• 31 Mag

    Chiudi la bocca con porta e chiavistello
    Gc 3,2-10

     

    a cura di p. Attilio Franco Fabris

    Tutti quanti infatti manchiamo in tante cose e se qualcuno non manca nel parlare è un uomo perfetto, in grado di dominare tutto se stesso. Se riusciamo a mettere il freno in bocca ai cavalli e ci obbediscono, noi li guidiamo interamente. Ecco che anche le navi, pur essendo così grandi e spinte da venti impetuosi, sono guidate da un timone minuscolo, a pieno arbitrio del nocchiero. Così anche la lingua è un membro minuscolo, ma può vantare imprese straordinarie. Ecco quanto piccolo è il fuoco e quanto grande è la foresta che esso incendia! E il fuoco è la lingua! Questo mondo di malizia, la lingua, è posta tra le nostre membra: essa che contamina tutta la nostra persona, brucia la ruota della nostra vita ed è poi bruciata essa stessa nell’inferno. Gli animali terrestri, i volatili, i serpenti, gli animali marini, sono stati e vengono domati dall’uomo. Ma nessun uomo può domare la lingua: essa è un male che non dà tregua, è piena di veleno mortale. Con essa noi lodiamo Dio, Signore e Padre, e, sempre con essa, malediciamo gli uomini, che sono stati fatti a somiglianza di Dio. Dalla medesima bocca viene fuori benedizione e maledizione. No, fratelli miei, le cose non devono andare così. (Gc 3,2-10)

    La maggior parte delle offese sono fatte con la lingua.

    San Giacomo già ammoniva: la lingua è un piccolo membro e può vantarsi di grandi cose. Vedete un piccolo fuoco quale grande foresta può incendiare! Anche la lingua è un fuoco… (3,5-6).

    I vecchi manuali di morale specificavano puntigliosamente tutte le varie specie di peccati che si commettono con le parole.

    Ad esempio nel capitolo che trattava della diffamazione distinguevano: la calunnia (diffondere notizie negative false); la detrazione (si diffondono vizi e peccati reali segreti); la mormorazione (si discorre di vizi e peccati conosciuti). Notiamo che la diffamazione è ritenuta di per sé peccato grave, salvo restando la “parvità di materia”.

    Uno degli aspetti dell’ascesi della vita comunitaria consiste nell’impegno nel controllare la parole che escono dalla nostra bocca: Pesa le tue parole con la bilancia e chiudi la bocca con porta e chiavistello (Sir 28,25).

    Potrebbe aiutarci una preghiera che troviamo nel libro del Siracide: Chi porrà sulle mie labbra un sigillo di prudenza e un guardiano sulla mia bocca, affinché io non cada per colpa loro e la mia lingua non sia la mia rovina? O Signore, padre e padrone della mia vita, non abbandonarmi all’arbitrio delle mia labbra (Sir 22,27-23,1).

    Dominare la propria lingua non è un’impresa facile: Infatti ogni sorta di bestie e di uccelli, di rettili e di essere marini possono essere domati e, difatti, sono stati domati dall’uomo, ma nessun uomo è riuscito a domare la sua lingua; essa è un male ribelle, è piena di veleno mortale (Gc 3,7-8).

    Gli attributi che vengono applicati alla lingua sono quelli di “serpente” (Sal 140,4), “coltello affilato” (Sal 52,4), “spada di acciaio” (Sal 57,5), “flagello” (Sir 28,17).

    Però la lingua non è solo portatrice di morte fortunatamente.  Essa può dare anche la vita. Vi sono parole che incoraggiano, che infondono speranza e gioia.

    Gesù ebbe solo “parole di vita eterna”.

    Dovremmo interrogarci chiedendoci: come sono le mie parole? Danno la vita o portano la morte? Converrebbe chiederlo a quelli che mi circondano.

    Se mi accorgo di pronunciare parole di morte dovrei ricercarne la causa nel profondo di me stesso, nelle mie disposizioni interiori nei confronti della vita e degli altri. Diceva a questo proposito sant’Alberto Magno: Quando la bocca di qualcuno è maleodorante, è segno che dentro di lui il fegato e lo stomaco non funzionano bene; allo stesso modo, quando qualcuno pronuncia cattive parole, è segno che il suo cuore è malato (Trattato sulle virtù, 2).

    Un piccolo cammino ascetico potrebbe consistere in un primo tempo a riconoscere umilmente che ci piace il pettegolezzo, la mormorazione, la calunnia. Spesso si sente dire: “A me non piace pettegolare, ma…”. Dovremmo invece riconoscere: “A me piace moltissimo pettegolare… Mi piace moltissimo curiosare tra i panni sporchi degli altri”. Il primo passo per la cura è la sincerità.

    Un secondo passo sarà quello di analizzare quali sono gli atteggiamenti e i sentimenti negativi che si trovano alla radice delle nostre critiche.

    Ad esempio prenderò coscienza della leggerezza e superficialità con cui parlo degli altri.

    Teniamo presente che non è vero che “le parole sono portate via dal vento”.

    San Giovanni d’Avila ammoniva: Stupisce molto vedere come le parole, essendo di scarsa mole e leggere come il vento, acquistino un peso tanto grande da trasformarsi in chiodi profondamente conficcati. Sono leggere nella sostanza, ma molto rilevanti nel bene e nel male che producono a seconda che sono buone o cattive.

    Occorre rinunciare  di pronunciare le parole senza riflettere, di parlare tanto per parlare: Nel molto parlare non mancherà il peccato (Pr 10,19). Occorre imparare a stare in silenzio! Se la polvere delle parole morte si posa su di te, lava la tua anima col silenzio (Tagore).

    “Apri la tua bocca solo se sei sicuro che ciò che stai per dire è migliore del silenzio” (Proverbio arabo).

    Occorre ancora imparare ad ascoltare. La natura ci ha fornito di due orecchie e di una sola bocca! L’uomo sia pronto ad ascoltare e lento a parlare (Gc 1,19) perché dovremo rendere conto di tutte le parole inutili (Mt 12,36). San Vincenzo de’ Paoli diceva: dovremmo avere la stessa difficoltà ad aprire la bocca come ad aprire la borsa per pagare.

    Un altro vizio contro cui bisogna combattere  è la vanità. Ci piace essere ritenuti ben informati su tutto e su tutti. Per quante persone non c’è soddisfazione migliore che diffondere una brutta notizia. Ci ammonisce il Siracide: Hai udito qualcosa? Fa’ in modo che rimanga custodita dentro di te. Coraggio, non creperai per questo (Sir 19,10). Disgraziatamente sembra che molti ritengono di crepare se non lo fanno.

    Accanto al desiderio di apparire ben informati c’è anche quello di essere ritenuti sagaci. Ci piace fare analisi psicologiche sulle persone, psicanalisi a buon mercato mirante ovviamente a darci ragione. Siamo prodighi di aggettivi: “Tizio è un narcisista”, “Caio ha il complesso di Edipo irrisolto”, “Sempronio soffre di impulsi masochistici” .

    Accanto a questo mettiamo l’atteggiamento peggiore e più distruttivo che è l’ironia malevola, capace letteralmente di distruggere una persona.

    I diffamatori sono realmente detestabili. Osservava Diderot: Chi parla male di tutti davanti a te, parlerà anche male di te davanti a tutti.

    Un’altra causa, forse la più prevalente, è l’invidia. Non riusciamo a sopportare le persone che spiccano, che ci superano con le loro qualità. L’invidia non consiste solo nel desiderare di avere quello che hanno gli altri, è qualcosa di molto più sottile. E’ desiderare che l’altro non abbia ciò che ha. Viene definita anche “la tristezza del bene altrui”.

    Questa tristezza ci spinge a minare il terreno sotto i piedi del prossimo, con commenti, insinuazioni, sottolineature che mirano a distruggerlo. E’ un vizio difficile da riconoscere in se stessi.

    Una volta che la scopriamo in noi stessi bisogna sforzarci di non parlare mai della persona che ne è l’oggetto.

    Altre volte ancora l’origine delle nostre critiche risiede nel risentimento o peggio nel desiderio di vendetta verso coloro che ci hanno fatto del male.

    Capita ancora che causa della nostra maldicenza sia l’amarezza interiore. Allora si proietta sugli altri la propria visione negative delle cose. Talvolta costoro giustificano questo atteggiamento decantando il loro “spirito critico”.

    Ancora un altro vizio che risiede nella lingua è quello di usarla in modo battagliero. Incapaci di dialogo queste persone si rapportano sempre in modo aggressivo: si trovano sempre dinanzi ad un nemico da contraddire sistematicamente. Fanno forse questo per poter affermare se stessi a se stessi: Soffrono di una malattia che consiste nella disputa e nel contendere con la parola. Da essa nascono le invidie, i litigi, le maldicenze, i sospetti cattivi e le dispute senza fine, tutte cose proprie di uomini corrotti nella mente e privi della verità (1Tm 6,4-5).

    San Paolo ci mette sull’avviso: Evita le discussioni sciocche e stupide; sai bene che generano contese. A un servo di Dio non si addicono le dispute, ma l’essere gentile con tutti (2Tm 2,23-24).

    A conclusione potremmo riaffermare una grande verità che dovremmo sempre tener presente: noi non vediamo le cose come esse sono realmente, ma come noi le vediamo, o meglio come noi vediamo noi stessi.

    Per scoprire la bellezza che ‘è dentro di noi bisogna previamente scoprire la bellezza che c’è dentro di noi. Le persone amareggiate, che non sanno accettare né valorizzare se stesse, si tuffano nella critica, spruzzando gli altri col proprio risentimento.

    Così il rancore, la tristezza e così via.

    Dice Lanza del Vasto: Così come la luce non può vedere le tenebre, perché illumina tutto ciò che guarda, così l’uomo buono non vede che bontà intorno a sé, perché la risveglia, la semina e la intravede dappertutto.

  • 30 Mag

    L’amore verso i nemici
    Mt 5,43-48

     

    a cura di p. Attilio Franco Fabris

    «Avete inteso che fu detto: Amerai il prossimo tuo e odierai il tuo nemico. Io invece vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano, affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli, il quale fa sorgere il suo sole sui cattivi come sui buoni e fa piovere sui giusti come sugli empi. Qualora infatti amaste solo quelli che vi amano, che ricompensa avreste? Non fanno lo stesso anche i pubblicani? E se salutate soltanto i vostri fratelli, che cosa fate di speciale? Non fanno lo stesso anche i gentili? Voi dunque sarete perfetti, come perfetto è il Padre vostro che è nei cieli».

    L’aspetto più caratteristico dell’insegnamento di Gesù è l’amore verso i nemici.

    Se per altri insegnamenti è facile ritrovare testi corrispettivi nell’antico testamento, constatiamo che questo non ne trova.

    Troviamo al contrario sancita chiaramente la comune “legge del taglione”: “Occhio per occhio, dente per dente” (Es 21,24).

    L’insegnamento di Gesù è sublime, ma quanto difficile ed oscurato nella nostra realizzazione. Già un’omelia del II secolo riporta: Quando i pagani ci sentono dire “amate i vostri nemici” si riempiono di ammirazione. Ma poi quando vedono che non sappiamo amare neppure coloro che ci vogliono bene, ridono di noi.

    Erasmo di Rotterdam diceva: Nel combattere contro i malfattori ci comportiamo da malfattori anche noi, e lottiamo contro i turchi come se lo fossimo anche noi.

    Dove trova anzitutto radice l’insegnamento di Gesù? Certamente nella perfezione del Padre: Avete inteso che fu detto: Amerai il prossimo tuo e odierai il tuo nemico. Io invece vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano, affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli, il quale fa sorgere il suo sole sui cattivi come sui buoni e fa piovere sui giusti come sugli empi.

    Io invece vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano, affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli, il quale fa sorgere il suo sole sui cattivi come sui buoni e fa piovere sui giusti come sugli empi.

    Qualora infatti amaste solo quelli che vi amano, che ricompensa avreste? Non fanno lo stesso anche i pubblicani? (Mt 5,43-46)

    Il Dio della rivelazione fatta da Gesù è un Padre che sa soltanto amare, non come il Dio della filosofia e della religione naturale sempre pronto a fare giustizia intesa umanamente.

    Se il Padre ci ama, non è perché noi siamo buoni, ma perché lo è lui. Non può comportarsi diversamente.

    Il sole scalda sempre, anche se di fronte al calore del sole, la materia reagisce in maniera diversa: la cera si ammorbidisce, il fango s’indurisce. Ma il sole non sa fare altro che scaldare. Dio è amore (Gv 4,8).

