SOTTO L’AZIONE DELLO SPIRITO
a cura di p. attilio franco fabris
Dello Spirito Santo manca nella Scrittura una raffigurazione appropriata. La teologia poi tende a sottolineare più le opere dello Spirito che la sua Persona, perduta o nascosta dietro ad alcune realtà teologiche come la grazia, la carità, i doni. Tutto ciò concorre a far sì che il credente non riesca ad avvicinarsi allo Spirito Santo come ad una Persona. In tal modo viene a mancare l’intimità con questo agente primario della vita cristiani. Ne consegue che la pietà trinitaria si disperde per mancanza di relazioni personali con lo Spirito Santo.
Nelle fonti della rivelazione, lo Spirito Santo è l’inviato del Padre in nome di Cristo risuscitato, per portare a compimento la sua opera di redenzione. È quindi autore della santificazione, nella Chiesa intera ed in ciascuno dei credenti.
Atanasio e Basilio, due grandi teologi della spiritualità monastica, sono i Padri che stabiliscono nel sec. IV la dottrina classica dello Spirito Santo. Per Basilio, lo Spirito Santo ha un ruolo fondamentale, ben distinto da quello del Verbo. Questi rivela il Padre, come sua immagine: lo Spirito ha una funzione interna al credente e lo illumina. Atanasio riconosce allo Spirito l’eguaglianza con il Padre, ma non ha altro da attribuirgli che non abbia già detto del Verbo e, in fondo, del Padre. In Basilio invece lo Spirito ha un ruolo ipostatico ben definito. È appunto in questo tempo che si presta un’attenzione tutta particolare alla natura e all’azione dello Spirito, diventate oggetto di controversia. Echi di queste controversie dottrinali li troviamo nella Storia Lausiaca, dove si dice di Melania e Rufino di Aquileia che « insieme operarono per persuadere ogni eretico che negava lo Spirito, e lo ricondussero in seno alla Chiesa ».
Tra coloro che si trovano in modo particolare sotto l’influsso dell’azione dello Spirito divino, Ippolito di Roma, indica i martiri: « lo Spirito del Padre insegna ai martiri l’eloquenza consolandoli ed esortandoli a disprezzare la morte quaggiù, per affrettarsi a raggiungere i beni celesti…». L’opposizione tra il mondo ed i beni celesti, oggetto principale dell’insegnamento dello Spirito, suggerisce già il ruolo particolare che esso riveste nella spiritualità dell’antico monachesimo, che aveva fatto di questo tema un elemento centrale della sua esperienza spirituale.
Gli studiosi hanno notato l’assenza di citazioni esplicite dello Spirito Santo in una parte considerevole della letteratura monastica antica. Nulla troviamo nella Vita di Antonio, eccetto la citazione di Rom 8,4 e un caso dubbioso. Tale silenzio lo si può attribuire al cristocentrismo antiariano di Atanasio. Relativamente poco ci offrono i Detti dei padri del deserto. Nulla di veramente significativo c’è in Evagrio. Due sole citazioni nella Storia Lausiaca di Palladio, e tre nell’ Inchiesta sui monaci in Egitto. Nelle fonti pacomiane invece i riferimenti espliciti Spirito sono più numerosi, così anche nelle lettere di Antonio e, misura minore, in quelle del suo discepolo Ammone. Possiamo quindi affermare che le fonti dell’antico monachesimo non ci forniscono molte notizie sulla parte che la presenza e l’azione dello Spirito Santo hanno avuto nella spiritualità dei primi monaci. Avendo conto tuttavia dei dati sparsi qua e là, possiamo ricavarne un quadro abbastanza completo, che cercheremo di descrivere nei suoi vari elementi nelle pagine che seguono.
1. Il monaco perfetto è un uomo “pieno” di Spirito Santo
È questa la definizione che i Detti danno di padre Arsenio. Di un monaco egiziano che divenne amico di Arsenio, si dice che era « pieno del buon profumo dello Spirito Santo » (cf. 2 Cor 2, 15). Di padre Samuel si afferma che era un « uomo animato dallo Spirito di Dio ». Di Antonio, padre degli eremiti, si dice che diventò « pneumatoforo », cioè portatore dello Spirito. Questo titolo che si addice ad ogni battezzato, è particolarmente adatto a quelli nei quali appaiono particolari manifestazioni carismatiche dello Spirito. Anche il famoso Macario l ‘Egiziano era chiamato lo « pneumatoforo ». Nella prospettiva della storia della salvezza propria delle lettere di Antonio, la « pneumatoforia » caratterizza coloro che vivono sotto la legge dell’Alleanza, Mosè, il coro dei profeti ed i santi…
Il monaco indegno però è privato dello Spirito. Di un fratello della Comunità pacomiana, caduto in peccato e più volte impenitente nonostante i continui richiami di Teodoro, si afferma che lo Spirito si ritirò da lui. Orsiesi, altro discepolo e successore di Pacomio, nelle sue esortazioni ai monaci dice tra l’altro: « se (l’anima) è negligente, lo Spirito Santo si allontana; senza la sua luce scendono le tenebre... ». Lo Spirito si allontana da colui che osa giudicare il suo fratello, e la fornicazione ci rende « alieni allo Spirito Santo ». Più volte Pacomio esorta i suoi confratelli a non rattristare lo Spirito Santo di Dio che abita in noi (cf. Ef 4, 30).
