• 05 Mag

    DISCONOSCENZA: PERCHÉ?

    Gn 3

    a cura di p. Attilio Franco Fabris

     

    1. EDEN

    Giobbe ci ha detto la duplice difficoltà che prova l’uomo “pagano” dinanzi a Dio:

    – si sente mortale, fragile, destinato alla polvere

    – soffre per l’impossibilità di una relazione con Dio. Questa relazione invece si costruisce sul senso di colpa: una basilare incertezza del proprio porsi dinanzi a Dio.

    All’uomo sembra che Dio lo voglia mettere alla porta. Eppure l’uomo porta in sé una nostalgia indecifrabile di una realtà diversa e piena. Un Eden…

    Cisterne screpolate

    Gr 2,13: Perché il mio popolo ha commesso due iniquità:

    essi hanno abbandonato me,

    sorgente di acqua viva,

    per scavarsi cisterne, cisterne screpolate,

    che non tengono l’acqua.

    Alla domanda del perché l’uomo fa l’esperienza di Giobbe, la risposta del profeta è chiara: perché ha abbandonato Dio che è fonte della vita.

    Egli presume l’autosufficienza l’indipendenza da qualsiasi fonte.

    Ma l’autonomia dell’uomo è cisterna screpolata: vi è l’acqua stagnante della non speranza.

    Non è l’acqua viva che ha deviato il suo corso. E’ l’uomo che si è allontanato da essa. Ma perché è successo questo?

    E’ questa una ulteriore domanda alla quale rispondono i primi capitoli della genesi.

    La narrazione è semplice ma densissima di significati:

    Gn 3

    1 Il serpente era la più astuta di tutte le bestie selvatiche fatte dal Signore Dio. Egli disse alla donna: «E` vero che Dio ha detto: Non dovete mangiare di nessun albero del giardino?». 2 Rispose la donna al serpente: «Dei frutti degli alberi del giardino noi possiamo mangiare, 3 ma del frutto dell’albero che sta in mezzo al giardino Dio ha detto: Non ne dovete mangiare e non lo dovete toccare, altrimenti morirete». 4 Ma il serpente disse alla donna: «Non morirete affatto! 5 Anzi, Dio sa che quando voi ne mangiaste, si aprirebbero i vostri occhi e diventereste come Dio, conoscendo il bene e il male». 6 Allora la donna vide che l’albero era buono da mangiare, gradito agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza; prese del suo frutto e ne mangiò, poi ne diede anche al marito, che era con lei, e anch’egli ne mangiò. 7 Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e si accorsero di essere nudi; intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture. 8 Poi udirono il Signore Dio che passeggiava nel giardino alla brezza del giorno e l’uomo con sua moglie si nascosero dal Signore Dio, in mezzo agli alberi del giardino. 9 Ma il Signore Dio chiamò l’uomo e gli disse: «Dove sei?». 10 Rispose: «Ho udito il tuo passo nel giardino: ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto». 11 Riprese: «Chi ti ha fatto sapere che eri nudo? Hai forse mangiato dell’albero di cui ti avevo comandato di non mangiare?».

    Il racconto è estremamente chiaro, con uno svolgimento lineare. Esso rivela sullo sondo una sintesi che sono le realtà fondamentali della trama del destino dell’uomo.

    Troviamo anzitutto due simboli:

    – un albero di vita di cui si può mangiare

    – un albero della conoscenza che è proibito di mangiare

    L’Albero della vita

    E’ la “sorgente delle acque vive”. Una vita in stretta comunione e intimità con Dio. E’ quasi un cordone ombelicale che tiene unita la creatura al Creatore, e a cui attinge per vivere, crescere e svilupparsi.

    L’albero della conoscenza

    Probabilmente si tratta della presunzione di essere a se stessi giudici del bene e del male. In base ai propri desideri l’uomo vuole decidere.

    Soffre nel sentire che il bene può apparire amaro e il male alettante: è un paradosso che accompagna l’esistenza terrena.

    Dio proibisce ad Adamo di superare questo limite: di giudicare in base ai suoi gusti il bene e il male.

    Basterebbe immaginare il genitore che tenta di educare il proprio bambino…

    Fare il male non la cosa più tragica che possa capitare all’uomo se egli però conserva una coscienza disposta a farsi giudicare.

    Il peccatore che mantiene lucida la coscienza del proprio peccato non ha “mangiato il frutto”.