    La prova che Dio ci ama è che Cristo è morto per noi mentre eravamo ancora peccatori” (Rm 5,8).

    Per il Padre che è nei cieli, tutti sono figli, nessuno escluso. Il suo cuore non soffre tanto per l’offesa quanto per il figlio che ha deciso di abbandonarlo.

    Per amare i propri nemici è necessario che prima entri, mi compenetri, del cuore misericordioso del Padre.

    Quanto spesso invece il nostro cuore è solo pronto al giudizio e alla condanna definitiva dell’altro. Nel nostro cuore condanniamo spesso l’altro all’ergastolo del nostro giudizio.

    Se Dio agisse così chi si salverebbe?

    Sempre Giovanni Crisostomo ci riporta un dialogo: “”Tizio non è disposto a correggersi, non ammette consigli”. “E come lo sai? Lo hai consigliato? Ti sei dato da fare per correggerlo?”. “Sì – mi risponde – ci ho provato parecchie volte”. “Quante volte?”. “Molte; una volta e…un’altra volta ancora…”. “Bravo! E questo lo chiami molte volte? Anche se lo avessi fatto per tutta la tua vita, non dovresti stancarti, né desistere. Non vedi come Dio ci esorta continuamente per mezzo dei profeti, degli apostoli, degli evangelisti? E cosa succede? Forse che noi ci comportiamo bene o agiamo in tutto secondo tali esortazioni? Assolutamente no! Eppure Dio non ha smesso di correggerci, non ha taciuto, non ha cessato di fare nuovi tentativi…”.

    Giudicare è un errore col quale giudico e condanno me stesso. Perché l’implacabile giudizio che emetto su di una persona di cui ignoro la storia intima, le difficoltà, le lotte e il peso atavico che si trascina dietro quel giudizio, mediante il quale immobilizzo e pietrifico tutto ciò che ancora è in gestazione, in realtà non fa che mettere in evidenza la durezza del mio cuore, la mia incapacità di comprendere ciò che è la creazione, la mia mancanza di tenerezza e di compassione, verso un’umanità incompiuta, ancora in embrione, che cammina a tentoni e impara ad esistere con enorme lentezza” (Lopez Melùs).

    Bernard Shaw soleva dire ironicamente: L’unico uomo intelligente è il mio sarto: mi prende di nuovo le misure ogni volta che vado a trovarlo.

    Il grande testimone della non violenza il Mahatma Gandhi testimonia: Ho creduto sempre alla lealtà dei nemici. Ho tanto creduto nella lealtà che, alla fine, l’ho trovata. Sì, approfittarono del mio carattere per ingannarmi. M’ingannarono undici volte di seguito e io, con stupida ostinazione, tornai a credere nella loro lealtà. Finché, alla dodicesima volta, non poterono fare a meno di essere leali. La scoperta della propria lealtà fu per loro e anche per me una felice sorpresa”.

    Non è questo mettere in pratica l’insegnamento dell’apostolo: L’amore è comprensivo; è disposto a discolpare senza limiti, a credere senza limiti, a sperare senza limiti (1Cor 13,7).

    Se il tuo nemico ha fame, dagli da mangiare; se ha sete, dagli da bere; così facendo, accumulerai la brace sulla sua testa (Rm 12,20). Queste parole indicano chiaramente che l’unica vendetta consentita al cristiano è quella di fare il bene.

    Non irritare di più colui che è già irritato (Sir 4,2). Non rispondere alla violenza con la violenza “perché il fuoco non può essere spento col fuoco, bensì con l’acqua” (s. Giovanni Crisostomo). Siate pazienti con tutti e fate il possibile affinché non si renda male per male; ma cercate sempre il bene tra voi e con tutti (1Ts 5,15).

    E’ con la forza della non-violenza, della mitezza, che si riesce a vincere in profondità la violenza dell’altro. Egli non abbandonerà l’aggressività se io gli restituisco lo schiaffo, ma lo farà, se io gli porgo l’altra guancia (cfr. Mt 5,39). La non-violenza è un atto di estremo coraggio e di forza. Il cedere alla violenza rispondendo con altra violenza è essere vinti, è debolezza: è aggiungere un anello alla catena interminabile del male.

    La gioia di non aver causato alcun male al fratello è superiore alla gioia di una qualsiasi rivincita (C. Carretto).

    La vittoria su se stessi è la più difficile di tutte.

    Una piccola storia: un re aveva tre figli e, tra le tante ricchezze, possedeva un diamante di inestimabile valore. Il padre promise che lo avrebbe dato a colui che fosse stato capace di compiere la più grande impresa. Il maggiore uccise un drago. Il secondo, da solo e servendosi di un pugnale, riuscì ad uccidere dieci uomini in battaglia. Il terzo incontro il suo peggiore nemico profondamente addormentato sul ciglio di un’alta scogliera e lasciò che continuasse a dormire. E’ inutile dire che il diamante venne assegnato proprio a lui.

    Una componente del nostro amore per i nemici è la nostra preghiera per loro: Pregate per i vostri persecutori (Mt 5,44); “Benedite coloro che vi maledicono, pregate per coloro che vi calunniano” (Lc 6,28).

    Chiederemo per noi la forza di vincere col bene il male, come anche che lo stesso nemico si penta smettendo di fare il male.

    Numerosi sono i casi, nell’Arcipelago Gulag, riferiti da Solzenicyn di questa testimonianza umile luminosa che talvolta finisce col toccare il cuore dei torturatori. Eugenia Ginzburg, nel “Viaggio nella vertigine”, ricorda quelle donne del popolo di un campo del Nord che, prigioniere per la loro fede, si rifiutavano di lavorare la domenica di pasqua, pur impegnandosi a recuperare il tempo perduto nei giorni seguenti. Condannate a restare in piedi, scalze nel fango gelato, si accontentarono di rispondere cantando degli inni di risurrezione. “Soffro e muoio per mano tua, ma lo faccio perché tu sia salvato”, diceva una di queste martiri. Una preghiera che circolava negli ambienti cristiani russi agli inizi degli anni sessanta invocava la misericordia di Dio sulle vittime e sui carnefici. Solo così, diceva questo testo, si sarebbe potuto “consolare il Consolatore””(O. Clement, La rivolta dello Spirito, p. 90-1).

    Una preghiera dunque che non ha uno sfondo egoistico, ovvero non fatta perché io possa vivermene in pace ed indisturbato, ma perché tutti possiamo essere salvati dal peccato e raggiungere il regno.

    Scrive sant’Agostino: Un artigiano vede nel bosco un tronco di rovere ed è interessato ad esso non perché desidera che rimanga per sempre così com’è, ma per l’opera d’arte che ne può venir fuori. Ama ciò che il tronco può diventare… Così, anche tu, quando il nemico ti si  oppone, si adira contro di te, ti insulta, ti molesta, ti oltraggia e i perseguita con odio, tu vedi ciò che egli è. Ma tu, cosa dici nel tuo intimo? Signore, sii benevole con lui, perdona i suoi peccati, infondi nel suo cuore il tuo timore, cambialo. Tu non ami il nemico che c’è in lui, ma il fratello che vuoi che egli sia. Dunque, quando ami il nemico, ami il fratello.

    E se non cambia? Non desistere, stai facendo in modo che Dio stesso sia il tuo debitore. Non domandarti se l’altro è degno o no del tuo amore, ma chiediti, invece se tu come discepolo del Signore non debba amarlo: Se amate quelli che vi amano, che merito ne avrete? Anche i peccatori fanno lo stesso. E se fate del bene a coloro che i fanno del bene, che merito ne avrete? (Lc 6,32-33).

    La parola grazia esprime il concetto di gratuità, un sentimento che ci strappa dalla sfera della compravendita, del do ut des, per introdurci nella sfera dell’amore incondizionato del Padre, di Colui che non ama gli altri perché sono buoni, ma perché lui è buono per se stesso.

    E. Freud diceva: Quando mi chiedo perché ho sempre agito onestamente, disposto a perdonare gli altri e a mostrarmi gentile ogni qual volta che mi è stato possibile, e perché ho continuato sempre a comportarmi così, pur rendendomi conto che così facendo potevo recare danno a me stesso, esponendomi ai colpi degli altri, dato che esistono uomini brutali e indegni, veramente non trovo una risposta.

    Non è forse questo un influsso della grazia, una nostalgia del nostro essere fatti ad immagine e somiglianza del Creatore?

    Fratel R. Schtutz afferma: Perdonare significa rinunciare a capire ciò che l’altro farà del tuo perdono… Non bisogna perdonare affinché l’altro cambi col nostro perdono. Questo è un calcolo miserabile che non ha niente a che fare con la natura gratuita dell’amore. Si perdona soltanto per seguire le orme di Gesù Cristo. Per poter essere perfetti come è perfetto il Padre nostro che sta nei cieli.

    SCHEDA DI LAVORO

    1. Leggo e medito Mt 5, 43-48.
    1. La mia verifica sulla pratica del comandamento della carità trova il suo punto di riferimento nella perfezione d’amore del Padre? Oppure si ferma a confini posti da me stesso?  Quanti escludo dal mio amore? In che modo?
    1. Il mio impegno nel perdonare il nemico      come si concretizza nella mia vita cristiana? Pongo dei gesti concreti? Mi sforzo di pregare per i miei nemici?

     

  • 29 Mag

    I SETTANTADUE: DUE A DUE AVANTI A SÉ
    Luca: 10,1-20

     

    a cura di p. Attilio Franco Fabris

     

    1 Dopo questi fatti il Signore designò altri settantadue discepoli e li inviò a due a due avanti a sé in ogni città e luogo dove stava per recarsi. 2 Diceva loro: «La messe è molta, ma gli operai sono pochi. Pregate dunque il padrone della messe perché mandi operai per la sua messe. 3 Andate: ecco io vi mando come agnelli in mezzo a lupi; 4 non portate borsa, né bisaccia, né sandali e non salutate nessuno lungo la strada. 5 In qualunque casa entriate, prima dite: Pace a questa casa. 6 Se vi sarà un figlio della pace, la vostra pace scenderà su di lui, altrimenti ritornerà su di voi. 7 Restate in quella casa, mangiando e bevendo di quello che hanno, perché l’operaio è degno della sua mercede. Non passate di casa in casa. 8 Quando entrerete in una città e vi accoglieranno, mangiate quello che vi sarà messo dinanzi, 9 curate i malati che vi si trovano, e dite loro: Si è avvicinato a voi il regno di Dio. 10 Ma quando entrerete in una città e non vi accoglieranno, uscite sulle piazze e dite: 11 Anche la polvere della vostra città che si è attaccata ai nostri piedi, noi la scuotiamo contro di voi; sappiate però che il regno di Dio è vicino. 16 Chi ascolta voi ascolta me, chi disprezza voi disprezza me. E chi disprezza me disprezza colui che mi ha mandato». 17 I settantadue tornarono pieni di gioia dicendo: «Signore, anche i demoni si sottomettono a noi nel tuo nome». 18 Egli disse: «Io vedevo satana cadere dal cielo come la folgore. 19 Ecco, io vi ho dato il potere di camminare sopra i serpenti e gli scorpioni e sopra ogni potenza del nemico; nulla vi potrà danneggiare. 20 Non rallegratevi però perché i demoni si sottomettono a voi; rallegratevi piuttosto che i vostri nomi sono scritti nei cieli».

    Questi settantadue discepoli svolgono un ruolo simile a quello di Giovanni. Si pongono tra la comunità apostolica e la comunità del mondo. Esprimono la varietà dei ministeri di cui il Signore (Kyrios v. 1 il risorto) ha bisogno per realizzare la sua missione.

    Essi sono per così dire la premessa di una comunità, una Chiesa, tutta ministeriale che troverà pieno sviluppo nelle seguenti comunità apostoliche. La loro missione prelude alla missione ministeriale di tutta la Chiesa, destinata a tutte le genti (72 popoli secondo Gn 10 vers. LXX)

    Essi condividono la missione di Gesù, si sono  consegnati a lui e lui si è consegnato a loro perché chi vede loro veda lui e chi ascolta loro ascolti lui. Sono la missione della Chiesa concretizzata nella vita, nella storia, negli incontri di ogni giorno.

    Questi discepolo hanno ricevuto da Gesù precise indicazioni. Essi devono rendere possibile l’incontro tra lui e l’umanità. Ciò sarà reso possibile dalla testimonianza d’amore che essi sapranno offrire al mondo; per questo sono mandati a due a due: “Da questo sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri”.

