• 01 Giu

    Da Babele alla Pentecoste:
    dalla divisione all’unità nella diversità
    At 2,1-9

     

    di p. attilio franco fabris

     

    Il giorno della Pentecoste volgeva al suo termine, ed essi stavano riuniti nello stesso luogo. D’improvviso vi fu dal cielo un rumore, come all’irrompere di un vento impetuoso, che riempì tutta la casa in cui si trovavano. Apparvero ad essi delle lingue come di fuoco che si dividevano e che andarono a posarsi su ciascuno di essi. Tutti furono riempiti di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue, secondo che lo Spirito dava ad essi il potere di esprimersi. Si trovavano allora in Gerusalemme Giudei devoti, provenienti da tutte le nazioni del mondo. Al prodursi di questo rumore incominciò a radunarsi una gran folla, eccitata e confusa, perché ciascuno li udiva parlare nella propria lingua. Fuori di sé per la meraviglia dicevano: «Tutti costoro che parlano non sono forse Galilei? Come mai ciascuno di noi li ode parlare nella propria lingua nativa? Parti, Medi, Elamiti, abitanti della Mesopotamia, della Giudea e della Cappadocia, del Ponto e dell’Asia, della Frigia e della Panfilia, dell’Egitto e delle regioni della Libia presso Cirene, Romani qui residenti, sia Giudei che proseliti, Cretesi e Arabi, tutti quanti li sentiamo esprimere nelle nostre lingue le grandi opere di Dio!». (At 2,1-9)

    La comunità cristiana prende il via il giorno di Pentecoste, nella stanza superiore del Cenacolo, luogo in cui Gesù consegnò alla sua comunità il nuovo comandamento dell’amore.

    Nel giorno di Pentecoste, ci dice il brano degli Atti degli Apostoli, a Gerusalemme era un gran convenire di rappresentanti di vari popoli e nazioni: una multiforme promiscuità di razze, lingue e culture.

     

    La discesa dello Spirito santo che è amore fa sì che ogni barriera venga abbattuta, non per formare una uniformità indistinta. Continuando a parlare la propria lingua ciascuno era in grado di capire quella degli altri.

    La lezione che ci è data è quanto mai chiara: non sono le lingue, né le razze, né le culture a creare separazione ma la mancanza di amore.

    Dovunque lo Spirito d’amore è presente le diversità cessano di separare gli uomini, anzi divengono espressione di ricchezza e di dono vicendevole.

    La scena della Pentecoste si colloca in antitesi a quella di Babele. In questa città vi fu il tentativo di costruire una unità  simboleggiata dalla città e dalla sua torre. Ma si trattava di un’unità ricercata solo umanamente, frutto forse di un sogno di potenza come quello di Alessandro Magno o dell’impero romano o del regime nazista. Un’unità imposta con la violenza, con l’eliminazione della diversità, con la paura morbosa di tutti coloro che sono “diversi” da noi.

    L’episodio di Babele contiene un epilogo tragico. Dice JHWH: “Discendiamo dunque e confondiamo la loro lingua, perché non comprendano più l’uno la lingua dell’altro” (Gn 11,7).

    Non è possibile giungere all’unità e alla comunione tramite la violenza o i soli sforzi umani. Solo Gesù può fare dono alla comunità dell’unità dello Spirito nel vincolo della pace (Ef 4,3). Una unità in cui non c’è né ebreo né greco, né schiavo né libero, né uomo né donna, poiché tutti sono uno in Cristo Gesù (Gal 3,28).

    La Chiesa, e in modo particolare la comunità religiosa, lancia al mondo la sfida dell’unità nella diversità.

    E questa sfida è lanciata in un mondo in cui non si crede forse più alla possibilità della comunione.

    Il filosofo Schopenhauer paragona gli uomini ai ricci coperti di aculei. Afflitti dal freddo si avvicinano gli uni agli altri per avere calore, ma ricevono solo ferite gli uni dagli altri. Per cui si allontanano per ritentare all’infinito la stessa manovra.

    Jean-Paul Sartre afferma drasticamente: L’inferno sono gli altri, siamo condannati a vivere con gli altri come persone intrappolare nell’ascensore.

    Lo scrittore Francois Mauriac contraddistingue la comunità come un gregge di solitudini.

    E arriviamo al filosofo Thomas Hobbes che in qualche modo riassume tutti gli altri definendo l’uomo come homo homini lupus.

    Dobbiamo in verità dire che queste espressioni trovano spesso riscontro anche nella nostra esperienza. In quante famiglie e in quante comunità è possibile dire che almeno in qualche occasione non si sia attraversato la tempesta della discordia. Quante convivenze, esperienze di comunità, famiglie… si sono frantumate in poco tempo?

