacramenti soprattutto con l’eucaristia, viene comunicata e alimentata quella carità che è come l’anima di tutto l’apostolato“(3). ,

    Questo mandato è l’essenza stessa del cristianesimo. Il battesimo fa nascere a una vita, a una vitalità nuova, fatta di fede, di speranza e di carità. “A tutti i fedeli quindi è imposto il nobile onere di lavorare affinché il divino messaggio della salvezza sia conosciuto e accettato da tutti gli uomini, su tutta la terra” (3).

    I carismi

    Ma ciascuno al suo posto e secondo i doni che ha ricevuto. Nel corpo, il piede non è la mano, l’orecchio non è l’occhio. Il Creatore e lo Spirito santo ti hanno fatto in un certo mondo, e insostituibile. C’è una diversità di chiamate, di capacità, di situazioni; in una parola: di carismi; cioè di quei doni particolari che lo Spirito ha fatto a ciascuno per il servizio della comunità e del mondo. I laici non sono numeri intercambiabili; irreggimentati dai preti per camminare con passo uniforme sulle vie dell’obbedienza. Ciascuno è un membro vivo di un corpo vivente, e deve dare il meglio di se stesso nella molteplice ricchezza delle sue possibilità: “Dall’aver ricevuto questi carismi, anche i più semplici, sorge per ogni credente il diritto e il dovere di esercitarli per il bene degli uomini e per l’edificazione della chiesa nella chiesa e nel mondo con la libertà dello Spirito santo, il quale spira dove vuole” (3).

    Ogni battezzato è dunque guidato direttamente dallo Spirito, non dal clero. “Dove c’è lo Spirito del Signore c’è libertà” (2Cor 3,17). Ma bisogna essere certi che si tratti della libertà dello Spirito santo.

    Il concilio chiede quindi che sia vissuta, “in comunione con i fratelli in Cristo, soprattutto con i propri pastori, che hanno il compito di giudicare sulla genuina natura e sull’uso ordinato di questi doni, non certo per estinguere lo Spirito, ma per esaminare tutto e ritenere ciò che è buono (cf. ITs 5.12-19.21)” (3/921).

    Siamo finalmente usciti da una visione amministrativa della chiesa, in cui i fedeli non avevano che da esercitare la virtù della sottomissione. La chiesa del Vaticano II, il corpo di Cristo è una realtà organica in cui i diversi membri non hanno la medesima funzione (cf. Rm 12,4), ma sono tutti attivi, tutti responsabili; la sua vita non è governata soltanto da un’autorità e da leggi umane, ma è sovranamente guidata dallo Spirito del Signore.

    Un grande cantiere in cui tutti sono indispensabili

    Il Concilio Vaticano II presenta la chiesa come un grande cantiere in cui lavorano diverse categorie di operai, tutti indispensabili e complementari; un cantiere in cui non devono esserci disoccupati.
    Dunque la comunità ecclesiale ha un compito da affidare a te, a tempo pieno. Non abbandonare il tuo posto. “Come nella compagine di un corpo vivente nessun membro si comporta in maniera puramente passiva, ma insieme con la vita del corpo ne partecipa anche l’attività, così nel corpo di Cristo, che è la chiesa, tutto il corpo “secondo l’attività propria ad ogni singolo membro (…)contribuisce alla crescita del corpo” (Ef 4,16). Anzi in questo corpo è tanta l’armonia e la compattezza delle membra che un membro, il quale non operasse per la crescita del corpo secondo la propria attività, dovrebbe dirsi inutile per la chiesa e per se stesso” (AA 2).

    Ma in che cosa consiste esattamente l’apostolato, la missione?

    Lo sappiamo già, ma è bene sentirlo dire dai padri conciliari: “La chiesa…. (ma, per carità, non pensate che questa parola si riferisca ai pastori, al governo della chiesa, come avveniva molto spesso nei testi ufficiali di prima del concilio! A partire dal Vaticano II per Chiesa si intende l’intero popolo di Dio. Ciascuno di noi ne fa parte! Dunque anche tu!) la chiesa è nata con il fine di rendere, mediante la diffusione del regno di Cristo su tutta la terra a gloria di Dio Padre, partecipi tutti gli uomini della redenzione salvifica e per mezzo di essi ordinare effettivamente il mondo intero a Cristo“. Ascolta ancora: “Tutta l’attività del corpo mistico ordinata a questo fine si chiama apostolato, che la chiesa esercita mediante tutti i suoi membri, naturalmente in modi diversi; la vocazione cristiana infatti è per sua natura anche vocazione all’apostolato“.

    Sei chiamato a collaborare con Cristo perché si instauri fin d’ora il Regno di Dio che è il cuore del suo vangelo.

    Proprio tutti?

    Per diventare preti ci vuole la chiamata del vescovo. Per trovarsi attivamente impegnati nella missione della chiesa non c’è bisogno che i battezzati aspettino di essere mandati dal vescovo o di essere convocati dal parroco; basta che prendano sul serio il loro battesimo e confermazione: “Il sacro concilio (…) si rivolge ai fedeli laici dei quali già altrove ha ricordato la parte propria e assolutamente necessaria, nella missione della chiesa. L’apostolato dei laici, infatti, derivando dalla loro stessa vocazione cristiana, non può mai venir meno nella chiesa“. Dunque ogni battezzato ha una “parte assolutamente necessaria nella missione della chiesa“. Anche tu personalmente!

    Questo diritto-dovere deriva “dalla stessa vocazione cristiana“. Se sei battezzato sei responsabile della tua chiesa e della sua missione nel mondo. Altrimenti paralizzi il tuo battesimo, neutralizzi la tua cresima, incateni lo Spirito santo che abita in te. Afferma il nostro documento: “I vescovi, i parroci e gli altri sacerdoti dell’uno e dell’altro clero. ricordino che il diritto e il dovere di esercitare l’apostolato è comune a tutti i fedeli sia chierici sia laici e che anche i laici hanno compiti propri nell’edificazione della chiesa. Perciò lavorino fraternamente con i laici nella chiesa e per la chiesa. ed abbiano una cura speciale dei laici nelle loro opere apostoliche” (25)

    Dice il concilio: “C’è nella chiesa diversità di ministero, ma unità di missione. Gli apostoli e i loro successori hanno avuto da Cristo l’ufficio di insegnare, santificare e reggere in suo nome e con la sua autorità. Ma i laici, resi partecipi dell’ufficio sacerdotale profetico e regale di Cristo, nella missione di tutto il popolo di Dio assolvono compiti propri nella chiesa e nel mondo” (AA 2).

    Il papa, il vescovo, il parroco o la suora non sono più missionari di te. Lo sono soltanto in un altro modo. Su una nave, uno sta al timone, un altro alla radio, un terzo alle macchine; ma nessuno è più o meno marinaio degli altri. Così nella chiesa tutti, dal comandante all’ultimo mozzo, sono missionari al cento per cento e ventiquattro ore su ventiquattro. Non esistono i battezzati “part time”. La responsabilità attiva dell’apostolato è una conseguenza naturale dell’essere cristiani.

    E con che diritto?

    Tutti i battezzati hanno il “mandato” dice il nostro decreto. È chiaro che una missione particolare deve comprendere un mandato speciale del vescovo.

    Ma in ogni caso la responsabilità e la missione apostolica di ogni cristiano nel mondo, al livello del suo ambiente di vita, deriva “dal mandato sacramentale del battesimo e della cresima“.

    I laici derivano il dovere e il diritto all’apostolato dalla loro stessa unione con Cristo capo. Infatti, inseriti nel corpo mistico di Cristo per mezzo del battesimo, fortificati dalla virtù dello Spirito santo per mezzo della cresima, sono deputati dal Signore stesso all’apostolato. Vengono consacrati per formare un sacerdozio regale e una nazione santa onde offrire sacrifici spirituali mediante ogni attività e testimoniare dappertutto il Cristo. Inoltre con i sacramenti soprattutto con l’eucaristia, viene comunicata e alimentata quella carità che è come l’anima di tutto l’apostolato“(3). ,

    Una collaborazione e un impegno diversificati

    Ma ciascuno al suo posto e secondo i doni che ha ricevuto C’è infatti una diversità di chiamate, di capacità, di situazioni; in una parola: di carismi; cioè di quei doni particolari che lo Spirito ha fatto a ciascuno per il servizio della comunità e del mondo. I laici non sono numeri intercambiabili; irreggimentati dai preti per camminare con passo uniforme sulle vie dell’obbedienza.

    Ciascuno è un membro vivo di un corpo vivente, e deve dare il meglio di se stesso nella molteplice ricchezza delle sue possibilità: “Dall’aver ricevuto questi carismi, anche i più semplici, sorge per ogni credente il diritto e il dovere di esercitarli per il bene degli uomini e per l’edificazione della chiesa nella chiesa e nel mondo con la libertà dello Spirito santo, il quale spira dove vuole” (AA 3).

    Ogni battezzato è dunque guidato direttamente dallo Spirito, non dal clero. “Dove c’è lo Spirito del Signore c’è libertà” (2Cor 3,17). Ma bisogna essere certi che si tratti della libertà dello Spirito santo.

    Il concilio chiede quindi che sia vissuta, “in comunione con i fratelli in Cristo, soprattutto con i propri pastori, che hanno il compito di giudicare sulla genuina natura e sull’uso ordinato di questi doni, non certo per estinguere lo Spirito, ma per esaminare tutto e ritenere ciò che è buono (cf. ITs 5.12-19.21)” (AA 3).

     

  • 10 Giu

    LA RICERCA DI DIO E DEL SUO AMORE

     

    La Bibbia è la rivelazione di Dio-Amore, l’epifania dell’Amore eterno, increato, che vuol far partecipi gli uomini della Sua infinita felicità. La storia della spiritualità è la storia degli uomini in cerca dell’Amore di Dio, e dei mezzi da essi adoperati per raggiungere tale scopo.

    Il Concilio Vaticano II afferma che il Religioso « si dona totalmente a Dio sommamente amato, così da essere con nuovo e speciale titolo destinato al servizio e all’onore di Dio ».

    La spiritualità monastica già nel suo nascere è caratterizzata da un profondo senso teo-centrico: il solo scopo della vita del monaco è amare Dio; nella solitudine egli cerca l’unione con Dio. Le penitenze, frequentemente spettacolari, dei primi eremiti hanno talvolta oscurato agli occhi di molti osservatori i veri e più profondi motivi della loro spiritualità. Forse, come afferma G.M.Colombás, le prime fonti monastiche che sono un po’ restie ad esternare le manifestazioni di tenero amore verso Dio (l’’umiltà e il pudore degli antichi asceti erano contrari a questa specie di effusioni). Comunque, i dati in nostro possesso sono sufficienti per comprendere che Dio occupa il posto centrale nella spiritualità di questi monaci.

    1.   La ricerca dell’amore di Dio

    Teodoreto di Ciro, monaco cenobita e poi vescovo, ci ha lasciato un prezioso documento storico sul rigido ascetismo della Siria e ha dato a questa Storia dei monaci il titolo di “Storia dell’amore di Dio” (Storia philothea) o Vita ascetica. Così facendo, Teodoreto ha sinterizzato la vita di una trentina di asceti incentrandola sull’amore di Dio. Lo stesso Teodoreto spiega il titolo della sua Storia philothea nel Trattato sulla divina carità con cui chiude la suddetta Storia: l’autentico virtuoso o filosofo è il vero amante di Dio o philotheo,  perché Dio è “sapienza” (sophia).

    È eloquente la narrazione della vocazione di Teodoro, il grande discepolo di Pacomio, alla vita monastica. Un giorno Teodoro, ancora ragazzo di 14 anni, tornando da scuola e vedendo la famiglia in gran festa, fu colpito da un pensiero improvviso: « Se ti abitui a questi cibi e a questi vini, non vedrai mai la vita eterna di Dio?  Il giovane Teodoro si ritirò allora in un angolo tranquillo della casa, si prostrò a terra e pianse dicendo: « Signor mio Gesù Cristo, tu sai che non desidero nulla, ma solo te e la tua grande misericordia che amo ». Il giorno seguente lasciò la sua casa e la sua città e si recò in un monastero. Similmente nella Storia Lausiaca leggiamo che Ammonio, insieme a tre altri fratelli e a due sorelle, « giunti al culmine dell’amore di Dio, fecero del deserto la loro dimora ». Le testimonianze che mettono all’ inizio della vocazione monastica l’amore di Dio potrebbero moltiplicarsi.

    L’amore di Dio è per gli antichi monaci l’ambito vitale dell’esistenza cristiana. Per essi la vita cristiana si realizza nella comprensione e nella esperienza dell’amore di Dio. Il solo ostacolo a tale ideale è il peccato. Il mondo poi, così come ora si presenta agli occhi degli uomini (non più come pura e semplice creazione di Dio, ma come mondo caduto e fallito a causa del peccato), è una forza nemica che ostacola l’espandersi dell’amore di Dio e quindi l’esperienza di questo amore nella vita dell’uomo. Conseguentemente l’amore di Dio è in netta contraddizione con l’amore del mondo.

    L’uomo caduto che vive nel mondo si lascia sedurre dai richiami mondani. Perciò, secondo la spiritualità monastica, se si vuole conservare l’amore di Dio, è necessario distaccarsi da ogni affezione mondana e rinnegare se stessi. In questo contesto, l’ascesi è vista come un mezzo per poter vivere nell’amore di Dio; l’ascesi è anzi necessaria per realizzare l’esistenza cristiana nell’Amore di Dio. L’ascesi, che è il contrario della concupiscenza, dà spazio all’amore di Dio, conduce a questo amore e lo sviluppa. Ci raccontano i Detti dei padri del deserto che Ammonio di Nitria recandosi dal suo amico il grande s. Antonio l’eremita, gli disse: «Ecco la mia vita è più dura della tua, come sei più rinomato di me? ». Antonio gli rispose: « Perché amo il Signore più di te ». Di fronte al pericolo di assolutizzare il valore delle pratiche ascetiche, è significativo questo detto che subordina l’ascesi all’amore di Dio.

    Per i primi monaci l’ascesi divenne lo strumento essenziale per raggiungere il perfetto amore di Dio. Il non-uso del mondo nel suo significato radicale e totale distingue l’ascesi monastica. I monaci vanno via dal mondo per poter amare meglio e più profondamente Dio. Specificamente monastici sono soltanto i mezzi adoperati per la realizzazione di questo ideale. Anzi questi mezzi non sono propriamente nuovi: preparati, indicati e sviluppati dalla tradizione ascetica della Chiesa, vengono concretizzati in una forma di vita monastica. Dedicare la vita all’amore di Dio non è una novità per i monaci. Essi sanno bene di seguire le tracce di molti altri che prima di loro hanno cercato e amato Dio. I monaci si organizzano in comunità di “amici di Dio“. Loro esemplari sono Abramo, gli Apostoli, i Martiri… Clemente Alessandrino, riprendendo il testo di Gc 2,23 dà il titolo di “amico di Dio” ad Abramo, considerato dai monaci modello ed esemplare, perché lasciò il suo paese per volere di Dio.

    2.   La meraviglia di fronte al cosmo, opera dell’amore di Dio

    I grandi Padri dell’antico monachesimo hanno alimentato anche una spiritualità della ricerca di Dio fondata sulla meraviglia di fronte al mondo creato. Il cosmo è il frutto dell’amore di Dio verso gli uomini: Dio ha creato il mondo perché voleva bene agli uomini. Non è quindi difficile scoprire i segni dell’amore di Dio profusi nella creazione: « Se guardi il cielo – dice la Scrittura – il suo ordine ti sarà guida verso la fede. Esso infatti rivela l’Artefice. Se guardi poi le bellezze della terra, queste ti aiuteranno ad aumentare la tua fede… La sapienza del Creatore traspare dalle cose più piccole. È lui che ha dispiegato i cieli e steso l’immensità dei mari, ed è lui che ha reso cavo l’esilissimo aculeo delle api. Tutte le realtà del mondo sono un’occasione di fede, non di incredulità ».

