• 28 Giu

    SOTTO L’AZIONE DELLO SPIRITO

     

    a cura di p. attilio franco fabris

     

    Dello Spirito Santo manca nella Scrittura una raffigurazione appropriata. La teologia poi tende a sottolineare più le opere dello Spirito che la sua Persona, perduta o nascosta dietro ad alcune realtà teologiche come la grazia, la carità, i doni. Tutto ciò concorre a far sì che il credente non riesca ad avvicinarsi allo Spirito Santo come ad una Persona. In tal modo viene a mancare l’intimità con questo agente primario della vita cristiani. Ne consegue che la pietà trinitaria si disperde per mancanza di relazioni personali con lo Spirito Santo.

    Nelle fonti della rivelazione, lo Spirito Santo è l’inviato del Padre in nome di Cristo risuscitato, per portare a compimento la sua opera di redenzione. È quindi autore della santificazione, nella Chiesa intera ed in ciascuno dei credenti.

    Atanasio e Basilio, due grandi teologi della spiritualità monastica, sono i Padri che stabiliscono nel sec. IV la dottrina classica dello Spirito Santo. Per Basilio, lo Spirito Santo ha un ruolo fondamentale, ben distinto da quello del Verbo. Questi rivela il Padre, come sua immagine: lo Spirito ha una funzione interna al credente e lo illumina. Atanasio riconosce allo Spirito l’eguaglianza con il Padre, ma non ha altro da attribuirgli che non abbia già detto del Verbo e, in fondo, del Padre. In Basilio invece lo Spirito ha un ruolo ipostatico ben definito. È appunto in questo tempo che si presta un’attenzione tutta particolare alla natura e all’azione dello Spirito, diventate oggetto di controversia. Echi di queste controversie dottrinali li troviamo nella Storia Lausiaca, dove si dice di Melania e Rufino di Aquileia che « insieme operarono per persuadere ogni eretico che negava lo Spirito, e lo ricondussero in seno alla Chiesa ».

    Tra coloro che si trovano in modo particolare sotto l’influsso dell’azione dello Spirito divino, Ippolito di Roma, indica i martiri: « lo Spirito del Padre insegna ai martiri l’eloquenza consolandoli ed esortandoli a disprezzare la morte quaggiù, per affrettarsi a raggiungere i beni celesti…». L’opposizione tra il mondo ed i beni celesti, oggetto principale dell’insegnamento dello Spirito, suggerisce già il ruolo particolare che esso riveste nella spiritualità dell’antico monachesimo, che aveva fatto di questo tema un elemento centrale della sua esperienza spirituale.

    Gli studiosi hanno notato l’assenza di citazioni esplicite dello Spirito Santo in una parte considerevole della letteratura monastica antica. Nulla troviamo nella Vita di Antonio, eccetto la citazione di Rom 8,4 e un caso dubbioso. Tale silenzio lo si può attribuire al cristocentrismo antiariano di Atanasio. Relativamente poco ci offrono i Detti dei padri del deserto. Nulla di veramente significativo c’è in Evagrio. Due sole citazioni nella Storia Lausiaca di Palladio, e tre nell’ Inchiesta sui monaci in Egitto. Nelle fonti pacomiane invece i riferimenti espliciti Spirito sono più numerosi, così anche nelle lettere di Antonio e, misura minore, in quelle del suo discepolo Ammone. Possiamo quindi affermare che le fonti dell’antico monachesimo non ci forniscono molte notizie sulla parte che la presenza e l’azione dello Spirito Santo hanno avuto nella spiritualità dei primi monaci. Avendo conto tuttavia dei dati sparsi qua e là, possiamo ricavarne un quadro abbastanza completo, che cercheremo di descrivere nei suoi vari elementi nelle pagine che seguono.

    1.   Il monaco perfetto è un uomo “pieno” di Spirito Santo

    È questa la definizione che i Detti danno di padre Arsenio. Di un monaco egiziano che divenne amico di Arsenio, si dice che era « pieno del buon profumo dello Spirito Santo » (cf. 2 Cor 2, 15). Di padre Samuel si afferma che era un « uomo animato dallo Spirito di Dio ». Di Antonio, padre degli eremiti, si dice che diventò « pneumatoforo », cioè portatore dello Spirito. Questo titolo che si addice ad ogni battezzato, è particolarmente adatto a quelli nei quali appaiono particolari manifestazioni carismatiche dello Spirito. Anche il famoso Macario l ‘Egiziano era chiamato lo « pneumatoforo ». Nella prospettiva della storia della salvezza propria delle lettere di Antonio, la « pneumatoforia » caratterizza coloro che vivono sotto la legge dell’Alleanza, Mosè, il coro dei profeti ed i santi…

    Il monaco indegno però è privato dello Spirito. Di un fratello della Comunità pacomiana, caduto in peccato e più volte impenitente nonostante i continui richiami di Teodoro, si afferma che lo Spirito si ritirò da lui. Orsiesi, altro discepolo e successore di Pacomio, nelle sue esortazioni ai monaci dice tra l’altro:  « se (l’anima) è negligente, lo Spirito Santo si allontana; senza la sua luce scendono le tenebre... ». Lo Spirito si allontana da colui che osa giudicare il suo fratello, e la fornicazione ci rende « alieni allo Spirito Santo ». Più volte Pacomio esorta i suoi confratelli a non rattristare lo Spirito Santo di Dio che abita in noi (cf. Ef 4, 30).

    2.   La presenza e l’azione dello Spirito sono particolarmente intense in coloro
    che hanno un ruolo di guida o di governo: la “paternità spirituale”

    È lo Spirito Santo che rivela a Pacomio che deve essere il primo fondatore di un cenobio. Di lui si dice più volte che nella sua missione di governo della comunità era particolarmente assistito dallo « Spirito che risiedeva in lui ». La stessa cosa si afferma anche dei successori di Pacomio:  « Dio aveva suscitato nella sua congregazione un altro padre potente di nome Orsiesi, capace di prendersi cura delle vostre anime e dei vostri corpi, grazie allo Spirito di Dio che abita in lui ». Teodoro viene descritto come un uomo « ardente per lo Spirito Santo che abitava in lui »; lo stesso Spirito, si aggiunge. muoveva il cuore dei fratelli « attraverso la parola di Teodoro ».

    Antonio, dopo aver trascorso vent’anni in solitudine,  « venne fuori come da un santuario, iniziato nei misteri e divinamente colmato dallo spirito divino » (… divinitate divinitus plenus). Subito dopo, il suo biografo lo mostra consolando, riconciliando e insegnando. Antonio ha raggiunto il dono della paternità spirituale e accetta dei discepoli.

    È un dono che rende capace, chi lo possiede, di generare figli nello Spirito e di guidarli alla misura di perfezione loro propria. Hausherr ne dà una specie di definizione che corrisponde alle idee classiche della spiritualità orientale:  « Lo spirituale è colui al quale, grazie alla mortificazione delle passioni e alla apathia che ne risulta, la carità ha svelato la gnosi delle cose divine e la diacrasis delle cose umane, in modo che egli possa, senza pericolo per lui stesso, guidate con saggezza gli altri sulle vie di Dio » (Direction spirituelle en Orient autrefois, OCA 144Roma 1955).

    Si parla di paternità, nel senso di una relazione personale, secondo una doppia tradizione. La prima si rifà a s. Ignazio di Antiochia e costituisce la “paternità funzionale“; il vescovo è chiamato padre in funzione del suo sacerdozio. Egli battezza ed opera la filiazione divina per mezzo dei sacramenti. La seconda tradizione si rifà ai padri del deserto. La loro paternità non proviene da funzione alcuna sacerdotale: l’asceta del deserto è padre per elezione divina, per un carisma dello Spirito Santo, per il fatto di essere “theodidatta”, insegnato direttamente da Dio. Né l’età né la funzione esercitano qui alcun ruolo. È sintomatico che gli stessi vescovi cercassero aiuto e consiglio dai solitari del deserto che erano direttamente guidati dallo Spirito.

    La condizione essenziale per diventare “padre spirituale” è quella di essere prima di tutto spirituale (pneumatikós). Nei Detti dei padri del deserto più volte gli eremiti sono chiamati « uomini spirituali ». Non si può comunicare lo Spirito se non Lo si possiede previamente.

    La fecondità spirituale è in rapporto con la Croce. Il padre Longino trasmette la famosa sentenza degli spirituali: « Dà sangue e prendi Spirito ». Un padre spirituale non è un maestro che insegna, ma colui che genera ad immagine del Padre celeste. L’arte della paternità spirrtuale non si impara come una scienza nella scuola, ma è frutto di un carisma dello Spirito.

    3.   Lo Spirito Santo si esprime attraverso le parole della Scrittura e del Padre carismatico

    La Sacra Scrittura ha nella formazione spirituale dei primi monaci una grande importanza, su cui torneremo in seguito. Dottrina comune dei padri anacoreti e dei primi cenobiti è che lo Spirito Santo ci parla attraverso la parola rivelata. « Lo dice lo Spirito Santo », afferma l’anziano Poemen, citando la Scrittura; in modo simile, e a più riprese, si esprimono i discepoli di Pacomio.

    Nei Detti la parola degli anziani è per lo più menzionata accanto alla Scrittura. Alla base di tale accostamento c’è la convinzione profonda che si tratta di due realtà omogenee, frutto dell’unica e molteplice rivelazione dello Spirito. Riguardo al carisma straordinario della parola presente in Efrem Siro, gli apoftegmi dicono che « proveniva dallo Spirito Santo ciò che usciva dalle labbra di Efrem ». Evagrio Pontico nel suo Trattato pratico cita lo Spirito Santo soltanto alla fine, nel- l’epilogo, per affermare che tutto quanto ha scritto ha potuto farlo « per grazia dello Spirito ».

    4.   Lo Spirito Santo assiste il monaco nella lotta contro i demoni

    Si sa che la demonologia occupa nella Vita di Antonio un posto rilevante: la lotta con i demoni non finisce mai. Nel grande discorso dottrinale, che costituisce un vero programma della spiritualità antoniana, per ben due volte l’uomo di Dio ricorda ai suoi discepoli l’efficacia dello Spirito nella lotta contro le potenze del male: « La retta via e la fede nel Signore tramite Gesù Cristo e lo Spirito Santo sono un grande scudo contro di loro (i demoni) ».

    L’asceta perfetto riceve dallo Spirito Santo il dono di discernere gli spiriti, in modo da saper riconoscere i demoni malgrado le loro astuzie, anche quando si trasformano in angeli di luce.

    Pacomio afferma che il diavolo si allontana da colui con cui è in guerra, quando vede che in lui dimora lo Spirito Santo. La stessa dottrina la si ritrova nel suo discepolo Teodoro.

    5.   Lo Spirito Santo e la legge

    « L’ideale che Pacomio propone ai suoi discepoli è riassunto nella breve formula: vivere secondo la volontà di Dio. Per raggiungere questo scopo però non basta ubbidire alle leggi esteriori e alle regole scritte. Bisogna essere inoltre docili alla voce della coscienza e alle ispirazioni particolari dello Spirito » (P.Deseille, L’esprit du monachisme pachômien, Bellefontaine 1973). Secondo l’espressione di Teodoro, ognuno deve essere fedele alla santa vocazione della koinonia « secondo la misura delle sue forze e la spinta dello Spirito Santo ». Pacomio incoraggiava i suoi discepoli a seguire la voce interiore dello Spirito ed esigeva che i fratelli rispettassero la altrui personalità spirituale. Nel campo però delle ispirazioni interiori è indispensabile il ricorso al discernimento del padre spirituale; alcuni passaggi delle Vite ci mostrano Pacomio particolarmente attento a dissipare le possibili illusioni.

    6.   I frutti dello Spirito

    Lo Spiriro Santo illumina, ispira, salva, è fuoco che consuma. Quando lo Spirito scende nei cuori degli uomini, essi si rinnovano profondamente.

    Frutto dello Spirito sono le virtù. Un elenco di queste virtù elargite dallo Spirito, lo troviamo nella Vita copta di s. Pacomio: « la fede, il bene, il timore, la pietà, la purità, la giustizia, la longanimità, la bontà, la dolcezza, la temperanza, la gioia, la speranza e la perfetta carità ». Non si tratta dei tradizionali doni dello Spirito Santo, tratti da Is 11, 1-2, bensì di un elenco di virtù, sul tipo di quelli paolini. Il riferimento principale è Gal 5, 22. Il numero e l’ordine dei frutti dello Spirito elencati non coincidono: c’è stata probabilmente una integrazione con Is 11 e con 1 Cor 13, 13 (per le tre virtù teologali).

    Per Pacomio, scopo dello sforzo ascetico del monaco e della vigilanza sul suo cuore, è che « lo Spirito Santo abiti in lui » e che egli « diventi un tempio di Dio »; « che acquisti la perfezione dei frutti dello Spirito »; che raggiunga « l’unità dello spirito ». Così insegna anche Orsiesi: per acquistare i frutti dello Spirito bisogna convertirsi e purificarsi dalle imperfezioni, bisogna lottare. « Anche l’anima – leggiamo nei Dettisa di aver concepito lo Spirito Santo quando si placano le passioni che scorrono giù da lei; finché è impigliata in esse, come può vantarsi quasi fosse impassibile? Dà sangue e prendi Spirito », lotta cioè e giungerai al possesso delle virtù dello Spirito. ll monaco, prima di ricevere lo Spirito con i suoi doni, deve essere formato all ‘umiltà, all’abnegazione, all’oblio di sé, alla purezza di cuore, al sacrificio; deve imparare a dare a Dio il sangue dell’anima e del corpo. Quando avrà acquisito questa libertà totale, questa disponibilità, sarà maturo per ricevere i doni dello Spirito.