    San Paolo ammonisce: Rm 1,32 :E pur conoscendo il giudizio di Dio, che cioè gli autori di tali cose meritano la morte, non solo continuano a farle, ma anche approvano chi le fa.

    E’ questo il fatto più grave: quando si è imbavagliata la coscienza si è mangiato il frutto.

    E’ il peccato imperdonabile contro lo Spirito di cui parla san Giovanni.

    Dio accetta che l’uomo possa sbandare lungo la strada, ma proibisce che l’uomo mangi dell’albero.

    2. La tattica del tentatore

    Il serpente è definito come “astuto”: in effetti

    1.       Deforma l’ordine di Dio, non lo denigra ma lo calca alcun più spropositandolo (3,2).

    2.       Eva, inquieta, cerca di difendere l’immagine di Dio, tenta di rettificare le preposizioni del serpente. Essa aggiunge il “non toccherete frutto” che Dio non ha detto. Per non magiare non bisogna toccare: ma questo fa sì che il frutto inizi ad apparire sotto un’aurea diversa, e così si impone al centro dell’attenzione.

    3.       Il serpente ha così raggiunto il suo primo scopo. La donna ora è ossessionata dalla proibizione.

    Il passo seguente è indurla alla ricerca del “vero” motivo.

    4.       Per far questo il serpente rettifica il significato della proibizione. Eva pensa: io credevo che il divieto fosse per il nostro bene e provenisse da un padre amorevole. Ma ora capisco che Dio è un despota geloso del suo potere. Egli vuole rimanere solo sul suo trono.

    5.       Ormai il sospetto atroce ha preso piede: “Allora la donna…”. L’albero appare ormai carico di attrattive e di speranze. La vertigine dell’immaginazione fa crollare le ultime resistenze.

    6.       Si arriva all’atto. Il frutto è colto e addentato. Per sentirsi più sicura fa condividere il gesto al suo uomo.

    7.       Non tardano le conseguenze. Gli occhi si aprono. Vi è sì una nuova conoscenza, ma ben diversa da quella che speravano.

    Potremmo domandarci: Eva è responsabile? Non certamente del dubbio. Ma essa è responsabile nel momento in cui ha ceduto al fascino del dubbio. Ha dato ascolto al serpente. Ed è qui il momento della massima debolezza, e quel che segue è solo l’inevitabile conseguenza.

    8.       La conseguenza del peccato è una conoscenza della propria nudità.

    Che significato assume questo? Il disagio della nudità non è quello interpretato dalla nostra cultura occidentale.

    Per il semita la nudità è esperienza di umiliazione, miseria, l’essere sprovveduti ed esposti al pericolo. (E dopo il peccato l’uomo cercherà di ornarsi, di sembrare, di apparire diverso…). L’essere nudi equivale a veder crollare improvvisamente tutte le apparenze, in fin dei conti è vedersi e far vedere ciò che in realtà si è ( si è allora “coperti di vergogna” Gr 3,25).

    L’uomo di fronte agli altri farà di tutto per conservare le apparenze, il proprio personaggio. Giobbe nella sua nudità si sente spiato, squadrato, giudicato dall’Altissimo.

    In cosa consiste il peccato? E’ il suggellare il dubbio sulla bontà del Padre. L’affermare che Dio è despota geloso ed egoista. E’ voler liberarsi di lui. E’ il tentativo superbo di diventare Dio a se stessi.

    Con questo peccato l’uomo si taglia fuori dalle sorgenti di acqua viva, in quanto tronca la relazione fiduciosa e vitale col suo Creatore.

    Un Dio deformato

    Adamo ed Eva sono così passati da un Dio Padre con il quale si può essere come bambini, ad un Dio giudice dal quale bisogna nascondersi per non essere visti.

    Non è Dio che è cambiato, ma l’anima umana ha assunto un nuovo atteggiamento nella sua libertà.

    L’uomo ha preteso indipendenza, e nella sua indipendenza pensa a come potrebbe reagire Dio a questa pretesa. Si immagina certamente un atteggiamento di rancore e di vendetta.

    Anche qui l’uomo si colloca in luogo di Dio, ma questa volta immaginato a partire da se stesso, dal suo peccato.

    Siamo ben lontani dalla rivelazione del padre misericordioso di Lc 15,11-32. Anche in questa parola il figlio si immagina una reazione da parte del padre ben diversa da quella che sarà la realtà. Anche qui in effetti vi è una colpa originale: un figlio che desidera indipendenza, che deve tornare da un padre che immagina corrucciato e di fronte al quale occorrerà degradarsi e umiliarsi.