    Andate...”: il comando categorico di Gesù indica la serietà dell’impegno missionario.

    Gesù imprime in loro la stessa passione e urgenza (non salutate nessuno) per il regno indicando che il primo modo di viverla è desiderare che altri la condividano.

    Essi sono indifesi, poveri, deboli, (“agnelli in mezzo ai lupi”) ma totalmente concentrati sulla consapevolezza dell’importanza e dell’urgenza di quello che Gesù ordina. Egli li manda all’interno della quotidianità, della ferialità perché è lì, in quella esperienza umana, che Gesù vuol far giungere l’evangelo del regno. La casa, l’intimità, la ferialità…

    L’evangelo è destinato a diventare casa, città, stile di vita, guarigione, storia di gente concreta. I discepoli faranno in modo che chi li ascolta senta che sta ascoltando il Signore, che chi li disprezza sta disprezzando il Signore; il loro annuncio non appartiene a loro perché non è solo umano, sociologico, laico… Esso viene da Dio, ed è destinato ad irrompere nella storia per trasformarla in Regno di Dio.

    I discepoli ritornano con gioia ed essa è condivisa da Gesù stesso (vv 18-19). La loro missione è riuscita. Ma Gesù avverte: questa gioia, la vostra passione e il vostro zelo, non devono derivare dal fatto che i demoni si sottomettono…. Verranno infatti giorni in cui essi sperimenteranno la delusione, l’insuccesso, l’amarezza e la persecuzione: se hanno perseguitato me perseguiteranno anche voi. La loro gioia deve fondarsi su un’altra realtà: il fatto che essi stanno dando la vita per il servizio del regno e che questo merita loro che i loro nomi siano scritti nei cieli: “Siamo solo servi inutili, abbiamo fatto quello che dovevamo fare”…. “Vieni servo buono e fedele entra nella gioia del tuo padrone”. Il cercare altro è pericoloso e sempre insufficiente.

    CONFRONTANDOMI

    Con la Chiesa, come Chiesa, sono costruttore di un regno che in germe è già presente tra noi ma non ancora pienamente manifestato e realizzato.

    La missione dei settantadue dice l’amore per la Chiesa, per essere Chiesa, per consegnarmi alla Chiesa e alla missione che Gesù le ha affidato.

    Ma devo preoccuparmi sempre di far un passo in più. Da un sentirmi partecipa della vita della Chiesa al sentirmi partecipe alla vita del mondo mettendomi sempre dal punto di vista della Chiesa, palpitando con essa la sua missione per l’uomo frutto dello Spirito di vita.

    Si tratta di:

    Amare la Chiesa. Come Madre che mi ha generato alla vita della fede. Amare anche le sue rughe, e le sue stanchezze, contraddizioni. Amarla anzitutto.

    Amare la storia come la Chiesa la ama. Con la sua passione, il suo dramma. L’essere tutta di Dio pur mescolandosi in mezzo agli uomini.

    Amare la missione della Chiesa, consegnandomi sempre più ad essa. Ciò significa consegnarmi a Cristo stesso. E’ una vita donata, feconda, preziosa.

    Il mondo non capirà, ma vedendo la nostra testimonianza si innamorerà di ciò che è oltre di noi. Innamorandosi vorrà sperimentare. Sperimentando comprenderà.

    DI CONSEGUENZA

    Voglio collocare la mia piccola storia nella storia della Chiesa. Una Chiesa concreta fatta di volti precisi con le loro bellezze e i loro limiti.

    Voglio amare la Chiesa: imparando a guardare e amare il mondo attraverso i suoi occhi.

    Voglio amare la Chiesa e le chiese che fanno Chiesa. La mia comunità, la mia parrocchia…

    Prendo coscienza del mio essere consacrato alla missione.

     

  • 28 Mag

    LA LAVANDA DEI PIEDI: “IO VI HO DATO L’ESEMPIO…”
    Dal Vangelo di Giovanni: 13, 1-17

     

    a cura di p. Attilio Franco Fabris

     

    1 Prima della festa di Pasqua Gesù, sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine. 2 Mentre cenavano, quando già il diavolo aveva messo in cuore a Giuda Iscariota, figlio di Simone, di tradirlo, 3 Gesù sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani e che era venuto da Dio e a Dio ritornava, 4 si alzò da tavola, depose le vesti e, preso un asciugatoio, se lo cinse attorno alla vita. 5 Poi versò dell’acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l’asciugatoio di cui si era cinto. 6 Venne dunque da Simon Pietro e questi gli disse: «Signore, tu lavi i piedi a me?». 7 Rispose Gesù: «Quello che io faccio, tu ora non lo capisci, ma lo capirai dopo». 8 Gli disse Simon Pietro: «Non mi laverai mai i piedi!». Gli rispose Gesù: «Se non ti laverò, non avrai parte con me». 9 Gli disse Simon Pietro: «Signore, non solo i piedi, ma anche le mani e il capo!». 10 Soggiunse Gesù: «Chi ha fatto il bagno, non ha bisogno di lavarsi se non i piedi ed è tutto mondo; e voi siete mondi, ma non tutti». 11 Sapeva infatti chi lo tradiva; per questo disse: «Non tutti siete mondi». 12 Quando dunque ebbe lavato loro i piedi e riprese le vesti, sedette di nuovo e disse loro: «Sapete ciò che vi ho fatto? 13 Voi mi chiamate Maestro e Signore e dite bene, perché lo sono. 14 Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i vostri piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri. 15 Vi ho dato infatti l’esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi. 16 In verità, in verità vi dico: un servo non è più grande del suo padrone, né un apostolo è più grande di chi lo ha mandato. 17 Sapendo queste cose, sarete beati se le metterete in pratica.

    I gesti compiuti da Gesù durante l’ultima cena esprimono la pienezza di un amore senza riserve: “Li amò sino alla fine…”. Cioè fino alla perfezione, sino al compimento, oppure fino alla fine della vita, sino alla morte. Fine: telo; in greco sembra formare un’inclusione con l’ultima parola di Gesù in croce: Tutto è compiuto – tetélestai.(19,30) con la quale Gesù esprime il compimento dell’opera affidatagli dal Padre per la salvezza del mondo.

    I discepoli ormai sono i “suoi”: l’adesione ormai è sincera, seppur in mezzo a molti tentennamenti ed incertezze. Ma una cosa è certa: essi hanno lasciato tutto per seguire il loro Maestro e Signore….

    C’è una vita con lui, educata da lui con le parole e l’esempio. C’è una quotidianità con lui, uno stare insieme (“perché stessero con lui” – “Maestro dove abiti? Venite e vedete!”)… Si è intuito da parte dei discepoli che egli è il Messia, tuttavia… non si è andati ancora sino alla fine….

    In questo momento, in quest’ultima tappa della vita terrena di Gesù, si esige un salto di qualità: da una vita ricevuta si passa ad una vita donata. C’è da diventare come lui: la beatitudine è oltre la sequela. E’ nella conformazione: non solo servi ma amici. Non solo esecutori ma imitatori. Non solo con lui, ma come lui.

    Gesù dona se stesso nell’ultima cena ai suoi nel segno del pane spezzato e del vino versato. Corpo spezzato in sacrificio, sangue versato per la remissione dei peccati.

    Consegna se stesso ai suoi ma perché anch’essi siano consegnati al mondo. Consacro me stesso perché siano anch’essi consacrati nella verità. “Io vi ho dato l’esempio perché come ho fatto io così facciate anche voi”.

    Una vita così intesa assume significati così profondi che il mondo potrà solo ammirare: non capire “Sarete beati…”. Ammirando e ascoltando, solo allora, se vorrà, l’uomo sperimenterà che cosa succede a fare della propria vita un dono. Allora e solo allora, nella beatitudine che ne deriva, gli uomini capiranno…

    Ma Gesù deve cominciare con i suoi. Da seguaci li rende comprotagonisti. “Io nel Padre e voi in me…”-

    Il tutto è avvolto nella testimonianza di dono, di servizio. Gesù si cinge con l’asciugatoio. Il contesto è sacerdotale e questo è l’unico abito liturgico indossato da Gesù. Egli compie un gesto profetico. Per sé la lavanda dei piedi era gesto abituale all’inizio dei pasti ma non durante. Un servizio tanto umile che era demandato agli schiavi non ebrei. E’ facile immaginare lo sconcerto provocato dai discepoli.

    L’eucaristia scaturisce dalla diakonia e fa sgorgare la diakonia.

    Servi gli uni degli altri.

    Popolo regale e profetico, Signori e Maestri, si diventa se l’essere popolo sacerdotale comporta il cingersi con un grembiule per servire… “Per voi e per tutti…”

    Il gesto profetico di Gesù diventa autentica scuola di vita per il discepolo

    Si apre un orizzonte straordinario di una vita spesa, fatta dono…

    E’ questa la premessa per vivere un’autentica esperienza battesimale e vocazionale personale e matura. In qualsiasi chiamata specifica il Signore mi abbia indirizzato, sempre occorrerà vivere questa prospettiva: quella di quel Giovedì santo

    CONFRONTANDOMI

    C’è un’ultima reazione che mi appartiene. La paura di Pietro a farsi lavare i piedi dal Signore.

    Il vivace scambio di battute tra Gesù e Pietro esprime l’incomprensione del gesto misterioso e anche la contrarietà del primo degli apostoli per l’umiliazione del maestro. Pietro rifiutando l’umile azione di Gesù rifiutava senza averne coscienza tutta la sua opera di Messia sofferente che doveva offrire la sua vita per la salvezza del mondo (cfr Mc 8,31-33: “Non sia mai…”).

    Pietro ha paura di lasciarsi definitivamente amare, e perciò compromettere.

    Ma devo lasciare fare a Gesù se voglio essere da lui trasformato a sua immagine.

    Solo accogliendo in maniera docile e radicale il suo gesto d’amore per  me imparo a calare la volontà di Dio nella mia vita lì dove sono anzitutto, con quelle determinate persone, in quelle precise situazioni.

    La vita di Gesù donatami nel pane e nel vino, nella lavanda dei piedi non si fermano solo a me. “Fate questo in memoria di me… Sarete Beati se lo farete anche voi gli uni agli altri”. L’essere stato chiamato fa di me un inviato.

    Una vita nell’Eucaristia. Una vita al servizio. Una vita che diventa eucaristia.

    La struttura celebrativa dell’eucaristia diventa la sorgente e la forma del mio itinerario:

    prendo coscienza della mia fragilità e del mio peccato

    Mi pongo in ascolto della Parola.

    L’offerta di me al Padre

    Una vita consacrata dallo Spirito in Cristo, per Cristo e con Cristo

    Un vita inviata per farsi dono.

    DI CONSEGUENZA

    Si tratta di fare della mia vita un’eucaristia conformandomi a Cristo nella sua passione.

    La celebrazione dell’eucaristia: un punto di arrivo e di partenza.

    Il servizio: modalità con cui si attua, atteggiamenti che suscita, motivazioni che lo incrementano. Difficoltà nel viverlo.

  • 27 Mag

    Acab e Michea

    ovvero della rivalità del “mi spezzo ma non mi piego!”

    1Re 22,1-38

     

    di p. Attilio Franco Fabris

     

     

     

     

    La controrisonanza della rivalità si scontra con la risonanza della coscienza dell’altro, di fronte alla verità. Come si rivela? Si manifesta nella fatica di dire: “Ho sbagliato!”, “scusa”.

    Cedere alla verità che mi si rivela mediante l’altro lo vivo come un perdere, un darla vinta, una sconfitta.

    Per cui il confronto con l’altro appare faticoso,  a volte doloroso e ci pone sulle difensive.

    Il confronto con l’altro lo si vive in modo conflittuale: l’altro appare un pericolo, una minaccia, se l’altro è o ha un “di più”, questo di più invece di rallegrarmi, mi affligge.

    Ci si pone sempre in un atteggiamento di competitività con l’altro: devo dimostrare a me e agli altri di essere più bravo, intelligente, forte, ricco, bello… Desidero la sconfitta dell’altro, e pretendo l’emergere di me stesso, la mia vittoria sull’altro.

    L’incontro con l’altro perciò è avvertito come rischioso,  viene evitato o, se vi è, vi si entra con un atteggiamento di polemica, di aggressività nel caso non si riesca a manipolare l’altro.

    Esiste una rivalità aperta ma anche una occulta, mimetizzata, difficile da individuare. Ci può essere infatti un apparente consenso in cui scindo la coscienza dalla sua manifestazione.

