• 13 Giu

    LA SEQUELA E L’IMITAZIONE Dl CRISTO

    « Seguire » nei testi biblici neotestamentari è usato in diverse accezioni. Esprime il rapporto differenziato sorto tra Gesù Cristo e gli uomini che si unirono a lui, e si riferisce sia a coloro che, nel tempo del ministero pubblico, lo seguirono più o meno costantemente, sia a coloro che credettero in lui per la predicazione degli Apostoli dopo la Pentecoste e sia alla schiera innumerevole di coloro che vivono nella definitiva e piena unione con lui in Dio (cf. Gv 13, 36b).

    Il Bacht, che ha studiato la cristologia delle fonti pacomiane afferma che nel retroterra di tale cristologia c’è il motivo dell’imitazione e della sequela del Cristo. Nella lettera 5ª di Pacomio leggiamo: « lavoriamo, portando i pesi gli uni degli altri (cf. Gal 6, 1), come Cristo ha preso le nostre infermità (cf. Mt 8,17) sul suo corpo, e non si è sottratto. Se Cristo è nostro maestro, noi siamo i suoi imitatori e portiamo il suo obbrobrio ». Diventate monaco non significa altro per Pacomio che essere un perfetto discepolo di Cristo. Come ogni credente, il monaco non conosce altra legge che questa: « seguire in ogni cosa il Signore ».

    Il tema della sequela e quello dell’imitazione non combaciano esattamente, soprattutto sul piano del vocabolario. Il primo implica un cammino esteriore, un linguaggio fatto di gesti e di decisioni, che esprimono chiaramente che uno cammina sulle orme di Gesù e che si aggrega pubblicamente al gruppo dei suoi discepoli. Il secondo richiama lo sforzo morale e mistico per riprodurre i tratti di Gesù, modello-esempio a cui dopo il battesimo lo Spirito Santo non cessa di far comunicare il credente. Di fatto però, nelle antiche fonti monastiche, ambedue i temi si corrispondono e complementano a vicenda.

     

    1.   Crocifissi con Cristo

    All’origine della vita monastica c’è la chiamata a una sequela esplicita e generosa del Cristo nel suo annientamento e nella sua passione. Nella spiritualità dell’antico monachesimo il tema della sequela-partecipazione alla vita di Cristo e, in particolare, di Cristo crocifisso, è centrale. Per i monaci il cammino che conduce alla Vita è quello angusto della Croce. Tutta l’intera vita del monaco viene considerata, in sostanza, come una comunione con Cristo nella sofferenza per raggiungere poi la comunione con lui nella vita: « la loro rinuncia non è altro che l’impronta della croce e della morte in se stessi », afferma Cassiano. La vita dei monaci è considerata una vita di « crocifissi ». Di Pacomio si dice che « sempre portava nella sua carne la croce di Cristo ». Da parte sua, Basilio asserisce che i monaci « portano nel corpo la morte di Gesù e, prendendo la propria croce, seguono Dio ». E nelle Regole ampie afferma che « la regola del cristianesimo consiste nell’imitazione di Cristo, nella misura (en to métro) dell’incarnazione ». La misura e la regola del cristianesimo è che ci si conformi pienamente all’incarnazione, cioè al mistero del Verbo per noi umiliato e fatto ubbidiente fino alla morte; che si diventi, in altre parole, così perfetti imitatori del Cristo da continuarne in noi il suo mistero personale.

    Il desiderio di donarsi a Cristo si realizza nella ubbidienza e nella rinuncia di di sé. Ideale dei monaci era vivere non più secondo i propri desideri ed egoismi, ma secondo la volontà di Dio. Nei Detti dei padri del deserto, leggiamo che Iperecchio diceva: « la gloria del monaco è la ubbidienza. Chi la possiede sarà esaudito da Dio, e con franchezza starà di fronte al Crocifisso, perché il Signore crocifisso si fece ubbidiente fino alla morte ». Da parte sua, Cassiano afferma: « Così come colui che è crocifisso non ha più la possibilità di muovere le sue membra e di voltarsi verso dove vuole, così noi dobbiamo regolare la nostra volontà ed i nostri desideri non più secondo ciò che ci piace, ma secondo la legge del Signore, lì dove essa ci ha collocati ».