    L’inabitazione dello Spirito – che non è altro che il pieno sviluppo della grazia battesimale – è una vera deificazione dell’uomo, così la spiega Teodoro. Tale deificazione realizza anzitutto la trasformazione morale dell’uomo. L’uomo giunge allora alla piena maturità spirituale; in virtù dell’inabitazione dello Spirito Santo, egli possiede un istinto interiore, un tatto spirituale, che gli permette di discernere spontaneamente la volontà del Signore, e raggiunge così la « vera conoscenza » di Dio. Il monaco ottiene allora la « preghiera senza distrazione», perché il suo spirito è tutto quanto preso da Dio.

     

  • 24 Giu

    Spunterà un germoglio dal tronco reciso
    Una rinascita insperata: Is 11,1-10

     

    Messaggio centrale

    L’orizzonte descritto è segnato amaramente da un tronco ormai irrimediabilmente reciso. Eppure inatteso e insperato un piccolo germoglio per volontà divina vi spunta nuovamente. In esso è riposta ogni speranza di un futuro diverso: sarà un virgulto destinato a crescere e a produrre frutti di pace e di giustizia per il mondo intero.

    Davide, e tutto Israele con lui, ha ricevuto da JHWH la promessa di una discendenza che avrebbe portato nel regno pace e giustizia. La storia sembra smentire la promessa: essa ripresenta puntualmente una serie di governanti inetti o tirannici che usurpano il loro ruolo a vantaggio di interessi personali e tornaconti egoistici. Isaia è deluso del re Acaz che dal 721 regna su Giuda: egli non ripone la sua speranza in JHWH per cui il profeta intravede inevitabile nel futuro la catastrofe di tutto il popolo: Dio attraverso l’opera distruttrice degli Assiri, preannuncia il profeta, castigherà la casata di Davide.

    In Israele scaturisce così man mano per il ministero dei profeti la speranza di un re finalmente diverso che avrebbe adempiuto finalmente le promesse e le attese: si tratta di una speranza che conduce alla consapevolezza sempre maggiore che potrà solo Dio stesso portare a compimento tutte queste attese. In Ez. 34 ad esempio JHWH personalmente dice di voler riprendere in mano l’esercizio dell’autorità mandando una persona di totale sua fiducia togliendo di mano lo scettro a guide incapaci e corrotte: tale personaggio sarà un discendente di Davide secondo la promessa.Susciterò per loro un pastore che le pascerà, Davide mio servo. Egli le condurrà al pascolo, sarà il loro pastore;  io, il Signore, sarò il loro Dio e Davide mio servo sarà principe in mezzo a loro: io, il Signore, ho parlato. Stringerò con esse un’alleanza di pace e farò sparire dal paese le bestie nocive, cosicché potranno dimorare tranquille anche nel deserto e riposare nelle selve” (Ez 34,23-25)

    Anche nel nostro brano Isaia annunzia l’arrivo di questo re-messia che porterà un’era di giustizia e di pace. La promessa fatta a Davide non può essere ritratta perché Dio non può venir meno alla sua parola. Nonostante il castigo comminato alla discendenza di Davide che sarà estirpata, una radice umile del suo tronco abbattuto sarà preservata; proprio da tale radice un nuovo germoglio verrà alla luce portatore di nuova speranza.

    1 Un germoglio spunterà dal tronco di Iesse,

    un virgulto germoglierà dalle sue radici.

    Viene affermata anzitutto la provenienza umile del re messia: spunterà nuovamente come Davide stesso “dal tronco di Iesse” (v.1).  Ora l’immagine del “germoglio” per descrivere il nuovo Re-Messia è presente anche in altri profeti: in Gr 23,5 ad esempio è detto: “Ecco verranno giorni – dice il Signore – nei quali susciterò a Davide un germoglio giusto, che regnerà da vero re e sarà saggio ed eserciterà il diritto e la giustizia sulla terra”. Anche il Servo sofferente nel terzo Isaia viene raffigurato come un germoglio: “crescerà come un virgulto… com una radice in terra arida” (Is 53,2). E ancora in Zc: “manderò il mio servo Germoglio… spunterà da se… ricostruirà il Tempio del Signore, riceverà la gloria, siederà da sovrano sul suo trono” (6,12s). La simbologia ricorrente del germoglio è ricca di significati: il germoglio è essenzialmente promessa di vita lì dove si vedrebbe solo sterilità e morte, nella sua piccolezza e umiltà possiede un’energia strepitosa. Dalla sua piccola e insignificante presenza fuoriescono rami, foglie e frutti. La gemma dice il miracolo della vita che vince ogni morte!

    Ora per Isaia la stirpe di Davide è stata castigata a causa della sua infedeltà: il suo tronco (l’albero genealogico) è stato reciso alla radice: Tutto sembra ormai distrutto! Ma proprio da questa radice Isaia promette lo spuntare di un nuovo germoglio completamente nuovo ed inatteso: questo virgulto sarà dono gratuito di Dio, frutto della sua grazia in quanto Israele (l’umanità) da se stesso è assolutamente incapace di farlo spuntare dal suo interno. Si tratta in certo qual modo di un nuovo principio operato dalla potenza vitale di Dio: ci sarà un nuovo Davide uomo “secondo il cuore di Dio

    Isaia riafferma la volontà salvifica da parte di Dio che non si arrende dinanzi al fallimento causato dal peccato dell’uomo: il castigo non può essere definitivo perché lui è il Dio della vita (Nm 27,16).  Questo germoglio dono di Dio è per la tradizione biblica vetero e neo testamentaria il Messia atteso.

    Nel v. 2 Isaia descrive l’azione e la concentrazione della “Ruach”  di Dio sul “virgulto”:

    2 Su di lui si poserà lo spirito del Signore,

    spirito di sapienza e di intelligenza,

    spirito di consiglio e di fortezza,

    spirito di conoscenza e di timore del Signore.

    Come lo Spirito all’inizio si posò su Davide (1Sam 16,13), così su questo secondo Davide scende in pienezza il dono di Dio affinché egli possa adempiere alla perfezione la sua missione. Lo “Spirito” viene invocato sul “Germoglio” dai quattro punti cardinali per quattro volte (=in pienezza): immagine che sta a significare come il dono di Dio vi si concentra interamente e stabilmente. E’ in certo qual modo una riedizione della creazione e della storia della salvezza: “Mandi lo Spirito, sono creati e rinnovi la faccia della terra” (Sal 104,30; cfr Nm 11,17; Gdc 3,10; 6,34; 11,29; 1Sam 11,6; “Sam 23,2; 2Re 2,9).

    I doni e gli effetti dello Spirito vengono descritti mediante tre coppie di concetti (il dono della pietà sarà aggiunto successivamente dai traduttori greci e latini per raggiungere il numero sette indicante ancora la pienezza). I doni elencati abbracciano tre diversi livelli dell’esistenza: intellettuale, governativo, religioso.

    Anzitutto è Spirito “di sapienza e intelligenza”: la sapienza darà la capacità di agire in modo adeguato alle circostanze cogliendone i profondi risvolti, mentre l’intelligenza offrirà al Re la chiara conoscenza della situazione.

    Lo Spirito porta anche il dono del “consiglio e della fortezza”: lo Spirito sarà perfetto “consigliere” del re indicandogli mete e mezzi appropriati, mentre il dono della fortezza farà sì che abbia il coraggio e la costanza nel portare a termine le decisioni prese.

    Infine lo Spirito è di “conoscenza e di timore del Signore”: la “conoscenza” del Signore è rapporto vivo e autentico con Dio riconosciuto, confessato attraverso le opere di amore e di giustizia. Il “timore” di Dio sta invece ad indicare la fiducia, l’obbedienza nel riconoscere Dio quale unico Signore.

    Nei vv.3-5 viene descritta l’attesa più profonda che la venuta del re Messia dovrà realizzare e finalmente instaurare dopo ripetuti fallimenti e tradimenti da parte della precedente dinastia davidica: è il compimento di un regno di giustizia autentica e dunque di pace (cfr Sal 72 e 101 rispettivamente ritratto del re perfetto e lo specchio del principe modello).

    3 Si compiacerà del timore del Signore.

    Non giudicherà secondo le apparenze

    e non prenderà decisioni per sentito dire;

    4 ma giudicherà con giustizia i miseri

    e prenderà decisioni eque per gli oppressi del paese.

    La sua parola sarà una verga che percuoterà il violento;

    con il soffio delle sue labbra ucciderà l’empio.

    5 Fascia dei suoi lombi sarà la giustizia,

    cintura dei suoi fianchi la fedeltà.

    Il “Re-Messia” sarà anzitutto il giusto giudice che difenderà il diritto di ciascuno distruggendo ogni forma di ingiustizia. Mentre i giudici umani dipendono da ciò che vedono e da ciò che viene loro esposto, il re promesso riceverà dalla Ruach di JHWH la capacità di vedere le cose come Dio stesso ovvero in profondità e non in apparenza, saprà leggere infatti nel cuore (2Sam 16,7). Il suo giudizio è perciò emesso in perfetta giustizia ed equità

    Una seconda caratteristica del nuovo Re sarà la sua incorruttibilità, in altre parole la sua ferma volontà di prendere le parti di chi non può far valere il proprio diritto: i poveri (Is 1,17).

    Gli sfruttatori e i violenti saranno di conseguenza distrutti dalla “verga” del giudizio emesso dalla sua bocca e “con il soffio delle sue labbra”. (Giovanni riprenderà tale immagine: “dalla bocca del Figlio dell’uomo uscirà una spada affilata a doppio taglio”: Ap 1,16).

    Anche la fascia  e la cintura, insegne regali assunte nel giorno dell’investitura, divengono qui simboli trasparenti della “giustizia e della fedeltà” del re Messia nell’adempiere alla sua missione.

    Con i vv.6-10 inizia la seconda parte del carme. Quali conseguenze emergeranno da un regno retto da tal sorta di Re-Messia?

    6 Il lupo dimorerà insieme con l’agnello,

    la pantera si sdraierà accanto al capretto;

    il vitello e il leoncello pascoleranno insieme

    e un fanciullo li guiderà.

    7 La vacca e l’orsa pascoleranno insieme;

    si sdraieranno insieme i loro piccoli.

    Il leone si ciberà di paglia, come il bue.

    8 Il lattante si trastullerà sulla buca dell’aspide;

    il bambino metterà la mano nel covo di serpenti velenosi.

    Inizierà un tempo di pace universale! Questa pace si colloca a diversi livelli progressivi: anzitutto pace e armonia tra gli animali, poi tra animali e uomo, tra uomo e uomo, infine tra gli uomini e Dio. Il denominatore comune è il definitivo superamento di ogni stato di violenza, paura, diffidenza, ingiustizia.

    Le scene presentate sono un idillio di pace: in esse si prospetta la possibilità di un ritorno al paradiso perduto a causa del peccato, nel ripristino conseguente di quell’armonia originaria della creazione infranta. Nel regno del futuro re sarà cancellata la maledizione comminata all’uomo e alla creazione a causa del peccato (Gen 3,15). Si tratta di un nuovo ordine di rapporti in cui coppie antitetiche di animali selvatici e domestici si ritrovano in un’armonia inedita e durature (anche i loro piccoli… v. 7). Non ci saranno più “carnivori”! Anche il grande nemico il serpente, simbolo di ogni idolatria e peccato (Gn 3), ritrova una sua nuova collocazione all’interno della creazione rinnovata in cui l’uomo non dovrà temere alcuna conseguenza di male e di morte: “Il lattante si trastullerà sulla buca dell’aspide; il bambino metterà la mano nel covo di serpenti velenosi” (v.8). Da notare come in tutto il “Libretto dell’Emmanuele” è sottolineata la presenza allusiva al “bambino”: è l’essere più debole ed indifeso che tuttavia “guida” la nuova creazione (Mt 21,16; Mc 10,14).

    9 Non agiranno più iniquamente né saccheggeranno

    in tutto il mio santo monte,

    perché la saggezza del Signore riempirà il paese

    come le acque ricoprono il mare.

     

    Il centro di questa nuova creazione, di questo nuovo Eden sarà il monte di Sion, il “mio santo monte” (v. 9) ove Dio ritorna a dialogare familiarmente con l’uomo (Gn 3,8), luogo in cui l’uomo riscopre la vera “conoscenza“ di Dio da cui scaturisce “saggezza” di vita offerta a tutti gli uomini in una pienezza sconfinata tale da evocare la sterminata distesa del mare: “Non agiranno più iniquamente né saccheggeranno in tutto il mio santo monte” (v.9).

    Infine dalla pace con Dio scaturirà la pace fra tutti gli uomini. Cesserà ogni violenza e ogni lotta. Il debole non dovrà temere il forte: le lance saranno trasformate definitivamente in vomeri.

    Questa nuova armonia e questo ritorno alla pace paradisiaca trova la sua motivazione ultima nell’alleanza rinnovata tra Dio e gli uomini: la pace col creato e con i propri simili dipende dalla pace con Dio.

    10 In quel giorno

    la radice di Iesse si leverà a vessillo per i popoli,

    le genti la cercheranno con ansia,

    la sua dimora sarà gloriosa.

     

    L’ultimo versetto che fa da chiusura e cerniera con quel che segue assume un’intonazione universale: la presenza e l’opera del germoglio-discendente di Jesse diventeranno benedizione per tutti i popoli, non solo per Israele. A lui tutte le genti guarderanno come unica e vera sorgente di speranza e di pace, perciò la “Radice di Jesse” la si “cercherà con ansia” e la sua dimora, Gerusalemme, diverrà punto di incontro e di attrazione per tutti i popoli.