2. La presenza e l’azione dello Spirito sono particolarmente intense in coloro
che hanno un ruolo di guida o di governo: la “paternità spirituale”
È lo Spirito Santo che rivela a Pacomio che deve essere il primo fondatore di un cenobio. Di lui si dice più volte che nella sua missione di governo della comunità era particolarmente assistito dallo « Spirito che risiedeva in lui ». La stessa cosa si afferma anche dei successori di Pacomio: « Dio aveva suscitato nella sua congregazione un altro padre potente di nome Orsiesi, capace di prendersi cura delle vostre anime e dei vostri corpi, grazie allo Spirito di Dio che abita in lui ». Teodoro viene descritto come un uomo « ardente per lo Spirito Santo che abitava in lui »; lo stesso Spirito, si aggiunge. muoveva il cuore dei fratelli « attraverso la parola di Teodoro ».
Antonio, dopo aver trascorso vent’anni in solitudine, « venne fuori come da un santuario, iniziato nei misteri e divinamente colmato dallo spirito divino » (… divinitate divinitus plenus). Subito dopo, il suo biografo lo mostra consolando, riconciliando e insegnando. Antonio ha raggiunto il dono della paternità spirituale e accetta dei discepoli.
È un dono che rende capace, chi lo possiede, di generare figli nello Spirito e di guidarli alla misura di perfezione loro propria. Hausherr ne dà una specie di definizione che corrisponde alle idee classiche della spiritualità orientale: « Lo spirituale è colui al quale, grazie alla mortificazione delle passioni e alla apathia che ne risulta, la carità ha svelato la gnosi delle cose divine e la diacrasis delle cose umane, in modo che egli possa, senza pericolo per lui stesso, guidate con saggezza gli altri sulle vie di Dio » (Direction spirituelle en Orient autrefois, OCA 144Roma 1955).
Si parla di paternità, nel senso di una relazione personale, secondo una doppia tradizione. La prima si rifà a s. Ignazio di Antiochia e costituisce la “paternità funzionale“; il vescovo è chiamato padre in funzione del suo sacerdozio. Egli battezza ed opera la filiazione divina per mezzo dei sacramenti. La seconda tradizione si rifà ai padri del deserto. La loro paternità non proviene da funzione alcuna sacerdotale: l’asceta del deserto è padre per elezione divina, per un carisma dello Spirito Santo, per il fatto di essere “theodidatta”, insegnato direttamente da Dio. Né l’età né la funzione esercitano qui alcun ruolo. È sintomatico che gli stessi vescovi cercassero aiuto e consiglio dai solitari del deserto che erano direttamente guidati dallo Spirito.
La condizione essenziale per diventare “padre spirituale” è quella di essere prima di tutto spirituale (pneumatikós). Nei Detti dei padri del deserto più volte gli eremiti sono chiamati « uomini spirituali ». Non si può comunicare lo Spirito se non Lo si possiede previamente.
La fecondità spirituale è in rapporto con la Croce. Il padre Longino trasmette la famosa sentenza degli spirituali: « Dà sangue e prendi Spirito ». Un padre spirituale non è un maestro che insegna, ma colui che genera ad immagine del Padre celeste. L’arte della paternità spirrtuale non si impara come una scienza nella scuola, ma è frutto di un carisma dello Spirito.
3. Lo Spirito Santo si esprime attraverso le parole della Scrittura e del Padre carismatico
La Sacra Scrittura ha nella formazione spirituale dei primi monaci una grande importanza, su cui torneremo in seguito. Dottrina comune dei padri anacoreti e dei primi cenobiti è che lo Spirito Santo ci parla attraverso la parola rivelata. « Lo dice lo Spirito Santo », afferma l’anziano Poemen, citando la Scrittura; in modo simile, e a più riprese, si esprimono i discepoli di Pacomio.
Nei Detti la parola degli anziani è per lo più menzionata accanto alla Scrittura. Alla base di tale accostamento c’è la convinzione profonda che si tratta di due realtà omogenee, frutto dell’unica e molteplice rivelazione dello Spirito. Riguardo al carisma straordinario della parola presente in Efrem Siro, gli apoftegmi dicono che « proveniva dallo Spirito Santo ciò che usciva dalle labbra di Efrem ». Evagrio Pontico nel suo Trattato pratico cita lo Spirito Santo soltanto alla fine, nel- l’epilogo, per affermare che tutto quanto ha scritto ha potuto farlo « per grazia dello Spirito ».