    Le cose umane, anche le più umili, si trasfigurano nella luce di Dio e acquistano un valore dossologico: « Tutto questo mondo è come un libro scritto che ci fornisce la materia per glorificare Dio ».

    L’espressività e la capacità interpretativa della voce laudativa del creato è correlativa al grado di contemplazione del credente. In Oriente, al seguito di Origene, i Padri monastici elaborano un vero e proprio metodo dì spiritualità, in cui la meraviglia costituisce il primo gradino della contemplazione. La contemplazione (naturale) è l’attività spirituale che permette di cogliere nella creatura l’idea del creatore, la traccia, la ragione profonda dell’essere, il rapporto tra essa e l’archetipo divino. Ha sviluppato questo concetto in particolare s. Basilio, che asserisce venire dallo Spirito di Dio il poter contemplare la bellezza soprasensibile del cosmo: « La vera bellezza è quella che sorpassa ogni intelligenza e potenza umana; solo lo Spirito è capace di contemplarla. I discepoli ai quali Egli aveva insegnato in privato le parabole hanno conosciuto questa vera bellezza. Come Pietro e i figli del tuono hanno contemplato sul monte questa bellezza folgorante che sorpassa lo splendore del sole. Essi furono giudicati degni di percepire con i loro occhi l’inizio del suo avvento glorioso ».

    3.   Il Servizio di Dio come espressione dell’amore totale

    Sant’Atanasio nella Vita di Antonio stabilisce l’identità tra il farsi monaco e il consacrarsi a Dio: «… da quando (Antonio) diventò eremita e si consacrò a Dio ». In un apoftegma attribuito alla leggendaria madre Teodora, si insegna che il monaco deve vivere per Dio soltanto. La stessa idea, in Occidente, viene ripresa da Eucherio: scopo della vita del monaco è darsi a Dio, e da Giovanni Cassiano: il monaco è chiamato al culto di Dio. Una delle espressioni più frequenti per indicare questa donazione del monaco a Dio è stata quella del “servizio divino“: i monaci sono coloro che « amano la virtù e il servizio di Dio » e, quindi, il monachesimo è un «servizio di Dio ». Si sa anche che la denominazione “servo di Dio” è stata una delle più attribuite dall’antichità al monaco.

    Come avverte J.M. Lozano (La sequela di Cristo. Teologia storico-sistematica della vita religiosa, Àncora, Milano 1981), originariamente l’espressione concreta “serve e servi di Dio” ha preceduto quella astratta che qualifica la vita monastica “divino servizio”. Ciò significa che la gente vedeva i monaci vincolati in modo particolare a Dio. L’essenziale in questa espressione è che esprime il senso di rapporto con Dio. I monaci vennero chiamati servi di Dio perché il rapporto con Dio appare nella loro vita in maniera visibile e caratterizzante.

    4.   L’esperienza dell’amore di Dio

    Un apoftegma attribuito ad Antonio afferma che in lui l’amore di Dio ha cacciato il timore. È una affermazione unica poiché nei Detti dei padri del deserto il timore di Dio è abitualmente inteso nel senso biblico, e cioè come una disposizione assolutamente necessaria, indispensabile all’uomo come il respiro. Così anche per Basilio, l’amore supera il timore, ma non lo elimina. La tensione fra amore e timore in cui si trova il cristiano, non lo autorizza comunque ad eliminare il timore di Dio che è prodotto dall’attesa del giudizio, considerandolo semplicemente come un influsso della sinagoga o un residuo del pensiero giudaico.

    I santi monaci parlano dell’amore di Dio come di una esperienza profonda, mistica. Le immagini che usano per esprimere questa loro esperienza spirituale sono molto eloquenti. L’amore di Dio è come una “ferita nel cuore” (usano in greco i verbi: nússein, katanússein, titróskein) Parlando di Pacomio, la vita greca altera afferma che il Santo fondatore del cenobitismo, dopo una visione celeste avuta nel sonno, « fu ancora più ferito (trotheís) dall’amore di Dio e profondamente scosso (katanugeís) e desiderò farsi monaco ».

    L’amore di Dio, che così profondamente scuote il cuore del monaco, viene contemplato specialmente nel mistero del Verbo incarnato per mezzo del quale ci giunge la salvezza e il dono dello Spirito. Teodoreto di Ciro parla dei « dardi d’amore » con cui i monaci sono stati feriti quando consideravano i torrenti della divina misericordia e soprattutto la morte di Cristo innocente. Sant’Atanasio racconta che Antonio l’eremita, dopo aver trascorso quasi vent’anni in una fortificazione desertica, « parlando e ricordando i beni futuri e l’amore che Dio ci ha manifestato, in quanto “non risparmiò il proprio figlio ma lo consegnò per noi tutti“, persuase molti a scegliere la vita solitaria. Nella sintesi della spiritualità di Antonio che si può ricavare dalle sue lettere autentiche, le suddette idee vengono riprese e collocate nella cornice della storia sacra. Questa storia comincia con una tragica caduta, le cui conseguenze. si ripercuotono attraverso i secoli su ciascuno di noi. Ma ecco che Dio, di cui Antonio loda con accenti di entusiasmo l’immensa e incomprensibile bontà e l’infinito amore per gli uomini, decide di “visitare” la sua creatura prediletta. Tutta la storia sacra è intessuta di un succedersi ininterrotto di “visite” di Dio all’uomo. Momento culminante delle “visite” divine è il mistero dell’Incarnazione. Di fronte a tale ineffabile “visita”, l’uomo ha l’obbligo d’impegnarsi con tutte le sue energie per conseguire la santità perfetta, affinché la venuta del Salvatore non sia per lui motivo di condanna. E qui trovano posto nella mente di Antonio i temi cardinali, il dinamismo vivo e fiducioso della sua dottrina ascetica (cfr. M:Augé, Lineamenti di storia dell’antico monachesimo, Roma 1981).

    Giovanni di Licopoli afferma: « Colui che è stato fatto degno di una conoscenza parziale di Dio (quella totale non la può ricevere nessuno), ottiene anche la conoscenza di tutte le altre cose, vede i misteri divini che Dio stesso gli mostra, prevede il futuro, contempla rivelazioni come i santi, compie miracoli, diventa amico di Dio e viene esaudito da Dio in ogni sua richiesta ». La conoscenza (gnôsis) di Dio di cui parla il testo designa la conoscenza amorosa e sperimentale di Dio, che non equivale alla conoscenza intellettuale pura e semplice. Questa conoscenza è il vertice della virtù, cioè la piena esperienza mistica. Pafnuzio, dopo aver ascoltato la vita santa che conduceva un consigliere comunale, gli disse: « Ti manca solo una cosa, il vertice delle virtù, la sapientissima conoscenza di Dio ».

    Ciò che propriamente costituisce l’uomo, secondo la corrente platonica e plotiniana – che era quella dominante tra i monaci dotti – è l’intelletto. Si parte dalla visione tripartita dell’uomo: corpo, anima e intelletto. Evagrio Pontico scrive: « Rinnega la carne e l’anima, e vivi secondo l’intelligenza ». Progredire per il cammino dell’intelligenza o della gnôsis, è indirizzarsi attraverso la apátheia verso la contemplazione della natura (theoría physiké), e attraverso  di essa allo stato primitivo o intellettuale puro, dove si trova la vera vita, la vita immortale dell’intelligenza, e dove si contempla Dio nel mirabile specchio del nous.

    Il grado più elevato della contemplazione è chiamato da Evagrio “gnôsis della Santissima Trinità“, “teologia” e “preghiera vera” o “preghiera pura”. Quando scrive: « Se sei teologo, pregherai veramente; e se preghi veramente, sei teologo », non si riferisce Evagrio al dotto che specula sulla divinità, ma al mistico contemplativo che è arrivato ai più alti gradi della contemplazione di Dio.

    Il monaco, affascinato dalla bellezza dell’amore di Dio, non aspira ad altro che a possedere questo amore. Spinto da così forte desiderio, si ritira in solitudine. Macario l’Egiziano ha comparato l’amore del monaco verso Dio con l’amore sponsale: « Se l’amore naturale allontana da qualsiasi altro amore,  quanto più coloro che sono stati degni di partecipare dello Spirito celeste e diletto, saranno liberi da ogni amore mondano.”.. . Perciò l’amore totale di Dio trova una sua adeguata espressione nell’abbandono definitivo del mondo. Per Eucherio, « il deserto è un tempio incircoscritto di Dio ». Nella Historia Monachorum di Rufino ci si racconta di Giovanni l’eremita che « quanto più si allontanava dalle cose umane, tanto più Dio si avvicinava a lui ». San Basilio afferma che colui che ama Dio si allontana da ogni cosa per unirsi con Dio.

    Concludendo, possiamo dire che la vocazione monastica già nel suo nascere è fortemente stimolata dall’amore di Dio. La consapevolezza di questo amore spinge i monaci a consacrarsi al servizio di Dio abbandonando il mondo il quale, a causa del peccato, è una forza nemica che ostacola l’esperienza dell’amore divino. Nel contesto sempre del peccato di cui l’uomo ha fatto amara esperienza, l’ascesi è uno strumento necessario per crescere nell’amore di Dio. I Padri dell’antico monachesimo hanno sviluppato anche una spiritualità della ricerca di Dio fondata sulla meraviglia di fronte al mondo creato, opera e dono dell’amore di Dio. L’esperienza dell’amore di Dio è infine una realtà profonda, mistica che trascina il servo di Dio ad una vita solitaria di totale e definitiva donazione a Dio, donazione che ricorda quella sponsale. Con il passar del tempo questo teocentrismo si arricchirà di altri elementi riscoprendo per esempio l’intimo rapporto esistente tra l’amore di Dio e quello dei fratelli.

  • 08 Giu

    MATURAZIONE UMANA e VITA RELIGIOSA

     

    La favola delle tre lingue

    La favola delle tre lingue è una bella immagine della maturità umana. Vorrei riportarla qui perché nella figura del papa, cioè il Santo Padre, è sintetizzata la maturità umana e spirituale.

    C”era una volta in Svizzera un vecchio conte che aveva un solo figlio; questo figlio era anche sciocco e non riusciva a imparare niente. Allora suo padre gli disse: «Ascolta, figlio mio: qualsiasi cosa io faccia, da qualunque parte io cominci, non riesco a ficcare nien te nella tua zucca. Tu devi andartene da qui: io ti affiderò a un maestro famoso e ci proverà lui».

    Il giovane fu mandato in una città straniera e rimase presso il maestro un anno intero. Trascorso que­ sto periodo, tornò di nuovo a casa e il padre gli disse: «Allora, figlio mio, che cosa hai imparato?». «Padre, ho appreso l”abbaiare dei cani». «Santo cielo! », sbottò il padre, «è tutto qui quello che hai imparato? Allora ti mando in un”altra città da un altro maestro».

    Il ragazzo fu condotto altrove e anche presso questo maestro rimase un anno. Quando tornò, il padre gli chiese di nuovo: «Figlio mio, che cosa hai imparato?». Ed egli rispose: «Padre, ho imparato il lin­ guaggio degli uccelli». Allora il padre si arrabbiò e disse: «Sei un buono a nulla, hai passato del tempo prezioso senza imparare niente; non ti vergogni di comparire davanti a me? Ti manderò da un terzo mae­ stro ma, se non imparerai niente nemmeno questa volta, ti disconoscerò».

    Il figlio rimase un anno anche presso il terzo maestro e quando ritornò a casa e il padre gli chiese: «Fi­ glio mio, che cosa hai imparato?», il figlio rispose: «Caro papà, quest” anno ho appreso il gracidare delle rane». Allora il padre andò su tutte le furie, balzò in piedi, chiamò attorno a sé la sua corte e disse: «Questo ragazzo non è più mio figlio, io lo ripudio e vi ordino di portarlo fuori nel bosco e di togliergli la vita». I suoi sudditi lo condussero fuori ma, nel momento in cui avrebbero dovuto ucciderlo, si mossero a compassione e lo lasciarono andare. Cavarono gli occhi e tagliarono la lingua a un capriolo per portar li al vecchio a testimonianza dell” esecuzione dell” ordine.

    Il giovane continuò a vagare e dopo qualche tempo giunse in un castello dove chiese di essere alloggiato per la notte. «Sì», disse il castellano, «se vuoi pernottare laggiù, nella vecchia torre, va” pure. Però ti avverto: c”è il pericolo di lasciarci la pelle perché è pieno di cani randagi che continuano a latrare e ulu­ lare tutti insieme e a una cert’ora devono poter disporre di un essere umano che azzannano subito». Per questo motivo tutta la zona era nel dolore e nel lutto, ma nessuno riusciva a risolvere la situazione. Però il giovane non ebbe paura e disse: «Lasciatemi andare giù dai cani e datemi soltanto qualcosa da poter gettare loro; a me non faranno niente». Poiché non voleva nient’ altro, gli diedero del cibo per quegli ani­ mali selvatici e lo condussero giù alla torre. Quando entrò, i cani non gli abbaiarono contro, gli si fecero attorno muovendo le loro code in segno di benvenuto, mangiarono ciò che egli pose loro davanti e non gli torsero neanche un capello.

    Il mattino successivo, con grande stupore di tutti, egli riapparse sano e salvo davanti al castellano e disse: «I cani mi hanno spiegato nella loro lingua perché hanno preso dimora lì e fanno danni nel territorio. Sono vittime di un incantesimo; devono custodire un grande tesoro che sta giù nella torre e non avranno pace finché questo non verrà tolto da lì; dai loro discorsi sono anche riuscito a capire come ciò potrà avvenire». Allora tutti quelli che stavano ascoltando si rallegrarono e il castellano disse che lo avrebbe adottato come figlio se avesse portato felicemente a termine l”impresa. Egli scese di nuovo e, poiché sapeva che cosa doveva fare, agì conseguentemente e portò su un forziere ricolmo d”oro. A partire da quel momento nessuno sentì più il latrato dei cani randagi; erano spariti e tutta la regione era stata liberata dalla piaga.

    Qualche tempo dopo gli venne in mente di andare a Roma. Cammin facendo, passò davanti a uno stagno sulle cui rive c”erano delle rane gracidanti. Egli ascoltò e, comprendendo ciò che dicevano, divenne pensieroso e triste. Finalmente arrivò a Roma proprio nel momento in cui era da poco morto il papa; i cardinali erano molto dubbiosi in merito al successore da designare. Alla fine si misero d”accordo che avrebbero scelto come papa colui che fosse stato oggetto di un segno prodigioso di Dio. Proprio nel momento in cui avevano preso questa decisione, entrò in chiesa il giovane conte e improvvisamente due colombe bianche come la neve, volando, andarono a posarsi sulle sue spalle. Gli ecclesiastici riconobbero in questo il segno divino invocato e, seduta stante, gli chiesero se accettava di diventare papa. Egli era indeciso e non sapeva se ne fosse degno, ma le colombe gli dissero che avrebbe potuto farlo per cui alla fine rispose: «Sì». A quel punto lo unsero, lo consacrarono e così si era avverato ciò che aveva sentito durante il viaggio dalle rane e che lo aveva tanto costernato, cioè che sarebbe diventato il Santo Padre. Dopo di ciò dovette cantare messa e, sebbene non sapesse nemmeno una parola, le colombe che continuavano a rimanere sulle sue spalle gli suggerirono tutto all” orecchio.