    La promessa fatta attraverso le labbra di Isaia non si è realizzata nell’antica alleanza. Questo testo di Isaia è ripreso nel nuovo Testamento. Gesù a Cafarnao inaugurando il suo ministero presso i suoi concittadini di Nazaret citerà appunto Is 61,1-2: “Lo Spirito del Signore è sopra di me, per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato ad annunziare ai poveri il lieto messaggio” (Lc 4,18s). E’ lui il retto giudice che “vede nel cuore dell’uomo”, è lui che sta dalla parte dei poveri ed indifesi, ed è ancora lui che si presenterà come “Figlio dell’uomo” ovvero come giudice finale della storia ad emettere un giudizio secondo verità: “La sua parola sarà una verga che percuoterà il violento; con il soffio delle sue labbra ucciderà l’empio.”.

    Vi è in Gesù la chiara consapevolezza di essere lui l’atteso Re-Messia sul quale si posa-rimanendo lo Spirito di Dio ed è ancora lui che con autorità annuncia la presenza del Regno: “Il Regno di Dio è in mezzo a voi”.

    Nella notte a Betlemme gli angeli annunzieranno ai poveri una buona notizia: “Pace in terra agli uomini che Dio ama” (Lc 2,14b). Con Gesù è dunque entrata la pace di Dio nel mondo, è stato inaugurato il regno promesso da Isaia. Perciò la fede cristiana riconosce nel germoglio di Davide profetizzato Gesù di Nazaret.

    Tuttavia tale compimento della promessa del regno non ha raggiunto la sua pienezza: siamo nell’economia del “già e non ancora” per cui la nostra profezia rimane un messaggio attuale capace di offrire orizzonti di speranza.

    Ora sperimentiamo sì la verità e la presenza del Regno di pace ma ancora in germe, nei piccoli segni che rimandono ad un al di là che attende ancora compimento. Tutto questo costituisce l’attesa-promessa neotestamentaria dei cieli e della terra nuova: “Ecco io creo cieli nuovi e terra nuova… si godrà e si gioirà per sempre” (Is 65,17-18: Ap 21,1.27; 2Pt 3,13). Si tratta dello stesso gemito paolino che si fa voce dell’anelito a quella nuova creazione liberata finalmente dal veleno della violenza e della morte: “Sappiamo bene infatti che tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto; essa non è la sola, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo. Poiché nella speranza noi siamo stati salvati. Ora, ciò che si spera, se visto, non è più speranza; infatti, ciò che uno già vede, come potrebbe ancora sperarlo? Ma se speriamo quello che non vediamo, lo attendiamo con perseveranza” (cfr Rm 8 22-25).

    Per la riflessione

    La delusione attanaglia la nostra esperienza, siamo spesso scoraggiati perché senza speranza: tutte le attese e speranze sembrano disintegrarsi tra le mani dell’uomo di oggi. E’ difficile credere alla nascita di un nuovo mondo, di un inatteso “germoglio” capace di cambiare una storia che sembra precipitarsi nella voragine di una drammatica conclusione.

    Eppure la rivelazione biblica apre alla possibilità di una ripartenza, di una rinascita che rappresenti un ritorno al progetto iniziale del Creatore.

    La fede cristiana riconosce in Cristo questo “germoglio” donato all’umanità gratuitamente. La sua presenza e la sua azione, attraverso la continuità della sua comunità,  sta crescendo e sviluppandosi al di là di tutti i nostri meriti e capacità. In Lui il Regno di Dio è impiantato saldamente nella storia e ne possiamo già godere in pegno i frutti i di pace e di vittoria su ogni paura da cui scaturisce ogni sorta di male e di violenza.

    Preghiera conclusiva

    Quanto a me, Signore,
    tutta la mia fiducia è la mia fiducia in te:
    quella fiducia che non deluse nessuno;
    nessuno sperò nel Signore e rimase deluso.
    Io sono dunque certo che sarò eternamente felice,
    perché spero fermamente di esserlo
    e perché è da te, mio Dio, che lo spero:
    in te, Signore, ho sperato,
    non sarò mai deluso in eterno.
    Infine sono certo che posso sperare totalmente in te
    e non posso avere meno di ciò che avrò sperato da te.
    Spero che tu mi amerai sempre
    e che io ti amerò senza interruzione.
    E per portare in una parola
    la mia speranza il più avanti possibile,
    io spero te, te stesso da te stesso,
    mio Creatore e nel tempo e nell’eternità. Amen.

    Jean Guitton, filosofo

     

  • 23 Giu

    Stare presso la croce di Gesù: Maria nel mistero pasquale


    di p. R. Cantalamessa
    a cura di p. attilio franco fabris

     

    Maria è presente nei momenti centrali del mistero di Cristo: incarnazione, mistero pasquale, pentecoste.

    Cosa significa la croce? Per Giovanni è l”ora”: evento nel quale si rivela appieno la gloria di Cristo, la sua sovranità, e luogo dal quale Cristo dona lo Spirito. E’ il “tutto è compiuto”.  E’ già luogo in cui trionfa la vita e l’amore, e dunque di resurrezione. (in questo senso non è importante sapere di apparizioni o meno del Risorto alla madre).

    Presentandoci Maria ai piedi della croce, Giovanni pone Maria nel cuore del mistero pasquale. Ella non è presente solo alla sconfitta e alla morte del Figlio, bensì soprattutto alla sua glorificazione: “Abbiamo visto la sua gloria”.

    Maria la “pura agnella”

    Maria ha bevuto fino in fondo al calice della passione. Ella può dire: “ha bevuto dalla mano del signore il calice della sua ira, la coppa della vertigine: O voi tutti che passate per la via, considerate e osservate se c’è un dolore simile al mio dolore” (Lam). Le piaghe del Signore si sono impresse anche nel suo cuore!

    Maria è insieme ad un altro gruppo di donne. Non era sola. Tuttavia era lì come “sua madre” e questo cambia tutto, ponendo Maria in una situazione affatto diversa dalle altre.

    Ella accompagna il Figlio nella passione fa suoi i suoi sentimenti. Quando sente il Figlio pregare dicendo: “Padre perdonali….”, capisce che il Padre le chiede di fare la medesima cosa: anch’ella perdona.

    Maria ai piedi della croce non dice una sola parola, ella è puro silenzio.

    Se Maria potè essere tentata come lo fu Gesù nel deserto questo avvenne sotto la croce: il motivo era che lei credeva alle promesse. E la croce sembrava sconfessarle. Ma vede che Gesù non fa nulla. Liberando se stesso dalla croce libererebbe anche lei dal suo dolore straziante, ma non lo fa. Maria non grida come tutti: “scendi dalla croce, salva te stesso e me” “Hai salvato altri salva ora te stesso figlio mio e me”. Maria tace. Dice il concilio: “Maria acconsente amorosamente all’immolazione della vittima da lei generata”.

    Ella sta accanto all’Agnello come agnella a sua volta come dicono alcuni antichi testi: “la bella agnella”.

    Dice ancora il concilio: “Anche la beata vergine Maria ha avanzato nel cammino della fede e ha conservato fedelmente la sua unione con il Figlio sino alla croce, dove, non senza un disegno divino, se ne stette ritta, soffrì profondamente col suo Figlio unigenito e si associò con animo materno al sacrificio di lui, amorosamente consenziente all’immolazione della vittima da lei stessa generata”.

    Maria dunque non sta presso la croce del Figlio solo fisicamente, ma soprattutto spiritualmente.  Soffriva nel suo cuore quello che il Figlio soffriva nella sua carne: “Una spada ti trafiggerà l’anima”.

    A forza di fare attenzione a non mettere sullo stesso piano Maria e cristo una certa teologia corre il pericolo di vanificare l’incarnazione, dimenticando che Cristo si è fatto “in tutto simile a noi, fuorché nel peccato”. Non è certo peccato che un figlio morente in quelle condizioni, rifiutato da tutti, cerchi un rifugio nel cuore e negli occhi della madre che l’ha generato e che conosce bene la sua innocenza. La differenza infinita tra il Figlio e la madre non deve far dimenticare la somiglianza anch’essa infinita che c’è tra loro: questo sarebbe docetismo.

    Gesù non dice più: “che c’è tra me e te o donna? Non è ancora giunta la mia ora!”: ora c’è un’unione profondissima data dalla stessa sofferenza.

    Chi potrà penetrare il mistero di quello sguardo tra madre e Figlio, in un’ora simile? Erano divenuti una sola cosa con il dolore e il peccato del mondo: Gesù direttamente, Maria indirettamente per la sua unione carnale e spirituale.

    Quando Gesù dice: “Padre nelle tua mani affido la mia vita”, adorando profondamente la volontà del Padre e affidandosi completamente a lui, Maria comprende che deve seguire Cristo anche in questo passaggio: anche lei è chiamata ad adorare la volontà di Dio e a confidare totalmente in essa.

    Stare presso la croce di Gesù

    Maria che sta sotto la croce ci dice quale deve essere l’atteggiamento del credente quando viene a contatto con la sofferenza fisica, spirituale, psichica.

    Quello che avvenne in quel venerdì santo deve avvenire anche per noi ogni giorno: bisogna stare accanto a Maria presso la croce di Gesù, come ci stette il discepolo che egli amava.

    Ci sono due aspetti da rilevare nel testo di san Giovanni:
    primo: bisogna stare “accanto alla croce”
    secondo: bisogna stare accanto alla croce “di Gesù”.

    La prima cosa da fare non è stare presso la croce in genere, ma stare presso la croce di gesù. Non basta stare presso la croce, cioè nella sofferenza, starci anche in silenzio con rassegnazione. No! Questo forse sarebbe eroismo ma nulla più, non contiene nessun annuncio di speranza, di gioia, di vita, di salvezza.
    la cosa decisiva è stare presso la croce di Gesù.

    Ciò che conta non è la propria croce, questa non ci salva! La croce che ci salva è solo quella di gesù.

    Non è il soffrire che conta, ma il credere, ovvero l’unirsi a Cristo, il vivere con lui. La cosa fondamentale è credere stando nella sofferenza a Cristo. La fede che passa attraverso la sofferenza è la vera fede!

    La cosa più grande e importante per Maria che stava presso la croce non era il suo soffrire, ma il suo credere nonostante tutto, l’unirsi alla sofferenza di Cristo suo figlio. La sua fede fu più grande della sua sofferenza: questa non la schiacciò!

    Ma qual è il segno e la prova che si crede realmente nella croce di Cristo? È il portare la nostra croce, la nostra sofferenza, dietro a Gesù, accettare di “prendere parte alle sue sofferenze”, di “essere crocifissi con lui”, di “completare nella nostra carne la passione di Cristo per il bene della Chiesa e del mondo”.

    La nostra vita allora si trasforma in “sacrificio vivente”, in un’offerta come quella di Cristo.

    Non si tratta più dunque di una sofferenza subita passivamente, ma accolta e vissuta con amore. Se vissuta così anche la nostra sofferenza partecipa della dimensione salvifica della sofferenza di Cristo.

    La nostra croce non è in se stessa salvezza, non è potenza, né sapienza. Diviene tutto questo quando ci uniamo alla croce di cristo.

    Soffrire unisce alla croce di Cristo in modo non solo intellettuale, ma esistenziale, concreto è una sorta di canale, di strada, che ci conduce con maria sul Calvario ai piedi della croce, dove la fede si unisce al dolore in un tutt’uno.

    Mi vanterò ben volentieri delle mie debolezze…mi compiaccio nelle mie infermità e nelle angosce sofferete per Cristo (2 Cor 12).

  • 22 Giu

    LEGGERE SPIRITUALMENTE
    L’ITINERARIO DEL PROPRIO CAMMINO

     

    di p. attilio franco fabris

     

    E’ un’avventura affascinante il cercare di scoprire Dio nella propria vita.

    Gli uomini di Dio di tutte le epoche e di tutte le religioni ci dicono che questo è possibile.

    C’è chi cerca Dio nel silenzio e nella solitudine del deserto, chi nel rumore della città, chi in mezzo agli uomini… Dove non importa. L’importante è cercarlo. La fede biblica ci indica nella storia una direzione privilegiata, un “luogo teologico”, per scoprire Dio nella propria esistenza. Dio è presente in ogni istante della tua vita, dall’inizio alla fine, nei momenti decisivi e in quelli quotidiani e apparentemente banali, nelle gioie, nelle prove e malattie. Lo sarà anche al momento della conclusione del tuo itinerario terreno.

    Un mistico induista racconta la sua esperienza: Una volta, lungo tutta una giornata, percepii l’immagine delle infinite meraviglie di Dio presenti nella creazione. Allora pregai così: Padre, quando ero cieco non trovavo una sola porta che mi introducesse a te. Ora tu hai medicato i miei occhi e io scopro porte da ogni lato: nel cuore dei fiori, nelle voci dell’amicizia, nel ricordo delle esperienze liete. Ogni impulso della mia preghiera mi apre una nuova porta di accesso al tempio immenso della tua presenza (Paramahansa yogananda). Questa porta per te è la tua storia.

    Una lettura diversa

    Quando parlo di imparare a leggere spiritualmente il cammino della tua vita, intendo l’arte di saper leggere qualsiasi avvenimento in un senso che sia capace di andare “oltre” le apparenze, gli aspetti fenomenici.

    Si tratta di sviluppare un atteggiamento mentale al fine di penetrare ed interpretare il mistero della vita tua e di ciò che ti circonda.

    Questo comporta una disposizione fondamentale: la tua collaborazione attenta con le continue ispirazioni della grazia. Questa disposizione porta ad un atteggiamento contemplativo di fronte alla vita, ad una preghiera continua fatta di ascolto dell’esistenza.

    Significa percepire nella tua vita la presenza continua del Dio della vita: “In lui noi viviamo, ci muoviamo ed esistiamo” (At 17,28).