    Cosa è successo? Ribellandosi contro il Padre, il figlio, damo, Eva ha sfigurato la sua immagine: anche lui credette che il Padre non è amorevole ma solo un despota accaparratore e sfruttatore della felicità dei figli.

    Il dubbio ha portato con sé la decisione. L’abbandono del padre. E il suo ritorno è solo una soluzione di ripiego.

    Paura di Dio

    “Una volta che ebbe deformato in se stesso l’immagine del Padre, figurandoselo come un despota sospettoso e geloso della sua autorità, allora cominciò a temerlo, poiché lo aveva innanzitutto immaginato così alla base del suo peccato”.

    E il dramma della colpa non è forse tanto il fatto di aver cercato di diventare dio lui stesso, al posto di Dio… ma il fatto che alla radice di tutto ciò c’è una misconoscenza di cos’è il padre, e c’è in seguito una volontà di lasciarsi illudere e di immaginare il padre come un despota geloso, per giustificare la propria ribellione disperata.

    Dal punto di vista di Dio, il ritorno dell’uomo consisterà innanzitutto in un riavvicinamento, da parte sua, dell’uomo incapace di tornare.

    Insopportabile dolcezza

    L’uomo non ha il coraggio di accettare che il cuore di Dio sia quello di un padre misericordioso.

    “Adamo dove sei…”: è la ricerca di un Dio di amore, non di un tiranno. Accogliere l’amore quando si è mancato strazia il cuore ancor più.

    E’ come quando questo accade nella vita di coppia. Per chi commette l’errore l’amore dell’altro è una spada che ferisce terribilmente.

    La fiducia pesa più del sospetto. Occorre allora giustificarsi, caricaturando l’altro. Si razionalizza, si nega… ovvero ci si difende.

    Si cerca di convincersi che si ha avuto ragione di dubitare, che non c’erano più possibilità di amore e che bisognava andarsene.

    Umanità da riavvicinare

    Toccherà così a Dio nel suo amore sviscerato riavvicinare l’uomo impaurito, orgoglioso e sospettoso. Occorrerà tanta e tanta pazienza e tanto amore. E’ un’opera che non si può fare da un giorno all’altro.

    Dio dovrà sfruttare i momento in cui l’uomo sperimenta l’angoscia, la disperazione, la solitudine, la sconfitta e la fame… come fu per il figliol prodigo.

    Ritrovare la vera immagine

    Occorre che Dio rimodelli nell’uomo la propria immagine deformata. E questo comporta rimodellare la stessa immagine dell’uomo fatto ad immagine di Dio.

    E’ necessario che l’uomo faccia esperienza di essere salvato dall’abisso delle grandi acque, nel passaggio del mar Rosso.

    Scoperto un Dio che è salvatore gli sarà più facile seguirlo.

  • 02 Mag

    Caino: la parola alla violenza

    (Gen 4)

    La figura di Caino ci riporta immediatamente al racconto biblico dell’omicidio di Abele, ponendoci di fronte un personaggio che lungo la storia è diventato il sinonimo di assassino. Ma liquidare la vicenda di Caino considerandola solo «una brutta storia di violenza», frutto di un animo malvagio, sarebbe molto semplicistico e soprattutto non terrebbe conto della complessa situazione che ci presenta il capitolo quarto della Genesi. Dobbiamo allora chiederci da dove venga la violenza di Caino, e perché egli arrivi a uccidere il fratello Abele.

    L’analisi delle particolarità terminologiche del testo biblico, in continuità con quanto narrato nei primi tre capitoli, ci potrà aiutare a illuminare il contesto vitale in cui si muove Caino.

    Chi è dunque Caino? È «figlio dei suoi genitori!». Questa risposta, tutt’altro che banale, ricollega la vicenda di Caino con quella di Adamo ed Eva. Caino è il frutto «genetico», ma anche «logico», delle scelte della prima coppia umana. Non si può quindi dimenticare che i genitori di Caino sono coloro che, pur avendo la possibilità di vivere nell’abbondanza dell’Eden, ne erano stati allontanati a motivo della loro avidità. Il testo ci dice che dopo essere stati cacciati dal giardino «Adamo si unì a Eva sua moglie, la quale concepì e partorì Caino» (4,1a). Potrebbe sembrare l’inizio di un’altra storia, ma in realtà è lo sviluppo di quanto è successo precedentemente. Non si può quindi capire Caino senza tener conto dell’esperienza dei suoi genitori.