    Sì, la favola ci fa anche capire che cosa comporta il cammino di maturazione per gli uomini e le donne consacrate. Anzitutto devono liberarsi dalle aspettative del padre. Il figlio del conte non apprende ciò che vorrebbe il padre, ma quello che gli è congeniale. Si reca da tre maestri diversi, scelti dal padre, che però evidentemente non gli insegnano ciò che secondo questi è fondamentale. Maestri stranieri in città straniere lo iniziano al mistero della vita. Il figlio deve staccarsi completamente dal padre e questo processo è come un itinerario di morte e di rinascita per il figlio. Poiché viene cacciato via con violenza dal padre, si mette in cammino e percorre la propria strada nella vita.

    La prima condizione per maturare umanamente nella vita consacrata è l”uscire da casa. Da questo punto di vista, è certo che gli ordini religiosi hanno finora aiutato molti a liberarsi dalle aspettative dei ge­ nitori. Si pone comunque l”interrogativo se non abbiano sostituito le aspettative dei genitori con quelle del monastero. In tal caso non si ha processo di maturazione. Oggi ci imbattiamo in un altro problema serio: i giovani e le giovani entrano in un ordine religioso prima di avere completato il distacco dalla fa­ miglia. Quando poi, attraverso la vita religiosa, si liberano dai legami parentali e trovano se stessi, la­ sciano la comunità e seguono la loro strada.

    Analogamente, gli ordini religiosi dovrebbero essere all”altezza del compito svolto dai tre maestri che hanno insegnato al giovane conte il linguaggio dei cani, delle rane e degli uccelli. A questo dovrebbero servire i “maestri” e le “maestre” esistenti negli ordini religiosi: guidare i novizi a scoprire nel proprio cuore il linguaggio di Dio. In altre parole: invece di porre attenzione alle nuove aspettative della comunità religiosa o a quelle familiari dei genitori, si tratterebbe di saper percepire Dio nella propria interiorità, di scoprire in sé il “maestro interiore” che guida al proprio centro personale e libera dalla consuetudine a cercare soltanto maestri esterni a sé. Così gli ordini religiosi adempirebbero la funzione svolta da quei tre maestri nelle città straniere, che hanno reso capace il giovane di percepire la volontà di Dio in quelle tre lingue e conseguentemente di seguirla fino al raggiungimento della piena maturità umana e spirituale (la figura del papa). Il cammino percorso nella vita religiosa potrebbe allora condurre la singola persona a quella forma che Dio le ha riservato, alla sua im magine unica e insostituibile di Dio. Ma – sia nella favola, sia nella vita religiosa – questo itinerario non è indolore. Il dolore della separazione è paragonabile alla morte della vecchia identità per trovare quella nuova identità che ci spetta per volontà di Dio.

    Qual è il nesso con il linguaggio delle tre specie di animali citati nella favola? Il latrato dei cani designa il linguaggio delle passioni, la voce dei problemi, delle malattie, dei conflitti, delle situazioni insolute. Il gracidio delle rane simbolizza la voce dell”inconscio, il messaggio dei sogni. E il linguaggio degli uccelli indica la conoscenza, la sapienza dello Spirito. Ma, evidentemente, non si può apprendere questo linguaggio dello Spirito se non si conoscono gli altri due.

    Il latrato dei cani conduce il giovane a scoprire il tesoro, il suo vero Sé, l”immagine che Dio aveva ab­ bozzato per lui ma che rimaneva sepolta sotto l”im magine puramente mondana e le aspettative conven­ zionali del padre. I cani che abbaiano furiosamente diventano per il giovane delle guide generose che non tacciono e non si tranquillizzano finché lui non ha ca pito quale tesoro esse nascondano. La loro voce è tanto forte proprio perché fino a quel momento la sua esistenza aveva soltanto sfiorato la sua vera natura. E proprio nel luogo nel quale essi latrano – giù in fondo, nella torre dell”inconscio (ancora) oscuro – giace sepolto il tesoro del suo vero Sé.

    Il gracidio delle rane gli preannuncia ciò che accadrà. Le rane stanno a indicare i presentimenti inte­ riori che a volte s”impadroniscono di noi e simbolizzano i sogni che ci indicano la strada del nostro fu­ turo. Spesso questo linguaggio apparentemente assurdo delle rane sembra non avere nessun rapporto con la nostra vita concreta, ma d”un tratto si verifica ciò che loro ci avevano predetto per mezzo di imma­ gini e di sensazioni.

    E il linguaggio degli uccelli guida il figlio del conte alla meta che non si era scelto da sé ma alla quale, seguendo la loro voce, capisce di essere stato destinato. Le colombe che si posano sulle sue spalle visibilizzano il segno che i cardinali attendevano. Esse spingono il giovane ad accettare un incarico che a lui appariva eccessivo. Il papa non rappresenta qui un concetto gerarchico, ma è immagine dell”accompagnatore spirituale, della persona che è diventata in tutto e per tutto spirituale, tanto da poter fare da guida ad altri. Analogamente, anche la figura del re presente in molte favole non rappresenta un concetto politico ma l”immagine della completezza umana. In quanto tale, la figura del papa può essere un simbolo per il religioso o la religiosa che vivono la loro spiritua lità in modo maturo e possono accompagnare altri nel loro cammino spirituale.

    Il messaggio della favola contiene quindi anche questo: noi diventiamo persone veramente spirituali so­ lamente se prima abbiamo imparato il latrato dei cani e il gracidio delle rane e ci liberiamo di tutte le fi­ gure paterne e dei loro messaggi per incamminarci sulla nostra strada. Qui di seguito vogliamo descrivere i luoghi (oscuri) nei quali attendono i cani latranti per guidarci al tesoro nascosto.

    La relazione con i sentimenti e i bisogni

    Si tratta in primo luogo di relazionarci in modo maturo con i nostri sentimenti e le nostre passioni. Dio ci parla anche attraverso i sentimenti. Non possiamo né svalutarli né ignorarli. Tutto ha un significato. Il problema è soltanto quello di capire quale messaggio ci recano e in quale direzione ci vogliono trasformare. Il fine è sempre la scoperta dell”immagine di Dio che è in noi. Possiamo interpretare le passioni come cani che abbaiano furiosamente perché vogliono condurci al tesoro nascosto nella nostra torre. Proprio lì dove sento latrare dentro di me c”è anche un tesoro. Per maturare in modo globale devo allora cominciare a comprendere la lingua dei cani che latrano.

    Le voci dei miei cani che latrano

    I religiosi, gli spirituali soggiacciono spesso al pericolo di pensare che il linguaggio di Dio si apprende esclusivamente dalla Sacra Scrittura, attraverso la liturgia e la preghiera. Perciò, in linea di massima, non abbiamo molta dimestichezza con il latrato dei cani. Ma Dio mi parla anche per mezzo dei cani che latrano in me. Per loro tramite mi indirizza verso la mia realtà individuale. E io non potrò arrivare a Dio se evito la mia realtà. A questo proposito, gli americani parlano di spiritual bypassing, di “deviazione spi­ rituale”. Con questo intendono dire che qualcuno, con la meditazione o altre pratiche religiose, non affronta la realtà dei propri pensieri e dei propri sentimenti e crede di poter arrivare a Dio evitando di guardare in faccia se stesso. I monaci dei primi secoli continuano a richiamare la nostra attenzione sul fatto che la strada per giungere a Dio ci fa passare attraverso l”incontro sincero con noi stessi. Incontrare Dio non significa assolutamente diventare soltanto un tutt”uno con lui e riposare in lui, ma comprende anche l”essere trasformato da Dio in quanto creatura umana in cammino. Ma Egli può trasformare solamente ciò che io gli porgo.

    Per molti religiosi anziani l”educazione nel noviziato è avvenuta in modo diverso da quella indicata nel primo monachesimo. Qualche decennio fa si era soliti sorvolare sulla realtà dei nostri sentimenti, biso­ gni e passioni. Ciò significava spesso reprimere e ignorare questi aspetti. Ma non si riesce facilmente a spegnere ciò che si reprime; il rimosso continua ad agire nascostamente in noi, perlopiù in modo distruttivo. Se io reprimo le mie sensazioni e i miei bisogni, se non offro loro uno spazio per uscire allo scoperto, premeranno per essere vissuti segretamente, avranno un dinamismo loro proprio – spesso incontrollabile – e arriveranno al punto da dominarmi completamente e irresistibilmente. Se, per esempio, io non ammetto la mia collera e le proibisco di esprimersi, questa troverà le scappatoie per insinuarsi in tutte le mie manifestazioni vitali. Quando tutti i conflitti leali e qualsiasi litigio sono tabù, la conseguenza può essere che in convento regni un”atmosfera di aggressività.

    Il monachesimo primitivo insegna a porsi lealmente di fronte alle proprie passioni e ai propri bisogni, senza giudicarli. Dio può modificare soltanto ciò che noi onestamente ammettiamo e affrontiamo. Si riconoscono i religiosi e le religiose non trasformati dal fatto che non sanno padroneggiare le loro esigenze ma, al contrario, sono da queste dominati, sono particolarmente aggressivi e suscettibili, insoddisfatti di se stessi e di buona parte di ciò che li circonda. Perdono la capacità di scorgere ciò che potrebbero positivamente modificare e trasformare. Non avendo investito fantasia ed energia a questo scopo, restano intrappolati nel circolo vizioso del ruolo della vittima. Poiché utilizzano tutte le energie solo per se stessi, in quanto l”insoddisfazione divora un”infinità di energia vitale, non rimane loro la forza per essere produttivi verso l”esterno.

    Le scappatoie segrete

    Particolarmente critica è, nei conventi, la considerazione delle esigenze. Il nobile ideale di molte comunità è: semplicità. Chi vuole vivere conformemente a questo ideale deve di conseguenza reprimere le proprie esigenze. Dato che anche le religiose e i religiosi più pii sono comunque esseri umani, questo comporta che i bisogni vengano vissuti in segreto o in modo indiretto e che non siano riconoscibili subito in quanto tali. Non vengono ammessi. Nei conventi ci sono cuoche e cuochi che potrebbero raccontarci come tante sorelle e tanti fratelli compensino di nascosto i loro bisogni proprio attraverso la cucina: quante eccezioni vengono richieste, perlopiù dissimulandole con motivi di salute, perché non si avrebbe il coraggio di ammettere apertamente le proprie esigenze. Sotto l”apparenza di uno stile ascetico di vita affiorano dei desideri che difficilmente si potrebbero avvertire in condizioni normali. Questi religiosi considerano il convento come una grande madre provvidente che deve dare tutto. E reagiscono con grande suscettibilità se una richiesta viene respinta.

    Esperienze analoghe vengono fatte da cellerari ed econome, fratelli e sorelle che sborsano il denaro dalla cassa. Anche lì si evidenziano esigenze che non sono affrontate ed espresse apertamente, bensì vissute in segreto sotto l”apparenza di una giustificazione razionale. E quelle persone che lavorano di meno generalmente hanno maggiori esigenze. Necessitano di più denaro di altri per i desideri più disparati. Poiché non sono motivati nel lavoro e non cercano soddisfazione in esso, devono riempire lo spazio vuoto soddisfacendo i loro desideri. Nella vita religiosa non hanno mai avuto a che fare con denaro proprio, pesonalmente guadagnato, non hanno mai avuto la responsabilità o corresponsabilità delle faccende economiche, per cui si comportano al riguardo in maniera infantile. La “grande madre” deve soddisfare ogni desiderio. Oppure: il bisogno di ricevere denaro viene abbastanza spesso vissuto sotto la forma di un costante ricorso al medico. Ma naturalmente non lo si ammette e si nasconde il bisogno dietro la malattia. Maturità nella vita religiosa?

    L’infermità secondo s. Benedetto

    È più matura la considerazione dei bisogni descritta da Benedetto nella sua Regola e similmente rintracciabile anche in Agostino e in altri fondatori di ordini: «Si faccia come è scritto: “Si provveda a ciascuno secondo il suo bisogno” (At 4,35). Con questo non intendiamo che si facciano differenze di persone (Rm 2,11) – non sia mai! – ma che si usi riguardo all”infermità: e così chi può fare con meno, ringrazi Dio e non si crucci; chi ha bisogno di più si umilii per l”infermità e non s”inorgoglisca della misericordia: e così tutte le membra saranno in pace. Soprattutto poi non si manifesti per qualunque motivo, in qualunque parola o segno, il male della mormorazione. Che se qualcuno vi sarà colto sia sottoposto a severa punizione» (Gregorio Magno, 177).

    Per Benedetto l”ideale è che ci accontentiamo di poco. Chi riesce a farlo deve esserne riconoscente. Chi invece ha delle necessità, deve comunicarle con grande umiltà. Deve ammettere i propri bisogni e non mai scherarli dietro una pretesa per nascondere il proprio stato di necessità. La consapevolezza dei propri bisogni è segno di maturità. In primo luogo devo ammetterli e poi potrò decidere liberamente se preferisco rinunciare o se intendo concedermi il soddisfacimento di un bisogno. Rinuncia e soddisfacimento sono entrambi importanti. Chi non sa rinunciare non svilupperà mai un io forte e maturo. Chi invece avverte un” esigenza e non si concede mai nulla corre paradossalmente il pericolo di essere dominato dai suoi bisogni repressi e mai soddisfatti. Una persona siffatta perde abbastanza spesso il buon umore, diventa severa e brontolona perché non concede nulla nemmeno agli altri. Benedetto ha in mente questo genere di lavativi quando si esprime così duramente contro il brontolio. Lagnarsi è negare la vita. Si rifiuta di assumersi la responsabilità della propria vita e si addossa agli altri la colpa della propria miseria. I brontoloni e i criticoni sono persone che non riescono a riconciliarsi con la realtà della loro vita terrena, sostengono tristemente degli ideali infelici e affrontano la realtà che non corrisponde alle loro aspettative e illusioni con un atteggiamento di rifiuto e rancore. Il mormorìo corrode l”anima, la indebolisce, la fa ammalare e la priva della gioia di vivere. Il lagnarsi, che evidentemente costituiva un problema nei monasteri già all”epoca di Benedetto, è un segno di immaturità umana. Si deduce con chiarezza che perfino per Benedetto è impossibile costituire una comunità con individui di questo tipo. Perciò egli vuole estirpare alle radici la mala pianta del mormorìo. Solo così può crescere una comunità matura nella quale ciascuno concede qualcosa all”altro e ognuno si rapporta in modo maturo con i propri bisogni.

    A che cosa mi serve la collera?

    La maturità richiede che io faccia i conti con il mio risentimento, la collera, la gelosia, l”aggressività. In taluni conventi soffia un vento particolarmente aggressivo. Basta un”osservazione e subito l”altro si inalbera. Oppure nei dialoghi in refettorio si coglie un” atmosfera di tensione latente e si fanno spesso delle battute a spese di altri. Si avvertono tangibilmente i colpi dell” aggressività repressa, sparati in ogni direzione. Ma l”ideale della vita religiosa non consente un comportamento apertamente aggressivo e allora i propri sentimenti “negativi” non vengono affrontati. Ma ciò che non può venire alla luce cerca e trova sicuramente delle scappatoie.

    L”aggressività latente può essere espressione e segno di frustrazione o di carenza di affetto. Ma può anche essere motivata dal non avere ancora trovato la relazione giusta con la propria aggressività. L”aggressività vuole regolare il rapporto tra vicinanza e distanza. È sempre un campanello di allarme avvertire in me delle spinte aggressive, è un segno che ho bisogno di maggiore vicinanza o maggiore distanza. In talune comunità religiose si vive a contatto troppo stretto. L”ideale comunitario prevede che si faccia tutto e sempre insieme, ma una tale modalità di vita può comportare delle pretese esagerate e produrre un”inutile aggressività. In questo caso, l”irritabilità e l”aggressività rivelano chiaramente l”esigenza di maggiore distanza per poter vivere bene in comunità.