    Si ricerca la vittoria, ma la rivalità ottiene una vittoria fasulla, perché appoggiata a quel nulla che è la menzogna.

    Non vi è ricerca della verità ma semplicemente l’angoscia di padroneggiare sull’altro.

    L’uomo si chiude alla verità a causa della rivalità, si isola barricandosi e facendo battaglia contro tutto e tutti.

    Solo l’umile lasciarsi con-vincere dalla verità e il rinunciare alla verità può aprire all’esperienza di comunione vera.

    * * *

    Antecedenti

    Il matrimonio di Ioram figlio del re Giosafat con Atalia sorella di Acab sigillò un’alleanza politico-militare tra i regni di Israele e di Giuda che si concretizzò ben presto nel progetto della riconquista della città di Ramot rimasta in mano agli Aramei..

    Giosafat accetta la spedizione alla condizione che si consultino, secondo l’antica usanza, gli oracoli di JHWH al fine di conoscere l’esito della battaglia.. Acab così deve convocare circa quattrocento profeti di corte che gli assicureranno il successo…

    1. Trascorsero tre anni senza guerra…

    La pace costruita dall’uomo è sempre fragile e pronta ad essere distrutta per qualcosa che si ritiene più importante. All’altare dei propri interessi e tornaconti viene spesso sacrificata la pace.

    La pace rischia di divenire solo un più o meno breve intervallo tra due guerre.

    Vi è l’aspirazione messianica ad una pace che duri che tuttavia sembra inevitabilmente delusa.

    fece visita…

    Ciò che è compito della politica è il prodigarsi per il bene comune: “Coloro che sono rivestiti d’autorità, la devono esercitare come un servizio” (CCC 2235).

    La politica è il più delle volte solo un gioco di alleanze in vista di interessi da ambo le parti. Il fine è sempre identico: accrescere e conservare il potere. La massima aspirazione dell’uomo è il potere divinità al quale l’uomo è disposto a sacrificare tutto.

    E il bene comune che dovrebbe essere la prima e unica preoccupazione dell’uomo di governo? Esso viene messo troppe volte in secondo piano se non addirittura disatteso!

    3. Ramot di Gaalad: città assediata dai Siriani, situata nella transgiordania settentrionale. Una città assediata e conquistata significa ricchezza aggiunta, espansione di dominio e di potere.

    Tutti abbiamo mete ambiziose al fine di accrescere dominio e potere.

    5. consulta JHWH:  Perché Giosafat chiede questo e non Acab?[1]

    Forse Giosafat non ritiene di dover far guerra, vi si vede costretto, ma deve far buon viso a cattivo gioco. Non ha fatto alleanza col re di Israele per rinsaldare il suo trono? E ora non si può dire di No. Che fare… forse l’oracolo del Signore potrebbe avvallare il suo desiderio. Ma allora questa ricerca di un consulto non denota un desiderio di porsi in ascolto della volontà di Dio, esso è strumentalizzato al fine dei propri obiettivi. Nei confronti di Dio spesso anche noi cerchiamo ansiosamente “consulti”, il più delle volte non per porci in ascolto della Parola ma per ricercare conferme o scappatoie dinanzi alla vita. Vogliamo da Dio la conferma dei nostri progetti.

     

    6. convocò i profeti…: la richiesta di Giosafat urta il re di Israele. Egli  non ha la minima intenzione di sentire oracoli; in cui suo ha già deciso! : “I miei piani erano già decisi. E ora l’alleato pone condizioni. Devo pagare lo scotto della richiesta per non perdermelo”.

    Neppure lui allora vuole porsi in ascolto della parola.

    Ma si vede costretto, e che fare se non convocare i quattrocento profeti di corte. Non lo hanno mai deluso, lo hanno sempre appoggiato. Più i profeti sono numerosi più si sincererà della “verità” e bontà della sua decisione. Così ricerchiamo sempre l’avvallo della maggioranza, tutti mi danno ragione… allora è vero! Rassicura ritrovarsi all’interno della maggioranza.

    I due re non si stanno ponendo il problema di ricercare la Parola di Dio per il bene del popolo. L’uno cerca l’avvallo l’altro la scappatoia.

    Non è così tante volte anche per noi?

    Quelli risposero:” Sali pure…”: una risposta unanime, entusiasta di tutta una folla di profeti, che assicura l’immancabile vittoria. Questa unanimità al primo momento non fa suscitare compiacimento, soddisfazione, certezza di essere nel giusto? Perché dovrebbe essere sospettosa? Ma questa risposta così entusiasta da parte dei profeti come mai è così unanime? Quali risonanze nasconde?

    Il desiderio non sarà forse quello di avvallare il potente nei suoi desideri, di non deluderlo. Perché? Perché così ci si assicura le sue grazie e i suoi benefici. Ce sempre da guadagnare nel servire e compiacere il potente.

    Siamo disposti a negare la ricerca della verità, a tradire la nostra coscienza, pur di non perdere determinati vantaggi.

    Certo, si corre un rischio perché la cosa andrà in porto nella misura in cui andrà in porto al potente, se fosse il contrario?… Allora rimane sempre la possibilità do “cambiare” potente schierandosi magari con quello avversario.

    Il debole ha paura di deludere le aspettative del forte: paura delle conseguenze fatte di rifiuto, di condanna… è la controrisonanza della paura degli altri (cfr. la seconda controrisonanza).

    Anche per questi quattrocento profeti  il bene comune passa in secondo piano.

    L’orizzonte è fatto solo dei propri interessi e ingaggi.

    7. Non c’è nessun altro profeta?: Stranamente Giosafat, re di Samaria non si lascia almeno per il momento raggirare dal parere della maggioranza. Vuole la certezza di un responso.

    Questo perché ha sfiducia nei confronti del re di Israele? Non si fida di lui? Insicurezza da parte sua? Dovere di coscienza? Potrebbero essere molteplici le motivazioni di questa sua insistenza…

    8. v’è ancora un uomo che io detesto: la parzialità del re di Israele nell’interpellare JHWH è drammatica: ne andrà di mezzo lui stesso e il suo popolo. Egli sa e riconosce il  ruolo di profeta da parte di Michea. Ma non vuole sentire ragioni contro le sue ragioni, campane diverse mi danno fastidio, le detesto, voglio sentire la musica che decido io non un’altra!

    Pretendo che l’altro corrisponda alle mie attese, ai miei desideri. Se li delude diviene per me detestabile, non voglio aver a che fare con lui. (il grillo parlante di Pinocchio!). Voglio ascoltare solo quello che voglio ascoltare. In tal modo non sono disponibile ad una ricerca sincera della verità.

    In questo malanimo e rifiuto di convocare Michea vi è la chiusura di Acab nei confronti della verità che giudica e pone in discussione la sua vita e le sue scelte. Acab non vuole che questo accada: ha già i suoi progetti. Pone in discussione il profeta (“non mi predice che sventure”) non la sua vita… a costo di rimetterci di persona!

    Troppe volte forse noi come Acab ci rifiutiamo di porci in ascolto di chi sappiamo capace di dire la verità su noi stessi e sulle cose. Troppe volte come Pinocchio mettiamo anche noi a tacere, anche in modo violento, chi ci annuncia la verità.

    La storia dell’umanità e della Chiesa è piena di testimonianze di questo rifiuto, barriera, ostracismo nei confronti del “profeta”.

    Il re non dica queste cose: vi è sempre qualcuno o qualcosa che mi invita ad aprire la coscienza alla verità. Ma viene ascoltato?

    10. nell’aia antistante la parta di Samaria:  era l’aia usata per trebbiare il grano, che si stendeva davanti alla porta delle città antiche. E’ la grande piazza: il luogo più importante. La scena dunque è solenne. I due re al centro con gli abiti da cerimonia, abiti che proclamano il loro ruolo di potenti, di capi. (l’abito fa il monaco). Ben distinti dagli altri. Il potere esige sempre un apparato esteriore che lo avvalli e lo distingua dai “comuni mortali”.

    11. si fece corni di ferro: I due sono circondati dai quattrocento profeti di corte che profetizzano alla loro presenza assicurando vittoria e successo all’impresa. Anche questo un apparato che ammalia e rassicura, e che nasconde la verità. E la coscienza viene messa a tacere

    I profeti sono capeggiati da un capo: Sedecia figlio di Cheeanna. Anche lui impronta la sua sceneggiata: agita corni di ferro, come simbolo di forza. Con questo intende significare o forse produrre in modo magico la vittoria di Acab sugli Aramei. A questo capo si affiancano tutti gli altri. Il leader trascina sempre: affascina come una “star”.

    Preferiamo troppo spesso circondarci di tanti e tanti “profeti” che ci accontentano pensandola come noi, cerchiamo applausi e consensi in ogni direzione. Amiamo circondarci di persone che sempre ci danno ragione: è molto più appagante e tranquillizzante. Ma il prezzo quale è?

    13. il messaggero: strana figura questo personaggio che si reca da Michea. Gli comunica l’universale parere favorevole dei profeti di corte nei confronti dell’impresa. Egli vi crede o no? Il suo invito è quello di accodarsi, di non cantare fuori dal coro. Anche lui si rivela vittima e complice degli interessi di corte.

    Perché quest’invito? …probabilmente avrà avuto un preciso ordine dall’alto di ingiungere al profeta di accodarsi al parere unanime degli altri. Altrimenti…!

    Una cosa è certa: il pressante invito è di tradire la sua coscienza di profeta. E’ il ruolo di tentatore, di sabotatore della coscienza altrui.

    Non capita a volte che noi stessi invitiamo l’altro ad agire in modo diverso da ciò che la coscienza gli detta, e questo per ottenere noi vantaggi diretti o indiretti? Per giustificare la nostra stessa falsa coscienza?

    14. quel che JHWH mi dirà io annuncerò: Michea qui appare già nella statura dell’autentico profeta che fa suo il compito affidato: dire la parola di JHWH e solo quella.

    Noi al contrario o non la diciamo per paura di deludere, oppure cerchiamo di adattarla, zuccherarla: “si… però…” “è vero tuttavia…”. La parola di Michea è una parola chiara, decisa non ambivalente o accomodante.

    E’ la “parresia” dono dello Spirito: ovvero la franchezza nell’annunciare la Parola di Dio senza timore, anche a scapito di rimetterci la vita.

    15. il re disse… il profeta rispose: Lì nella piazza dinanzi ai due re, ai quattrocento profeti, a tutto il popolo si svolge il dialogo col profeta. Alla domanda del re, Michea risponde ironicamente dando apparente assenso.

    Michea conosce il cuore del re Acab, la sua incapacità di ascolto. Si prende gioco di lui, e in modo ironico ripete le stesse parole dei falsi profeti. E’ Dio stesso che prende atto di questa durezza di ascolto e d’incapacità di apertura alla verità. Questo tono ironico non è già forse un invito alla coscienza del re a prendere atto di questa sua chiusura?

    La profezia non vuole conquistare alcunché, si pone solo al servizio lasciando che la verità si faccia strada da sé, non si impone con la violenza, si offre nella sua debolezza.

    16. la verità nel nome di JHWH: Acab avverte cosa si nasconde dietro il tono con cui il profeta pronuncia le parole degli altri profeti.

    Per non smentirsi nel suo potere Acab accetta una verità che venga dal di fuori della sua cerchia, ma per poi combatterla poiché il potere non può correre il rischio di indebolirsi. Ma è questa grettezza a segnare la fine di ogni potere che ricerca solo se stesso e non il bene comune.

    Perché il profondo della coscienza opera un forte richiamo, non può tacere. Domanda la verità, anche se io cerco di farla tacere e la metterò a tacere. Si attua nella coscienza una sorta di doppiogioco di accogliere e nello stesso tempo negare la verità.

    Da un lato non voglio udire la verità, dall’altro la mia coscienza me lo impone. E’ una battaglia strenua, implacabile. Mi sento diviso. Ma anche nel caso in cui lascerò la coscienza parlare ed aprirsi avrò ancora da combattere perché la mia controrisonanza mi domanderà di porla nuovamente a tacere. Mantener disponibile la coscienza alla verità è impresa ardua e sofferta.

    17. disperso sui monti….: Michea pronuncia la sua profezia. La Parola è comunque detta per chi la richiede ed è comprensibile agli orecchi di chi sa ascoltarla. Se vi è questa richiesta in Acab, questa lotta per cui da un lato desidera conoscere e dall’altro no, allora il profeta coglie l’occasione, questo minimo spiraglio per comunicargli la Parola del Signore.