    L’atteggiamento di rinuncia accresceva nei santi monaci il desiderio dei sacrifici, dei dolori e delle afflizioni. Essi infatti credevano che quanto più erano crocifissi con Cristo, tanto più sperimentavano la realtà dell’amore di Dio che, come dicevamo prima, era il grande scopo della vita del monaco. I monaci credevano che questo amore, che Cristo mostrò intensamente nella sua passione essi potevano sperimentarlo più profondamente quando soffrivano con lui. Volendo i monaci prendere su di sé la croce di Cristo e con essa abbracciare la realtà del suo amore, si sentivano più fortemente spinti a soffrire con lui (com-patire). Essi non volevano lasciare solo il Cristo nelle sue sofferenze. Quando nel giorno di Pasqua, Pacomio preparò per il suo maestro Palamone alcune erbe condite con olio,  « questi dandosi colpi sulla fronte disse piangendo: “il Signore è stato crocifisso, ed io mangio cibi conditi con olio?” », e rifiutò il cibo offertogli.

    2.   Partecipanti in tutto alla sorte di Cristo

    Come rileva la Mortari (Vita e detti dei padri del deserto, Città Nuova, Roma 1975), nella spiritualità dei padri del deserto non c’è solo la scelta primaria e globale di essere conformi al Cristo nella sua sofferenza, e la convinzione che tale conformità si possa realizzare in grado massimo in una vita di sacrificio e di rinuncia; c’è anche una corrispondenza puntuale di contesti – talora evidente, tal ‘altra più sottile – tra gli episodi evangelici e gli episodi della vita degli anziani asceti. Non a caso riguardo ai fratelli che chiedono se c’è salvezza in base alle loro opere, il santo asceta Pambone ripete il gesto compiuto una volta da Gesù, scrivendo in terra le loro azioni, come il Signore fece con i farisei, che gli avevano condotto la donna colta in adulterio. Del padre Daniele si dice che passò incolume attraverso dei barbari, come il Signore quando volevano ucciderlo, ma non era ancora giunta la sua ora (cf. Lc 4, 30). Come il Cristo « fu condotto dallo Spirito nel deserto per essere tentato dal diavolo » (Mt 4,1), così il monaco che si ritira nel deserto sa che sarà tormentato da un combattimento diretto e serrato con le potenze maligne… C’è quindi la consapevolezza che la sequela del Cristo conduce ad una intima partecipazione alla sorte stessa del Signore.

    La partecipazione del monaco al dolore di Cristo Gesù si riallaccia al tema del lutto per i propri peccati, causa della morte in croce di Cristo: « il monaco – dice Poemen – deve avere sempre in sé il lutto per i suoi peccati. E san Giovanni Crisostomo rimprovera il monaco dissipato dicendo: « Tu ridi senza misura, e sei comunque un monaco? Tu che sei un crocifisso, uno che è in lutto? Dove hai visto che Cristo abbia fatto simile cosa? ». Questa spiritualità del lutto ha però nei padri del deserto una dimensione per così dire pasquale: questo lutto viene detto dai padri Charmopoiós, cioè operatore di gioia. Per esprimere la compresenza – che sfugge ai canoni razionali – della « Tristezza secondo Dio » (cf. 2 Cor 7, 10) e della gioia spirituale, i padri hanno coniato un termine intraducibile, la Charmolúpe. Giovanni Climaco scrive: « Chi cammina continuamente nel lutto secondo Dio, non cessa di far festa ogni giorno ». A scanso di equivoci, bisogna mettere in luce tutti gli elementi che integrano i diversi temi della spiritualità dell’antico monachesimo, troppo spesso giudicata unilateralmente.

    Come dicevamo all’inizio, la sequela di Cristo è alimentata dalla certezza che attraverso la partecipazione alla croce di Gesù, il monaco ha parte anche alla Sua vita divina. La lotta, la fatica e le difficoltà sono il cammino naturale che conduce alla vita. « La croce è il principio della nostra vita », afferma Orsiesi, e poi aggiunge: « Dobbiamo sapere che senza le tribolazioni e le angosce, nessuno otterrà la vittoria».