    Se vivo insieme ad altre persone, è naturale che dovrò confrontarmi con il risentimento e l”aggressività. II che può rappresentare certamente una possibilità per conoscermi meglio. Può capitare che mi irriti per aver dato agli altri troppa confidenza, consentendo loro di farsi troppo vicini a me. A quel punto ho bi­ sogno di un maggiore spazio di libertà oppure devo prendere interiormente le distanze – almeno tempo­ raneamente – dai miei confratelli o dalle mie consorelle. In ogni caso si tratta di assumere attivamente e consapevolmente il proprio risentimento. Normalmente l”irritazione ha in sé l” impulso a cambiare qualcosa. Vorrei, per esempio, organizzare meglio in comunità qualcosa di ben preciso. Oppure il risentimento mi dice con chiarezza che dovrei (finalmente) parlare con quel confratello, con il quale mi arrabbio continuamente, per chiarire che cosa non va.

    Spesso il risentimento verso gli altri rivela anche le mie ombre.  Io scopro quello che non voglio ammet­ tere come esistente in me stesso. Questo sentimento può allora diventare un”importante fonte di cono­ scenza di sé e uno stimolo a muovere qualcosa in me o negli altri. Se io non riesco a cambiare me stesso o l”altro, ho comunque ancora la possibilità di correggere almeno il mio punto di vista o il mio atteggiamento. Il risentimento può spingermi per esempio a liberarmi del potere e dell”influenza che l”altro ha su di me. Posso dirmi, per esempio: «Non rendo onore all”altro continuando a pensare a lui. Non è nemmeno così importante per cui io debba occuparmi sempre di lui. È un suo problema se arriva troppo in ritardo. Non può farmi arrabbiare per questo motivo». L”altro ha su di me sempre e soltanto quel potere che io gli riconosco. È dunque solamente mia la responsabilità e mio è il compito di fare in modo che l”irritazione, la collera e l”aggressività diventino una forza propulsiva invece di dominarmi e paralizzarmi. La collera può diventare una fonte di energia del tutto positiva, un utile stimolo a vivere la mia vita, a prenderla in mano e ad assumermi la responsabilità di agire secondo i miei desideri e le mie attitudini.

    Il cammino di maturazione non passa attorno alla mia ira, ma la attraversa. Non si tratta di recidere le passioni, ma di trasformarle in modo che mi siano utili, che diventino una sorgente di forza e di gioia di vivere. Matura non è la persona priva di aggressività, ma quella che non si fa travolgere e che in essa vede un potenziale di energie positive, un terreno di coltura per il suo progetto di vita. I monaci dei primi secoli dicono che la forza della collera deve servire per difendersi dalle tentazioni istintuali, cioè dallo sti­ molo a mangiare continuamente, dalle fantasie sessuali o dalla voglia di spendere.

    A che cosa mi serve la sessualità?

    Per noi uomini e donne consacrate è importante anche saper gestire la nostra sessualità. In una tavola rotonda tenuta da Durckheim, una suora aveva dichiarato di non avere problemi relativamente alla propria sessualità perché l”aveva messa sotto ghiaccio. E Dùrckheim le aveva risposto: “E si vede! Ma, attenzione, perché lì si conserva fresca». Non si tratta di eliminare la sessualità, bensì di urilizzarla per sé come sorgente di spiritualità, di vivacità e di gioia di vivere. La sessualità è il cane che, abbaiando, vorrebbe condurmi a scoprire il tesoro nascosto nella mia torre interiore. Non devo rinchiuderla e congelarla in questa torre perché, così facendo, potrei perdere il mio calore, la mia carica affettiva e la mia umanità. Oppure potrei sentirmi tagliato fuori dalla vita. E vivrei continuamente nel timore che i cani possano irrompere e scorrazzare senza freni. Sarei sempre tormentato dall” angoscia dei desideri in agguato, che potrebbero cogliermi di sorpresa.

    Una monaca raccontava che non si fidava ad abbracciare un sacerdote che le piaceva perché con quel­ l”atto la sua sessualità avrebbe potuto attivarsi e sornmergerla. Ma con questa paura sulle spalle, non rimane che soffocare sul nascere ogni germe di energia sessuale e vietarsi qualsiasi gesto di tenerezza, sia pure il più piccolo, e la sessualità insita anche in una donna consacrata non riesce a trasformarsi in forza ablativa, in espressione di affettività. È naturale che in ogni abbraccio tra un uomo e una donna entri in gioco anche l”energia sessuale. Ma, se è vero che in un abbraccio io avverto sensibilmente e consciamente la vicinanza, questo non significa in nessun modo che esso segnerà l”inizio di una relazione sessuale. La paura e la fantasia di quella monaca sono piuttosto segni di energia accumulata, repressa e quindi predominante.

    A Walter Lechler, medico specialista,  sta molto a cuore che nelle sue cliniche si pratichi il contatto fisico per fare sperimentare ai pazienti che la vicinanza non significa ancora, e per un periodo di tempo prolungato, un contatto sessuale. Oggi abbiamo bisogno di una nuova cultura dell”affettività e della tenerezza: ci libererebbe dall” ossessione della genitalità. Le donne e gli uomini non sposati non devono reprimere la loro sessualità; potrebbero invece contribuire a vivere una spiritualità pervasa dalla forza dell” éros e sviluppare una cultura della relazione interpersonale uomo-donna in cui non è in gioco il dominio bensì una tensione rispettosa e feconda tra i due sessi e un erotismo che da epoca immemorabile è stato – senza alcun problema – il fattore basilare della cultura.

    Ma in alcune comunità religiose è proprio inutile cercare una cultura della tenerezza perché a malapena ci si saluta con una stretta di mano. Nella tradìzione benedettina si usa salutarsi augurando la pace, ma anche lì si ritiene che sia già un progresso darsi la mano. In altre comunità viene praticamente a man­ care la possibilità di esprimere in modo naturale, cioè fisicamente, la prossimità all”altro. Non si tratta soltanto della tenerezza nella relazione interpersonale, ma anche del rispetto e della delicatezza verso le cose. Nell”attenzione che abbiamo per gli utensili, gli abiti o la macchina da scrivere si rivela senz’ altro se permettiamo alla nostra energia erotica e sessuale di permeare tutte le nostre manifestazioni vitali. Una sessualità non integrata emerge spesso dal modo brutale in cui trattiamo le cose. A volte c”è da spaventarsi e proprio nei conventi per la brutalità con cui vengono trattati gli attrezzi e i libri dei canti, ma anche per la durezza verso se stessi e verso gli altri.

    Una sessualità coscientemente e amorevolmente integrata si esprime nella cultura della vita, nel senso della festa, nel modo di sistemare e abbellire la camera, nell” attenzione per le cose quotidiane. Dal mo­ do in cui una comunità celebra le proprie feste si comprende se le persone che in essa vivono hanno fantasia e forza erotica da spendere per una cultura del l”affettività e della tenerezza, se hanno integrato la loro energia sessuale o se tutto questo non viene mai messo a tema e l”atmosfera è sterile. Dovremmo riscoprire l”erotismo e la sessualità in quanto forze dello spirito. Nella storia della mistica vediamo che la sessualità è la vera e propria fonte della spiritualità. L”energia sessuale costituiva per i mistici uno stimolo a trascendere se stessi e a diventare un tutt”uno con Dio nell”estasi dell”amore. L”integrazione della sessualità nel nostro cammino spirituale e umano ci inviterà a non sentirei soddisfatti perché conosciamo e adempiamo a ordini e regole e viviamo correttamente. La vocazione più profonda della vita consacrata consiste piuttosto  nel vederci e amarci come siamo, creature umane fatte di anima e di corpo,  nel superare il nostro piccolo lo e  nell”abbandonarci tra le braccia di Dio.

    In Evagrio Pontico (ca. 346-399) è ancora possibile avvertire come i monaci di quel tempo fossero af­ fascinati dalla loro dignità consistente nel poter pregare e, pregando, diventare tutt”uno con Dio, nell”es­ sere assunti nella comunione d”amore del Dio trino. Non si tratta di “toccare con mano” la sessualità, ma di lasciarsi trascinare da questa nell”amore di Dio. Per i monaci dei primi secoli la sessualità era una forza che spingeva verso Dio. Allora la vita religiosa offre la possibilità di trasformare la sessualità in spiritualità, se la accettiamo e la prendiamo sul serio. Nella storia della spiritualità, il celibato è stato certamente causa e sprone a non accontentarsi di un cristianesimo tiepido e borghese ma a continuare a tendere verso Dio, con passione e in modo sempre nuovo. Anche oggi gli ordini religiosi avrebbero il compito di vivere la tensione tra éros e mistica e di tener desta la Chiesa. La trasformazione della nostra sessualità, voluta da Dio, in spiritualità impegnata può tuttavia avvenire solo a condizione che ci riconciliamo e facciamo amicizia con la nostra sessualità, solo se sappiamo viverla armoniosamente e non la rinchiudiamo nella torre per paura dei cani che latrano, impedendole di parlare. La sessualità terrà desto il nostro desiderio di Dio, che anche nell”amore e nell”estasi coniugale rappresenta il terzo, misterioso e indicibile. Questo desiderio ci fa cantare con il salmista: «O Dio, tu sei il mio Dio, all”aurora ti cerco, di te ha sete l”anima mia, a te anela la mia carne, come terra deserta, arida, senz”acqua» (Sal 63,2).

    La malinconia e la depressione dell” anima

    Le depressioni sono un tema ricorrente anche nei conventi e nei monasteri. Qui bisogna distinguere tra quella che è una vera e propria malattia – cioè la depressione endogena che si può trattare solo con i far­ maci  e le depressioni reattive per mezzo delle quali rispondiamo ai lutti e ai traumi emotivi. A volte le depressioni fanno seguito anche a esaurimento interiore o ambientale. Non si ha più la forza di far fron­ te alle esigenze della vita quotidiana perché sono   eccessive oppure perché non siamo più collegati con la nostra fonte interiore di energia. Tra le persone di vita consacrata, le depressioni possono inoltre aver origine nella conseguente repressione della sessualità, che è senz”altro una forza vitale decisiva. In altre situazioni le depressioni sono anche il risultato di reazioni immature a delusioni e frustrazioni.

    Alcuni si deprimono se il superiore o la superiora non rivolgono loro la parola abbastanza spesso o non li considerano sufficientemente, quando cioè si sentono trascurati – come forse accadeva molti anni prima con il padre o la madre. Osservano con precisione quante volte e per quanto tempo i superiori parlano con i singoli confratelli o consorelle e, se ritengono di non essere altrettanto oggetto di attenzione, diventano gelosi o cadono in depressione. È chiaro che si tratta di comportamenti immaturi, di tendenze infantili a punire la madre o il padre che si occupano troppo poco del bambino.

    Altri religiosi vanno subito a terra con il morale se vengono criticati da un confratello o da una consorella oppure se in comunità ci sono delle tensioni che disturbano o addirittura minacciano di distruggere la felicità e l”armonia del loro paradiso infantile. Altri ancora cadono in depressione perché non si sentono considerati quali essi sono oppure perché non si fidano di mostrarsi come realmente sono. Altri infine vanno in depressione perché hanno paura di non essere all”altezza di fare ciò che viene loro richiesto. E la depressione è spesso conseguenza del perfezionismo: ci si deprime perché non si è perfetti come si vorrebbe o si ritiene di dover essere, perché non si corrisponde alle fantasie di onnipotenza dell”infanzia.

    Qui si pone il problema di come convivere con stati d”animo depressivi. Anzitutto, la malinconia può essere certamente anche fonte di creatività, come ha dimostrato Romano Guardini che per un certo periodo della sua vita ha sofferto di malinconia. Secondo lui, la malinconia richiama la depressione dell”anima. È vero che la depressione può fiaccare e diventare un”afflizione. Se però io mi rassegno al fatto di essere sensibile e continuamente soggetto a depressione, allora posso rendermi sensibile anche ai problemi altrui e la depressione può diventare anche fonte di matura zione. È però indispensabile che io entri nel pozzo della mia depressione, più o meno come fa Goldmarie nella fiaba Frau Holle. Finché la protagonista di questa favola continua a lottare contro la rassegnazione e la depressione, rimanendo in superficie, finisce sempre più nel vortice delle pretese eccessive. Quando invece si decide a saltar giù nel pozzo, atterra su un prato fiorito. È dall”interno che le cose si rivelano nella loro multiformità. E la depressione si trasforma in un mondo colorato.

    Mi spiego: non basta un pio tentativo di scacciare la tristezza e la malinconia, dicendoci che non possiamo essere tristi perché Dio ci ama. Nel momento della depressione questa misura non serve per uscirne. lo devo scendere nella mia tristezza, ammetterla, provarla fino in fondo; solo allora può succedere che questa si trasformi da sé, che toccato il fondo della tristezza io avverta una pace profonda. Improvvisamente scopro la profondità della vita, avverto la gravità dell”esistenza. Ma questa scoperta non mi rende infelice perché mi sento a contatto con il segreto della vita, con il segreto del mio vero Sé, con il segreto di Dio. Sul fondo della mia tristezza misuro la mia profondità e mi sento a casa. Se mi espongo ad essa, mi concilio con essa, la tristezza può diventare sorgente di preghiera e/o di nuova forza e creatività. Qualcuno sfugge alla tristezza tuffandosi nelle varie attività. La sua vita potrebbe però diventare più profonda e più colorata se si concedesse anche il tempo per la tristezza e la malinconia che affiorano in noi e che chiedono di essere vissute.

     

     

     

     

     

     

     

     

  • 06 Giu

    “La libertà della fedeltà di Dio”
    lectio di Rm 9,1-33

     

    di p. attilio franco fabris

     

    Il capitolo affronta il grande problema di come leggere alla luce della storia della salvezza l’ostinazione del popolo ebraico di fronte all’annuncio evangelico.

    A motivo di questo rifiuto e la consecutiva nascita di un nuovo Israele sembra che Dio abbia respinto il popolo ebraico. Non ha raggiunto così la promessa.

    Ma se questo è accaduto si può dire che Dio è fedele?

    Non è un interrogativo da poco, infatti indirettamente riguarda anche la chiesa e tutti noi. Possiamo fidarci di Dio?

    In questo capitolo Paolo affronta il problema della libertà dell’uomo che può giungere sino a rifiutare il progetto di Dio. E Dio di fronte a questo rifiuto si ferma talmente egli rispetta la libertà dell’uomo.

    E’ questo un dramma che percorre tutta la storia della salvezza: come raccordare la fedeltà di Dio alla sua promessa e la libertà dell’uomo che la può rifiutare? Sembra un problema insolubile.

    vv.1-3

    1 Dico la verità in Cristo, non mentisco, e la mia coscienza me ne dà testimonianza nello Spirito Santo: 2 ho nel cuore un grande dolore e una sofferenza continua. 3 Vorrei infatti essere io stesso anàtema, separato da Cristo a vantaggio dei miei fratelli, miei consanguinei secondo la carne.

    Anzitutto Paolo esprime tutta la sua sofferenza per il dramma del rifiuto di Cristo da parte del suo popolo. Vorrebbe divenire lui stesso “scomunicato” purché Israele si aprisse alla promessa del Vangelo.

    vv.4-5

    4 Essi sono Israeliti e possiedono l’adozione a figli, la gloria, le alleanze, la legislazione, il culto, le promesse, 5 i patriarchi; da essi proviene Cristo secondo la carne, egli che è sopra ogni cosa, Dio benedetto nei secoli. Amen.