    Le sue parole predicono esplicitamente la disfatta d’Israele e velatamente anche la morte del re. Israele sarà come un gregge disperso, senza pastore! A meno che… il re non cambi idea e rinunzi al suo progetto.

    18. Non ti avevo detto…?: Sono le parole stizzite di Acab a Giosafat: “Ecco te la sei cercata e voluta. Che farmene di un profeta capace solo di preannunziare sventure?”.

    Anche qui riscontriamo la chiusura della coscienza del re. Egli sospetta che deve aspettarsi una tal profezia, e in un certo senso se ne immunizza con la frase: “Ecco lo sapevo! Lo sapevo già che sarebbe andata a finire così!”. Una frase che dice ancora una volta la non volontà di porsi in ascolto e dunque in discussione: “So già cosa pensi, quindi è inutile che stiamo qui a discutere”.

    E’ possibile un sincero ascolto e discernimento della volontà di Dio con queste premesse così grette?

    Quante volte i nostri: “Lo sapevo!”, non fanno che confermarci nella nostra falsa coscienza e il nostro non ascolto?

    Acab dinanzi a Giosafat, ai quattrocento profeti, al popolo come può piegarsi a dare ragione a quello “straccione di menagramo” che è il profeta Michea: sarebbe un perdere la faccia davanti a tutti. Non vuole certamente mostrarsi vulnerabile davanti a tutti. La sua reazione è dunque di disprezzo e di noncuranza: “Tanto lo sapevo!”.

    19. L’intera schiera celeste: Michea non può far altro che portare a termine il suo compito di profeta. Descrive un’assise celeste. JHWH è antropomorficamente presentato come un sovrano terrestre che si consulta con i suoi consiglieri. Un immaginario dialogo per decidere la sorte di Acab.

    21. lo spirito: è la personificazione dello spirito profetico, la forza mediante la quale Dio trasforma l’uomo in suo portavoce.

    Certo riuscirai a sedurlo: quanto è facile all’uomo mettersi in ascolto dei falsi profeti. Essi promettono successo, gioie e realizzazione a basso costo e per vie facili e alettanti. Sono la porta e la via larga facili da percorrere ma che conducono alla perdizione.

    Lo spirito di menzogna asseconda l’uomo nei suoi desideri e aspettative fatte di potere, successo, gloria, piacere. La seduzione è forte, irresistibile… l’uomo vi quasi trascinato incosapevolmente.

    23. JHWH ha posto uno spirito di menzogna: non si distingue nella lingua semitica volontà iussiva e volontà permissiva.

    24. Allora Sedecia…: la reazione del capo dei profeti di corte è immediata e violenta. Quando ci sentiamo minacciati nella nostra immagine ci difendiamo in ogni modo, anche a scapito della verità.

    Ma la verità ha bisogno di essere difesa con la violenza o si impone da se stessa?

    Sedecia rivendica violentemente l’esclusiva della “sua” verità. Ma quando vi è violenza nel voler difendere le proprie ragioni e la propria verità, vi è sempre la certezza che tale atteggiamento nasce solo dalla paura, dalla resistenza all’accettare la vera verità, si ha paura di scoprirsi vulnerabili.

    Quello schiaffo dato a Michea rimanda allo schiaffo dato a Gesù da parte servo in casa del sommo sacerdote: “Così rispondi al sommo sacerdote?” (Gv 18,22). Anche in quel caso la risposta di Gesù è un appello ad aprirsi alla verità.

    25 . Michea rispose: la reazione del profeta è controllata, non si lascia trascinare nel vortice della violenza dell’avversario. Egli rimanda solo al compimento della parola da lui annunciata. Il che vuol dire che rimette la sua causa e il suo diritto nella mani di Dio che lo ha mandato. Dio unica difesa e garante della verità della parola pronunciata. Non tocca a me difendere il diritto di Dio!  A me il compito di testimoniarlo: “La mai difesa è nel Signore, egli salva i retti di cuore” (Sal 7,11).

    26-27. Mettete costui in prigione: l’ordine è dato all’eunuco che l’aveva introdotto. Che il profeta sia consegnato all’ufficiale di giustizia. Ma quale “giustizia”? Che ha fatto di male il profeta?

    La verità della Parola è scomoda, urta e destabilizza: deve essere rinchiusa affinché non disturbi i nostri piani e i nostri progetti.

    Messa a tacere (ed è la sorte di tutti i profeti!) non per questo essa non agisce.

    E’ la sorte questa di tutti i profeti antichi e nuovi, è la sorte di Gesù messo a tacere sulla croce.

    27. finché non ritornerò sano e salvo: le false speranze sono dure a morire. Acab dimostra una sordità inaudita dinanzi alla parola. Non se ne lascia interpellare. La vita deve continuare secondo i suoi progetti e aspettative. Non vuole saggiamente nemmeno per un istante confrontarsi con la possibilità dello smacco e dell’insuccesso. Acab non vuole confrontarsi con la perdita! Nella vita pretende e si illude di dover essere sempre vincitore.

    28. Se tu ritornerai…: Ancora, come ha fatto con Sedecia, Michea affida la sua causa e la sua giustizia a colui che lo inviato. La sua sorte è legata alla verità della parola che è stato inviato a dire. Non ad altro.

    Michea non ricerca appoggi, non si piega ad accomodamenti.

    29 –30. Io mi travestirò: gli eserciti di Samaria e di Giuda partono dunque per Ramot. La parola di Michea non è stata presa in considerazione. Non la si è voluta ascoltare.

    Ma ecco che sul campo di battaglia Acab fa una richiesta alquanto “strana” al re di Samaria. Che Giosafat mantenga l’uniforme regale. Acab invece si travestirà da semplice comandante.

    Questa misura è adottata da Acab dopo le parole di Michea allusive al pericolo a cui sarebbero stati esposti i capi? E’ la falsità e la codardia di chi si traveste per non farsi riconoscere.

    La parola profetica dunque l’ha in certa misura destabilizzato. Acab avverte dentro di sé il disagio, la paura: “E se fosse vero”. Ma la sua rivalità nei confronti del profeta gli impedisce di cedere, di dar ragione, di rivedere le proprie posizioni. Va avanti nonostante tutto a testa bassa, cercando di adattare la realtà alle proprie paure e alle proprie false sicurezze. Si deve travestire perché ha paura di essere se stesso, di assumersi la totale responsabilità di ciò che accadrà.

    E’ una sfida nella quale vuole uscire vincitore con l’inganno. Ma è possibile ingannare così la propria coscienza? E’ possibile eluderla attraverso inganni e travestimenti? O la realtà prima o dopo mi imporrà di venire allo scoperto e di mostrarmi nudo per quel che sono?

    Troppe volte per eludere la verità della coscienza ci si traveste… inutilmente.

    31. Combattete contro il solo re d’Israele: è la vita stessa che si impegna a porre in scacco la menzogna e la falsità. Prima o dopo essa la verità e serietà della vita domanda il conto a chi si illude di sfuggirle.

    32-33. I comandanti videro Giosafat: l’apparenza a volte inganna. Giosafat lancia un grido di guerra o di soccorso? O grido di aiuto rivolto al Signore suo Dio facendo conoscere agli assalitori che non si trattava del re di Israele? Fortunatamente per Giosafat viene riconosciuto per quello che è veramente è. Nella vita se siamo quello che siamo, senza travestirci ci salviamo.

    34. Ma un uomo scoccò una freccia a caso: : Una freccia tirata a caso colpisce Acab. La corazza era un giubbotto di cuoio o di stoffa su cui erano fissate placche di metallo somiglianti a squame. La freccia riesce ad infilarsi mortalmente nelle carni del re.

    (Proviamo ad ascoltare le risonanze di Acab nel momento in cui viene ferito a morte:…..)

    35. se ne stette ritto sul carro… il sangue colò sul fondo del carro: Ad Acab vengono a mancare le forze. Sta male. Al carrista ordina di portarlo fuori dalla mischia.

    Logica vorrebbe che se sta male si facesse curare, che tornasse all’accampamento, facesse terminare la battaglia mettendo in salvo i suoi giovani guerrieri, logica vorrebbe che riconoscesse la tragicità del momento e si arrendesse dinanzi alla verità, all’evidenza.

    Ma tutto questo non accade. Come mai? Cosa si muove nel cuore di Acab? Perché non si ricrede riconoscendo il proprio errore?

    Cedere significherebbe riconoscere lo sbaglio, il torto di non aver dato retto al profeta e alla sua parola. Significherebbe riconoscere a se stesso e dinanzi al popolo di non aver agito correttamente. Ma tutto questo implica un cedere, un “perdere” dinanzi al quale Acab moribondo non si arrende. Neanche nel punto di esalare l’ultimo respiro!

    A costo di far cadere tutto il suo esercito sotto la spada del nemico e di consegnare il suo popolo allo sbaraglio più compelto Acab non si arrende. Stringe i denti nei confronti della vita che gli sfugge inesorabile tra le mani. Lo sa… ma non cede!

    Una controrisonanza dunque fortissima. Un rifiuto della verità a costo di rimettere la propria vita e la vita degli altri. Fino all’ultimo l’uomo si illude di padroneggiare la situazione e di fuggire il confronto con la verità.

    (Proviamo ad ascoltare le risonanze di Acab che ritto sul carro vede il suo sangue, la sua vita svanire sul fondo del carro e la disfatta dinanzi ai suoi occhi….)

    36. Al calar del sole un grido: il re è morto!: alla sera, dopo una giornata di combattimento, ecco il grido che dice la disfatta e l’inutilità di tutto quel spargimento di sangue, la follia di quella guerra conclusasi con nulla di fatto. Solo morte, dolore, sofferenza. Colui che doveva assicurare il bene al suo popolo è morto causando la morte di tanti e tanti altri.

    Questo è il frutto di morte dell’uomo quando si chiude alla verità volendo perseguire ad ogni costo progetti, ideali che si basano solo sulla rivalità, nel non voler dar ragione all’altro, nel non ascolto.

    38. dove si lavavano le prostitute: Il corpo è seppellito in terra straniera. Il carro lavato nella piscina della prostitute. Un particolare che aggiunge disonore a disonore.

    Secondo la parola che HJHW aveva pronunciato: una parola, quella di Dio, infallibile che fa quel che dice e dice quel che fa.

    Una parola che dice che alla verità ci si può solo arrendere, rinunciando ad ogni sorta di potere su di essa. Occorre abbandonarsi ad essa liberandosi dalla pretesa di essere dio a se stessi.


    [1] Ai tempi di Saul  e di Davide la consultazione divina era compiuta dal sommo sacerdote mediante l’apposito strumento oracolare: l’efod. Qui invece vengono impiegati i profeti, considerati gli interpreti qualificati di Dio. Siamo ad un livello di esperienza religiosa e di ascolto più raffinato e “biblico”.
  • 26 Mag

    La guarigione del cieco nato

    ovvero: del conflitto con la verità

    Gv 9,1-41


    di p. Attilio Franco Fabris

     

    Il bambino al rimprovero della mamma per una malefatta in genere risponde: “Non sono stato io!”, oppure “E’ stata mia sorella!”, oppure: “Non l’ho fatto apposta!”.

    Riconoscere la verità fa male in quanto mi mette di fronte al mio limite, al mio errore. Eppure solo la verità assicura la libertà e la pienezza della vita: “La verità vi farà liberi” ha detto Gesù.

    Eppure la mia coscienza teme la verità. Se ne difende. La verità fa male (una canzone dei tempi passati anni 70 diceva: “La verità mi fa male lo so”).

    Si difende diventando parziale: si schiera dalla parte che fa più comodo.

    La coscienza mette in modo diverse tattiche per difendersi dalla verità (razionalizzazioni, proiezioni, scissione, negazione, fissazione… ovvero tutti i meccanismi di difesa).

    La controrisonanza vorrebbe piegare la verità a sé, in modo da camuffarla, reinterpretarla al proprio tornaconto.

    E’ famoso l’aneddoto di Esopo chiamato “La volpe e l’uva”. Di fronte allo smacco di non riuscire ad acchiappare l’uva posta in alto, la “coscienza” della volpe non può far altro che distorcere la realtà-verità, con una scusa, per tranquilizzarsi: “L’uva è acerba”.

    In fin dei conti il conflitto con la verità si traduce in rifiuto della realtà.