    Il testo ebraico presenta alcune sottolineature terminologiche che confermano il legame con i racconti precedenti. Innanzitutto l’azione è riferita ad «Adam» (termine usato nei primi capitoli per indicare l’essere umano prima della distinzione sessuale tra uomo e donna): è lui il soggetto, mentre la sua donna è solo l’oggetto. Il verbo usato (yada‘) letteralmente significa «conoscere». È uno dei verbi fondamentali della Bibbia, ed ha un ruolo particolare nel racconto del peccato di Genesi 3 (Adamo ed Eva volevano infatti «conoscere il bene e il male» 3,5). Solo in pochi casi nella Bibbia viene usato per esprimere il rapporto sessuale, ponendo però in evidenza una relazione non armonica, frutto del dominio di un soggetto sull’altro (è il caso dello stupro, della prostituzione o dei rapporti omosessuali). La presenza di questo verbo dà quindi una valenza negativa all’unione tra Adamo ed Eva, ponendo in evidenza la sottomissione della donna al potere dell’uomo, che non le riconosce la dignità di persona, ma solo come «oggetto» del proprio desiderio. Basterebbe già questo per comprendere meglio l’origine del disagio di Caino, ma il testo ci suggerisce ulteriori spunti.

    Infatti Eva, subito dopo aver partorito il suo primogenito, esclama compiaciuta: «Ho acquistato un uomo dal Signore» (4,1b). Con questa espressione la donna pone in evidenza due elementi: il primo è che ella ha acquistato (il nome «qajin» deriverebbe dal verbo «qanàh» che significa «acquistare») e quindi «possiede» un uomo (=maschio/marito), e così può compensare la sua sottomissione all’Adam; il secondo riguarda la paternità di Caino, attribuita inaspettatamente a Dio, lasciando l’Adam fuori dal rapporto tra la madre e il figlio. La donna che si è sentita «posseduta» dall’Adam, ora possiede e domina il proprio figlio, vedendo in lui l’alternativa al marito.

    Caino quindi è il frutto, e al tempo stesso la vittima, di una relazione umana distorta che realizza quanto aveva annunciato Dio alla donna: «verso tuo marito sarà il tuo istinto, ma egli ti dominerà» (3,16). Il figlio viene «strumentalizzato» dalla madre per rivalersi del dominio dell’uomo, instaurando con lui un rapporto unico e privilegiato che non lascia spazio alla presenza di nessun altro.

    Il racconto prosegue poi con la nascita di Abele che conferma questa situazione: il secondo figlio non ha alcuna considerazione agli occhi della madre. Per lui non ci sono parole di compiacimento, e neppure viene riconosciuto come figlio, ma semplicemente come «fratello». Gli viene imposto un nome che esprime tutta la sua inconsistenza («Abele» significa soffio, vento, vanità), poiché il suo arrivo non rompe la relazione privilegiata tra la madre e il primogenito.

    Il testo sottolinea la diversità dei due fratelli («Abele era pastore e Caino lavoratore del suolo» 4,2), senza però affermare che questa fosse motivo di conflittualità. Il contrasto sorge invece a causa di Dio. Quando Abele e Caino offrono al Signore i frutti del loro lavoro, scoprono di essere «guardati» diversamente da LuiIl Signore gradì Abele e la sua offerta, ma non gradì Caino» (4,4-5). Il testo non dice che l’offerta di Caino fosse indegna, ma solo che non fu gradita agli occhi di Dio.

    Ci domandiamo dunque, perché Dio guardò ad Abele e non a Caino? Dal punto di vista di Caino il comportamento del Signore risulta ingiusto, perché rifiuta la sua offerta sincera. Il suo desiderio di instaurare un rapporto privilegiato con il creatore viene frustrato dalla risposta negativa. Ma dal punto di vista di Dio, la risposta divina viene a compensare l’ingiustizia subita da Abele. Egli che è stato rifiutato come figlio dalla madre e dal fratello, viene ora «guardato» da Dio, e la sua considerazione gli ridona consistenza. Caino vale agli occhi di Eva, ma Abele vale agli occhi di Dio.