    Ci riconosciamo tutti poveri, tutti poveri ricci pronti a pungerci…

    Gesù ha creduto nella possibilità di una comunità. E se ciò non bastasse il suo progetto fu pensato in maniera ancor più difficile. Se già è difficile vivere la comunità in una famiglia, egli pensò addirittura di costituirne una senza basarsi su vincoli di sangue o di parentela: scelse gente povera, non istruita, diversa per età, appartenente a diversi partiti politici. Un progetto folle?

    Nella comunità di Gesù c’è posto per Simone lo zelota e per Matteo il pubblicano collaborazionista, per Pietro istintivo ed irruente e per Giovanni il contemplativo. Una miscela esplosiva ed impossibile! Eppure ciò che è impossibile presso gli uomini è possibile presso Dio (Mc 10,27).

    Ed è la comunità dei discepoli, questa comunità, che rende credibile, che presenta le credenziali al mondo, della verità di Cristo e della sua resurrezione: Come tu Padre sei in me e io in te, siano anch’essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda (Gv 17,21).

    Il valore della testimonianza della vita comunitaria stessa è già un segno grande di fronte al mondo: Fra questi discepoli, quelli riuniti nelle comunità religiose, donne e uomini “di ogni nazione, razza, popolo e lingua” (Ap 7,9), sono stati e sono tuttora un’espressione particolarmente eloquente di questo sublime e sconfinato Amore. Nate “non da volontà della carne o del sangue” non da simpatie personali o da motivi umani, ma “da Dio” (Gv ,13), da una divina vocazione e da una divina attrazione, le comunità religiose sono un segno vivente del primato dell’Amore di Dio che opera le sue meraviglie, e dell’amore verso Dio e verso i fratelli, come è stato manifestato e praticato da Gesù Cristo (V.F.  1).

    Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri (Gv 13,35).

    Se la sapienza nell’antico testamento diceva: Di tre cose mi compiaccio e mi faccio bella di fronte al signore e agli uomini: concordia i fratelli, amicizia dei vicini, armonia tra marito e moglie (Sir 25,1), è Gesù che ora viene ornato dalla bellezza di una veste bianca senza cuciture (cfr. Gv 19,24).

    Vivere in comunità è già un fine di per sé, non è semplicemente un mezzo per dare maggiore efficacia al nostro apostolato o per potenziare i nostri sforzi individuali. La comunità non può ridursi ad un semplice strumento a servizio dell’apostolato.

    Si vive in comunità per esprimere la vita trinitaria di dio, che è comunità di persone nella loro diversità, per celebrare la presenza di Cristo che è tutto in tutti (Col 3,11).

    Si vive in comunità per vivere il vangelo della misericordia del Padre in un continuo perdono reciproco e nella reciproca accoglienza.

    Sant’Agostino scrive: L’amore tra i cristiani è suono dolce e voce soave, tuba che convoca, che chiama da tutte le parti del mondo, pietra magnetica che attira i cuori” (Enn. in Ps. 133).

    Di fronte alle mille difficoltà alcune congregazioni hanno pensato di creare comunità omogenee. In definitiva si sono fatte comunità per Parti, Medi ed Elamiti… ma non ha funzionato. Anche in queste comunità le difficoltà non sono mancate.

    Ma allora la soluzione non sta nel lacerare la tunica di Cristo? Non sta nell’eliminare le diversità? No! La soluzione sta nel vivere nel dono dello Spirito. Solo la sua presenza è in grado di creare comunità.

    Dove vi è desiderio di crescita nella comunione e di fedeltà alla Parola lì è presente lo Spirito santo: Finché vi saranno tra voi l’invidia e la discordia sarete certamente carnali e vivrete secondo la carne (1Cor 3,3).

    Paolo quando dovrà trattare le difficoltà sorte nella comunità dei cristiani di Corinto non darà alcun peso ai vari carismi lì presenti; ciò che presenterà loro come vertice dell’esperienza cristiana sarà l’unione nella carità. Ed è la carità l’unica garanzia certa della presenza dello Spirito nella comunità.

    Il messaggio di Paolo è chiaro: fino a quando quei cristiani non saranno uomini di comunione non si illudano di essere spirituali.

    SCHEDA DI LAVORO

    1. Leggi e medita approfonditamente il testo di Atti 2, 1-13.

    Cosa ti colpisce di più? Perché?

    2. Dove trovi la fonte per raggiungere l’unità? Nei tuoi sforzi, nella violenza,…. Oppure hai coscienza che l’unità procede dal dono dello Spirito che è carità? Cosa significa questo? Cosa comporta concretamente?

    3.    Da questo sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri (Gv 13,35). Il primo segno di    testimonianza che la comunità cristiana è chiamata a dare è la carità. Vi è in te questo desiderio? Quali gesti poni concretamente lungo la tua giornata per vivere il comandamento? Cosa senti di dover cambiare nella tua vita?

    Posted by attilio @ 11:38

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