    La riflessione parte dall’elenco dei privilegi concessi ad Israele lungo l’arco della storia della salvezza. Privilegi che avevano lo scopo – fallito – di preparare il popolo eletto a colui che è l’adempimento di tutto: Cristo Gesù.

    Israele aveva ricevuto:

    –         l’essere figlio dei patriarchi padri della fede e destinatari primi della promessa

    –         l’essere stato elevato alla dignità di “figlio” di Dio

    –         il dono della “gloria” di Dio presente in mezzo al suo popolo

    –         il dono delle alleanze di Abramo, di Mosè

    –         il dono della Legge

    –         il dono di un culto reso al vero Dio

    –         il dono delle promesse fatte ad Abramo e ai suoi discendenti.

    vv. 6-9

    6 Tuttavia la parola di Dio non è venuta meno. Infatti non tutti i discendenti di Israele sono Israele, 7 né per il fatto di essere discendenza di Abramo sono tutti suoi figli. No, ma: in Isacco ti sarà data una discendenza, 8 cioè: non sono considerati figli di Dio i figli della carne, ma come discendenza sono considerati solo i figli della promessa. 9 Queste infatti sono le parole della promessa: Io verrò in questo tempo e Sara avrà un figlio.

    Tuttavia il rifiuto di tutti i privilegi concessi ad Israele non segna il fallimento dell’agire di Dio.

    Infatti Dio ormai non si rivolge più all’Israele secondo la “carne” perché ormai si è costituito un nuovo Israele secondo lo “spirito” ovvero costituito per la fede nelle promesse. Gli appartenenti a questo nuovo Israele sono veri figli di Abramo.

    vv. 10-13

    10 E non è tutto; c’è anche Rebecca che ebbe figli da un solo uomo, Isacco nostro padre: 11 quando essi ancora non eran nati e nulla avevano fatto di bene o di male – perché rimanesse fermo il disegno divino fondato sull’elezione non in base alle opere, ma alla volontà di colui che chiama – 12 le fu dichiarato: Il maggiore sarà sottomesso al minore, come sta scritto: Ho amato Giacobbe e ho odiato Esaù.

    Dio infatti è libero nel donare i suoi doni. Il riceverli non è frutto dei “meriti” acquisiti dall’uomo. Il dono di Dio raggiunge chi vuole e quando vuole. Paolo porta l’esempio di Giacobbe ed Esaù.

    Certo questo agire di Dio sconcerta i nostri criteri umani che viaggiano secondo una nostra giustizia che tuttavia non è quella di Dio.

    Occorre qui fare attenzione: Paolo non sta affrontando il problema della predestinazione individuale ma semplicemente tentando di fare una lettura teologica della storia dei popoli. Storia che è guidata sovranamente da Dio secondo un’economia di salvezza. La ricaduta di un giudizio finale rientra nell’ambito della responsabilità individuale non collettiva.

    vv. 14-18

    14 Che diremo dunque? C’è forse ingiustizia da parte di Dio? No certamente! 15 Egli infatti dice a Mosè: Userò misericordia con chi vorrò, e avrò pietà di chi vorrò averla. 16 Quindi non dipende dalla volontà né dagli sforzi dell’uomo, ma da Dio che usa misericordia. 17 Dice infatti la Scrittura al faraone: Ti ho fatto sorgere per manifestare in te la mia potenza e perché il mio nome sia proclamato in tutta la terra. 18 Dio quindi usa misericordia con chi vuole e indurisce chi vuole

    A questo punto sembrerebbe quasi di poter affermare a nostro modo di vedere un “ingiustizia” presso Dio dato che egli non tratta tutti ugualmente.

    Ma che concetto abbiamo di Dio?

    Paolo esorta a riconoscere il mistero insondabile della sovrana libertà di Dio che non dipende dall’agire umano.

    (ne v. 18 si parla del cuore indurito del faraone da parte di Dio: bisogna leggere come volontà permissiva di Dio).

    Il rifiuto del dono della salvezza viene da Dio continuamente riproposto al suo popolo attraverso altre vie,

    vv. 19-24

    19 Mi potrai però dire: «Ma allora perché ancora rimprovera? Chi può infatti resistere al suo volere?». 20 O uomo, tu chi sei per disputare con Dio? Oserà forse dire il vaso plasmato a colui che lo plasmò: «Perché mi hai fatto così?». 21 Forse il vasaio non è padrone dell’argilla, per fare con la medesima pasta un vaso per uso nobile e uno per uso volgare? 22 Se pertanto Dio, volendo manifestare la sua ira e far conoscere la sua potenza, ha sopportato con grande pazienza vasi di collera, già pronti per la perdizione, 23 e questo per far conoscere la ricchezza della sua gloria verso vasi di misericordia, da lui predisposti alla gloria, 24 cioè verso di noi, che egli ha chiamati non solo tra i Giudei ma anche tra i pagani, che potremmo dire?

    Se l’indurimento del cuore è permesso da Dio e viene fatto rientrare nel suo piano di salvezza come mai poi viene condannato? Non è contraddittorio?

    In realtà Dio non è ingiusto nel punire la durezza del cuore. Anche attraverso il male Dio raggiunge mete salvifiche:

    –         egli infatti usa pazienza infinita nell’attesa della conversione del cuore.

    –         la punizione dimostra la stoltezza dell’uomo che crede di poter far da sé prescindendo da Dio.

    –         la fedeltà di Dio nonostante il rifiuto manifesta la potenza del suo amore.

    –         la durezza del cuore di Israele ha fatto sì che il vangelo fosse donato ai pagani.

    Dio ci rivela che i suoi disegni non forzano mai la libertà dell’uomo né destina alcuno alla perdizione.

    Dio prevede le “ribellionii” umane alla sua proposta, ma nella sua misericordia usa di questo male per farci raggiungere beni più alti.

    vv. 25-29

    25 Esattamente come dice Osea: chiamerò mio popolo quello che non era mio popolo e mia diletta quella che non era la diletta. 26 E avverrà che nel luogo stesso dove fu detto loro: «Voi non siete mio popolo», là saranno chiamati figli del Dio vivente. 27 E quanto a Israele, Isaia esclama: Se anche il numero dei figli d’Israele fosse come la sabbia del mare, sarà salvato solo il resto; 28 perché con pienezza e rapidità il Signore compirà la sua parola sopra la terra. 29 E ancora secondo ciò che predisse Isaia: Se il Signore degli eserciti non ci avesse lasciato una discendenza, saremmo divenuti come Sòdoma e resi simili a Gomorra.

    Tutto il dramma del rifiuto dell’opera salvifica di Dio verso il suo popolo è già preannunciata dalla predicazione profetica. Paolo porta a testimonianza tre testi: uno di Osea e due di Isaia.

    Osea parla di un non popolo che è il regno del nord che ha travisato la fede che accoglie la misericordia di Dio. Isaia parla di un “resto” che accoglierà le promesse di Dio.

    Quindi la profezia non ha mancato: l’Israele spirituale ha accolto la parola a differenza dell’Israele carnale. La promessa di Dio si è perciò realizzata (Anche se non ancora pienamente dirà poi Paolo) attraverso strade completamente nuove.

    vv. 30-33

    30 Che diremo dunque? Che i pagani, che non ricercavano la giustizia, hanno raggiunto la giustizia: la giustizia però che deriva dalla fede; 31 mentre Israele, che ricercava una legge che gli desse la giustizia, non è giunto alla pratica della legge. 32 E perché mai? Perché non la ricercava dalla fede, ma come se derivasse dalle opere. Hanno urtato così contro la pietra d’inciampo, 33 come sta scritto: Ecco che io pongo in Sion una pietra di scandalo e un sasso d’inciampo; ma chi crede in lui non sarà deluso.

    La colpa del rifiuto da parte di Israele non è perciò da attribuire a Dio ma solo alla durezza di cuore che fa sì che Israele cerchi la giustificazione-salvezza nella Legge. Cercando da sé una propria giustizia non l’ha raggiunta. La presunzione ha perduto Israele.

    Al contrario i pagani hanno ottenuto la giustificazione tramite la fede.

    Piste di riflessione e di dialogo

    1. Il discorso di Paolo vale per tutti, non solo per Israele. Vale per le nostre comunità, ma anche per ciascuno di noi.

    Siamo ricolmati di “privilegi” da parte di Dio. Quali? Prova ad elencarne almeno alcuni in ordine di importanza.

    2. Il dono più alto che il Creatore ha fatto a noi è una sovrana libertà dinanzi alla quale Dio si ferma. Questa libertà è un male o un bene?

    Se non l’avessimo sarebbe meglio? Perché?

    Se è un bene? Perché

    3. Questa libertà può essere usata per il bene ma anche per il male, anche verso altri e gli innocenti. Questo è uno scandalo per ogni uomo. Come Dio può permettere questo?

    Abbiamo paura della nostra libertà?

    Siamo veramente liberi?

    4. La Parola di Dio ci rivela che nonostante la nostra durezza di cuore, il nostro peccato, Dio persegue il suo disegno di salvezza per altre strade. Egli si ostina nell’aiutare ogni uomo e tutta l’umanità a raggiungere l’approdo della salvezza. Questo ci dice l’infinita misericordia di Dio.

    Puoi portare quale esempio, qualche fatto che vanga a dare testimonianza di questa verità?

    Dove ho sperimentato l’infinita pazienza di Dio nei miei confronti affinché io imparassi a gestire meglio la mia libertà?

     

  • 05 Giu

    LA DIREZIONE SPIRITUALE

     

    di p, Attilio Franco Fabris

     

    – I –

    UNA VELOCE PANORAMICA STORICA

    Il termine “direzione spirituale” appare solamente verso il XVI-XVII sec. per indicare una forma istituzionalizzata di aiuto spirituale.

    Ma per comprenderne il profondo significato occorre andare molto all’indietro nei secoli onde voler scoprire le principali e diverse forme di “direzione»” che hanno trovato posto lungo la storia della spiritualità cristiana.

    Se dovessimo cercare in queste antiche e nuove forme un denominatore comune quella che potrebbe rappresentare l’archetipo di tutte dovremmo ricercarla  nel rapporto maestro/discepolo o padre/figlio.

    Ma anche nel caso del rapporto maestro/discepolo, per comprenderne lo specifico significato bisogna riandare al contesto culturale originario, ben diverso dal nostro; contesto in cui la trasmissione del sapere non avveniva tramite libri o computer (formazione nella quale d’altronde trova sottolineatura solo la dimensione intellettuale), bensì tramite un insegnamento orale e ancor più la testimonianza esemplare.

    Lo scopo era infatti trasmettere quella particolare ed eccelsa forma di sapere che è la «sapienza della vita»: ciò che il padre/maestro aveva a cuore era la formazione globale del discepolo/figlio.

    Anche nel caso il maestro dovesse trasmettere un insegnamento dogmatico la sua funzione non era ristretta all’essere semplicemente dottore: ma nell’essere maestro di vita (così l’”abbà” del deserto, lo staretz russo, il guru indiano, lo shaikh dell’islamismo).

    L’influenza del maestro non è data perciò solo e anzitutto dalla parola e dalla scienza, ma soprattutto con l’esemplarità della vita con la sua sapienza ed è questo ciò che il discepolo ricercava nel maestro.

    NELL’ANTICO E NEL NUOVO TESTAMENTO

    Nella tradizione biblica il Rabbî è il maestro spirituale. Già attorno ai profeti di svilupparono vere e proprie scuole formate da discepoli (cfr. Is 8,16). Troviamo nell’ambito scritturistico anche la figura dei «saggi d’Israele»: essi si rivolgono ai discepoli come da padri a figli, al fine di insegnare loro la sapienza. Questi saggi non si sostituiscono alla rivelazione scritta, ma ne indicano l’applicazione concreta nella molteplicità delle situazioni (cfr. Is 50,4).

    Nel Nuovo Testamento, Gesù si presenta come Rabbî con dei discepoli (Talmudim). I Vangeli ce lo presentano come Maestro autorevole che chiama liberamente a porsi alla sua sequela.

    Gesù sceglie i dodici affinché stiano con lui e condividano con lui la missione: tra maestro e discepolo troviamo dunque una comunione di vita.

    Ai dodici Gesù domanda fiducia e disponibilità e soprattutto umiltà (cfr. Mt 11,25-27).

    NELLA CHIESA POST-PASQUALE

    Soprattutto nelle lettere paoline appare una profonda coscienza della paternità spirituale che si colloca e si fonda nella linea della paternità di Dio.

    Troviamo spesso Paolo che si rivolge ai cristiani delle comunità da lui fondate chiamandoli “figlioli”. Egli afferma che  da parte sua vi è stato un parto di dolore finché non si formasse in essi Cristo (cfr. Gal 4,19).

    Scopriamo così un aspetto fondamentale della direzione spirituale ovvero che la paternità spirituale si situa nella chiesa come partecipazione alla paternità divina: l’autorità del «padre» nella fede dunque non gli appartiene, ma gli viene affidata da un carisma dello Spirito, carisma che è vissuto all’interno della comunità ed è ad essa riferito.

    NEL MONACHESIMO

    Fin dalle origini della vita monastica, come è testimoniato ad esempio dai Detti dei Padri, viene raccomandata al discepolo l’apertura della coscienza all’Abbà, al padre del monastero o al monaco a cui si è stati affidati (s. Basilio nelle Regole ricorderà “quelli che sono incaricati di sorreggere con misericordia e con comprensione i fratelli più deboli”).

    Solo una sincera apertura del cuore permette di discernere l’opera di Dio nella propria esperienza spirituale con l’aiuto dell’Abba.

    Ma se nell’oriente monastico tale disciplina fu sempre tenuta in grande considerazione non così in Occidente in cui tale prassi venne sempre più a diluirsi in quanto spesso sostituita da varie altre istituzioni: noviziato, capitolo delle colpe, conferenze…

    Gli ordini itineranti e mendicanti vennero ancor più a togliere spazio alla direzione spirituale personalizzata e di carattere psico-spirituale.

    IL PERIODO DELLA RIFORMA: L’ISTITUZIONALIZZAZIONE

    Nel  XVI secolo grande importanza e spazio nella vita spirituale inizia ad essere data alla pratica dell’orazione mentale. In tale prassi viene ad evidenziarsi sempre più la necessità di una iniziazione e di un costante controllo. Scriveva s. Teresa d’Avila: “Io ritengo per certo che un’anima di orazione che tratti con uomini dotti, non verrà mai ingannata dal demonio, a meno che non lo voglia lei stessa” (Vita).

    Compito del direttore di spirito è perciò offrire sicurezza all’anima che ha intrapreso la vita spirituale facendole intravedere onde evitarli tutti i possibili pericoli.

    Ancora nel ‘500 nasce ad opera di Ignazio di Loyola la prassi degli “Esercizi Spirituali” che richiedono una forma specifica di accompagnamento e di direzione.

    Qui il compito del direttore è di guidare l’esercitante alla ricerca della volontà di Dio su di lui, proponendo le meditazioni e discernendo i vari moti dell’anima (consolazioni, desolazioni….) che vengono a mano a mano ad emergere.

    Allargandosi la pratica degli esercizi spirituali, i responsabili della formazione dei sacerdoti e gli educatori dei giovani nei vari collegi si preoccupano di includere nel loro programma anche la formazione spirituale individuale, che viene così ad trovarsi estesa a fasce sempre più larghe di individui.