    Intorno all’ammalato grave in genere si vive profondamente questo conflitto: non si vuole accettare la verità della malattia. La si fugge: “Vedrai che tornerai a casa presto”; “Non preoccuparti…”.  Lo vive l’ammalato, lo vivono i parenti. In questo caso confrontarsi con la verità delle cose è insopportabilmente doloroso.

    Vi è un rifiuto della verità anche in chi ricerca l’assoluta infallibilità: questa ricerca affannosa nasconde il rifiuto della verità di se stessi la quale deve fare i conti la propria fallibilità.  Le certezze assolute ricercate ad ogni costo sono il tentativo estremo di tamponare le nostre insicurezze: sono la radice di tutti i fondamentalismi. L’arroccarsi nella propria presunta verità quando diviene intransigenza denota questo conflitto: la paura del confronto con una verità più grande di me.

    * * *

    1. 1. Un uomo cieco dalla nascita: Gesù è appena scampato da un tentativo di linciaggio da parte dei farisei nel tempio: ha chiaramente espresso la sua identità, suscitando scandalo e rifiuto.
      In questa situazione di tensione e di sofferenza interiore è Gesù che “vede” il cieco “dal ventre della madre”. L’iniziativa è sua. Pur soffrendo Gesù è capace di cogliere la sofferenza altrui: la sente propria.  Di nessuno dei ciechi guariti i sinottici dicono che si trattasse di un cieco dalla nascita.

    Si tratta di un povero cieco mendicante al bordo della strada (cfr. v. 8). Vive di pubblica assistenza ed è ancora legato ai suoi genitori.

    Cosa significa essere ciechi dalla nascita? Cosa comporta? Come ha vissuta la sua vita? La sua infanzia? La sua adolescenza? Che opportunità gli sono state negate? Che benefici ne ha ottenuto?

    Che tipo di relazioni con i genitori, i compagni…e con Dio?

    Prendo atto che quando vivo situazioni di tensione e di sofferenza è difficile che mi faccia attento agli altri, vedo solo me stesso, e le mie esigenze di salvare se stesso: si salvi chi può! Ciascuno salvi se stesso! Questo per Gesù non è vero.

    Come vivo il mio senso della vista? Lo vivo con consapevolezza?

    Il mio è un semplice guardare o un cercare di vedere? So interiorizzare quello che guardo, ovvero lo vedo, lo accolgo in me (come fa Gesù con il cieco!). Oppure sì, gli occhi vedono, ma non vedono perché la mia coscienza è altrove, non è aperta alla concretezza della realtà, ma ai miei concetti e pre-giudizi.

    E’ forse il caso di invitare con semplicità a riscoprire la consapevolezza del senso della vista: colori, forme, luci…

    Vivo l’esperienza della cecità?

    Ovvero:  nella mia vita ho o ho avuto le mie esperienze di buio…. Ho fatto l’esperienza del “non vederci chiaro”, di “brancolare” non sapendo che strada imbroccare?

    Come ho vissuto quei momenti? Cosa mi ha sostenuto in quelle situazioni?

    v. 2: i discepoli dissero: i discepoli esprimono l’opinione popolare che, benché confutata dall’esperienza di Giobbe, riteneva che la malattia fosse legata al peccato personale o dei genitori stessi (cfr. Lc 13,2).

    E’ tutta una vita che quest’uomo cieco dalla nascita, che chiameremo Beniamino, sente questo ritornello: “Uuh! Poverino! Chissà che cosa hai fatto per meritarti questo! Tu forse non hai colpa, ma i tuoi genitori….”. “Il Signore è buono: dunque se sei castigato così un motivo ci deve essere! La colpa o è tua o dei tuoi genitori!”.

    La persona di Beniamino è per la coscienza credente è un problema che interpella fortemente la fede. Perché? Perché il credente dinanzi a Beniamino è preso dalla paura; perché la fede dice che Dio è buono, ma accidenti! Se succedono queste cose, c’è da dubitare seriamente che Dio buono lo sia davvero. Allora Dio è buono o cattivo? Bisogna trovare a tutti i costi una giustificazione che tranquillizzi la mia coscienza, altrimenti siamo nei guai. Ecco allora! Se l’uomo soffre, se è colpito dalla sventura, non è perché Dio sia cattivo, ma perché l’uomo ha sbagliato, e quindi è castigato e punito, certo per il suo bene, ma punito! Dicendo che il peccato è causa della malattia discolpiamo Dio e assicuriamo la nostra coscienza che se si sente a posto di fronte alla legge può dormire sonni tranquilli.

    Di fronte alla sofferenza il credente sente di dover dunque trovare una spiegazione, non per consolare chi soffre, ma per tranquillizzare se stesso, per difendere ai propri occhi la reputazione di Dio.

    Ma con Beniamino, nato cieco, il problema si fa ancor più contorto e inestricabile. Un essere così perché è al mondo? Che ci sta a fare? Signore, ma perché queste cose? Come spiegarle? Occorre ancora trovare una spiegazione che mi tranquillizzi perché altrimenti sono guai… Allora? Certamente anche qui c’è peccato, se non suo, dei suoi genitori. Perché dei suoi genitori? Ma perché è cieco dalla nascita! E allora? Allora sono i suoi genitori che sono stati castigati: la causa sono loro! ”! Es 20,5 afferma: “Io sono il Signore tuo Dio, sono un Dio geloso, che colpisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione”.

    Sono dunque anni, è da una vita, che la coscienza del povero Beniamino viene tartassata, martellata da queste domande. Quante volte avrà pensato e forse guidato: “Non ne posso più!”.

    Come i suoi genitori vivono poi questa situazione? Quante volte si saranno fatti la domanda: “Ma dove abbiamo sbagliato per meritarci un castigo così?”. E’ dalla nascita di Beniamino che i due poveri genitori si sentono colpevolizzati a morte, e si colpevolizzano a vicenda: “E’ colpa tua!” “No! E’ colpa tua!”. In quella casa si vive un inferno.

    E la gente del circondario che dice, che pensa? Non penserà: “E’ colpa loro!”.

    Beniamino è cresciuto sentendosi un mostro, colpevole della sua malattia, attanagliato dal senso di colpa di aver reso infelici i suoi genitori.

    Non si sarà mai ribellato? Non sarà forse un giorno esploso gridando: “La colpa della mia infelicità siete voi! Perché se io soffro, se sono ridotto in questa situazione è per colpa vostra!”. E i genitori cosa avranno risposto: “Noi? Ma è a causa tua che noi soffriamo così!”.

    Ed ecco che in quel giorno di primavera lungo il marciapiede dove è seduto Beniamino sente ancora una volta la tragica domanda: “Maestro, per subire un castigo così, chi ha peccato, lui o i suoi genitori?”.

    Già è fatica vivere, guadagnarsi mendicando un pezzo di pane vecchio, ma sentirsi perseguitati dalla maledizione in questo ballottaggio di colpa… Basta! Non ne posso più!

    Il male interpella drammaticamente la coscienza del credente perché mette in seria discussione l’immagine di Dio. Finora in che direzione ho cercato una soluzione?

    Avverti nella situazione di Beniamino qualche relazione con la tua esperienza? Prova a descriverla.

    Vi è uno scaricare la responsabilità del male  dall’uno all’altro. Nessuno si accolla la responsabilità della sofferenza che è nell’uomo. Questo come lo vedi attuarsi in te e attorno a te?

    v. 3 Rispose Gesù: Mentre Beniamino si trattiene, sperando nell’elemosina, ecco che risuona una voce nuova. Ode stupefatto parole mai udite prima: “Né lui, né i suoi genitori”.

    Quale sarà la risonanza di Ruben a queste parole?…  “Questo mi vuole prendere in giro in un altro modo? Non è cattiveria anche se detta in altro modo? … “. D’altra parte però Beniamino avverte in quelle parole una possibilità di guardare alla sua situazione con uno sguardo diverso. Affidarsi a quell’uomo e alle sue parole, non potrebbe essere una scelta diversa?

    In quel giorno qualcosa di nuovo interviene nella vita di Beniamino. Intuisce una lettura diversa  del suo dolore. Certo il problema resta: “Allora perché sono in questa situazione?”.

    Gesù offre la sua lettura: una occasione propizia alla rivelazione di Dio. Dio vuole manifestare la sua “gloria” che è azione di liberazione e guarigione nell’uomo cieco in questo mondo.

    Ma che vuol dire? “Per la gloria di Dio? E la mia sofferenza servirebbe per dare gloria a chi ne ha già? No!”.

    Questa parola suscita in Beniamino una sorta di “sconbussolamento” interiore, nella sua coscienza. E’ da una vita che ha interpretato la sua situazione nella logica della colpa. Ma ora, se queste parole fossero vere, questo comporterebbe, una nuova “visione” della vita, di se stesso, della propria “morte”. Ora si tratta di aprirsi a questa possibilità nuova: il cieco nato accetterà di aver a che fare con quest’uomo?

    Questo è il punto di partenza dell’incontro di Gesù con Beniamino.

    Quale la tua risonanza, nei panni di Beniamino, alle parole di Gesù?

    v. 4b-5: Dobbiamo operare: il plurale indica che vi sono inclusi anche i discepoli i quali sono così chiamati a condividere e continuare l’opera di Gesù. Quindi Gesù vuole associare alla sua missione i suoi discepoli. Il “giorno” è la vita terrena di Gesù in cui deve compiere la missione affidatagli dal Padre. L’allusione alla sua passione, e quindi alla sua morte, anticipa il rifiuto a cui egli stesso andrà incontro quando vedrà i molti negare l’evidenza del miracolo. Si tratta di un rifiuto colui che compie “le opere di Dio”. Gesù ha fretta di compiere il miracolo, non bisogna perdere tempo, la giornata volge al termine!

    “Io sono la luce del mondo”: questa affermazione orienta alla rivelazione di Gesù-luce nel segno del cieco-nato. In altre parole egli afferma che senza la rivelazione di Gesù.

    v. 6 detto questo egli sputò…: (cfr Mc 7,33; Mc 8,23).  Un gesto strano, difficile da decifrare, all’apparenza quasi magico. Lo spalmare fango sugli occhi di un cieco non è aggiungere cecità a cecità, un sottolinearla, portandola all’esasperazione? Serve solo a peggiorare la situazione.

    Il fare del fango poi è azione espressamente proibita in giorno di sabato, ma Gesù la compie lo stesso! Si potrebbe riandare alla creazione di Adamo, tratto dal fango e nelle narici del quale Dio pone il suo soffio. Qui Gesù in qualche modo opererebbe una “nuova creazione” dell’Adamo ferito, cieco, sordo e muto: la sua saliva è il soffio-ruah che egli impasta con la terra.

    Quali le risonanze di Beniamino? “Non sono abbastanza cieco che questo qui mi mette ancora fango sugli occhi?”. “Ma cosa? Mi stai prendendo in giro?”. “Non bastano le umiliazioni ricevute fino ad ora perché tu voglia sottolineare il mio handicap?”.

    Tuttavia quel “lasciarsi toccare” da Gesù, gli infonde una sorta di pace: finalmente qualcuno che non teme di “toccare” la mia sofferenza!

    Nei panni di Beniamino come reagirei al gesto di Gesù?

    E Gesù perché lo compie? Cosa vuol far intendere a Beniamino e ai presenti?

    Che l’uomo prenda consapevolezza della sua cecità, non inganni la verità di se stesso. Abbia il coraggio di essere se stesso nel suo limite.

    Questo sicuramente fa soffrire. Beniamino soffre al gesto di Gesù, non lo comprende ma sente che questo gli pesa, viene a marcare il suo dolore non ad alleviarlo.

    Ma è questa la via della guarigione! Proprio mettendo la mano sulla piaga la si guarisce, è invece nascondendola a sé e agli altri che essa incancrenisce,  portandomi alla morte.

    Gesù non teme di porre la sua mano sulla ferita dell’uomo, in certo qual modo la fa sua.

    v. 7 va a lavarti alla piscina di Siloe: La piscina di Siloe si trova allo sbocco del canale fatto costruire da Ezechia (2Cr 32,30; Is 8,6)), che portava l’acqua dalla fonte di Gihon all’interno della città. Sta a sud del colle orientale di Gerusalemme, all’incrocio della valle del Cedron con quella del Tiropeion. Da questa piscina veniva attinta l’acqua per la cerimonia della festa delle Capanne.

    Giovanni da’ la traduzione della parola Siloe: “Inviato” (di per se è attivo: “mandante”). Si allude a Cristo stesso. E’ Cristo che guarisce, non l’acqua.

    Il cieco nato è mandato all’inviato.