     

    Se questo non è un gioco o una illusione allora significa  che il cammino della vita ti nasconde un segreto in chiave: una chiave che deve essere decifrata. Come una scrittura nascosta, così gli avvenimenti di ogni giorno ti parlano attraverso i loro simboli, i solo segni, e ti rimandono al di là: Questo “al di là” lo decifreremo perfettamente quando ci saremo, ma già ora puoi imparare a decifrarlo leggendo spiritualmente il tuo itinerario.

    La tua storia la puoi leggere attraverso mille lenti e mille angolature. Ci sono molte chiavi di interpretazione… sarà utile uno sguardo a come l’uomo biblico legge la sua vita.

    La sapienza dell’uomo biblico

    L’uomo biblico è essenzialmente un uomo che ha imparato a leggere spiritualmente gli avvenimenti. Crede profondamente ed è convinto che in ogni avvenimento vi sia una manifestazione, una rivelazione di Dio.

    Egli legge la storia del suo popolo e quella sua personale in riferimento costante a Dio: quando perde una guerra… è a causa dell’infedeltà; quando vince una guerra… è Dio che lo ha salvato (cfr 2 Cr 20,1s). La malattia, la pioggia, la siccità… tutto diviene occasione di dialogo tra Dio e il suo popolo. Così Giobbe interpreta spiritualmente il dolore (1,21; 2,10); Davide perseguitato vedrà in questo una permissione di Dio (“ Sam 16,5ss). I salmi sono tutti una continua lettura spirituale (cfr Sal 78; 105…).

    Per la scrittura l’uomo che è in grado, per la sua fede, di leggere spiritualmente la storia diventa sapiente (es. Sir 44; Ebr 11): ovvero è divenuto uno che sa vedere la verità, che sà dare il sapore il senso a ciò che vive.

    Gesù riceve questa tradizione sapienziale e la fa propria. Egli legge ogni avvenimento, da quelli più semplici e ordinari a quelli più tragici, spiritualmente. Al termine della Passione egli dirà: “Tutto è compiuto”; Gesù  legge la sua sofferenza “in chiave” – la volontà di Dio – tutto ha obbedito ad un progetto di amore.

    Comprendi allora l’amaro rimprovero “ai sapienti scribi e farisei” fatto da Gesù. Essi si sono rivelati incapaci di leggere in modo spirituale la sua missione, il tempo favorevole. Si sono fermati alla superficie, hanno adottato chiavi di lettura più facili e comode: “Hanno occhi e non vedono, orecchie e non odono” “Sapete riconoscere l’aspetto della terra e del cielo; come mai non riconoscete questo tempo?”.

    Come leggere spiritualmente?

    L’atteggiamento fondamentale non è la pretesa magica di obbligare Dio  a manifestarsi con un messaggio fatto a propria immagine e secondo i propri desideri.

    Si tratta invece di alimentare continuamente in te un umile atteggiamento di fede, capace di riconoscere e scoprire, giorno dopo giorno, quel messaggio recondito “posto al-di-là” che tanti semplici, con la loro sapienza hanno saputo leggere. Vivi nella certezza che la tua vita è nelle mani di Dio. Non si tratta di sentirti protettoe al sicuro, la vita del credente attraversa tutte le prove come quella di chi non crede, si tratta invece di cogliere la verità del tuo proprio esistere, quel filo conduttore che connette tutti gli avvenimenti della tua vita, dando loro un senso preciso. Se Dio è Dio allora non esiste più l’assurdo, il destino, ma tutto assume senso e significato… Ciò ti porta a non aver più paura della vita, a non essere più assalito dalla preoccupazione di programmare eprevedere, calcolare e controllare, ti libera dall’apprensione di difenderti da chissà quale nemico o rischio o imprevisto. La certezza che la tua vita è nelle manbi di Dio fa sì che tu possa liberarti da queste piccole o grandi schiavitù. In fondo  significa liberarsi da quella insicurezza nascosta che a volte, per reazione, ti fa sentire troppo importante, come se tutto dipendesse da te.

    Vi è una metodologia per far ciò:

    Il primo metodo è certamente l’ascolto della Parola, ricevuta e meditata con spirito di fede. Essa è l’alimento atto a sviluppare in te la capacità di acquisire uno sguardo, una mentalità di fede. La lectio divina ti rende familiare con la storia del popolo eletto, con Gesù, la Chiesa. Con essa tu confronti il tuo cammino umano e di fede.

    In questo senso la parola ti offre una risposta, una chiave di lettura, a ciò che stai vivendo. L’incontro giornaliero, fedele e perseverante con essa diviene indispensabile per conservare una mappa del tuo itinerario. Quanto è bello ripensare a quel pellegrino russo che nel suo peregrinare accanto al pan secco conserva con cura la Parola di Dio: “Per grazia di Dio sono uomo e cristiano, per azioni grande peccatore, per vocazione pellegrino della specie più misera, errante di luogo in luogo. I miei beni terrestri sono una bisaccia sul dorso con un po’ di pan secco e, nella tasca interna del camiciotto, la Sacra Bibbia. Null’altro”.

    Un secondo metodo scaturisce anch’esso da un dato di fede. Gesù risorto ti ha assicurato la sua presenza sino alla fine del mondo (Mt 28,16), ti ha consegnato l’avvertenza di riconoscerlo negli ultimi, nei poveri nei semplici e bisognosi. In questi egli è costantemente alla porta della nostra vita e bussa per essere riconosciuto (Ap 3,20).

    Impari a leggere spiritualmente il tuo cammino quando consideri la tua esistenza come una continua serie di opportunità per scoprire la presenza nascosta del risorto. Egli è l’ortolano, il pellegrino, lo sconosciuto sulla riva del lago. Ogni giorno, ogni situazione, ogni persona si può trasformare in occasione di incontro col mistero del Signore risorto. Fai l’esperienza che nella vita di ogni giorno c’è il passaggio nascosto di Cristo: della sua salvezza che ti giunge attraverso mille mediazioni.

    Un terzo metodo. Leggi l’esistenza nella chiave della croce, del mistero pasquale. Come un continuo e incessante passaggio, esodo, dalla vita alla morte, dalla schiavitù alla liberazione, dalla terra al regno. Nell’attesa del passaggio definitivo. Saper discernere in tutte le situazioni di fallimento, povertà, peccato, morte l’invito del Dio liberatore a fare anche tu il tuo pesah, il salto della fede nel Dio fedele.

    Conclusione

    Leggere spiritualmente la vita è un’arte. Si impara a vivere in sintonia con Dio. Diviene un modo per pregare incessantemente. In ogni istante ti è offerta una nuova possibilità. Imparerai a fermarti saggiamente per domandare al Signore: Che cosa mi stai dicendo ora? Cosa vuoi da me in questo momento? Perché tutto ti parla.

    E’ questa la beatitudine: “Beati coloro che ascoltano la parola e la mettono in pratica” (Lc 11,27-28).

    Questo camminare in sintonia con Dio, nell’ascolto alla parola, sulla terra si trasforma in una risposta, un canto gioioso, canto di pellegrini che conservano nel cuore l’ansia felice dell’arrivo: Noi cantiamo quaggiù le lodi di Dio come un giorno le canteremo in cielo. Ma quaggiù le cantiamo trepidanti, in cielo le canteremo sicuri. Quaggiù nell’esilio, lassù nella patria. Canatate o fratelli, come canatano i viaggiatori, i pellegrini: cantate e camminate! Avanti sempre, procedendo nel bene. Fate progressi nella fede e nelle buone opere. Cantate e camminate. Canate con le voci, cantate con i cuori, cantate con la condotta della vita (Agostino, Ex.Ps).

  • 21 Giu

    “DEVI METTERTI IN CAMMINO OGGI… NON DOMANI”

     

    di p. Attilio Franco Fabris

     

    La storia è il luogo in cui sei chiamato deciderti: davanti a te sono poste le due vie: la vita e la morte, ovvero l’obbedienza e la disobbedienza ai comandi di Dio. E tempus fugit era scritto spesso sulle meridiane o orologi di conventi e monasteri.

    Ricorda che il cammino della tua storia è il luogo in cui Dio si manifesta, è il luogo in cui egli vuole incontrarsi con te. Anche Gesù con te si fa viandante e pellegrino come sulla strada verso Emmaus.  Questo cammino è l’unica l’opportunità che ti è data per vivere l’obbedienza della fede e la sequela. Questo cammino accolto nella sua realtà di gioia, e sofferenza, di conflitti, di progressi e regressi, di fatiche ed entusiasmi…

    Questa storia (non un’altra), questa stessa storia, diviene la tua storia di salvezza, non tanto in virtù di quanto accade o di ciò che riesci a realizzare, ma in quanto in essa Dio ti chiama continuamente a essere in comunione con lui per la realizzazione del suo Regno che è la tua meta finale, la Città Santa verso la quale stai camminando come pellegrino.

    Abbi la certezza che, per grazia di Dio, sulla strada del regno sei già sin d’ora e la stai percorrendo nella misura in cui i comandi del Signore sono il tuo sentiero, la tua vita e il tuo cammino.

    Questa tua storia è il Kairòs, il tempo propizio per la tua conversione, è un tempo di grazia. Tempo che dà senso e valore a Kronos che senza kairòs sarebbe tempo vuoto, destinato al nulla, alla morte: “Ecco ora il momento favorevole (kairòs) ecco ora il giorno della salvezza” (2 Cor 6,2).  Questo è un giorno che non si ripeterà mai più.

    Ogni giorno è un oggi che ti si apre dinanzi, completamente nuovo, aperto alla tua libertà, al tuo cammino interiore. Un oggi che deve essere accolto così come è, come ti si presenta; e non rifiutarlo perché ti si presenta diversamente da ciò che ti saresti aspettato che fosse. Se non accetti questo reale punto di partenza ricorda che in te non si attuerà nessun cammino perché continuerai a sognare la vita invece di viverla.

    Accogliere il presente significa accogliere il reale e rifiutare l’inesistente. A Dio puoi arrivare solo attraverso questa realtà e non un’altra immaginaria. Solo questo atteggiamento di accoglienza e accettazione ti permetterà di poter cambiare qualcosa nel futuro della tua vita.

    Ricorda perciò un buon criterio di discernimento per la tua vita spirituale: tutto ciò che ti allontana e distoglie dal quotidiano ti distoglie e ti allontana dal cammino verso Dio.

    Se prendi seriamente atto di questo allora capirai che dovrai:

    1. saper cogliere l’oggi di Dio, quest’oggi. Impara ad essere perciò duttile, semplice, contemplativo verso tutto ciò che ti è dato in questo momento.  Fai obbedienza alla parola che “oggi” risuona sul tuo cammino nel deserto verso la terra promessa: “Oggi, se udite la voce del Signore, non indurite i vostri cuori” ( (Sl 95,7).

    Ricorda che l’oggi si è fatto breve: “Esortatevi piuttosto a vicenda ogni giorno, finché dura quest’oggi, perché nessuno di voi si indurisca sedotto dal peccato” (Ebr 3,13).

    E’ il Signore che nella sua misericordia ti offre un nuovo oggi: “Egli fissa di nuovo un giorno, oggi, dicendo a Davide dopo tanto tempo: Oggi se udite la sua voce..” (Ebr 4,7).

    Cosa comporta cogliere l’oggi di Dio? Significa imparare a discernere, giudicare il tempo, gettando la maschera ipocrita di chi sa giudicare il tempo ma non il proprio tempo (Cf Lc 12,56).

    2. saper accogliere il tempo come l’oggi dell’incontro di Gesù con te, con la tua realtà di peccato, limite e mancanza. Per te Gesù ripete, come un giorno a Zaccheo: “Scendi subito, oggi devo fermarmi a casa tua… Oggi la salvezza è entrata in questa casa” (Lc 19,9). Ogni giorno fai esperienza della tua realtà di peccatore, che ti blocca e ti arresta ai bordi della strada (cf il cieco di Gerico), e ogni giorno hai bisogno di incontrare Gesù che passa, stende la mano e tichiama, affinché tu possa riprendere il cammino dietro lui.

    3. saper vivere la tua esperienza di vita di cristiana, di discepolo, come un continuo oggi, un continuo peregrinare: l’oggi dell’ascolto della Parola, l’oggi della conversione, l’oggi dell’accoglienza della grazia.

    E’ sempre oggi. Il passato non c’è più: ne puoi fare solo memoria, il futuro non esiste, è affidato alla speranza. A te rimane solo il presente e la preghiera: “Per tutto ciò che è stato grazie, per tutto ciò che sarà sì”.

    Potrai forse chiederti come allora rapportarti con il tuo passato e il tuo futuro se tutto si gioca sull’oggi.

    Verso il tuo passato conserva una “grata memoria”. Non è facile rimpossessarsi del proprio passato: equivale a guardarlo nei suoi aspetti positivi e negativi, di gioia e di dolore: “Si deve desiderare che tutto ciò che è avvenuto sia avvenuto, e null’altro. Non perché ciò che è avvenuto è un bene a nostro modo di vedere, ma perché Dio lo ha permesso e perché l’obbedienza degli eventi  a Dio è in sé un bene assoluto” (S.Weil, Attesa di Dio). Un guardare senza giudicare, con amore e riconoscenza, nella capacità di “lasciare andare”. Si tratta di un guardare privo dell’avidità di possedere, trattenere gioie o rimpianti; in una sinfonia non posso trattenere una nota all’infinito, rovinerebbe tutto il brano.

    Farai grata memoria in modo particolare degli interventi di Dio nel tuo cammino già percorso: “Se il Signore non fosse stato con noi, lo dica Israele, se il Signore non fosse stato con noi…” (Sl); “Ricordati di tutto il cammino che il Signore Dio tuo ti ha fatto fare in questi quarant’anni nel deserto per metterti alla prova” (Dt 8,2).