    Riassumendo:   A partire dal XVI secolo emerge perciò: – che si va sempre più insistendo sulla necessità della direzione spirituale – che la sua pratica viene ad essere sempre più estesa a tutti gli stati di vita cristiana – che il compito del direttore è di operare un controllo dell’autenticità del cammino spirituale del diretto. – che la direzione stessa viene ad essere oggetto di sistematizzazione e riflessione teorica – che pure il clero secolare viene riconosciuto idoneo ad offrire una direzione spirituale. A proposito di quest’ultimo punto va evidenziato come questo fatto fa sì che la direzione spirituale si leghi sempre più al sacramento della penitenza. La conseguenza di questo è che l’autorità del direttore spirituale venne per la quasi totalità assorbita o spesso confusa con quella data dalla giurisdizione sacramentale. Non sarà in seguito così semplice distinguere il consiglio dall’ingiunzione. E’ evidente che le caratteristiche proprie della direzione vennero ad essere spesso adombrate o addirittura distorte.
    II –
    UN PRIMO APPROCCIO AL TEMA

    La direzione spirituale è un tema vastissimo nell’ambito della spiritualità in quanto interessa diversi ambiti e discipline.

    COME AFFRONTARE IL TEMA

    Possiamo partire prendendo in considerazione due prospettive presenti nella pastorale di oggi. Esse possono apparire di primo acchito in contraddizione, mentre in realtà sono complementari.

    Da un lato troviamo una giusta valorizzazione della persona: vi è stata una riscoperta e riflessione sulla sua unicità, sulla sua dimensione storica…

    Si è compreso che ciascuno deve essere accolto, riconosciuto, valorizzato nella sua individualità. Questa unicità non può essere sminuita da sistematizzazioni o direttive generiche.

    Dall’altro lato evidenziamo l’esistenza della valorizzazione della comunità: in questo caso si è giunti alla consapevolezza che l’individuo non può esistere da solo, ha bisogno degli altri. Deve far parte di un gruppo per poter crescere e camminare. «Nessun uomo è un’isola» affermava Thomas Merton.

    Queste due istanze hanno fatto sì che la direzione spirituale fosse contestata in quanto sembrerebbe un impedimento per lo sviluppo di entrambe le prospettive.

    Ma a questa prima contestazione oggi forse è subentrata una ulteriore fase che è la trascuratezza: fare un cammino di direzione o no è irrilevante! Sembra non esservi più una tensione al miglioramento e alla crescita del proprio cammino spirituale. Le energie sono tutte incanalate nella direzione delle attività e dell’apostolato.

    CONTORNI E ORIZZONTI GENERALI

    Evidenziamo ancora alcune difficoltà che vengono poste alla prassi della Direzione Spirituale.

    Anzitutto esistono difficoltà di tipo teorico:

    La socializzazione: come già accennato la direzione spirituale è vista come retaggio di una mentalità e spiritualità individualistica ed elitaria. Ancor più si sente dire che oggi non ha senso spendere le energie per la pecora rimasta nel gregge e tralasciare le novantanove disperse.

    Lo spirito comunitario: è sufficiente il gruppo per il cammino spirituale, è la condivisione, il dialogo che fa crescere ‘individuo.

    Al massimo si può parlare di una direzione/assistenza spirituale per il gruppo.

    Lo sviluppo della psicologia: lo psicologo sembra aver preso il posto del direttore e la psicanalisi quella della direzione. Non rare volte poi accade che i successi della psicoterapia siano effettivamente migliori di quelli della direzione spirituale.

    Alcune linee teologiche emergenti:  si sottolinea il ruolo della libertà e della coscienza adulta. Colui che si fa dirigere rischia di non crescere impedendosi di divenire adulto nella fede.

    La dinamicità della vita spirituale: la vita nello Spirito è in definitiva un lasciarsi condurre dal maestro interiore. La spontaneità permette allo Spirito di agire in noi.

    La direzione spirituale rischia di trasformarsi in una palla al piede, in un impedimento in quanto mortifica e la spontaneità e la libertà.

    La direzione spirituale si ferma allo spirituale puro, mentre l’impegno di fede è diretto a un coinvolgimento anche nelle realtà terrene. La fede deve essere incarnata e non ristretta all’ambito delle “cose dell’anima”.

    Queste sono alcune difficoltà teoriche alle quali se ne potrebbero certamente aggiungerne altre. Dietro queste asserzioni si rivela il più delle volte una errata concezione o una prassi sbagliata della direzione spirituale. Una vera comprensione della direzione spirituale risolve le difficoltà sopraddette.

    Esistono poi difficoltà di ordine pratico:

    La scarsezza dei direttori: ma occorre ricordare che non tutti sono adatti ad offrire una direzione spirituale per cui è meglio che talvolta venga posto da questi un rifiuto.

    Ancora: il rifiuto del direttore potrebbe essere dato dalla presa di coscienza delle motivazioni e degli atteggiamenti negativi di colui che fa richiesta di essere accompagnato spiritualmente: potrebbero infatti esistere meccanismi di fuga, di delega, di ricerca di sicurezza; oppure chi fa richiesta di direzione tende  a caricarla di attese indebite e sproporzionate, quasi magiche (come il più delle volte capita per sofferenze di tipo psicologico).

    Esiste inoltre una prassi errata: molti pensano di fare direzione spirituale, ma si fermano ad un livello psicologico-umano, oppure a problemi morali, o giuridici disattendendo la vera funzione della direzione.

    Offriamo perciò una prima chiarificazione: la direzione spirituale non è formalmente lavoro né da psicologi, né da moralisti, né da canonisti, né da sociologi, né da teologi, né da catechisti, né da evangelizzatori. Anche se è augurabile che il direttore spirituale abbia conoscenze basilari delle discipline umane e teologiche, non fosse altro per essere accorto nel non volerle e doverle usare.

    – III –
    NECESSITA’ DELLA DIREZIONE

    La necessità della direzione spirituale emerge da un’attenta analisi della situazione in cui il cristiano soprattutto oggi si trova a vivere. Ne elenchiamo alcune ad esempio.

    La complessità della vita e la complessità culturale:

    Inevitabilmente essa genera conflitti, ansia, indecisione. Molti vivono situazioni di scoraggiamento e disorientamento. E’ evidente che chi vive il problema soprattutto in modo acuto domandi un aiuto, e chieda una guida nella sua ricerca.

    La necessità di superare il soggettivismo selettivo e l’oggettivismo astratto:

    Da un lato ci si rende conto del rischio di divenire schiavi della situazione e dall’altro di trasformarsi in schiavi della legge. Trovare un giusto equilibrio è difficile ed esige un accorto discernimento. Il confronto è indispensabile perché da soli è pressoché impossibile essere oggettivi nei propri confronti.

    Il desiderio di significatività:

    La domanda di senso è ciò che maggiormente tocca l’uomo di oggi. Essi soprattutto in momenti critici si impone alla coscienza. Ecco allora che la ricerca di un significato, di un perché nella e della vita ad un certo punto si impone nel cammino di una persona che desideri vivere in profondità.

    Il passaggio dalla morale alla fede e l’incarnazione dei valori

    Questo passaggio significa desiderare ad un certo punto operare il superamento dal «Ma che male c’è?», al «Come è meglio fare?». Ciò significa interrogarsi su come incarnare nel proprio quotidiano quei valori che si stanno scoprendo nel proprio cammino.

    – IV –
    NATURA E COMPITI DELLA DIREZIONE SPIRITUALE

    La direzione spirituale in che cosa consiste? Che cosa è? Diamo una definizione:

    «Parliamo di direzione spirituale quando il credente alla ricerca della pienezza di vita cristiana riceve un aiuto spirituale che lo illumina, lo sostiene e lo guida nel discernere la volontà di Dio per raggiungere la santità» (C.A. Bernard)

    La definizione insiste sulla funzione di discernimento che investe l’intero vissuto della direzione.

    In questa definizione appare sottolineato come lo scopo della direzione spirituale è di far sì che si possa apprendere ad intuire la volontà di Dio nel concreto della propria vita apprendendone sempre di più il metodo.

    Per questo la direzione spirituale è in fin dei conti una educazione alla maturità cristiana, una vera e propria pedagogia alla libertà e della libertà. (Diceva san Francesco di Sales: «“Scopo del direttore è far sì che il diretto impari a far meno del direttore”»!).

    Vi è dunque la necessità nel contesto soprattutto della direzione spirituale e da ambe le parti di una docilità allo Spirito, un riconoscere la sua presenza e la sua azione. Non dimentichiamo: lo Spirito è il fulcro, l’attore, il soggetto principale, e la “vita spirituale” è il termine verso cui mirare.

    Solo questo atteggiamento i fondo fa sì che si operi l’educazione alla pienezza della vita cristiana superamento la visione riduttiva di un impegno solo morale.

    Il direttore accompagna nell’opera di discernimento, offre gli strumenti, indica un metodo, offre una presenza. Anche se questo non toglie che per arrivare all’ottimo si debba seguire un itinerario educativo progressivo.

    – V –
    LA RELAZIONE NELLA DIREZIONE SPIRITUALE

    Potremmo porci altri interrogativi: che tipo di relazione si instaura nella direzione spirituale? Come inizia? Come si sviluppa? Quale è il “luogo” e “tempo” privilegiato? Quale il ruolo dei due partners?

    E’ ovvio che la direzione spirituale possiede tutte le caratteristiche una relazione tra due persone. Occorre perciò interrogarci sui termini stessi che hanno lo scopo di  esprimere tale relazione.

    Essi sono numerosi. Quale il significato di questo fatto? Di certo che non si intende univocamente la relazione nella direzione spirituale, ma che essa viene ad essere interpretata, vissuta,  sviluppata in molteplici modalità ed accentuazioni.

    Infatti si parla ad esempio di:

    – direzione spirituale / direttore / diretto

    – paternità spirituale / padre spirituale / figlio spirituale

    – Accompagna.

    ..

    gia anche degli elementi negativi:

    non è presente nell’ambito della rivelazione biblica.

    Il termine “diretto” soprattutto può sembrare infelice: infatti dà l’idea che sia qualcun altro a spingere in una “direzione” preordinata, mentre abbiamo ben compreso come sia lo Spirito a dirigere, o meglio “attirare”, intendendo la funzione del “direttore” come una semplice mediazione.

    I termini direttore/diretto indicano anche grammaticalmente una relazione in cui uno è attivo e l’altro passivo con la relativa possibilità di distorsione nell’intendere la direzione nella linea dell’autorità e dell’obbedienza.

    Per intendere correttamente il termine “direzione” occorre ricordare che le persone coinvolte della relazione non sono due bensì tre. Infatti la presenza e l’azione dello Spirito Santo garantisce la libertà di colui che domanda aiuto ed impedisce la manipolazione da parte di colui che “dirige”.

    Il direttore ha come compito il facilitare l’incontro tra diretto e Spirito Santo. In questo senso dovrebbe desiderare di rivivere l’esperienza spirituale e carismatica di Giovanni Battista, voce della Parola: “Lui deve crescere, io diminuire”.

    Il diretto, da parte sua, deve porsi nell’atteggiamento dell’imparare ad accogliere con sempre maggior docilità la presenza e la funzione del direttore come mediazione della sua relazione con Do, ovvero sulla linea del “sacramento”.

    Sarebbe evidentemente cattivo direttore colui che stesse al gioco del diretto che ricercasse in lui una forma di sicurezza, di delega della propria responsabilità, o peggio una dipendenza di tipo infantile.

    PATERNITA’ SPIRITUALE: / PADRE SPIRITUALE / FIGLIO SPIRITUALE

    L’interpretazione di tale schema sulla linea della relazione familiare comporta elementi positivi e negativi:

    positivi:

    – si tratta di una relazione di aiuto

    – è inteso come un rapporto pedagogico

    – evidenzia una componente affettiva e di donazione.

    negativi:

    – il padre nella relazione naturale ha vera autorità, realtà che non compete al paternità spirituale

    – il termine padre oggi è compromesso dal clima culturale che tende, almeno inconsciamente, a cancellarlo.

    – la possibilità di un vissuto del rapporto secondo  transfert (questo da entrambe le parti)

    – Gesù invita a non chiamare nessuno padre, in quanto vi è prioritariamente una relazione basilare di fratellanza tra i discepoli.

    Ha senso leggere la relazione come “paternità” se essa viene vissuta e intesa come “sacramento” della relazione che si ha con il Padre celeste, e se è vissuta da entrambi come un rapporto di figliolanza dall’unico Padre e quindi di conseguenza di fratellanza.

    ACCOMPAGNAMENTO SPIRITUALE/ GUIDA SPIRITUALE / CONSIGLIERE

    Tale terminologia è molto usata in questi ultimi anni.

    Positivamente essa tende a restituire il giusto ruolo di protagonista a colui che ricorre all’aiuto spirituale.

    Si sottolinea la dimensione dinamica della vita spirituale, il suo essere itinerario progressivo mai concluso per ambedue, guida e “guidato”. Entrambi sono chiamati a mettersi in cammino.

    Il termine “consigliere” evidenzia soprattutto il carattere non impositore né autoritario della guida.

    Richiama direttamente allo strumento privilegiato adottato nel rapporto che è il consiglio. Quest’ultimo richiede riflessione e interiorizzazione e quindi è ricevuto in piena libertà offrendosi alla responsabilità di chi lo riceve al fine di divenire principio di azione.

    VI
    IL COLLOQUIO E IL DIALOGO SPIRITUALE

    E’ attraverso l’esperienza del colloquio interpersonale che principalmente si attua la pedagogia della direzione spirituale.

    La modalità in cui il colloquio si svolge è il dialogo: dobbiamo ritrovare dunque nella direzione spirituale le linee e le leggi del dialogo che la riflessione filosofica, psicologica e pedagogica hanno sviluppato in questi ultimi decenni.

    E’ importante operare una discriminazione anzitutto del vero dialogo dalla predica, dalla discussione, dalla conversazione.

    La “predica”: il monologo sarebbe un tipo di direzione univoca e autoritaria, non vi è incontro ma solo offerta di contenuti  da un lato e ricezione passiva dall’altro.

    La conversazione: è uno scambio tra pari, vi è il rispetto dell’interlocutore. Il primo scopo è alimentare la relazione, i contenuti passano in secondo piano. Non si affrontano problematiche determinate.

    La discussione: si muove sul piano della ricerca della verità oggettiva. Vi è comunicazione vicendevole di idee ed opinioni. L’interlocutore perciò passa in secondo piano.

    Il dialogo: quest’ultimo tipo di confronto tra due persone cerca di armonizzare e integrare le esigenze di ordine logico e quelle di ordine psicologico, l’oggettività e la soggettività, in una ricerca della verità che deve trovare incarnazione nell’esistenza della persona.

    Ovviamente la direzione spirituale si colloca nell’ambito della metodologia del dialogo, mentre non sarebbe possibile definire direzione spirituale quella che si riducesse ad essere predica, conversazione o discussione.

    Il vero dialogo non è semplice da realizzare, anzi è difficile.

    Esso richiede da un lato un’accoglienza incondizionata dell’altro e una autentica ricerca del vero e del bene dall’altro.

    Si tratta di considerare la persona concreta con la sua storia, le sue ricchezze e i suoi limiti e, nel medesimo tempo, la verità verso cui tendere; intendendoli non come fattori contrapposti in cui uno debba necessariamente sopraffare l’altro, ma come due realtà necessariamente in continuo dialogo, in continua ricerca di integrazione per un inveramento reciproco.

    CONTENUTI del DIALOGO

    Il contenuto fondamentale della direzione spirituale si può sintetizzare nel fatto che a partire dall’esperienza passata, attraverso la presa di coscienza del vissuto presente, colui che intraprende il cammino della direzione deve discernere un orientamento per il suo futuro.

    A.   Passato

    Considerare e prendere in esame il passato non significa fermarsi ad analizzare i problemi, ciò che interessa è arrivare a cogliere la persona come è e come si trova in questo preciso momento:  questo punto ovviamente è frutto di tutto il passato.

    Se la direzione spirituale dovesse ricercare l’origine ai problemi nel passato non sarebbe direzione spirituale, questo sarebbe competenza di una psicoanalisi.