    E’ un ordine che richiama quello di Eliseo dato a Naaman (2Re 5,10-13). Una guarigione dunque non immediata ma che esige una dilazione di spazio e di tempo (cfr Lc 17,12-15: i dieci lebbrosi sono anzitutto mandati per essere sanati).

    E’ un mettere alla prova la fede?

    Un ordine oneroso, la piscina è distante qualche chilometro e per un cieco è un’impresa.

    Quali le risonanze di Beniamino durante il viaggio imbarazzante e sofferto?

    (cfr. Naaman quando viene mandato a bagnarsi nel Giordano sette volte…).

    Beniamino si sente umiliato dal gesto e dal comando di Gesù?

    Dentro di sé sente gioia o imbarazzo, forse rabbia?

    Avrà paura del giudizio degli altri?

    Si sentirà solo nel suo cammino verso la piscina? Nessuno lo accompagna? Perché Gesù o qualcun altro non lo accompagna? Non lo fa perché Beniamino si giochi tutta la sua libertà e adesione nella fede: questa è atto estremamente libero e personale.

    Non si sentirà la tentazione di fermarsi, di tornar indietro, o almeno di togliersi quel fango che lo fa ridicolo agli occhi degli altri?

    Desidera il cambiamento? Lo spera? Lo teme?

    In fondo alla sua coscienza, in messo a tante risonanze contrastanti, non vi è forse una luce rappresentata dalla speranza/fede che le parole di quell’uomo da poco incontrato siano vere? “Dopo tutto lui non si è limitato come tutti a parlare di me dietro le spalle, ma mi ha parlato, si è rivolto proprio a me!”. In altre parole: il comando di Gesù trova spazio e credibilità nella coscienza di Beniamino in quanto egli prima ha udito la parola.

    Una considerazione: il comando morale se non trova ragione nella credibilità data dalla parola non regge da solo, la coscienza vi si ribella o vi si soggiace servilmente.

    Andò, si lavò, tornò che ci vedeva: una laconica conclusione per esprimere il capovolgimento nella vita di quest’uomo. Una serie di verbi telegrafici che descrivono succintamente ciò che avvenne.

    Non rimane che immedesimarci nelle risonanze di un uomo che inizia a vedere il mondo per la prima volta.

    Prima reazione: curiosità e superficialità

    8-9. non è l’uomo…?: la lunga discussione che segue al miracolo non ha intenzioni apologetiche al fine di mostrare l’autenticità del miracolo, ma ha lo scopo di far emergere le diverse posizioni nei confronti della verità. Ci saranno infatti diverse reazioni e posizioni nei confronti della verità.

    (Ci confronteremo con queste diverse reazioni al fine di far una sorta di “esame della vista”: scorgeremo e verificheremo la nostra capacità di accogliere la verità.).

    La prima reazione è della folla: c’è incertezza e perplessità dinanzi alla verità. Fatica a riconoscere in Beniamino la stessa persona che giaceva mendicante alla porta del tempio.

    Dopo il miracolo  la folla è dubbiosa, titubante. Perché?

    Strano! Non accade come dopo i miracoli raccontati dai sinottici a cui segue l’entusiasmo, la lode a Dio e la gioia di tutti (cfr. Lc 9,43; Mc 5,20). Davanti a una sorte di tal miracolo dovrebbe esserci un’accoglienza strabiliante, unanime talmente è evidente.

    Qui è diverso: potremmo definire la folla come la personificazione dei “superficiali”: dinanzi ai fatti non si impegnano, non sono capaci di andare oltre la loro modestissima inchiesta.

    Certo confrontarsi con quest’uomo prima immobile, impotente, dipendente e ora capace di muoversi, di essere autonomo e di prendere iniziative è impegnativo, scalza tante nostre certezze:  “Mah! Che bello!” è la loro tipica espressione a cui però non segue nulla di concreto, nessun schierarsi per la verità.

    Alla folla interesserà la superficie dell’episodio: come? Chi? E’ lui o non è lui? Ma non saprà andar oltre. Siamo nella linea della curiosità e del pettegolezzo.

    Sarebbe ovvio rivolgersi in primo luogo all’interessato, dialogare con lui: ma questo avviene solo alla fine. Prima c’è un confabulare, uno “spettegolare” e basta. Prima di interpellare l’interessato, il che sarebbe la cosa più ovvia, ci si crea un’opinione dall’esterno che poi sarà confermata, o “smentita” (ma si sarà d’accordo su questo?).

    10-11 Come? Chi ? L’interrogatorio dei curiosi continua: “Come è successo?”.

    Queste domande sono solo tese a soddisfare il prurito della curiosità della folla, la ricerca infatti si arena nella pura cronaca. Saputo che è stato un certo Gesù e saputo come ha agito la folla è accontentata. Il miracolo non suscita in essa un serio interrogativo di fede!

    La folla è costituita dalle persone che si fermano alla soglia del fatto, senza cercare di andarne alla radice. Sono coloro, direbbe san Paolo che “sentono il prurito della novità” (cfr 2Tm 4,3-4), novità che cessa di essere tale nel momento stesso in cui si presenta, scatenando il prurito di altre novità, condannate a un uguale effimere esistenza.

    E’ una constatazione che fanno ad esempio molte persone nell’accostarsi al “mondo del soprannaturale”. Vi è una corsa insaziabile alla ricerca di fenomeni straordinari, che apparentemente dicono il desiderio della fede, ma che, se osservati più in profondità, denotano una scarsa volontà di un ascolto profondo, di una interiorizzazione dei fatti. Non ci si gioca infatti sino in fondo su ciò a cui ci si accosta. Ci si illude di farlo! La vita poi riprende come prima, e nulla cambia.

    Seconda reazione: il “problematicismo” (vv. 13-17)

    13. La folla conduce dai farisei il cieco guarito. Cosa cerca? Per quale motivo? Curiosità ulteriore? Godersi un ulteriore spettacolo? …

    14-16. L’incontro con i farisei si risolve in un ulteriore diatriba. I farisei rappresentano la categoria di coloro che si interrogano sul fatto senza arrivare ad una conclusione univoca, perché condizionati dai loro pregiudizi, e da un atteggiamento di problematicismo cronico (che è in fin dei conti una difesa, una fuga dal doversi porre in modo responsabile di fronte alla realtà).

    I farisei non riescono, o meglio non vogliono, conciliare il fatto miracoloso indubitabile e il precetto sabbatico.

    Come fa Gesù a compiere miracoli trasgredendo i precetti di Dio? Impastare fango è azione espressamente proibita (delle 39 azioni proibite l’impastare fango sta al secondo posto!). Non vi è l’indicazione di Dt 13,1-5 che afferma che anche un operatore di prodigi non deve essere creduto se contraddice la legge, e perciò deve essere messo a morte?

    E’ meglio preferire l’uomo o il sabato? Per Gesù non esistono dubbi! Per i farisei sì!

    Gesù non osserva il sabato: l’uomo infatti non era in pericolo di vita e dunque Gesù poteva benissimo aspettare un altro giorno.

    E’ un problema che esige un porsi in gioco, uno sbilanciamento, un mettersi da una parte. Tra i farisei è una discussione accanita, si creano due schieramenti: “Quest’uomo non viene da Dio perché non osserva il sabato” dicono alcuni; “Come può un peccatore operare tali prodigi?” dicono altri.

    La loro “teologia” non riesce a conciliare il binomio miracolo-trasgressione del sabato.

    Si crea una spaccatura (schisma). Non si riesce ad uscire dal dilemma. Allora perché non far riferimento ancora al miracolato?

    17. E’ un profeta: L’uomo guarito non ha dubbi, l’evidenza dei fatti si impone: “E’ un profeta!”.

    Elia ed Eliseo non compirono forse gli stessi miracoli?

    Ha il coraggio di schierarsi, di apparire diverso dal pensare comune, cosa che gli costerà molto cara. Ma è questo coraggio che gli permetterà di incamminarsi verso l’incontro con la luce che è Cristo.

    Terza reazione: la vigliaccheria (vv. 18-23)

    v. 18: Non credettero… La strada giusta che è quella di prendere in considerazione il fatto per arrivare a Gesù viene così ulteriormente abbandonata. Ci si rifugia in quella ben più larga e comoda delle idee prefabbricate.

    I fatti, per i farisei, non contano! Gli avvenimenti non scalfiscono minimamente le loro convinzioni.

    L’autorità dei fatti non viene presa in considerazione: in quale misura i fatti interpellano la nostra vita, mettono in discussione le teorie? La rigidità dei pregiudizi, gli schemi mentali precostituiti sono un forte impedimento alla resa alla verità.

    Ora, la perplessità circa la persona di Gesù non trova sbocco, perciò non rimane che contestare i fatti, negare l’evidenza, i fatti.  Intestardirsi nelle proprie idee contro l’evidenza dei fatti, anzi, negarli per dare spazio ai pregiudizi, è atteggiamento che caratterizza i “vigliacchi”.

    Parte di questa vigliaccheria rientra anche nei genitori del miracolato, che qui rientrano come rappresentanti che credono in certo qual modo al miracolo, ma che non sono disposte a testimoniarlo per le reazioni negative che li possono colpire (è la controrisonanza della paura degli altri).

    v. 19. I genitori sono chiamati a rispondere a tre domande precise:

    Identificano il miracolato con il loro figlio?

    Garantiscono che è nato cieco?

    Come spiegano il cambiamento avvenuto?

    v. 20-21. Alle prime due rispondono senza difficoltà. Ma alla terza inizia l’incertezza, l’evasività: si tratta di sbilanciarsi! Fare il nome di Gesù significa compromettersi, essere messi al bando dalla sinagoga, segnati a dito. La risposta dunque non può che essere evasiva: “Come poi ci veda non lo sappiamo, né sappiamo chi gli ha aperto gli occhi; chiedetelo a lui, ha l’età, parlerà lui di se stesso!”

    Impossibile pensare che fossero all’oscuro di un miracolo avvenuto proprio al loro figlio. Le notizie corrono…. “il paese è piccolo e la gente mormora”. La loro dunque è solo una mossa strategica per non cacciarsi nei guai. Sono paralizzati dalla paura, non manifestano neppure la gioia per il figlio guarito! Non esprimono il minimo di gratitudine nei confronti di Gesù. Si trincerano dietro un riserbo che è colpevole silenzio.

    In loro sono personificati tutti coloro che rifiutano di prendere posizione quando bisogna pagare di persona, coloro che hanno paura d’essere diversi dagli altri, non allineati. Meglio l’affinità ipocrita, ma tranquilla, con tutti gli altri, piuttosto che una diversità scottante.

    Quarta reazione: la violenza e l’ingiuria come rifiuto della verità (vv. 23-34)

    v. 24. Ora i farisei si presentano senza maschera presentando un’ulteriore categoria: il rifiuto violento della verità, la negazione dell’evidenza.

    Lo fanno addirittura invocando l’espressione biblica di giuramento di chi esorta alla verità e alla sincerità. Vogliamo tirare Dio dove noi vogliamo, utilizzarlo ai nostri miseri scopi.

    I farisei ora pretendono dal miracolato una chiara e precisa confessione-dichiarazione che Gesù è un peccatore. Si nascondono dietro l’aulico “Noi sappiamo…”: l’autorità che vuole far sentire il suo peso sulla coscienza dell’uomo.

    E’ scomparsa l’incertezza e l’ambivalenza iniziale: la soluzione è trovata! Una soverchiante maggioranza impone al nostro miracolato l’allineamento: Gesù è un peccatore e non si discuta più!

    v. 25-27. Ma il fattore maggioritario qui non funziona. L’ex cieco non si lascia avviluppare dalla loro serie di fasulle argomentazioni. Egli si rifà costantemente ai fatti non alle interpretazioni.  Arriva a fare ironia quando si accorge della prevenzione che esiste dall’altra parte, prende atto della non volontà di ascolto e di dialogo.

    A questo punto le carte si scoprono, non è più possibile barare.. Il contrasto si fa acido e insostenibile. Da ambe le parti si fa verità di ciò che è nel cuore.

    Il rifiuto da parte dei farisei di prendere atto dei fatti e da questi rileggere tutta la tradizione porta alla cecità, alla schiavitù di principi umani. La legge a questo punto uccide!