4. Lo Spirito Santo assiste il monaco nella lotta contro i demoni
Si sa che la demonologia occupa nella Vita di Antonio un posto rilevante: la lotta con i demoni non finisce mai. Nel grande discorso dottrinale, che costituisce un vero programma della spiritualità antoniana, per ben due volte l’uomo di Dio ricorda ai suoi discepoli l’efficacia dello Spirito nella lotta contro le potenze del male: « La retta via e la fede nel Signore tramite Gesù Cristo e lo Spirito Santo sono un grande scudo contro di loro (i demoni) ».
L’asceta perfetto riceve dallo Spirito Santo il dono di discernere gli spiriti, in modo da saper riconoscere i demoni malgrado le loro astuzie, anche quando si trasformano in angeli di luce.
Pacomio afferma che il diavolo si allontana da colui con cui è in guerra, quando vede che in lui dimora lo Spirito Santo. La stessa dottrina la si ritrova nel suo discepolo Teodoro.
5. Lo Spirito Santo e la legge
« L’ideale che Pacomio propone ai suoi discepoli è riassunto nella breve formula: vivere secondo la volontà di Dio. Per raggiungere questo scopo però non basta ubbidire alle leggi esteriori e alle regole scritte. Bisogna essere inoltre docili alla voce della coscienza e alle ispirazioni particolari dello Spirito » (P.Deseille, L’esprit du monachisme pachômien, Bellefontaine 1973). Secondo l’espressione di Teodoro, ognuno deve essere fedele alla santa vocazione della koinonia « secondo la misura delle sue forze e la spinta dello Spirito Santo ». Pacomio incoraggiava i suoi discepoli a seguire la voce interiore dello Spirito ed esigeva che i fratelli rispettassero la altrui personalità spirituale. Nel campo però delle ispirazioni interiori è indispensabile il ricorso al discernimento del padre spirituale; alcuni passaggi delle Vite ci mostrano Pacomio particolarmente attento a dissipare le possibili illusioni.
6. I frutti dello Spirito
Lo Spiriro Santo illumina, ispira, salva, è fuoco che consuma. Quando lo Spirito scende nei cuori degli uomini, essi si rinnovano profondamente.
Frutto dello Spirito sono le virtù. Un elenco di queste virtù elargite dallo Spirito, lo troviamo nella Vita copta di s. Pacomio: « la fede, il bene, il timore, la pietà, la purità, la giustizia, la longanimità, la bontà, la dolcezza, la temperanza, la gioia, la speranza e la perfetta carità ». Non si tratta dei tradizionali doni dello Spirito Santo, tratti da Is 11, 1-2, bensì di un elenco di virtù, sul tipo di quelli paolini. Il riferimento principale è Gal 5, 22. Il numero e l’ordine dei frutti dello Spirito elencati non coincidono: c’è stata probabilmente una integrazione con Is 11 e con 1 Cor 13, 13 (per le tre virtù teologali).
Per Pacomio, scopo dello sforzo ascetico del monaco e della vigilanza sul suo cuore, è che « lo Spirito Santo abiti in lui » e che egli « diventi un tempio di Dio »; « che acquisti la perfezione dei frutti dello Spirito »; che raggiunga « l’unità dello spirito ». Così insegna anche Orsiesi: per acquistare i frutti dello Spirito bisogna convertirsi e purificarsi dalle imperfezioni, bisogna lottare. « Anche l’anima – leggiamo nei Detti – sa di aver concepito lo Spirito Santo quando si placano le passioni che scorrono giù da lei; finché è impigliata in esse, come può vantarsi quasi fosse impassibile? Dà sangue e prendi Spirito », lotta cioè e giungerai al possesso delle virtù dello Spirito. ll monaco, prima di ricevere lo Spirito con i suoi doni, deve essere formato all ‘umiltà, all’abnegazione, all’oblio di sé, alla purezza di cuore, al sacrificio; deve imparare a dare a Dio il sangue dell’anima e del corpo. Quando avrà acquisito questa libertà totale, questa disponibilità, sarà maturo per ricevere i doni dello Spirito.
L’inabitazione dello Spirito – che non è altro che il pieno sviluppo della grazia battesimale – è una vera deificazione dell’uomo, così la spiega Teodoro. Tale deificazione realizza anzitutto la trasformazione morale dell’uomo. L’uomo giunge allora alla piena maturità spirituale; in virtù dell’inabitazione dello Spirito Santo, egli possiede un istinto interiore, un tatto spirituale, che gli permette di discernere spontaneamente la volontà del Signore, e raggiunge così la « vera conoscenza » di Dio. Il monaco ottiene allora la « preghiera senza distrazione», perché il suo spirito è tutto quanto preso da Dio.