    Per questo l’azione di Dio, mentre riabilita Abele, cerca di rompere il legame asfissiante tra Caino e la madre, aprendolo ad un nuovo rapporto con il fratello. Ma Caino non capisce, anzi sente che l’azione di Dio gli pone di fronte un «altro» che egli vede come antagonista. Invece di riconoscere nel fratello un’occasione di relazione, Caino, schiavo com’è del suo desiderio infantile di essere lui l’unico figlio di Eva e di Dio, vede in Abele un ostacolo alla sua felicità. Per questo Caino «ne fu molto irritato e il suo volto era abbattuto» (4,5b). La traduzione letterale del testo («bruciò molto a Caino e il suo volto cadde») fa pensare non tanto ad una reazione superficiale di Caino, quanto ad un vero e proprio stato di sofferenza e depressione. Caino è chiuso nel suo dolore e soffre a motivo della sua gelosia: l’essere cresciuto in un rapporto totalizzante con la madre, gli rende ora insopportabile ogni limitazione al suo desiderio di essere l’unico.

    Nasce in lui l’idea che la causa del suo soffrire sia fuori di lui, e proietta tutto questo nella presenza di Abele. Caino si sente solo e abbandonato da Dio. Ma non è così. Infatti Dio non ignora la sua sofferenza e proprio per aiutarlo a comprendere la sua situazione gli rivolge la parola: «perché sei irritato e perché il tuo volto è abbattuto?» (4,6). La domanda invita Caino a fare luce sui motivi profondi del suo disagio e a coglierne l’origine. Dio ricorda a Caino che è lui a decidere della sua vita, presentandogli un’alternativa: egli può  fare il bene, oppure può fare il male. Il testo non esplicita cosa significhi«fare il bene», ma se lo ricolleghiamo al racconto della creazione, scopriamo che «il bene» è la relazionalità: «non è bene che l’uomo sia solo» (2,187.

    Caino quindi è invitato ad aprirsi alla relazionalità, accogliendo la presenza del fratello in modo positivo. Se egli agirà così potrà «rialzare il suo capo»: potrà quindi guardare avanti, avrà cioè un futuro, ma anche «saprà sopportare» la fatica della relazione, e la sofferenza causata dalla sua gelosia. Se invece egli non farà il bene, sarà in balia del peccato che è «accovacciato alla sua porta» (4,7). Il termine peccato (hatta’) significa innanzitutto «sbagliare bersaglio», «fallire l’obiettivo», «mancare al proprio scopo». Per Caino quindi il rischio è di non realizzare il proprio desiderio di vita. La causa di questo fallimento viene descritta come una forza istintiva presente nell’uomo, che ricorda molto da vicino il serpente del capitolo terzo. Questa forza siede alla «porta» di Caino, nel luogo di passaggio e di comunicazione tra la sua interiorità e il suo agire. Egli è chiamato a dominarla, perché non sia questo istinto a guidare le sue azione e i suoi giudizi. Se la saprà dominare allora potrà rompere con i condizionamenti del suo passato, svincolandosi dalla logica di dominio e di potere che lo ha generato.

    Per questo Dio lo invita a parlare, a «umanizzare» quella forza istintiva che la sofferenza ha risvegliato in lui. Questo sarebbe il momento per «far parlare» la propria rabbia, ed esprimere la propria recriminazione nei confronti di Dio. Ma Caino non parla. Tiene tutto dentro nel suo mutismo animalesco e la sua sofferenza si trasforma in aggressività contro Abele. In lui «parla la violenza». Il testo ebraico sottolinea questa realtà con una costruzione di difficile traduzione: «disse Caino ad Abele suo fratello e avvenne che quando furono in campagna alzò la mano contro di lui » (4,8). Il suo «dire» non è una parola umana, ma violenza animale che si scatena contro il fratello, ritenuto causa di tutto. Guidato dall’istinto sfoga la sua rabbia, pensando così di ottenere tutto per sé.

    Ma in questo modo Caino sbaglia, perché Abele non c’entrava nulla e la causa vera del suo soffrire era dentro di lui. Per questo il Signore interviene invitandolo a riconoscere la verità, cioè il valore della fratellanza e la sua responsabilità: «Dov’è Abele, tuo fratello?» (4,9). A questa domanda Caino reagisce bruscamente negando di averlo ucciso e rifiutando la via del dialogo.

    Ma Dio non può non reagire di fronte alla violenza e per questo chiede conto a Caino della sua azione: «cosa hai fatto?» (4,10). Caino è chiamato a fare quello che non ha fatto prima, cioè a «dire la violenza», «umanizzando» la sua aggressività perché questa non uccida più. Dio diventa il giudice che interviene per fermare la violenza facendo verità e mostrando a Caino le conseguenze della sua azione.