    Il tuo cammino passato riletto alla luce del “memoriale” diviene occasione di una Lectio divina in cui lo Spirito ti illumina per scoprire in quali molteplici modi la grazia sovrabbondante di Dio si è riversata su di te.

    Il passato, collegandosi direttamente con l’oggi in una linea di continuità che ispira fiducia e speranza (Si è forse accorciato il braccio del Signore?”), si trasforma in luogo di rivelazione di Dio. Attraverso questa memoria puoi trarre energie per la tua crescita. Scriveva Teresa di L.: “Mi trovo a un’epoca dalla mia esistenza in cui posso gettare uno sguardo sul passato: l’anima mia si è maturata nel crogiolo delle prove esteriori ed interiori; adesso come il fiore fortificato dall’acquazzone rialzo la testa e vedo che in me si realizzano le parole del salmo 22: Il Signore è il mio pastore, nulla mi mancherà”.

    Apriti al tuo futuro come occasione che ti è data di crescita di avanzamento: “L’uomo non può realmente esistere se non ha un punto fisso nel futuro verso cui volgersi. Il suo presente, nella sua interezza, riceve forma da questa meta prefissa; vi si dirige, come la limatura di ferro viene attratta da una calamita. Se l’uomo perde il suo futuro, la vita stessa si dissolve nella sua struttura” (V. Frankl).

    Ogni incontro con Dio ti apre orizzonti nuovi, egli ti pone dinanzi una promessa che deve essere accolta nella fede. Egli ti offre anche una missione da compiere.

    Ogni meta su questa terra non si rivela che una sosta per un ulteriore cammino. Un arrivo è sempre un nuovo punto di partenza. Devo lasciare per trovare, perdere per salvare: “Non abbiamo quaggiù una città stabile ma cerchiamo quella futura” (Ebr 13,14). Sei viandante e straniero proteso alla meta e alla patria: “I cristiani risiedono ognuno nella propria patria, ma come stranieri ospitati… ogni terra straniera è la loro patria e ogni patria è per loro una terra straniera” (A Diogneto). I padri del deserto parleranno della virtù della xenetheia.

    Il futuro cristiano si alimenta della virtù della speranza. Egli è certo che Dio gli verrà sempre incontro facendo “nuove tutte le cose”, aprendo strade non ancora percorse, facendo nascere ciò che non è ancora. Vivi nella certezza che tutta la creazione è continuamente attratta verso il futuro della glorificazione nel Risorto quando Dio sarà tutto in tutti.

    Il Tempo accolto come dono

    Il tuo cammino, il tuo tempo, è nelle mani di Dio. Lui l’ha voluto nell’istante della creazione, nel primo istante del tuo concepimento. E’ lui che te lo dona istante per istante. Ricorda che il tempo non ti appartiene.

    Dì col salmista: “Insegnaci a contare i nostri giorni e giungeremo alla sapienza del cuore” (Sl 90,12).

    E’ solo accogliendo e vivendo il tempo che ti è dato come dono che si impara la vera sapienza.

    Questo atteggiamento sapienziale diviene criterio di discernimento: impari a distinguere le varie realtà, le ultime dalle penultime, le essenziali dalle emarginali. Impari a porre in giusta scala i valori presenti nella tua vita.

    Chi infatti vive alienato dalla coscienza della propria temporalità non giungerà mai ad una lettura sapienziale della sua vita.

    Accogliendo il tempo come dono imparerai soprattutto a non essere più né suo schiavo né  suo idolatra: anche il tempo sarà ridimensionato e collocato nella sua giusta prospettiva.

  • 20 Giu

    HO INCIAMPATO SUL MIO CAMMINO…

     

    di p. attilio franco fabris

     

    Nel cammino spirituale incontri ostacoli imprevisti, non voluti né desiderati.

    Il normale cammino spesso, anzi sempre, è disseminato di sassi, buche e rovi con i quali ogni giorno è messa a prova la tua perseveranza e fiducia per continuare. “Nel suo cammino quaggiù la nostra vita non può sottrarsi alla prova… dal momento che il nostro progresso si realizza attraverso la prova; nessuno conosce se stesso senza essere stato messo alla prova, può essere coronato senza aver vinto, può vincere senza aver combattuto” (Agostino, Enarr. Ps).

    Le prove sono “notti” di angoscia e di disperazione in cui tutto sembra incerto, inutile, offuscato, inconsistente, vuoto. E’ facile cadere nel nulla e per questo è importante cadere ai piedi del Crocifisso disceso nella sua passione in questi inferi, identificarsi col Cristo agonizzante sulla croce “senza conforto”. Le prove sono il crogiolo della purificazione di noi stessi, esperienza di deserto e di pura fede.

    Ogni giorno devi fare i conti con tante realtà che tu stesso ti trovo a dover gestire senza che tu le abbia scelte; si tratta di quelle alterità che ti abitano e che sono estranee al tuo volere e al tuo desiderio: sono l’alterità dell’inconscio, l’alterità di una affettività avida e di una sessualità mai pienamente integrata, l’alterità della tua aggressività mai totalmente vinta, l’alterità della tua sete di potere e di prestigio… per giungere poi all’alterità del peccato, del momento di crisi, della malattia e della morte.

    Mentre cammini non avrai mai finito di fare i conti con queste tue alterità.

    Esse tuttavia, lo insegnano tutti i maestri spirituali, possono svolgere, se accolte e lette in modo giusto, un ruolo essenziale nel cammino spirituale: fanno sì che venga smantellata quell’”immagine di sé” o del “sé immaginario” che ci abita, che è essenzialmente diversa da ciò che realmente siamo e che è il più grosso ostacolo ad un autentico cammino spirituale..

    Le prove, fanno appello alla tua libertà, e ti provocano all’alternativa di rifiutare e finalmente di accettare di essere diverso da ciò che pensi di essere, diverso da quello che gli altri si aspettano da te o dicono di te, nell’accettare di rinunciare a ciò che non hai e non puoi avere: Tu dici: Sono ricco, mi sono arricchito; non ho bisogno di nulla. Ma non sai di essere un infelice, un miserabile, un povero, cieco e nudo (Ap 3,17).

    Ovvero l’autentico cammino spirituale ti porta a ritrovare te stesso nella verità di Dio che ti precede: una verità alla quale si accede e ci si consegna.

    Alcune prove fanno parte del cammino di tutti, certamente ne esistono tante altre.

    L’esperienza del peccato

    Una via che ti può permettere di accedere alla verità di te è il peccato, che se vissuto in un’ottica di fede può trasformarsi in felix culpa.

    Il peccato ti fa fare esperienza di una lacerazione, di una frattura in te stesso… Ti rendi conto di aver intrapreso una strada sbagliata per ricercare la vita, l’ assoluto, la felicità di cui sente sete  nel profondo di te stesso.

    L’esperienza di peccato ti rimanda così un’immagine povera, limitata, carente di te stesso, ma è quella vera: Allora rietrò in se stesso e disse: quanti salariati in casa di mio Padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame (Lc 15,17).

    La salvezza passa per questa strada, essa non ti nasconde a te stesso. Anzi il sentirsi realmente peccatori è la base per poter fare esperienza dell’essere salvati (cfr il pubblicano al tempio, la prostituta in casa del fariseo, la samaritana, il buon ladrone…). Ti rende possibile alzare lo sguardo e attendere che sia l’Altro, che ti ama e conosce al di là di tutte le nostre pretese immagini, a rialzarti e a farti continuare il cammino. Fai la felice esperienza di essere accolto e amato proprio nel momento in cui sperimenti l’inaccettabile che è in te. Ti ritroviamo non condannato ad una perfezione impossibile ma salvato da un amore che ti precede.

    La crisi

    E’ fare esperienza del naufragio nel proprio cammino. Tutto appare perduto irrimediabilmente. “Istintivamente, come avviene per i naufraghi, uno si guarda attorno alla ricerca di un qualcosa a cui aggrapparsi, e quell’occhiata tragica e ansiosa, assolutamente sincera perché è in gioco la vita stessa, farà sì che uno cominci a mettere ordine nel caos della propria vita. Le sole idee genuine sono quelle che germogliano nella testa del naufrago. Tutto il resto è retorica, posa e farsa. Chi non si sentirà almeno una volta davvero perduto è irrecuperabile, perché non ritroverà mai se stesso, e non potrà sollevarsi per fronteggiare la propria realtà” (Ortega Gasset, La rivolta delle masse).

    E’ una fase di destrutturazione di sé, e della propria immagine. Le proprie certezze crollano: ci si sente mancare la terra da sotto i piedi. Tutto appare inutile e falso. Devi rinunciare alla pretesa di condurre la tua vita secondo te, a modo tuo, sotto il tuo controllo.

    Essa è strada maestra di purificazione.  Essenzialmente dall’illusione religiosa stessa. Si intraprende infatti un cammino che va dal mio Dio a Dio. E’ morte di un Dio visto al specchio. Soltanto che morto questo Dio non rimane più niente. A cosa agganciare la propria vita? Scegliere il ripiegamento? La crisi mette in causa la mia pretesa di condurre la vita secondo me, a modo mio, sotto il mio controllo.

    Essa apre alla necessità dell’autenticità. Riconduce la vita alla sua autenticità di esistenza umana. E’ esperienza dello scendere nell’abisso dello scheol. Ma questo abisso è il luogo dell’evangelo in “presa diretta”: è il varco attraverso il quale può entrare il risorto.

    Chi passa per questo fuoco sa che non può più far finta di niente, che continuare a vivere come prima, a camminare come prima e sulle strade di prima, sarebbe mentire a se stessi, anche se rimane forte la tentazione di farlo, di tornare indietro agganciandosi di speratamente a qualche certezza crollata che si cerca in tutti i modi di rianimare inutilmente. Non ci si accontenta più di ripetere e ripetersi, si sa’ che in questo cammino di purificazione occorre andare fino in fondo. Vincendo l’angoscia di una soluzione immediata.

    Occorre stare attenti: “a causa di quel che ha di prova, della crocifissione che vi avviene, si può esser tentati di respingere questa esperienza, in cui la fede è come bruciata al fuoco d’una esigenza implacabile di verità, senza che si sia padroni di quel che ne uscirà. Si può respingerla da sé, rifiutarla in altri, farsi sordi a tutto ciò che potrebbe venirne fuori. E sarebbe, naturalmente in nome della fede, per mantenerla, difenderla, confortarla presso i deboli, farla parlare alto e forte… Ma la rigidezza di questa fede così sicura di se stessa, la sua intolleranza, la sua durezza verso coloro che sono nella prova del fuoco, danno da pensare alla segreta paura che l’abita. Credo di vedere o capire, qui o là, una sicurezza di questa specie; temo che prepari solo duri risvegli”.(Billet).

    La malattia

    Tutta la scrittura ci presenta la malattia come fase difficile, pericolosa per la fede (cf Giobbe). Essa può tramutarsi in sasso d’inciampo, in scandalo sul cammino. La sofferenza va sempre in senso contrario alle nostre aspettative, essa sembra bloccare l’itinerario della vita. E’ una vera prova perché né prevista né programmata. E’ una strada che non si vuole e che si ignora. Ma vi ci siamo costretti, come Simone di Cirene è costretto a a portare la croce sulla via del Calvario.

    La malattia è un’esperienza, non solo di dolore fisico ma soprattutto di sofferenza interiore spirituale (non è mai solo sofferenza fisica!), talmente profonda e sconvolgente che spesso risulta difficile da integrare: la rivendicazione, il rimpianto, il ripiegamento, la ribellione sono risposte comuni… ma sono sforzo inutile e indefinito di restauro, di provocazione paranoica di  un’immagine di noi stessi che non è più. Ci si sente forse inconsciamente colpevoli di non corrispondere all’immagine che avevamo di noi stessi. Essa domanda a noi un atteggiamento di accettazione della vita, di una volontà di “rimanere” nonostante il grigiore e l’impotenza.

    Tuttavia questa esperienza può rimandarci a quella parte di noi stessi che era nascosta dall’immagine. Il nostro lato nascosto, il più vero, viene svelato dalla lacerazione provocata dal dolore.

    Questa lacerazione può permettere di recuperare la vera immagine di se stesso nella propria totalità: essa può trasformarsi in ritrovamento felice.

    In mezzo al mutare delle immagini con le quali ci identificavamo ci viene rivelato, provocatoriamente ma provvidenzialmente, il luogo della permanenza della nostra vera identità e luogo in cui ci è reso possbile l’incontro con Dio. “Quando sentirò che vengo meno e me stesso, assolutamente passivo nelle mani delle grandi forze sconosciute che mi hanno formato, in tutte queste ore oscure dammi, mio Dio, di comprendere che sei tu che scosti dolorosamente le fibre del mio essere per poter penetrare fino al midollo della mia sostanza, per trasportarmi in te” (Theillard del Ch.).

    La malattia non è pausa nel cammino: “La sofferenza non è più qualcosa di accidentale, un ulteriore peso fastidioso che s’aggiunge sulle nostre spalle: ma si trasforma in via” (Yves de Montcheuil). “”Lontano dal lavoro che è l’oppio dell’ansia nascosta dell’esistenza d’oggi, lontano dal moto quotidiano e dalla salute spiegabile per se stessa; si procede verso qualcosa che è solo un passaggio e non una meta stabile, verso il dolore, l’impotenza, la disposizione su di noi da parte di un estraneo sconosciuto” (K. Ranher).