    Se in questo mondo sono possibili la pace e la gioia, si tratta sempre solo della pace e della gioia che derivano dalla speranza del Regno futuro e che ora sono raggiungibili soltanto attraverso l’accettazione della croce e della fatica. In fondo a questa concezione della vita ascetica c’è una certa relazione di opposizione tra il mondo attuale e il mondo futuro, che i monaci vedono come contrapposizione tra mondo o vita mondana e vita nuova in Cristo Gesù: allearsi con il mondo è un impedimento a compiere un autentica scelta per Cristo: « Rinunciare mondo dice Orsiesi – perché, perfetti, possiamo seguire Gesù perfetto ».

    3.   La “vita apostolica”

    I primi monaci erano convinti che il loro genere di vita non era in sostanza qualcosa di singolare. Come dicevamo prima, essi cercavano di seguire le orme della lunga schiera di coloro che li avevano preceduti nella sequela del Cristo. La sequela di Gesù è vissuta dal monaco« secondo il modello e l’esempio di coloro che lo hanno preceduto in questo cammino ». In un modo del tutto particolare, i monaci sono i seguaci dei martiri, i quali nella sequela di Cristo sofferente hanno raggiunto il massimo di partecipazione dando la loro vita per Cristo.

    Il monaco trova già nell ‘AT i suoi predecessori e modelli, specie nei profeti e in altri santi personaggi che offrirono la loro vita per la causa di Dio, secondo quando leggiamo nella lettera agli Ebrei: « Altri subirono scherni e flagelli, catene e prigione. Furono lapidati, torturati, segati, furono uccisi di spada, andarono in giro coperti di pelli di pecora e di capra, bisognosi, tribolati, maltrattati…, vaganti per i deserti, sui monti, tra le caverne e le spelonche della terra » (Eb 11, 36-38). Questo brano neotestamentario è citato frequentemente dalle antiche fonti monastiche: da Teodoreto, Basilio, Cassiano ed altri.

    Ma i veri e più immediati modelli biblici del monaco sono soprattutto gli Apostoli. Come gli Apostoli lasciarono tutto e seguirono Cristo partecipando pienamente anche della sua croce, così pure i monaci, seguendo il loro esempio, rinunciano al mondo per diventare perfetti discepoli di Cristo. Già nella vocazione del padre degli eremiti, Antonio, esercita un forte influsso il pensiero di « come gli Apostoli lasciassero la loro casa per seguire il Salvatore ». Il proposito di conformare la propria vita a quella degli Apostoli diventa così un punto di riferimento della spiritualità monastica, soprattutto di quella cenobitica.

    Le vite copte di Pacomio raccontano che, allorquando i fratelli, desolati per la morte del loro padre, vennero da Tabennesi a far visita ad Antonio malato, questi avrebbe detto di Pacomio: « Aver riunito le anime attorno a sé, allo scopo di offrirle pure al Signore, è un fatto che dimostra ch’egli è superiore a noi e che ch’egli ha seguìto è la via apostolica, voglio dire la congregazione ». Queste parole, che fanno eco al complesso del dossier pacomiano, sono assai ricche di significato. Teodoro, uno dei primi discepoli di Pacomio, parlerà della vita cenobitica come « vita apostolica ». L’espressione “vita apostolica”, che nella storia della spiritualità cristiana e più in concreto della vita religiosa assumerà una varietà di significati non esprime altro in fondo che il desiderio di « vivere alla maniera degli Apostoli ». È chiaro in questo caso il riferimento alla vita condotta dal gruppo apostolico alla sequela di Gesù e alla vita della primitiva comunità cristiana di Gerusalemme.

    Concludendo, diremo molto succintamente che il cristocentrismo della spiritualità dell’antico monachesimo si riallaccia a una serie di tematiche il cui asse è costituito dal motivo centrale dell’imitazione e sequela del Cristo sofferente: l’intera vita monastica viene considerata come una comunione con Cristo nella sofferenza per raggiungere poi la comunione con lui nella sua vita divina.

    Posted by attilio @ 15:06

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