    La lettura del passato nella direzione spirituale è soprattutto sapienziale, ovvero come occasione per scoprire un cammino, un senso, una presenza.

    B.   Presente

    La domanda a cui il diretto dovrebbe giungere a rispondere è: come si sta realizzando la mia vita spirituale oggi?

    Questo significa educare ed educarsi a:

    – cogliere i “fatti spirituali” dell’esistenza prendendo coscienza di tutto il proprio vissuto, interiore ed esteriore;

    – saper descrivere e comunicare tali “fatti spirituali”. Molte persone li avvertono ma in modo confuso rimanendo perciò in balia del momento e dell’emotività. Oggettivando al contrario si ha a disposizione la possibilità di ordinare e costruire il proprio vissuto.

    In tal senso se ne deduce come la direzione spirituale assuma il valore di una scuola privilegiata di comunicazione, comprensione e maturazione della fede.

    – saper valutare rettamente la propria esperienza, operando su di essa un discernimento.

    C.   Futuro

    L’analisi del passato e del presente è fatta in vista del futuro per sapersi sempre più orientare verso ciò che viene colto ed intuito come volontà di Dio

    Da un punto di vista concreto quali tematiche dovrebbero essere  affrontate?

    Diamo qui una possibile struttura di contenuti:

    – Conoscenza reciproca: ritratto della propria vita umana, familiare, sociale, ecc…; spesso, quando si inizia una direzione spirituale con una persona, ci si accorge molto bene se essa ne abbia già una certa pratica proprio dal fatto che spontaneamente espone e presenta un quadro generale della propria vita contestualizzandolo nell’ambiente in cui è chiamata a vivere.

    – Stato psicologico generale (contento, arido, triste, euforico, consolato, desolato…? ) Soprattutto è importante arrivare a conoscere il “perché” e ad analizzare le motivazioni profonde.

    – Stato di salute fisica

    – Problemi relativi equilibrio affettivo (per esempio simpatie, antipatie, amicizia, relazioni, sessualità …)

    – Problemi di rapporto e di adattamento con gli altri (nel mondo della famiglia, della scuola, del lavoro, del tempo libero e dei divertimento…)

    – Idee e visioni su problemi generali della vita (come la pensi su… ?)

    – Successi ed insuccessi nel lavoro, in famiglia, con gli amici…

    – Difetti e tendenze interiori. Anche i peccati? Possono e non possono essere significativi.

    – Esercizio delle virtù teologali della fede, della speranza e della carità.

    – Povertà, castità, obbedienza….

    – Senso della persona umana, visione dell’uomo e senso del mistero.

    – Modo di vedere Dio, Gesù Cristo, la Chiesa, Maria, il regno…

    – Disponibilità, spirito di sacrificio, abnegazione e mortificazioni

    – Preghiera, Parola di Dio e Sacramenti: concetto, e pratica…

    – Missionarietà, apostolato, testimonianza e servizio:

    – Decisioni:  dalle più semplici alle più impegnative…

    In sostanza capiamo come tutto il vissuto personale considerato e analizzato in ordine alla santità e ad un cammino sempre più attento e preciso alla via del Signore.

    Ripetiamo a mo’ di conclusione che la caratteristica fondamentale della direzione spirituale debba essere dinamica, ovvero intesa come itinerario, cammino, con delle tappe con una crescita, con inevitabili momenti di entusiasmo, di stanchezza, di conflitti.

    Occorre da ambedue le parti accettare questa evoluzione che interessa la relazione stessa e le sue modalità.

    Questo significherà ad esempio per il direttore accettare che più la crescita avviene meno si senta la necessità di una sua presenza costante come guida.

    In sintesi: la maturità attende da entrambi determinati passaggi, con le rispettive esigenze.

    – VII –
    ATTEGGIAMENTI FONDAMENTALI

    Quali le qualità, gli atteggiamenti richiesti al direttore spirituale e al diretto? Quale la formazione richiesta al direttore?

    Iniziamo dal direttore spirituale, dicendo in primo luogo il detto classico: «Nessuno può dare ciò che non ha!»

    – La Maturità spirituale:

    Essa comporta una vita teologale intensa, la libertà interiore (ricordiamo che l’”indifferenza” è un requisito fondamentale per il discernimento), la coscienza della propria identità, una buona conoscenza di se stesso (proprie luci ed ombre), un buon equilibrio psicologico che dia la possibilità di una unificazione e pacificazione interiore.

    – L’Attitudine alla ricerca:

    Ovvero un desiderio reale di ricercare la verità (la volontà di Dio), una chiarezza di fondo circa il fine e i mezzi da perseguire, il possesso di una gerarchia di valori e di un sistema axiologico di cui avvalersi come criterio di discernimento.

    – La Purificazione del cuore e la conversione:

    Il che comporta una spinta continua al rinnovamento (non ha senso l’affermazione: “Tiriamo i remi in barca” o peggio “Lasciateci vivere e morire in pace”). Un buon direttore è sempre alla ricerca del “Come è meglio fare?”.

    – Il Rapporto personale con Cristo:

    La familiarità con Cristo e la sua Parola, la stima e l’esercizio costante della meditazione, l’adesione alla missione e alla sequela crucis, l’unione profonda sacramentale con Cristo presente nella Chiesa: tutto questo diviene alimento indispensabile alla vita spirituale e sorgente di fecondità.

    – Il Senso ecclesiale:

    Il vero discernimento si fa nella Chiesa. L’oggetto di discernimento  non può essere qualcosa che vada contro la chiesa e il soggetto del discernimento deve sentirsi prima di tutto “parte” e “membro” della Chiesa.

    Il direttore deve educare il diretto al vero “sentire con la Chiesa e nella Chiesa”.

    – Il Senso del positivo:

    Si richiede cioè forte capacità, da parte del direttore, di apprezzare e di far emergere la positività delle situazioni e del vissuto interiore. Non si tratta di ingenuità, ma di capacità di vedere l’azione e la presenza dello Spirito Santo sempre e ovunque.

    Uno sguardo positivo che rimanda alla fiducia è condizione essenziale per la crescita autentica dell’altro.

    – La Capacità di creare un clima di fede, di speranza e carità:

    Solo tale clima infatti permette di porsi nei confronti di Dio in una giusta lunghezza d’onda.

    – La Capacità di ascolto:

    E’ un atteggiamento apparentemente facile, ma non si deve nascondere la sua reale fatica e difficoltà. Il vero ascolto deve coinvolgere l’intera persona (fisicamente, psicologicamente, affettivamente…). L’ascolto richiede soprattutto la disponibilità a lasciarsi “toccare” dal vissuto dell’altro (empatia) senza lasciarsene coinvolgere.

    Il rapporto con l’altro esige lasciar entrare l’altro nella propria vita, concedendogli spazio, tempo, cuore, intelligenza, attenzione, affetto. Certo una tale disponibilità richiede sacrificio ed abnegazione al direttore, che soprattutto in tal atteggiamento dimostra la sua vera paternità.

    Si tratta di un ascolto attivo (capacità di registrazione, rapida valutazione, capacità di distinguere il fatto dall’interpretazione, il saper interrogare…).

    Solo un vero ascolto permette di percepire l’altro, il suo mistero, di intuire il suo vissuto e quindi poter saggiamente consigliare.

    E ora passiamo agli atteggiamenti richiesti al diretto. Ne ricordiamo in modo particolare due:

    – L’Apertura e la manifestazione della coscienza:

    si tratta ovviamente della sincerità di fondo che è retta intenzione.  E’ una premessa essenziale, perché senza sincerità non vi sarebbe verità e quindi autentica apertura alla volontà di Dio.

    Si tratta anche di acquisire capacità di descrivere non solo i fatti esterni alla propria coscienza, ma anche e soprattutto i fatti interiori (disposizioni, desideri, mozioni, sentimenti…).

    – La Disponibilità a lasciarsi mettere in discussione:

    Se da parte del diretto vi fosse l’atteggiamento (implicito od esplicito) a voler confermare le proprie opinioni e scelte, non vi sarebbe nessuna capacità di aprirsi autenticamente alla volontà di Dio.

    Gli antichi parlavano in questo senso di una imprescindibile umiltà nel vivere la realtà della direzione spirituale.

    – VIII –
    FORMAZIONE DEL DIRETTORE

    Si richiedono tre tipi di formazione complementari:

    la formazione antropologica: conoscenza della scienze umane (soprattutto psicologia e pedagogia)

    la formazione teologica: conoscenza della teologia biblica e spirituale

    la formazione spirituale esperienziale tramite la direzione ricevuta e data.

    Il discernimento è arte o tecnica? A questa domanda credo si possa rispondere che fondamentalmente esso sia un dono , un carisma vero e proprio dato dallo Spirito per l’edificazione della Chiesa nei singoli credenti. Ciò non toglie che in certa misura tutti i cristiani lo hanno ricevuto in quanto tutti sono chiamati ad essere corresponsabili gli uni per gli altri.

    Il fatto che sia carisma non esclude tuttavia che non sia esercitato con profitto soprattutto da chi possiede doti e capacità costitutive alla sua struttura personale e alla sua storia.

    E’ di fondamentale importanza che colui che esercita la direzione abbia compiuto un lavoro su di sé a livello ascetico, spirituale, e possibilmente anche psicologico. E’ importante prima di presumere di aiutare gli altri l’umiltà del farsi aiutare ad essere sempre più trasparenti nei propri confronti.

    – IX –
    PROBLEMATICHE PARTICOLARI

    LA SCELTA DEL DIRETTORE

    Il direttore lo si sceglie. Certo è giusto che lo si indichi e proponga da parte dei responsabili, ma facendo attenzione che la persona si senta libera .

    Il direttore deve essere maestro di scienza o di esperienza? L’ideale sarebbe che entrambi le doti si trovassero riassunte in una persona, ma è raro. Non sempre si può aver l’optimum.

    In questo senso nella scelta occorre prendere in esame il punto del cammino in cui il diretto si trova: per gli incipienti infatti è più importante che si tratti di uomini di esperienza, mentre per chi più è avanzato può essere di maggior aiuto l’uomo di scienza (questa è l’esperienza ad esempio di s. Teresa d’Avila).

    DIREZIONE SPIRITUALE E PSICOLOGIA

    Sembra talvolta che la psicoterapia soppianti la direzione spirituale.

    In primo luogo occorre riconoscere che una corretta psicologia che faccia sua la visione antropologica aperta ai valori della fede, rappresenta un reale aiuto allo sviluppo della persona in modo particolare se nel suo vissuto permangono aspetti conflittuali o addirittura nevrotici. Ricorrere ad essa è saggio se non addirittura doveroso.

    Essa può essere vista come una opportunità di una pulizia/purificazione interiore, a tutto vantaggio di una successiva o concomitante direzione spirituale.

    Per il cristiano la dimensione psicologica se pur importante non rappresenta tuttavia la sintesi del mistero della persona umana (la psiche non è l’anima!).

    La crescita spirituale e lo sviluppo della vita cristiana non è frutto solo delle strutture psicologiche, ma sono iniziativa che nasce anzitutto da Dio, dalla presenza del suo Spirito in noi, il quale passa attraverso tali strutture  e mediazioni.

    In questa visione la psicologia rappresenta certamente un valido aiuto nella conoscenza dell’uomo e dei suoi dinamismi, ma non è lei ad offrire le motivazioni ultime dell’agire umano. E’ causa dispositiva ma non possiede efficienza causale (potremmo paragonarla alla necessaria e buona revisione dell’auto di tanto in tanto).

    Quale relazione tra direzione spirituale e psicoterapia? Non mancano casi in cui si domanda alla guida spirituale la soluzione a problematiche che non sono di sua competenza. In questo caso i “clienti” caricano di significato spirituale e religioso problemi che sono di natura strettamente psicologica. Il direttore dovrebbe allora demandare allo psicologo.

    In altri casi invece avviene che il ricorso alla psicologia rappresenti un approccio troppo riduzionistico  della persona e delle sue problematiche: lo psicologo dovrebbe allora demandare al direttore spirituale.

    La premessa essenziale  è che non vi deve essere confusione, ma distinzione e quanto più possibile armonia.

    In questo senso il lavoro del direttore non deve andare a scapito della psicoterapia e viceversa. (Nel caso apparisse una contraddizione insanabile nei due approcci il direttore inviti ad una scelta precisa). L’integrazione dei due aspetti è compito del diretto.

    Il direttore deve appoggiare al massimo il lavoro dello psicoterapeuta e lo psicologo deve evitare di “smontare” il cliente dal punto di vista religioso. Occorre cercare di operare una distinzione dei piani: ovvero quanto ad esempio della visione religiosa del paziente sia da purificare e modificare e quanto invece da sostenere e potenziare.

    LA DIREZIONE SPIRITUALE E IL SACRAMENTO DELLA RICONCILIAZIONE

    E’ bene che il direttore spirituale sia anche il confessore? E’ utile che la direzione spirituale avvenga all’interno della celebrazione del sacramento?

    Risponderemo dicendo che non è sempre detto che sia meglio che il direttore spirituale svolga anche le funzioni di confessore abituale del “diretto”, non solo per motivi pratici (ad es. la distanza), ma anche per motivi legati alla diversità di funzione esercitate.

    Certo non vi è nulla di contrario all’esercizio della direzione spirituale nell’ambito del sacramento della penitenza. Occorre tuttavia assicurare il clima adatto per i due momenti che non devono andare a discapito l’uno dell’altro, e ancora che siano salvaguardate le caratteristiche specifiche di entrambe.

    DIREZIONE SPIRITUALE E SACERDOZIO

    Ricordiamo che nei primi secoli la direzione spirituale era compito specifico dei monaci che erano dei laici. Quindi la direzione spirituale nasce nel contesto laicale e non ministeriale.

    Questo ci aiuta a comprendere che la direzione spirituale non è appannaggio esclusivo dei sacerdoti.

    Sarebbe ad esempio auspicabile la riscoperta del valore della direzione spirituale come servizio anche laicale ( ad esempio all’interno delle comunità femminili).

    FREQUENZA E DURATA

    Non si può dare una regola precisa, in quanto la frequenza e la durata variano a seconda delle persone e delle problematiche.

    Tuttavia si può ricordare che essa non deve essere né troppo pressante (impedirebbe il lavoro personale) né troppo allentata (verrebbe a mancare la tensione).

    E’ utile ricordare che invece è di fondamentale importanza la costanza, in modo che la richiesta non sia lasciata alla determinazione di desideri immediati che per lo più sono dettati o suggeriti da stati emozionali più che da obiettive necessità personali.

    TESTI

    Dal Catechismo degli Adulti, La verità vi farà liberi, nn. 934-5

    Il cammino, a parte vocazioni molto particolari, non deve essere solitario. I fratelli sono poveri come noi, ma sono cooperatori di Dio per la nostra santificazione. E’ importante l’inserimento in un gruppo di formazione, in una esperienza concreta di Chiesa. E’ prezioso, e almeno in alcuni momenti necessario, un consigliere o direttore spirituale. Si tratta di un educatore che, servendosi prevalentemente del dialogo, aiuta a discernere la volontà di Dio e a compierla. Viene scelto liberamente e mantenuto stabilmente, perché possa conoscere bene, consigliare con chiarezza, istruire, stimolare, correggere con gradualità. E’ preferibile che sia un sacerdote, anzi il confessore; ma può essere anche un’altra persona, purché abbia le qualità necessarie: pietà, zelo , umiltà, equilibrio, scienza, esperienza, bontà, disinteresse, riservatezza. Al consigliere spirituale si deve aprire il cuore con sincerità e fiducia. Le sue direttive vanno seguite con docilità. Infine il cammino spirituale per non rimanere velleitario, deve darsi un’appropriata disciplina. Contro la pigrizia e le eventuali crisi di scoraggiamento occorre seguire un programma di vita, realistico, commisurato alle proprie possibilità, flessibile, ma con alcuni punti fermi. Ognuno deve camminare con il suo passo, ma con perseveranza.”