    La morte

    Negli schemi di itinerari spirituali passati, preoccupati della dimensione ontologica dell’uomo, si è tralasciata l’esigenza di inserire il termine dell’itinerario dell’esistenza umana terrena che è la morte. In un certo senso la vita spirituale veniva ad essere identificata non col naturale e logico sviluppo della persona destinata a far esperienza della morte, ma con una vita solamente interiore che raggiunta la pienezza e la perfezione non avere più nulla da attendere. Forse si potrebbe parlare di una “de-escatologizzazione” della vita spirituale.

    Ma è importante alla luce di una comprensione dell’uomo come “viator”, anzi è indispensabile che la vita spirituale si confronti con la morte, con quella “fine” tragica del suo cammino umano e spirituale.

    La morte, come l’anzianità, fa parte reale, concreta di ciascuno di noi. E queste realtà sono chiamate ad essere interpellate dall’esperienza di fede, e devono essere integrate e rientrare nel cammino spirituale.

    La vecchiaia, la morte… si presentano come logorio, peggioramento, degradazione del processo biologico e psicologico. Questo aspetto negativo è reale: il cammino della crescita umana e cristiana subisce una lenta flessione e infine una violenta rottura. La pienezza, quindi, era provvisoria, instabile, relativa, non era ancora in possesso dell’uomo. La pienezza vera è al di là, non è normale continuazione del processo regolare: giunge più tardi per puro dono di Dio che sottopone a un cambiamento radicale di qualità tutte le antecedenti realizzazioni dell’uomo” (F.R.Salvador).

    E’ la linea logica dell’esperienza battesimale. La morte fisica è esperienza ultima e radicale del proprio battesimo. E’ il coronamento ultimo, anche se ripugnante e doloroso, dell’itinerario spirituale che attende solo da Dio il raggiungimento della meta, la massima realizzazione della nostra crescita. e conformazione a Cristo

    La morte si presenta quale punto di convergenza di tutta l’esistenza, punto di chiusura in cui le coordinate di tempo e spazio si annullano per aprirsi immediatamente all’infinito e all’eterno di Dio, in una esplosione di vita. “Proprio per penetrare definitivamente in noi, Dio deve, in qualche modo, scavare dentro di noi e crearsi un vuoto che diventerà il suo posto. Per poterci assimilare, Egli deve rimaneggiare, rifondere, spezzare le molecole del nostro essere. La morte ha il compito di praticare, fin nel più intimo di noi stessi, il varco necessario. Ciò che per natura era vuoto, la cuna, ritorno alla pluralità, può diventare, in ogni esistenza umana, pienezza e unità in Dio” (Theillard de Ch., Ambiente divino).

    Comprendiamo l’importanza ascetica data al memento mori. Il ricordo costante della morte fa sì la quotidianità della mia esistenza assuma il carattere di grandezza, densità, pienezza, senza le quali mi ridurrei a “fiacco, esangue, osceno, capace solo di digerire” (Sartre).

    SCHEDE

    Nel mio cammino ho incontrato ed incontro innumerevoli ostacoli e difficoltà.

    Come vivo la mia esperienza di peccatore? Avverto il peccato come inciampo o forse con indifferenza In che senso esso è per me inciampo?

    Vi possono essere stati o esserci momenti di crisi. Se sì: come mi pongo di fronte ad essi? Quali sentimenti suscitano in me? Che incidenza hanno sul mio cammino? Che lettura do ad essi? Che insegnamenti di vita ne ho ricavato?

    Di fronte all’esperienza della malattia e al pensiero della morte che cosa avverto in me? Quali sentimenti? Come vivo l’esperienza della mia fragilità di essere umano destinato alla morte? Il pensiero della morte che ruolo riveste nella mia vita, che portata ha?

    Lettura

    Un momento inevitabile

    C’è durante la traversata del tempo, durante l’esistenza di ogni uomo normale, un momento inevitabile e direi quasi desiderabile. Sì, è il momento di una scoperta abbastanza sgradevole: io non sono che questo, l’uomo non è che questo, e la terra e la vita. E’ la manifestazione dei limiti, della precarietà dei mezzi, della relatività dei valori, delle ferite forse inconfessabili, del peccato del mondo, della terribile tragicommedia della storia profana o sacra e dell’incarnazione di questa “vocazione”, la mia, che decisamente non si realizzerà affatto come sta scritto nei libri… E’ un intorpidimento, una sclerosi, un indurimento dell’essere, un pessimismo oppure un impeto di collera che isola, trincera o divide: la disperazione di quelli che sono o si credono imbrogliati… Occorrerebbe prima di rendersi conto della “normalità” di un’esperienza del genere. Il fanciullo che eravamo, l’adolescente dei grandi sogni, il giovane che si realizzava sono diventati poco a poco quest’uomo, questo adulto. Allora avviene come una nuova nascita, fisiologica, psichica o anche spirituale. Tutto quello che era stato conosciuto e accettato o creduto in una maniera speculativa, teorica, diventa problema vitale che tormenta la carne e il cuore: la mia famiglia, il mio lavoro, la mia fede, l’attaccamento alla mia chiesa e, per un religioso, questi voti pronunciati nell’entusiasmo dei vent’anni che ora prendono il loro vero volto, il loro vero valore. Eppure quel momento non è tragico; oserei dire anzi che può essere un’ora benedetta poiché l’uomo diventa finalmente se stesso, quest’essere dalle dimensioni infinite e così limitate, questo pellegrino dell’assoluto in cammino sulla terra, alle prese con il relativo, con il resto, con le apparenze dorate della vita. Egli arriva cioè al punto in cui la speranza teologale deve assumere tutta la sua portata, spiegare le sue ali in tutta la loro larghezza per sperimentare a fondo l’universale povertà. Questo non significa affatto che l’uomo diventi distaccato, indifferente, relativista, ma la prova a cui viene sottoposto è un’offerta: “Accetterai che il tuo cuore si riposi solo entrando nella sala del banchetto?”. (A. Lassus, I nomadi di Dio, Torino 1976, pagg. 71ss.)

     

  • 19 Giu

    L’ITINERARIO di PAOLO della CROCE

     

    a cura di p. attilio franco fabris

    cfr E. Zoffoli, San Paolo della Croce, pp. 174-238

     

    Paolo della Croce , inserendosi in una tradizione che fa riferimento al Taulero, alla scuola Carmelitana e a Francesco di Sales, propone nella sua direzione spirituale un cammino che potremmo definire, in analogia all’opera giovannicruciana, la Salita al Monte Calvario. Esso si attua in diverse fasi, che vanno però considerate come interagenti e simultaneamente elevantisi, a mo’ dispirale, verso la meta: questa è la conformità al puro patire d’amore del Crocifisso in obbedienza al Padre. Una meta certamente ardua, essa “da le vertigini” ad osservarla con occhi puramente umani tanto essa è azzardata ed esigente. Questo cammino è reso possibile solo se già alla partenza si è corredati da purità d’intenzione, dal desiderio di amare, dalla discrezione e dal fiducioso abbandono alle mani di Dio, il “divino artefice” di questo avanzare.

    Esso si articola in tre grandi fasi: la morte mistica, la divina rinascita, la vita nuova.

    Ci lasciamo accompagnare dalle sue stesse espressioni.

    LA MORTE MISTICA

    Questa prima fase è interiore, determinata soprattutto da uno sforzo ascetico personale progressivo, discreto sotto la sguardo prudente della propria guida spirrituale.  Essa tende ad eliminare tutto ciò che nell’uomo – in seguito al peccato originale e ai peccati personali – contrasta con il piano di Dio che ne vuole la più alta santità attraverso una partecipazione alla Passione.

    “Eliminare” significa “riprovare il peccato” con la penitenza, e quindi correggersi, emendarsi vale a dire “morire a se stessi” in tutto ciò che di non-autentico – quindi di falso, ridicolo, umiliante – ciascuno scopre in sé ma alla luce sempre di Dio.

    Da notare come Paolo insiste che ciò che deve presidiare questa fase deve essere sempre l’energia della grazia (la caritas).

    Sono tre le tappe attraverso cui l’anima giunge a questa morte mistica in sé.

    A. Morire al mondo esterno

    Significa  liberarsi dall’affetto disordinato verso i beni sensibili. Si tratta di rinunciare alle ricchezze, agli affetti disordinati, ai comodi e ai piaceri della vita in vista di beni più grandi: L’amor di Dio è geloso: un granello di affetto non ordinato delle creature basta a rovinar tutto… stia attentissima di non lasciare attaccare il suo spirito a cosa veruna creata, e procuri sempre più di staccarsi da tutti e da tutto, compiacendosi solamente di far la volontà di Dio in un nudo penare senza cercare conforto da nessuno.

    Paolo insiste anche sul coltivare per arrivare a ciò la solitudine interna ed esterna, che simbolo di nascondimento, distacco e riserbo, aiuta a morire a tutto ciò che non è Dio:  sola, sola: Dio e non più. Oh sacro deserto! Oh divina solitudine, in cui l’anima, astratta da tutto il temporale, si perde tutta nell’eterno infinito Bene… L’anima ricordi che mai abbastanza troncherà.

    B. Morire a se stessi

    Non basta morire al mondo esterno, anche perché se non ben inteso potrebbe suggerire la diabolica illusione di autonomia e autosufficienza, allontando di molto da Dio. Paolo della Croce perciò fa comprendere l’urgenza di interiorizzare il processo di morte, fino a raggiungere la regione più occulta e gelosa della persona umana e colpire la vera radice di ogni male che allontana da Dio.   Il cammino qui si fa in discesa, al centro di sé stessi: la cognizione di se stesso, delle proprie miserie, del proprio essere nulla, nulla potere, nulla sapere, è il fondamento su cui innalzare si deve la fabbrica delle virtù e della nostra perfezione…

    Ma sempre e solo sotto lo sguardo di Dio, se ciò non fosse lo spirito sarebbe indotto alla disperazione: sia fedele principalmente nel rinnegamento di sé, nel proprio disprezzo, nello starsene in un continuo annichilamento avanti a Dio. Sei quella che non sei! disse Dio ad un’anima grande, ed io sono colui che sono! Ego sum! Oh che nobile esercizio è mai questo di annichilirsi davanti a Dio in pura fede, senza immagini.

    C. Morire a tutto il divino

    Dio viene colto come propria e unica Origine, è lui la Meta più desiderata verso la quale dirigersi. E per raggiungerla l’anima deve giungere a rinunziare anche a quel divino che, per quanto in sé degno e sublime, non è però lo stesso Dio colto secondo lo spirito e la verità. Qui s.Paolo fa riferimento alle consolazioni, alle grazie e gioie spirituali che potrebbero attirare l’anima bloccandola però alle sole consolazioni di Dio, evitandole la tensione verso il Dio delle consolazioni: perciò Dio ai suoi servi legge due lezioni al giorno: d’afflizione e di ristoro. In altri termini  non rimiri né si attacchi ai doni per non perdere di vista mai il sovrano Donatore.

    A ciò si arriva tramite progressive purificazioni: il “nascosto tesoro” delle aridità, delle notti del senso e dello spirito: Quando, quando saremo morti a tutto per vivere solo al nostro Dio?… Oh morte preziosa, più desiderabile della vita! Morte che ci rendi divini, perché tutti trasformati in Dio per amore! Orsù, aspiriamo a questa morte a tutto il creato! Ma per morire vi bisogna patire molti dolori: chi puol mai esprimere i dolori che patiscono quei che muiono della morte corporale? Basta dire che sono tanti e sì grandi che fanno licenziare l’anima dal corpo. Così, in certo qual modo di dire, succede ai servi di Dio che muiono a tutte le consolazioni. Oh che desolazioni biosgna patire! Che aridità! Che malinconia! Che oscurità di mente! Che timore d’inganni! Che affanni per gli abbandonamenti, che pare alla’anima abbia perso Dio! Tutte queste sono disposizioni e mezzi per morire a tutte le creature e vivere solo a Dio e per Iddio…

    All’anima in questa fase di prova e purificazione si richiede fiducia, abbandono, perseveranza, umiltà e silenzio. Questa fase di segreta crocifissione interiore è già una prima partecipazione al mistero pasquale di Cristo. Essa infatti ha senso solo alla sua luce, allora l’anima può godere di stare sulla croce ma con Gesù Cristo.

    LA MISTICA RINASCITA

    Dato che la “morte mistica” non è mai definitiva né la “nuova vita” è mai perfetta, la “mistica rinascita” rappresenta una fase che si ripete, a mo’ di spirale, a livelli sempre più alti, secondo che l’azione della Grazia si fa più profonda e l’anima vi aderisce con docilità sempre più incondizionata.

    A. Il Verbo nell’anima e l’anima nel verbo

    Solo se il Verbo nasce, è possibile alla creatura una rinascita in lui e per lui. La nostra filiazione divina è resa possibile solo nel Figlio. Il Verbo rinasce infinite volte nell’anima allo scopo di parteciparla alla sua filiazione: Stia ben chiusa nel suo interno con profondissima cognizione dell’orribile suo nulla, ché in tal forma si celebrerà nel suo spirito la divina natività del Verbo divino umanato nel silenzio della notte della santa fede e del santo amore. Alla rinascita del Verbo, e siamo nella mistica giovannea della mutua reciprocità, nell’anima corrisponde un’effettiva rinascita dell’anima nel Verbo: Ogni volta che l’anima si raccoglie tutta in Dio, nel tempio interno del suo spirito, rinasce a nuova vita d’amore nel divin Verbo Cristo Gesù… celebri il santo Natale nell’interno del suo cuore dove il dolce Gesù nascerà spiritualmente e lei rinascerà a nuova vita d’amore in esso.