    Il rifiuto della fratellanza conduce alla maledizione. Caino è intimamente segnato dalla morte che contamina tutte le dimensioni della sua esistenza. Non avrà più cibo dalla terra, non avrà un luogo dove abitare e neppure una compagnia con cui vivere; sarà «ramingo e fuggiasco» (4,12). Lui che si è fatto padrone della vita altrui, non è più padrone della propria: sarà costretto a fuggire e a nascondersi dagli altri, e soprattutto da se stesso e dal proprio senso di colpa. Il suo desiderio di vita e di felicità, accecato dalla bramosia, si è trasformato in uno strumento di morte.

    Questo era quanto Dio gli aveva preannunciato invitandolo a parlare, perché l’unico antidoto alla violenza è il dialogo, cioè la capacità di ascoltare l’altro, accogliendolo come fratello. Ma quando Caino parla è ormai troppo tardi, e non può fare altro che riconoscere la propria colpevolezza e invocare da Dio la difesa della propria vita.

    Il racconto si chiude con queste parole: «Caino uscì da davanti al Signore e abitò nel paese di Nod»  (4,16). Caino esce così da quella situazione che lo aveva generato, nel bene e nel male, e si apre ad una vita nuova segnata dal suo passato di gelosia e violenza. La sua vicenda resta per noi un monito a non lasciarci guidare dalla nostra ansia di vita, ma a riscoprire nella presenza benevola di Dio Padre un’occasione di fiducia in lui e negli altri, sapendo che la violenza non è frutto di un animo malvagio ma la distorsione del nostro desiderio di felicità.

  • 02 Mag

    GIOBBE: UN DIO MISCONOSCIUTO

     

    E’ bene cominciare dallo scuro per poi vederci chiaro, poiché la troppa luce acceca.

    Possiamo rappresentarci l’Antico testamento come il buio in cui inizia a delinearsi lentamente ma progressivamente all’orizzonte la luce, che risplenderà nella sua pienezza nel nuovo Testamento.

    Il popolo fa esperienza di camminare nelle tenebre:

    Is 9,1: Il popolo che camminava nelle tenebre vide una grande luce; su coloro che abitavano in terra tenebrosa una luce rifulse.

    Lc 1,78-79: grazie alla bontà misericordiosa del nostro Dio, per cui verrà a visitarci dall’alto un sole che sorge per rischiarare quelli che stanno nelle  tenebre e nell’ombra della morte  e dirigere i nostri passi sulla via della pace.

    Gv 8,12: Di nuovo Gesù parlò loro: «Io sono la luce del mondo; chi segue me, non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita.

    Rm 13,12: La notte è avanzata, il giorno è vicino. Gettiamo via perciò le opere delle tenebre e indossiamo le armi della luce.

    La figura di Giobbe in questa esperienza di tenebre è di fondamentale importanza.

    PALEONTOLOGIA DELLA RIVELAZIONE

    Forse occorreva proprio domandarsi di quale fosse la relazione con Dio di un uomo pagano, che non ha conosciuto la rivelazione.

    Il libro di Giobbe si interroga su questa, ed è dunque il tentativo di un ritorno indietro, alle origini ma scoprire la situazione dell’uomo davanti al mistero di Dio.

    Ancora: il libro di Giobbe si interroga sul dolore senza ragione, il quale dà di Dio una così deturpata immagine. Esso viene composto in esilio (nel 620). Il pio israelita si interroga angosciato nella sua fede: Perché nonostante i nostri sforzi Dio ci tratta così duramente? E’ giusto tutto questo? Che senso ha? Come devo pormi dinanzi a Dio?

    Giobbe diviene il simbolo, riassume in sé la vicenda di un popolo. Lui un pagano: il pio israelita può così gridare tutto il suo scandalo attraverso di lui.

    Alle comode e ansiose giustificazioni degli amici “credenti” Giobbe non è né consolato né rasserenato. Esse appaiono solo teorie, parole, espressioni lontane e stereotipate, tentativi di difesa…

    Così il grido di Giobbe giunge sino a noi, e si fa nostro, questo grido che è Parola di Rivelazione.

    Il problema che viene affrontato nel libro di Giobbe non è l’esistenza di Dio, ma la stessa esistenza dell’uomo.

    Evidenziamo tre fasi:

    1.

    Giobbe cap. 14:

    1 L’uomo, nato di donna,

    breve di giorni e sazio di inquietudine,

    2 come un fiore spunta e avvizzisce,

    fugge come l’ombra e mai si ferma.