     

  • 04 Giu

    IL PERDONO IN COMUNITA’
    Mt 5,23-24

     

    a cura di p.Attilio Franco fabris

     

    In una comunità di giusti e di perfetti il perdono sarebbe una sgradita eventualità.

    Se invece la comunità è famiglia in cui constatiamo quotidianamente la nostra debolezza e la nostra fatica ad amare, allora il perdono da dare e ricevere dev’essere una presenza costante.

    In una comunità di perfetti tutto deve andare bene e non vi è nulla da perdonarsi: si tratta di una comunità  in fin dei conti poco cristiana.

    Una comunità composta di peccatori “consente” ai propri componenti di essere limitati, diversi,  colpevoli. La comunione nasce non solo dalla condivisione di ideali, ma anche dalla convinzione di aver bisogno l’uno del perdono dell’altro.

    Non vi è un sogno di un’umanità non segnata dal peccato, ma l’accettazione di uno sforzo umile e paziente di ricerca della riconciliazione che è sempre più forte del peccato.

    CUORE DELLA VITA COMUNITARIA

    Una comunità non può costruirsi e restare in vita al di fuori di una logica di perdono.

    Infatti:

    La riconciliazione impedisce al peccato di ostacolare i rapporti fraterni. Il peccato tende ad agire rimanendo nascosto.

    Non bisogna neppure illudersi che basti un perdono sacramentale: non è sufficiente!

    Finché il male rimane nascosto distrugge e spezza la comunità, quando viene riconosciuto nel perdono fraterno non solo perde ogni suo potere malefico, ma può addirittura diventare occasione di crescita e di riscoperta di ciò che ci unisce.

    Non vi può essere comunità senza perdono in quanto la riconciliazione è l’unica via storica per la comunione.

    La vita comunitaria è una rivelazione penosissima delle nostre debolezze e delle nostre tenebre “è il luogo in cui si scopre la profonda ferita del proprio essere e in cui si impara ad accettarla” (J. Vanier).

    Se noi rinasciamo proprio da queste ferite allora significa che anche le nostre comunità nascono dall’accettazione reciproca delle ferite di ciascuno.

    LA PARABOLA DELLA COMUNITA’ RICONCILIATA

    Ogni comunità è costruita sul paradigma della parabola del figliol prodigo.

    Non ci sono ruoli fissi perché tutti siamo ora come il figliol prodigo, ora come il figlio maggiore, talvolta come… il padre misericordioso.

    Una prima cosa è quella di imparare bene il ruolo del figliol prodigo: ovvero prendere seriamente coscienza del proprio peccato, dei propri torti nei confronti della comunità. Si tratta di trovare il coraggio di chiedere il perdono.

    Quando c’è questa coscienza e quando tale coscienza si manifesta in atteggiamenti concreti, si scopre la dimensione “materna” della comunità: ci si sente accolti sempre e molto più di quanto noi meriteremmo.

    Se non percepisco così la comunità dovrei anzitutto interrogarmi su come vivo e su come interpreto il mio essere peccatore di fronte agli altri. Chi non si sente a sufficienza figliol prodigo percepirà quasi sicuramente una comunità matrigna.

    Molte altre volte ci si comporta come il fratello maggiore: non vogliamo perdonare e ci da fastidio chi lo fa: chi impedisce la vita comunitaria non è tanto chi sbaglia, ma chi s’irrigidisce nel giudizio o nella condanna, e s’ostina a non capire che il perdono dato a un fratello giova a tutti e tutti ne devono godere.

    C’è infine, fortunatamente, chi cerca di identificarsi con il padre misericordioso: sono coloro che si pongono con un atteggiamento di pazienza e di fiducia nei confronti dell’altro. Un atteggiamento che può sembrare perdente agli occhi di tanti…

    Una comunità ha bisogno ogni giorno di cucire e ricucire i propri rapporti fraterni senza meravigliarsi degli inevitabili strappi.

    QUALCHE GESTO CONCRETO

    Ecco perché vi è necessità nella vita quotidiana di porre dei segni di riconciliazione.

    Uno di questi potrebbe essere la celebrazione di liturgie penitenziali. E’ un mettersi dinanzi al Signore insieme. Sia lui a dare la forza di perdonare, sia lui a sanare le ferite che tardano a rimarginarsi, sia lui a ristabilire quei rapporti che sembrano irrimediabilmente compromessi. Sarebbe bello che queste liturgie terminassero con un momento i festa.

    Un secondo gesto da valorizzare è il quotidiano rito penitenziale iniziale e lo scambio della pace durante la celebrazione eucaristica. Abbiamo bisogno ogni giorno di riconoscere il nostro peccato che provoca divisione, ogni giorno abbiamo bisogno di rinnovare la ragione del nostro stare insieme e del nostro riconciliarci prima di sedere insieme attorno alla mensa preparata per noi.

    Proprio perché viviamo in comunità c’è necessità di ripetere gesti, semplici ma veri, che esprimano una volontà di pace e di concordia.

    Un terzo elemento prezioso è la condivisione comunitaria, ovvero la correzione fraterna e la revisione di vita.

    Un tempo la vita dei monasteri e dei conventi era regolata anche da quello che si chiamava il “capitolo delle colpe”. Esso rivestiva un ruolo importantissimo. Ricordava che tutti erano peccatori verso la comunità e tutti avevano il bisogno del perdono di Dio e dei fratelli.

    Si è perso purtroppo in tante comunità questo gesto “sacramentale”, non sostituendolo con nient’altro. Esso va ricuperato con un linguaggio diverso. Certamente si tratta di un momento estremamente delicato che va vissuto in un clima di preghiera.

    Non dimentichiamo anche la correzione vicendevole fatta per amore e non per stizza o per umiliare l’altro.

    Infine ricordiamoci (specie prima delle nostre riunioni comunitarie) che se il nostro cuore non è in pace è pressoché impossibile accogliere in tutta verità la parola di Dio, la sua volontà.

    SCHEDA DI LAVORO

    1. Leggi e medita la parabola del Padre misericordioso in Luca 15,11-32.

    2. Spesso sogniamo una comunità di perfetti in cui il perdono vicendevole è un spiacevole inconveniente di percorso. Prendi invece atto che siamo comunità di peccatori bisognosi tutti di perdono e di riconciliazione tra noi e il Padre?

    3. Confrontandoti con i vari personaggi con quale ti sembra di trovarti maggiormente in sintonia?

    4. Quali gesti di riconciliazione potresti far sì che si attuassero nella tua comunità?

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

  • 03 Giu

    Chi ama il suo fratello dimora nella luce
    1 Gv 2,6-11

     

    a cura di p. attilio franco fabris

     

    Chi dice di dimorare in lui deve comportarsi come egli si è comportato. Carissimi, scrivendo non vi propongo un comandamento nuovo, ma un comandamento antico, che voi avevate in dal principio. Il comandamento antico è la parola che voi avete ascoltata. Tuttavia è anche un comandamento nuovo che vi propongo scrivendovi. Ciò è vero in lui e in voi, poiché le tenebre ormai passano e già risplende la vera luce. Chi afferma di essere nella luce e odia suo fratello è ancora nelle tenebre. Chi ama il suo fratello dimora nella luce e in lui non vi è pericolo d’inciampo. Ma chi odia suo fratello è nelle tenebre e cammina nelle tenebre e non sa dove va, perché le tenebre hanno accecato i suoi occhi. 1Gv 2,6-11

    Siamo in comunità per vivere il Vangelo, e nessuno può pretendere di giungere alla perfezione evangelica solo con la conoscenza personale delle Scritture o l’”osservanza” esterna delle regole: è nella comunità che noi possiamo interpretare Scritture e regole, viverle e metterle in pratica.

    La comunità diviene, per usare l’espressione tipica di san Benedetto, la “dominici schola servitii- scuola del divino servizio” il divino servizio che assume il carattere di servizio ai fratelli:

    Questo è lo zelo che i monaci devono esercitare con ferventissimo amore: gareggino cioè nel rendersi onore, sopportino con tutta la pazienza le loro debolezze fisiche e morali; si rendano a gara l’obbedienza; nessuno segua ciò che stima utile per sé, ma il vantaggio altrui; la comunità dei fratelli  abbia il loro casto amore; l’amore li stabilisca nel timore di Dio; nulla, proprio nulla, antepongano al Cristo che ci conduca insieme alla vita eterna” (Reg. 72).

    Comprendiamo come la comunità è il luogo, la “scuola” dell’iniziazione alla sequela del Signore Gesù, in cui ciascuno di noi si gioca totalmente.

    IL RISCHIO DI DISTORCERE IL VANGELO

    Il vangelo è la “regola” vivente e suprema: esso deve avere il primato all’interno delle nostre comunità.

    Ma dobbiamo fare attenzione al fatto che il vangelo posto nelle nostre mani può essere benissimo distorto.

    Quando non vi è vita comunitaria, quando manca la corresponsabilità tra i membri della comunità, questo rischio diventa realtà.

    Troppo forse si è insistito in passato sulla vita religiosa intesa come cammino di perfezione individuale in cui in fin dei conti non era così fondamentale camminare insieme ai fratelli.

    Ne scaturisce una conseguenza fondamentale e decisiva: ciascuno ha bisogno che la sua vita di fedeltà a una chiamata che lo trascende sia sottoposta alla verifica costante di un’educazione e un’edificazione reciproca all’interno della comunità.

    I fratelli e le sorelle, quali chiamati come me, divengono regola vivente gli uni agli altri; vivendo la Parola e trasmettendo il loro vissuto diventano  strumento, sacramento di Cristo in mezzo a loro.

    Quando non vediamo chiaro nella nostra vita, quando non sappiamo rispondere con gioia agli appelli del vangelo, allora Cristo ci parla attraverso i fratelli. Ci dobbiamo domandare se sappiamo svolgere vicendevolmente questo servizio.

    Ci domandiamo pure se illusi da ristrette visioni e progetti comunitari siamo stati attenti e aperti nel vedere nei fratelli la regola vivente. Vi è il pericolo che le idee diventino più importanti delle persone.

    Torniamo a ripetere che la comunità evangelica per essere vissuta abbisogna di un ambito di fede, capace di leggere anche ogni nostro rapporto con i fratelli. Se manca questa dimensione, i nostri rapporti finiscono per essere determinati solo da affinità e simpatie che a lungo ostacolano o bloccano il nostro cammino di sequela.

    Solo la fede ci permette di accogliere la custodia del fratello e l’essere da lui custoditi, di superare le inevitabili diversità.

    IL FRATELLO DEBOLE

    La preghiera è la condizione che ci permette di non avere una visione deformata del fratello. L’esperienza di fede precede sempre la carità:

    Il discepolo di Cristo deve vivere unicamente attraverso Cristo. Quando amerà Cristo a tal punto, forzatamente amerà tutte le creature del buon Dio… Quando ho cominciato ad amare Dio prima di tutto, in questo amore di Dio ho ritrovato il mio prossimo, e nello stesso amore i miei nemici sono diventati i miei amici, anzi creature divine… E’ lo Spirito che parla in me e dice: occorre morire per Cristo… (A. Spiridione, Le mie missioni in Siberia).

    Nella contemplazione, nell’esperienza dello e nello Spirito, raggiungo questa certezza: di fronte a Dio ci vediamo fratelli che condividiamo il bisogno di perdono, riconciliazione, misericordia da parte del Padre, e bisognosi gli uni degli altri per una vicendevole correzione e custodia fraterna, tutti senza distinzione sono accolti nel mio cuore:

    Perdonaci tutti, benedici tutti, ladroni e samaritani, quelli che cadono lungo la via e i sacerdoti che passano senza fermarsi, tutto il nostro prossimo; i carnefici e le vittime, quelli che maledicono e quelli che sono maledetti, quelli che si ribellano contro di te e quelli che si prostrano davanti al tuo amore. Prendici tutti in te, Padre santo e giusto (Preghiera dei cristiani perseguitati in Russia)

    Chiunque fa esperienza di un’autentica preghiera non può non uscire con tali sentimenti: ne esce con gioia e gratitudine per il perdono  offertogli da Dio, con la chiara sensazione di essere un nulla di fronte al Signore. Tale esperienza ci permette allora di capire e perdonare le colpe e le debolezze del fratello.

    Ogni giorno ci troviamo di fronte fratelli deboli e poveri umanamente, affettivamente, psicologicamente, fisicamente. E’ la condizione normale della comunità cristiana! Ce lo ricorda Paolo apostolo:

    Considerate infatti la vostra chiamata, fratelli: non ci sono tra voi molti sapienti secondo la carne, non molti potenti, non molti nobili. Ma Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato e ciò che è nulla per ridurre a nulla le cose che sono, perché nessun uomo possa gloriarsi davanti a dio (1Cor 1,26-29).

    La comunità cristiana non si pone sotto il segno della forza e della sapienza umana, ma sotto il segno della debolezza e stoltezza di Gesù crocifisso.

    La tentazione sarà talvolta quella di rincorrere e richiedere alla comunità forza e sapienza umana: occorre guardare alla debolezza della croce.

    La comunità e ogni singolo è chiamato a riporre la sua gloria solo nel Signore e non in ciò che è immanente.

    Perciò guai a noi se disprezziamo il fratello perché è debole e povero, o addirittura perché maggiormente crocifisso: ciò significherebbe contraddire la sapienza del vangelo.

    Allora siamo chiamati ad assumere due atteggiamenti precisi:

    1. farci custodi del fratello debole cogliendo in lui l’immagine di Gesù sofferente e il sacramento di ciascuno di noi bisognoso della misericordia di Dio
    2. stimolare, aiutare con parole e gesti, alla speranza, alla gioia del dono di sé. Essere accanto al fratello debole come sacramento di Gesù “colmo di viscere di compassione”.

    Solo a questa condizione la benedizione della Trinità, promesse dal Sal 133 come rugiada e olio prezioso, potrà scendere nel cuore di ciascuno di noi e di conseguenza nel cuore delle nostre comunità.

    Se volessimo trascrivere questo canto della fraternità in chiave cristiana potremmo usare le parole di Gesù nell’ultima cena: Da questo tutti conosceranno che siete miei discepoli, dall’amore che avrete gli uni per gli altri (Gv 13,35).

    L’olio prezioso, l’olio della consacrazione sacerdotale, penetra nel corpo e nelle vesti santificando e trasformando tutta la persona.

    La rugiada dell’Ermon: un’immagine di freschezza in un mondo assolto e arso.

    La vita fraterna è tutto questo con la benedizione di JHWH, in un mondo in cui l’esperienza di amore è moneta rara e ansiosamente cercata.

    Le parole del salmo sulle nostre labbra si trasformino in preghiera e invocazione sul nostro vivere fraterno:

    Ecco quanto è bello e quanto è soave

    Che i fratelli abitino insieme!

    E’ come olio prezioso sul capo

    Che scende sulla barba, sulla barba di Aronne,

    che scende sull’orlo della sua veste.

    E’ come rugiada dell’Hermon che scende sui monti di Sion.

    Là JHWH dona la benedizione

    E la vita in eterno (Sal 133).

    Scheda di lavoro

    1- Leggi e medita il brano di 1 Gv  2,6-11

    2. Guardo alla mia vita: posso dire di farmi carico, per quello che mi è possibile, del fratello debole umanamente, affettivamente, psicologicamente e fisicamente?

    3.  Nel considerare la mia comunità la penso sotto il segno della “forza” e della “potenza” umana, o sotto il segno della stoltezza e debolezza della croce?

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