    B. L’anima rinasce “dentro di sé in Dio”

    Quale il luogo dove si svolge la mistica rinascita? La risposta del santo è chiara: Voi sapete per fede che Dio è tutto in voi e voi tutta in Dio, e più siete in Dio che in voi stessa. Se Dio dunque è nell’anima dove il Padre genera il Verbo,  e se l’anima è in Dio, dove essa è rigenerata, ne consegue che “luogo” è sia l’anima per Dio che Dio per l’anima: Oh fortunata l’anima che, ben purgata da’ vizi, astratta da ogni cosa creata e in un profondo annichilamento, se ne sta nella santa divina solitudine con profondo raccogliemento  interiore, poiché in tal deserto riposa in sinu Patris e rinasce ogni momento nel divin Verbo a nuova vita di santo amore, a vita divina.

    L’incontro con Dio e l’anima è il risultato della libera iniziativa di Dio che si dona, e della docilità e disponibilità dell’uomo che lo riceve in pura fede esso progredendo assume i caratteri di una compenetrazione: Dio in voi e voi in Dio… Dio si ciba dirò così, che non ho termini, Dio si ciba del vostro spirito e il vostro spirito si ciba dello spirito di Dio… Dio tutta vi penetra e voi tutta in Dio. L’anima allora si lascerà “incenerire” dal fuoco d’amore, si “scioglierà” come un granello di cera per la “gloria del Sommo Bene Iddio”.

    Così l’anima viene da lui paragonata al “romitorio” dove Dio si ritira, il suo “monastero”, è la “stalletta interiore”, un “giardino” da tenersi pulito netto e ornato di virtù. Ma è soprattutto il “tempio interiore” dove bisogna adorare l’Altissimo in spirito e verità.

    C.”In pura fede e santo amore”

    La mistica rinascita comporta non solo l’eliminazione di ciò che ostacola la perfezione della vita divina, bensì anche il cominciare a “parteciparla” in pura fede e santo amore. E’ questa una fase che configura alla vita del Risorto.

    Occorre “pura fede” perché in questo nostro tempo non si dà altra partecipazione alla luce del verbo che nelle tenebre della fede ove Iddio tiene il suo trono in una luce inacessibile. Per accedere a Dio bisogna che l’anima entri in questa nube oscura della non conoscenza: bisogna umiliarsi, annichilirsi ed abissarsi nello stesso nulla, spogliandosi affatto di tutte le immagini delle creature, e poi, in pura fede, abissarsi tutta in Dio, ed ivi riposarsi nel suo seno divino, ma senza nessuna immaginativa, perché Dio non cade sotto immagini, perché è uno spirito puirissimo e semplicissimo, abisso senza fondo d’infinite perfezioni!  Oh fede oscura, guida sicura del santo amore! Oh qual dolcezza la tua certezza mi reca al cuore.

    Il dinamismo per perseverare in questa fede oscura è dato dall’amore frutto dello Spirito, missione invisibile del Verbo.  E’ la caritas dunque che, come partecipazione dello Spirito del Figlio, realizza in grado eminente la “mistica divina natività” nel seno del Padre: Con sentimenti di totale annientamento e spogliamenbto si butti con ogni fiducia in quell’abisso d’ogni bene, e lasci la cura a quell’infinita bontà di fare la sua divina operazione nell’anima sua, cioè di trapassarla coi raggi della sua divina luce, di trasformarla tutta in sé per amore, di farla vivere del suo divinissimo Spirito, di farla vivere vita d’amore, vita divina, vita santa.

    LA VITA NUOVA

    La nuova vita inizia dal primo istante in cui l’anima, cedendo alla Grazia che la previene, muore a se stessa e rinasce nel Cristo. Vita che si evolve nella misura in cui la morte si fa più totale, per cui anche la rinascita avviene ad un livello sempre più alto di conformazione al Risorto.

    Quando Paolo della Croce allude ad una vita nuova allude ad una vita talmente esuberante nell’amore che, raggiunti livelli sempre più alti, rende partecipi della stessa opera stupenda del divino amore che è la Passione. Vertice dunque del cammino non è una vita nuova che vede l’anima finalmente unita a Dio, ma il vertice si apre ad una com-passione con il Cristo che continua a soffrire  nelle sue membra. L’anima porta a compimento ciò che manca ai patimenti di Cristo. S. Paolo della Croce addita una meta ancora più “vertiginosa” che s. Giovanni della Croce nella sua Salita al Monte Carmelo.

    A. Dialogo con Dio

    La nuova vita trova il suo normale e diretto orientamento nel dialogo con Dio che si attua nella preghiera  liturgica e in quella personale: in questa l’anima farà attenzione, dopo gli sforzi dell’iniziazione a secondare gl’impulsi dello Spirito santo e a lasciarsi guidare come vuole sua Divina Maestà.

    L’oggetto privilegiato per giungere a questa contemplazione è Dio Uno-Trino raggiunto attraverso la Passione quale sua rivelazione più estasiante, via sicura e porta che conduce all’intima unione con Dio.

    Paolo della Croce, per dua diretta esperienza mistica, non tralascia di sottolineare costantemente che la “via” è l’Uomo Cristo Gesù, Mediatore universale. Egli è certo che non si puole passare alla contemplazione della Divinità infinitissima ed immensissima, senza entrare per la porta dell’Umanità divinissima del Salvatore. E l’Umanità del Salvatore non contemplata nella sua gloria e potenza, ma nella umiliazione e sofferenza della Passione, perchè questa è l’opera più grande e stupenda del divino amore.

    Ora questa contemplazione dell’opera stupenda del divino amore non può lasciare indifferente l’anima: sarà una contemplazione dolorosa e amorosa nello stesso tempo.

    Qui si inserisce un ulteriore passaggio. L’anima che contempla l’Amore crocifisso viene spinta dallo Spirito a conformarsi partecipandovi attivamente a tale amore, il che significa donarsi agli altri fino a realizzare la misura indicata dal “comandamento nuovo”, ovvero fino ad amare il prossimo non solo “come se stessi”, bensì “come il Cristo” è giunto ad amarlo. Si supera ogni modo umano di intendere l’amore.

    Si condivide la sua passione che, in lui unico Giusto, assume il carattere di riparazione per gli altri. Sarà una com-passione animata dallo stesso amore del Figlio – e di Maria – per il Padre e i fratelli; amore che, raggiunta la perfezione, come procura la pena più crudele per l’offesa di Dio, così rende sensibili in modo terribilmente angoscioso alla sorte infelice del mondo. E’ questa la vetta della Salita al Calvario in cui si trova il purissimo patire senza conforto né dal Cielo né dalla terra… Sento che siete spogliata d’ogni sollievo e ne ringrazio Dio benedetto, perché ora vi assomigliate più allo Sposo divino, abbandonato da ogni conforto mentre stava moribondo in croce; ma in tale abbandono fece il gran sacrificio e lo perfezionò con l’ultime parole che disse, e furono: Padre, nelle vostre mani raccomando il mio spirito. E ciò detto spirò l’anima sua santissima nelle mani dell’eterno Padre, e compì l’opera dell’umana redenzione. Così fate voi.

    Si tratta di una “morte mistica” diversa dalla prima di carattere ascetico: si tratta di una morte riparatrice aperta al mondo. Si  fanno propri i patimenti di Cristo.

    Questa unione trasformante non segna il termine del cammino, ma è un nuovo avvio ad una serie di pene interne ed esterne, destinate a conferire il massimo contenuto a quella vita nuova d’amore che in conformità al crocifisso, avanza verso la desolazione del puro patire senza conforto. E’ la sequela perfetta.

    Paolo della Croce propone un cammino spirituale estremamente esigente compiuto ai piedi della croce, che ha per meta lo stesso Calvario di Cristo. Se si tiene indelebilmente scritta nel cuore la santissima vita, passione e morte del dolcissimo Gesù, sacrificato sul Calvario per la redenzione del mondo, non può non orientare il pellegrino verso questa sublime esperienza. E’ questo il fare Memoria Passionis

  • 18 Giu

    “Stabat”
    Gv 19,25-27


    di p. R. Cantalamessa

     

    Maria la “pura agnella”

    Come Cristo nel Getsemani e sulla croce così Maria ha bevuto anch’essa il calice della passione. Era accanto a Cristo in quelle ore di tormento: ha visto tutto, ha udito tutto… Sue sono le parole di Geremia: “O voi tutti che passate per la via, considerate e osservate se c’è un dolore simile al mio dolore” (Lam 1,12).

    Sotto la croce sono menzionate quattro donne. Tutte sono raccolte ai piedi del patibolo. Maria non era dunque sola, tuttavia ella è lì come “sua madre”: è una situazione totalmente diversa dalle altre donne. E’ il dolore della madre che si vede strappare l’unico figlio. Come ha vissuto Maria quelle ore di agonia accanto al Figlio?

    Di Maria non ci sono riferiti grida o lamenti, come quelli delle donne che accompagnano il corteo dei condannati (Lc 23,27). La presenza di Maria sotto la croce è avvolta da un profondissimo silenzio: le parole non bastano più, ora sono superflue.

    Maria fu tentata in quel momento nella fede? Lo fu come Gesù stesso fu tentato nel deserto. Una tentazione profondissima e dolorosissima perché aveva come motivo proprio il Figlio depositario di tutte le promesse.

    In quelle ore vede Gesù che non fa nulla. Liberando se stesso libererebbe anche lei da quel straziante dolore: ma non lo fa. Ma Maria non grida come tutti gli altri: “Scendi dalla croce; salva te stesso e me”! oppure: “Hai salvato gli altri, perché non salvi te stesso figlio mio?”. Non si sarà affacciato questo pensiero al suo cuore di madre?

    In quelle ore Maria sta accanto all’Agnello, come “pura agnella” (autore del III sec). Si unisce al sacrificio di Cristo, nella fede si abbandona alla volontà del Padre seppur così incomprensibile: “Anche la beata Vergine ha avanzato nel cammino della fede e gha conservato fedelmente la sua unione con il Figlio sino alla croce, dove, non senza un disegno divino, se ne stette ritta, soffrì profondamente col suo Figlio unigenito e si associò con animo materno al sacrificio di lui, amorosamente consenziente all’immolazione della vittima da lei stessa generata” (LG 58).

    Capiamo allora come Maria non sta “presso la croce” di Gesù solo in senso fisico, ma soprattutto in senso spirituale..

    Era unita alla croce di Cristo. Soffriva nel suo cuore quello che il Figlio soffriva nella sua carne. Si realizzano in profondità le parole profetiche del vecchio Simeone: “Una spada trapasserà la tua anima e renderà manifesti i pensieri di molti cuori” (Lc 2,35). Anche il cuore di Maria viene trafitto e svelato dal mistero della croce!

    Se a Cana Gesù dice: “Che c’è tra me e te, o donna, non è giunta ancora la mia ora” (Gv 2,4), sul Calvario l’”ora” è giunta, e lì c’è la Madre: tra loro un’intimissima comunione di sguardo, di fede, di amore, di sofferenza. Gesù è consolato dalla presenza della Madre e su di lei fissa lo sguardo per trovare forza. Quale mistero in quegli occhi che si incrociano?

    Sul calvario Gesù e Maria divengono una cosa sola: portano insieme il peso del dolore e del peccato del mondo. Gesù direttamente in quanto vittima di espiazione per i peccati di tutto il mondo, Maria indirettamente per la duplice unione, carnale e spirituale, con il Figlio.

    Insieme adorano la volontà misteriosa del Padre: Maria segue Gesù nella sua offerta: “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito” (Lc 22,46).

    A lei viene chiesto un passo difficile: quello di perdonare. E’ Gesù che la invita a questo quando dice: “Padre perdonali, non sanno quello che fanno” (Lc 23,34). Capì in quel momento che il Padre le chiedeva di fare la medesima cosa. E la fece: perdonò gli uccisori del Figlio.

    Stare presso la croce di Gesù

    Maria è figura e specchio della Chiesa e di ogni anima credente.

    Nella “notizia” della sua presenza ai piedi della croce è contenuta una “parenesi”. Quello che avvenne quel giorno indica quello che deve avvenire ogni giorno: bisogna stare accanto a Maria presso la croce di Gesù, come ci stette il discepolo che egli amava.

    Facciamo attenzione a due aspetti della frase:

    primo: bisogna stare “accanto alla croce”

    secondo: “di Gesù”.

    Anzitutto ci viene detto che la cosa più importante da fare non è stare presso la croce “in genere”, ma stare presso la croce di Gesù. Non basta perciò stare presso la croce, cioè nella sofferenza, magari in modo eroico e silenzioso. L’aspetto decisivo è stare presso la croce “di Gesù”: perché ciò che conta e salva è la sua croce.

    E’ qui tutta la forza e fecondità della Chiesa e di ogni credente.

    Ciò significa entrare in un modo diverso di guardare la vita, il mondo, la gioia, il dolore, la sofferenza. La croce invita ad una conversione perché indica una strada che apparentemente è stoltezza e debolezza mentre in Dio essa è sapienza e forza.

    Qual è il segno e la prova che si crede realmente nella croce di Cristo, che “la parola della croce” non è, appunto, solo una parola, cioè un principio astratto, una bella teologia o ideologia, ma che è veramente croce? Il segno e la prova è prendere la propria croce e andare dietro a Gesù (Mc 8,34).

    È fare della propria vita “un sacrificio vivente”, accettando e ricercando la croce come partecipazione al mistero pasquale.

    La nostra partecipazione alla passione di Cristo non è ovviamente da porsi sullo stesso piano di quella stessa del Signore. Ma di accogliere il fatto che la fede va unita alla opere altrimenti è morta (Gc 2,14s).

    La fede stessa passando attraverso la croce viene sempre più purificata e autenticata.

    La nostra croce in se stessa non è salvezza, né potenza né sapienza: per se stessa è pura opera umana, o addirittura castigo. Ma diviene potenza  e sapienza di Dio in quanto ci unisce alla croce di Cristo non in modo intellettuale, spiritualistico o intimistico: ma in modo “carnale”. Entro “nello spessore della croce” con tutto me stesso.