    3 Tu, sopra un tal essere tieni aperti i tuoi <occhi

    e lo chiami a giudizio presso di te?

    4 Chi può trarre il puro dall’immondo? Nessuno.

    5 Se i suoi giorni sono contati,

    se il numero dei suoi mesi dipende da te,

    se hai fissato un termine che non può oltrepassare,

    6 distogli lo sguardo da lui e lascialo stare

    finché abbia compiuto, come un salariato, la sua

    giornata!

    Sono enunciati alcuni grandi motivi:

    – La vita, il bene più grande, è recisa subito. Tutte le aspirazioni che l’uomo porta in sé sono tragicamente tranciate.

    – Dinanzi a questo essere così fragile ed inconsistente Dio si presenta come giudice spietato. Perché non lo lascia in pace?

    Perché uno deve vivere con il rimorso che lo attanaglia dentro?

    2.

    Gb cap. 10

    20 non son poca cosa i giorni della mia vita?

    Lasciami, sì ch’io possa respirare un poco

    21 prima che me ne vada, senza ritornare,

    verso la terra delle tenebre e dell’ombra di morte,

    22 terra di caligine e di disordine,

    dove la luce è come le tenebre.

    Dunque lasciami in pace!

    3.

    Gb cap. 7

    16 Io mi disfaccio, non vivrò più a lungo.

    Lasciami, perché un soffio sono i miei giorni.

    17 Che è quest’uomo che tu nei fai tanto conto

    e a lui rivolgi la tua attenzione

    18 e lo scruti ogni mattina

    e ad ogni istante lo metti alla prova?

    19 Fino a quando da me non toglierai lo sguardo

    e non mi lascerai inghiottire la saliva?

    20 Se ho peccato, che cosa ti ho fatto,

    o custode dell’uomo?

    Perché m’hai preso a bersaglio

    e ti son diventato di peso?

    21 Perché non cancelli il mio peccato

    e non dimentichi la mia iniquità?

    Ben presto giacerò nella polvere,

    mi cercherai, ma più non sarò!

    Perché questa sensazione di uno sguardo così penetrante, indagante, giudice di Dio?

    L’uomo non si sente mai in casa propria: è sempre osservato e giudicato. Non può mai dire: nessuno mi vede. Situazione insopportabile.

    Anche per Sartre l’angoscia venne da questa sensazione, egli definiva la relazione religiosa come un essere osservato “agli occhi di un altro”.

    L’uomo si  sente nudo e minacciato.

    L’uomo può accusare Dio, pretendendo la sua innocenza? Troviamo in questa direzione l’incubo di Elifaz che tenta di consolare Giobbe:

    Gb 4

    12 A me fu recata, furtiva, una parola

    e il mio orecchio ne percepì il lieve sussurro.

    13 Nei fantasmi, tra visioni notturne,

    quando grava sugli uomini il sonno,

    14 terrore mi prese e spavento

    e tutte le ossa mi fece tremare;

    15 un vento mi passò sulla faccia,

    e il pelo si drizzò sulla mia carne…

    16 Stava là ritto uno, di cui non riconobbi

    l’aspetto,

    un fantasma stava davanti ai miei occhi…

    Un sussurro…, e una voce mi si fece sentire:

    17 «Può il mortale essere giusto davanti a Dio

    o innocente l’uomo davanti al suo creatore?

    18 Ecco, dei suoi servi egli non si fida

    e ai suoi angeli imputa difetti;

    19 quanto più a chi abita case di fango,

    che nella polvere hanno il loro fondamento!

    Come tarlo sono schiacciati,

    20 annientati fra il mattino e la sera:

    senza che nessuno ci badi, periscono per sempre.

    21 La funicella della loro tenda non viene forse

    strappata?

    Muoiono senza saggezza!

    L’uomo un piccolo, insignificante verme, cosa può pretendere?

    Si può accampare una propria innocenza?

    Il fatto che “non sono peggio degli altri” mi può giustificare?

    DOPPIO SCANDALO

    Giobbe sperimenta un doppio scandalo.

    1.       L’assurdità di un Dio onnipotente che spinge la sua creatura verso la morte. Una creatura colma di desideri e di speranze, che “scivola verso la morte come l’acqua che si disperde e fugge dalle screpolature della cisterna” (cf Gb 12,1-8).