     

  • 17 Giu

    ANCHE A TE UNA SPADA TRAFIGGERA’ L’ANIMA
    Lc 2,22-32

     

    di p. Attilio Franco Fabris

     

    Quaranta giorni dopo la nascita Maria e Giuseppe presentano Gesù al tempio.

    Il rito è semplicissimo e Luca vi dedica solo un versetto al posto dei venti dedicati a quello del Battista.

    Il testo può essere diviso in tre parti:

    1.       Rito, citazione della Legge (vv 21-24)

    2.       Simeone e il suo duplice oracolo (vv 25-35)

    3.       Anna profetessa (vv 36-38).

    Fusione di due riti

    Secondo il libro del Levitico quaranta giorni dopo la nascita deve aver luogo il rito della purificazione della madre (cfr. Lv 12,6-8). Tuttavia Luca si riferisce pure ad un altro rito, il rito del riscatto del primogenito che affonda le sue radici già nell’esodo. In questo caso è il padre che deve osservare il precetto (cfr. Es 13,1-2).

    Il nostro evangelista opera così una fusione dei due riti: Quando venne il tempo della loro purificazione, secondo la Legge di Mosè, portarono il bambino a Gerusalemme per offrirlo al Signore (2,22).

    Interessante notare come venga offerta una coppia di colombe; era questa l’offerta dei poveri.

    ¤ Nel brano evangelico tuttavia l’accento non è posto sui riti in quanto tali, quanto piuttosto sulla presentazione al Tempio di Gesù stesso. Da notare che presentare può avere anche il significato di offrire in sacrificio. In tale prospettiva la presentazione è prefigurazione di quella donazione totale di Gesù al Padre che si compirà sulla croce. E Maria si unisce a questo sacrificio di offerta al Padre.

     

    ¤ In controluce scopriamo nel brano il riferimento, tipico in Luca, alla vicenda del grande profeta Samuele. Anch’egli fu “presentato” dalla madre Anna al tempio di Silo per essere offerto a JHWH (cfr. 1 Sam 1,22-28).

    L’episodio del ritrovamento di Gesù nel Tempio metterà successivamente in luce che Gesù, come Samuele, è votato interamente al “Padre suo”.

    ¤ Luca suggerisce pure un altro tema di grande respiro biblico: egli vede nella presentazione di Gesù il concretizzarsi di quell’ingresso di JHWH nel suo Tempio già preannunciato dalla predicazione profetica: … entrerà nel suo tempio il Signore che voi cercate, l’angelo dell’alleanza che voi sospirate, ecco viene, dice il Signore degli eserciti (Ml 3,1).

    Un duplice oracolo

    Nella seconda parte del brano entra in scena la veneranda figura di Simeone. E’ orami molto vecchio ed è un testimone di quell’attesa fiduciosa che alimentava la fede di Israele.

    Egli attendeva la consolazione ovvero l’adempimento delle promesse, l’inaugurazione dei tempi messianici.

    Come già Elisabetta, con la grazia dello Spirito Santo che lo riempie, riconosce nel Figlio di Maria l’Atteso: il Messia sospirato.

    ¤ La rivelazione ora non avviene nella grotta o in una casa, ma nel tempio, nel luogo centrale della fede di Israele e della presenza di Dio. I destinatari sono ancora gli anawim, i poveri del signore che attendevano nella preghiera e nel digiuno il compiersi della promessa.

    ¤ Simeone può dunque ora benedire Dio pronunciando parole colme di gioia, riconoscenza e abbandono: Ora lascia o Signore che il tuo servo vada in pace… i miei occhi hanno visto la tua salvezza (vv 29-32).

    ¤ Simeone pronunzia un duplice oracolo: uno su Gesù e uno su sua madre.

    Anzitutto in quell’inerme bambino Simeone vede la rovina e la risurrezione di molti in Israele (v. 33). La prima profezia è un oracolo di “divisione” perché l’avvento di Gesù opera un discernimento nella storia divenendo segno di contraddizione.

    ¤ Ma veniamo al secondo oracolo, quello su Maria.

    La contraddizione unirà la madre al Figlio nel medesimo destino: anche a te…

    La tradizione ha letto in molti modi questo passo evangelico; ad esempio come un annuncio di morte violenta, di sofferenza. Origene vede in quella spada trafiggente il dubbio, altri la lotta contro l’ “antico serpente”. In ogni caso è un testo che sta alla base della devozione a Maria Addolorata trafitta dal dolore sotto la croce del Figlio suo: Stabat Mater dolorosa juxta crucem lacrimosa… Cuius animam gementem contristatam et dolentem pertransivit gladius.

    Maria: la Figlia trafitta di Sion

    Il secondo oracolo riecheggia il “canto della spada” di Ez. 14,17: Se io mandassi la spada contro quel paese e dicessi: Spada percorri quel paese…

    La madre del messia è la prima ad essere colpita. Ella è nel cuore della battaglia pro o contro Gesù. E’ la “Figlia di Sion” divisa, lacerata nel più profondo (cfr. Is 8,14; 28,16; Lc 20,17).

    Ella si situa al centro della divisione dei cuori. La spada annunziata da Cristo trafiggerà anzitutto lei come madre e come discepola.

    La ferita nel cuore di Maria produce una nascita nuova: Maria è la madre del nuovo Israele nato da quella contraddizione  che è la croce (Cfr. Gv 19,26).  Madre della Chiesa ella è madre nella fede, mediante la sua sofferenza causata dal suo amore per il Figlio.

    Deve “perdere il Figlio per ritrovarlo”.

    La Legge della spada di cristo è la legge del perdere per trovare, del distacco che lentamente Gesù insegnerà a sua madre (cfr. 2,33.34; 2,50; 18,34; Mc 3,21.31.35; Gv 2,4).

    Proprio grazie a questo pellegrinaggio nella fede, messa alla prova Maria diviene figura della Chiesa.

    Ella è modello di ogni discepolo di Gesù, in quanto la contraddizione che ella subì nel suo intimo prefigura il destino di tutti coloro che come Lei accolgono la Parola che è spada  a doppio taglio nel loro cuore (cfr. Lc 8,21;21,16).

  • 16 Giu

    Videro il Bambino e sua Madre
    Lc 2,1-7


    di p. Attilio Franco Fabris

     

    Accostiamoci in punta di piedi al mistero dell’amore di Dio, rivelatosi nell’Incarnazione del verbo nel seno della Vergine Madre.

    Noi professiamo la fede in questo mistero nel Credo: Per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo, e per opera dello Spirito Santo si è incarnato nel seno della vergine Maria e si è fatto uomo.

     

    Maria, con il suo appellativo più proprio di “vergine”, appare qui, nel cuore della fede cristiana, inscindibilmente unita al mistero di suo Figlio. Ella appartiene così, in modo tutto proprio, alla storia della salvezza.

    Le coordinate lucane

    Il testo evangelico nel quale più chiaramente appare l’unione inscindibile di Maria con Cristo è il cosiddetto “vangelo dell’infanzia” narrato da Luca nei primi capitoli del suo vangelo.

    L’Incarnazione del verbo per essere veramente tale deve poter iscriversi in quelle coordinate proprie dell’esistenza di ogni uomo: quelle dello spazio e del tempo.

    Ed  è appunto la premura di Luca nel raccontare l’incarnazione.

    ¤ La coordinata dello spazio è data da Betlemme, la “Casa del Pane”, un villaggio famoso per la storia biblica per aver dato i natali al grande re Davide, e che, secondo l’oracolo profetico di Michea doveva dare i natali anche al nuovo Davide, il Re-messia: E tu Betlemme di Efrata, così piccola per essere fra i capoluoghi di Giuda, da te mi uscirà colui che deve essere il dominatore di Israele (5,1).

    E’ per questo che Luca chiama Betlemme con l’appellativo riservato generalmente alla città santa di Gerusalemme, Città di Davide.

    Betlemme, il piccolo villaggio a sud di 7 chilometri da Gerusalemme, è destinata a divenire in qualche modo il centro del mondo, dello spazio, luogo di congiunzione tra il mondo di Dio e quello dell’uomo.

    L’insignificante mangiatoia, in Cui Maria avvolge in fasce il Figlio, è il centro dell’universo (cfr. L’icona della Natività)., luogo in cui riposa nascosta la gloria vivente di Dio, trono del nuovo Davide. Sono ancora le scelte estrose di Dio.

    ¤ La seconda coordinata è data dal Tempo. Un tempo ben preciso, scandito da nomi e fatti storici. Luca ci parla di un primo censimento, ci informa su un certo governatore Quirino e dell’imperatore Cesare Augusto. Nomi e fatti che la storia profana conosce.

    La storia del Dio incarnato si innesta silenziosamente nella storia dell’umanità, per trasformarla ed innalzarla, per inserirla nella salvezza che Dio vuole donare all’uomo.

    Così lo spazio e il tempo,  circoscrivono il “fatto dell’evento” impedendogli di sfuggire nel mitico, nell’ideologia.

    Diede alla luce il suo Figlio…

    La nascita di Gesù avviene di notte. “Questa notte che sboccia senza fretta è il giorno dell’Altissimo… il primo giorno del mondo redento” (Sertillanges).

    Secondo la tradizione giudaica tutti i grandi eventi accadono di notte: la notte della creazione, della chiamata di Abramo; dell’esodo, della nascita del Messia.

    Questa notte è dunque giunta e avvolge di luce il mondo.

    ¤ Inserirei a questo punto un’ulteriore coordinata che fa sì che l’incarnazione sia veramente tale. Dio per farsi uomo ha bisogno di un grembo concreto, di una madre, ha bisogno della protezione e dell’educazione di un padre, di una famiglia che lo accolga, lo aiuti a crescere.

    Il Figlio di Dio si è fatto realmente “simile agli uomini” (Fil 2), è Figlio dell’Uomo.

    Questa piccola famiglia inizia così la sua storia, così simile alla storie delle nostre famiglie.

    ¤ In quella notte Maria e Giuseppe non trovano alcun riparo, il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo. Egli viene non accolto iniziando l’apprendistato del rifiuto che culminerà nella sua morte in croce fuori delle mura della città.

    A quella piccola famiglia non rimane che accontentarsi di una delle tante grotte sparse nei dintorni, destinate al ricovero degli animali.

    ¤ La nascita di Gesù è descritta da Luca con la più grande semplicità. Maria si trova sola, al contrario di Elisabetta circondata dai parenti. Accanto a questa semplicità, Maria vive l’esperienza della solitudine e della più grande povertà.

    ¤ In questa pericope Luca sottolinea ogni dettaglio. Come non pensare ad esempio a quelle fasce con cui Maria avvolge il neonato, non sono forse una discreta prefigurazione di quelle fasce intrise di sangue che avvolgeranno un venerdì il corpo martoriato di quello stesso neonato divenuto adulto?

    L’iconografia orientale ha saputo esprimere tale concetto in forma pittorica: la grotta diviene la tomba immersa nelle tenebre, il bimbo è avvolto da fasce mortuarie. Il mistero dell’incarnazione fa riferimento inscindibile con il mistero pasquale di morte e risurrezione.

    ¤ Il mistero che si compie in quella notte è avvolto in un clima di grande silenzio: è il clima del mistero, dell’adorazione e della contemplazione.

    Il silenzio sarà rotto solo dall’inno angelico, annuncio al mondo della pace messianica donata in cristo a tutti gli uomini “amati da Dio”.

    Il silenzio di Maria

    Luca ama descrivere i sentimenti, l’intimo dei suoi personaggi. In questo brano con un breve ma significativo passaggio, ci dona di scoprire l’intimo della Madre del Figlio dell’Altissimo. Maria in tutto il brano evangelico non parla. Il suo silenzio è fatto di ascolto, di accoglienza, di docilità: Maria da parte sua serbava tutte queste cose meditandole nel suo cuore (v. 19; 2,51).

    ¤ Richiamando la parabola del seminatore, Maria rappresenta chi ha ascoltato la Parola e la conserva in un cuore onesto e buono (Lc 8,15).

    Più che “conservava” sarebbe meglio tradurre letteralmente dal greco con metteva insieme, cioè collegava i fatti, le parole, le vicende, scorgendovi un disegno un significato più profondo ovvero l’azione divina.

    Maria diviene così immagine del sapiente, di colui che, andando al di là del velo delle cose, dell’apparenza, cerca di penetrare in un silenzio meditativo, nei segreti di dio.

    Tale penetrazione equivale a scoprire la salvezza che Egli va offrendo giorno per giorno.

    Una collisione per un abbraccio

    Terminiamo con una citazione del filosofo S. Kierkegaard: I due mondi da sempre separati, il divino e l’umano, sono entrati in collisione in Cristo. Una collisione non per una esplosione, ma per un abbraccio.

    E’ questo l’abbraccio espresso in modo così intenso e vibrante nell’icona della tenerezza. Il volto del Bambino e della Madre, le quattro mani, sono fusi insieme in un silenzioso abbraccio, in un dialogo fatto non di parole ma di un amore che si dona sino in fondo, un amore aperto a chi accoglie l’invito ad entrare in quel medesimo abbraccio (Maria ci guarda).

    L’abbraccio è la sintesi perfetta del mistero dell’Incarnazione: Dio facendosi uomo, non si impone, non violenta la libertà, non costringe ad entrare in comunione con lui; egli si fa piccolo per invitare, domandare, implorare da noi il lasciarci da lui abbracciare e amare.

    Solo così nella libertà del suo sì, l’uomo può ritrovare, secondo l’espressione di Evagrio l’”immagine che Dio aveva nel crearlo”.

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