    2.       E perché Dio non salva? Anzi sembra che ancor più schiacci con rimorsi, angosce. Dio demolisce e condanna.

    L’augurio di Giobbe è che Dio se ne stia lontano e non venga più ad angosciare l’uomo.

    Bildad consiglia a Giobbe di non domandare i conti a Dio. Allora Giobbe pronuncia la sua “bestemmia”. Ci si addentra così ancor più nella tenebra.

    Ma a Dio saranno più gradite le parole sincere di chi ricerca e domanda pur nella apparente impudenza che le “pie raccomandazioni”, “sentenze di cenere” (13,12) delle vecchie massime.

    UNA SPERANZA

    Giobbe sa che morrà senza aver ottenuto giustizia: ma il suo grido rimane (l’ultima parte del libro probabilmente è un’aggiunta).

    Così il sangue innocente grida la sua “vendetta”.

    Ci deve essere una giustizia: ed è qui che poggia la speranza di Giobbe.

    Una speranza che non si sa né come né quando si potrà realizzare: essa è pura e nuda.

    Gb cap 16

    12 Me ne stavo tranquillo ed egli mi ha rovinato,

    mi ha afferrato per il collo e mi ha stritolato;

    ha fatto di me il suo bersaglio.

    13 I suoi arcieri mi circondano;

    mi trafigge i fianchi senza pietà,

    versa a terra il mio fiele,

    14 mi apre ferita su ferita,

    mi si avventa contro come un guerriero.

    17 Non c’è violenza nelle mie mani

    e pura è stata la mia preghiera.

    18 O terra, non coprire il mio sangue

    e non abbia sosta il mio grido!

    19 Ma ecco, fin d’ora il mio testimone è nei <cieli,

    il mio mallevadore è lassù;

    20 miei avvocati presso Dio sono i miei lamenti,

    mentre davanti a lui sparge lacrime il mio occhio,

    21 perché difenda l’uomo davanti a Dio,

    come un mortale fa con un suo amico;

    22 poiché passano i miei anni contati

    e io me ne vado per una via senza ritorno.

    E così arriviamo al passaggio centrale: allo spiraglio di luce che riesce a forare quelle fitte tenebre:

    Gb cap. 19

    23 Oh, se le mie parole si scrivessero,

    se si fissassero in un libro,

    24 fossero impresse con stilo di ferro sul piombo,

    per sempre s’incidessero sulla roccia!

    25 Io lo so che il mio Vendicatore è vivo

    e che, ultimo, si ergerà sulla polvere!

    26 Dopo che questa mia pelle sarà distrutta,

    senza la mia carne, vedrò Dio.

    27 Io lo vedrò, io stesso,

    e i miei occhi lo contempleranno non da straniero.

    Le mie viscere si consumano dentro di me.

    Giobbe fa appello ad una speranza. Una risurrezione come possibilità. E’ solo questa che può ristabilire una retta giustizia.

    E così forse può profilarsi contemporaneamente una nuova immagine di Dio.

    Forse Dio non è più il giudice spietato verso l’uomo.

    Ma quando? Come? Solo Dio conosce i tempi:

    cap 14

    7 Poiché anche per l’albero c’è speranza:

    se viene tagliato, ancora ributta

    e i suoi germogli non cessano di crescere;

    8 se sotto terra invecchia la sua radice

    e al suolo muore il suo tronco,

    9 al sentore dell’acqua rigermoglia

    e mette rami come nuova pianta.

    10 L’uomo invece, se muore, giace inerte,

    quando il mortale spira, dov’è?

    11 Potranno sparire le acque del mare

    e i fiumi prosciugarsi e disseccarsi,

    12 ma l’uomo che giace più non s’alzerà,

    finché durano i cieli non si sveglierà,

    né più si desterà dal suo sonno.

    13 Oh, se tu volessi nascondermi nella tomba,

    occultarmi, finché sarà passata la tua ira,

    fissarmi un termine e poi ricordarti di me!

    14 Se l’uomo che muore potesse rivivere,

    aspetterei tutti i giorni della mia milizia

    finché arrivi per me l’ora del cambio!

    15 Mi chiameresti e io risponderei,

    l’opera delle tue mani tu brameresti.

    A questo punto però appare lecito domandarsi: perché Dio deve apparire all’uomo così duro, spietato, crudele?

    Perché l’uomo non trova istintivo l’affidarsi a Dio?

    Cosa è successo perché si sia instaurata questa sfiducia e questa diffidenza?

    E’ l’interrogativo che si propone il libro della genesi.

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