    Bisogna difendersi dalla tentazione dell’orgoglio che mira a mettere al centro se stessi e non la verità e il bene. E’ indispensabile che si impari a porsi domande profonde, che sappiano spingerci al di là della superficialità e del conformismo dilagante.

    vv. 30-33. L’ex cieco espone le sue argomentazioni velate di amara ironia che egli detrae non da una teologia studiata a tavolino, ma da quella che scaturisce dalla vita, dal confronto con la realtà nella quale egli scorge la presenza di Dio. Da ciò che gli ha sperimentato concretamente nella sua vita. Nessun nato cieco è mai stato guarito al mondo.

    Egli pur non conoscendo ancora Gesù in profondità è disposto a pagare di persona il suo mettersi dalla parte della verità.

    v. 34. La reazione dei farisei è feroce. Ora il peccatore non è più solo Gesù ma è il  miracolato stesso. E’ una attribuzione della sua ex cecità al peccato in cui è nato, cosa smentita già all’inizio da Gesù stesso.

    Ormai le argomentazioni dei farisei sono contraddittorie e quando queste non bastano più eccoli passare all’insulto, al disprezzo, come ultima arma

    Vogliono far sentire tutto il loro peso derivante dalla loro collocazione culturale, sociale, religiosa: Tu… Noi…. Ma a ragion del vero questo corrisponde alla realtà dei fatti: tra loro esiste ormai un divario insanabile.

    Non esiste più possibilità di comunicazione, cosa che si radicalizza e si concretizza nell’espulsione dalla sinagoga. Scacciare l’intruso, colui che può mettere in dubbio le loro certezze è l’ultimo maldestro tentativo di difendere la “loro” verità.

    Ora il nostro Beniamino si ritrova più che mai solo. Ha perso ogni aggancio a livello sociale e religioso. Anche il rapporto con i genitori si è incrinato. Non è più legato alla sua fede, ma non è ancora cristiano. La situazione è tremendamente sospesa, inconclusa.

    Ha pagato per la verità ma questa verità non ha ancora un nome, un volto. Occorre un’ulteriore passo.

    Quinta reazione: La ricerca della verità ricompensata (vv 35-41)

    Il cieco guarito rappresenta la categoria di coloro che hanno il coraggio di mettersi dalla parte della verità anche a costo di pagare di persona, di essere segnati a dito, calunniati e allontanati.

    Beniamino è l’uomo che si pone in ascolto dei fatti e da essi trae la coerenza di porsi dalla parte della verità. Ma questa scelta l’ha posto nella solitudine, potrebbe far sua tante espressioni dei salmi in cui si racconta tale situazione e abbandono.

    L’episodio ci dice una grande verità a riguardo della vita: la fatica,la sofferenza che deriva dal tentativo di schierarci dalla parte della verità. Sempre la storia ci racconta della persecuzione di coloro che si sono posti dalla parte della verità.

    E’ Gesù che ricerca e incontra l’ex cieco. Non è un incontro casuale, fortuito. Il testo dice meglio: “trovatolo”. Da parte di Gesù c’è la precisa volontà di incontrarlo. Egli conosce la situazione in cui si trova a sa di dover far fare a Beniamino un altro e decisivo tratto di strada, ovvero a dare un nome alla verità per cui ha sofferto.

    Gesù intende dunque fargli un dono ancor più grande della guarigione fisica, vuole aprirlo alla fede in lui. Il miracolato ha percorso già un bel tratto di strada in questa direzione: la sua coscienza è ormai aperta ad accogliere la rivelazione. (egli è passato dall’affermazione di Gesù “uomo”, a “profeta”, a “da Dio”, a “Signore”).

    E’ stata una strada difficile e sofferta nella quale Beniamino si è dimostrato sempre più capace di accogliere la rivelazione.

    v. 35. “Tu credi nel figlio dell’uomo?”. Gesù rivolge all’uomo una domanda che cerca la disponibilità di andar oltre le apparenze, per scoprire in Gesù l’inviato di Dio. (Figlio dell’Uomo: titolo messianico che fa riferimento al ruolo di giudice escatologico del Messia. Qui Gesù opera un giudizio decisivo tra chi è nella luce e chi è nelle tenebre).

    v. 36 “E chi è?”. La disponibilità in Beniamino esiste,  pone una domanda molto pratica come è nel suo stile e che esprime il desiderio di camminare ancora verso la verità.

    v. 38 “Io credo Signore!”. All’autorivelazione di Gesù segue l’adesione piena e incondizionata dell’uomo: “Io credo, Signore!”. Un’adesione sottolineata anche attraverso la sua corporeità: la sua prostrazione è adorazione, riconoscimento. Siamo al vertice del racconto.

    Gesù porta luce ai non vedenti e l’accecamento per i vedenti. La Parola per coloro che credono di vedere diviene sorda e tenebrosa. Ma rimane aperto il suo invito all’ascolto, alla visione: Ascolta!

    A Beniamino quanto tempo sarà occorso per fare questo itinerario?

    A noi quanto ne occorrerà per compiere questo cammino catecumenale dalle tenebre alla luce, dalla menzogna alla verità? Ognuno avrà i suoi ritmi e le sue tappe.

    Quanto saremo disposti a pagare per rinascere alla luce della verità che è Cristo?

    Non saremo forse tentati da ripiegamenti, compromessi, tergiversazioni? Ma la Parola a cosa ci invita?

     

     

  • 25 Mag

     

    Marta e Maria: ovvero della frenesia
    Lc 10,38-42

     

    di p. Attilio Franco Fabris


    All’opposto della controrisonanza dell’indolenza sta la frenesia.

    Si tratta di un’agitazione continua, un correre affannati, un avere l’orologio sempre in mano perché sono tante le cose da fare… tante, troppe. “Mi manca il tempo”; “Ci sono così tante cose da fare”; “Sono troppo impegnato”…

    Il guaio è che tra queste cose “troppo importanti” spesso mancano quelle più importanti!

    Presi dal vortice della corsa autoimposta si vive alienati da sé, mai presenti a se stessi.

    Così la coscienza è dis-tratta: ovvero strappata in mille direzioni.

    La coscienza qui fugge se stessa, non si vuole fermare perché non si vuole ascoltare. Ha paura di farlo. Fermarsi significa infatti lasciare che le domande impegnative emergano, e con esse l’esigenza di una riposta che potrebbe mettere in discussione le scelte della nostra vita.

    E’ una controrisonanza che dice una coscienza incapace di ascolto di se stessa, degli altri, della realtà. Ascoltare significa fermarsi, porsi in clima di silenzio, lasciare spazio e tempo per sé e l’altro. Ma questo indispone, mi mette a disagio, esigerebbe da me sicuramente dei cambiamenti. Ecco allora il correre agitati, sempre ma correre per chi, per che cosa?…

    “Quando si parla di pienezza di vita, si intende una vita raccolta, perché non esiste il possesso di sé senza raccoglimento; ma questo è possibile solo da dentro, dove collochiamo, in senso figurato, il polo unificante di tutte le nostre attività. Il termine raccoglimento porta, nella sua radice, l’idea del “raccogliere qua e là e mettere insieme”… Dobbiamo ricercare la pienezza della nostra realizzazione non solo nel saper fare, ma anche nel saper essere, nel curare e affinare la qualità della nostra vita. Il primo suggerimento che mi permetto di dare è questo: impariamo a fermarci. Impariamo a controllare l’ansia, a fare le cose adagio, perbene, una dopo l’altra, non tre insieme…Fermarsi significa uscire dal ritmo frenetico cui la società ci costringe o ci condanna, questa società che sembra premiare solo chi va forte e arriva primo, e assumere un ritmo di vita più consono alla nostra natura… Fermarsi è il primo regalo che possiamo fare a noi stessi, perché significa portarsi su una dimensione diversa della vita, che non è quella di correre sempre, col cuore in gola, di non sapere mai che cosa fare prima perché tutto è urgente, di sentirsi sempre in ritardo su qualcosa, ma è quella d’un rapporto pacato e dialogante con sé, del contatto con la propria interiorità e del parteciparla agli altri, lasciandola semplicemente trasparire. Dover fare le cose in fretta non è una virtù, è un castigo e, in certi casi, malattia…. Una caratteristica della nostra epoca è proprio questa: non saper vivere nel presente, e meno ancora il presente, voler vivere sempre un giorno avanti a se stessi, cento metri oltre il luogo in cui ci si trova. Voler sempre essere là, non qua. Così non ci si incontra con se stessi perché il nostro io è qui, non là, né ci si concentra su ciò che si sta facendo, tanto meno se ne gustano i risultati. L’urgenza, parola mitica del nostro tempo, in evidenza su tutte le scrivanie, ci mette addosso un’agitazione che ci fa sentire vivi, ma in realtà ci svuota. Fino al giorno in cui ci si scopre aridi e, in un ssussulto di resipiscenza, ci si domanda: ma tutto questo che senso ha?” (G. Colombero, Cammino di guarigione interiore, San Paolo, pp. 56-60)

    * * *

    v. 38

    mentre camminavano… entrò: Gesù e i discepoli in cammino verso Gerusalemme. All’inizio si parla al plurale poi al singolare. Come mai? Forse per l’evangelista i discepoli non possono ancora entrare nel luogo in cui il Signore sancirà la fine di uno degli usi e costumi più consolidati in una società a forte impronta maschilista.

    Gesù dunque “entra in un villaggio”: dove villaggio sta ad indicare un luogo arretrato, tenacemente attaccato alle tradizioni, diffidente verso le novità viste con sospetto: “Si è sempre fatto così!”.

    una donna…:

    Il forestiero si fermava infatti sulla piazza del villaggio, posta all’inizio e lì attendeva che qualcuno lo invitasse nella propria casa.  Ospitare il forestiero nella cultura orientale era ed è un dovere tra i più importanti. Ma essere ospitato da una donna (e per giunta non sposata) era gesto quantomai sconveniente per quella stessa cultura. Da qui il gesto che così anticonformista di Marta. Toccava all’uomo fare gli onori di casa.

    Marta: il nome è già un programma. In lingua aramaica significa “padrona della casa”. In effetti la casa è “sua”.

    Perché Marta ospita questo “rabbì” in casa sua?

    Forse lo conosce già o ne ha sentito parlare. Il suo invito è totalmente gratuito? O si attende forse un ritorno di immagine nei confronti dei propri compaesani? Invitare un personaggio illustre è sempre motivo di vanto e di distinzione. Oppure….

    v. 39.

    Maria: è la sorella minore.

    Seduta ai piedi: o meglio “ stando ai piedi” in quanto nella casa palestinese non esitono sedie, ma solo stuoie dove tutti si adagiano.

    Ma quest’atteggiamento assunto da Maria ha una valenza specifica: è il gesto tipico del discepolo. La sua attività consiste nell’ascoltare il maestro. Anche questo un gesto anticonformista : alle donne era vietato interessarsi della Legge, ascoltare i rabbini, essere discepole. Questo è un diritto solo dell’uomo.

    Il posto della donna è la cucina tra i fornelli, proprio come sta facendo Marta la padrona di casa, tutta presa dalle tante cose da fare.

    ascoltava: si mette negli orecchi la Parola Maria in tutto l’episodio narrato tace: non si affanna ad affermarsi ad ogni costo pur di essere protagonista del momento. Maria è dimentica di sé, tutta intenta in colui che ascolta. Vive  la beatitudine del discepolo: vedere e ascoltare (v. 23s).

    v. 40

    Marta invece…: Essa si crede  la “regina della casa”, non accorgendosi di essere invece schiava della sua condizione, e vittima di un modo di pensare che le impone determinati ruoli e non altri, e in questi ruoli crede di trovare la sua realizzazione. Ella si crede “padrona” ma in realtà non lo è. E’ l’immagine perfetta di coloro che vivono sulle aspettative degli altri, e per questo attendono insaziabili approvazioni e complimenti (cfr. Pr 31,13.15.17-19.21-22.24).

    Così Marta è presa, agitata, divisa in se stessa da tutte le cose che “si devono fare”. Conosce il suo dovere! Sua sorella seduta, e lei tutta così indaffarata!

    Occorre ascoltare profondamente le sue risonanze.

    Si sente probabilmnte vittima incompresa “del dovere” (“Ecco che cosa mi tocca fare!”) , estromessa e quindi gelosa della sorella (“Guardali lì, come se la intendono! E io qui a faticare!”), indispettita del maestro che non la degna di una considerazione (“Neanche si accorgano di me, come se non esistessi! Possibile che Gesù non richiami quella pelandrona al suo dovere che è stare in cucina?”).

    Le “tante cose da fare”, che la costringono a correre di qua e di là affannosamente, divengono uno schermo che le impedisce di ascoltare se stessa, i suoi desideri profondi, le sue emozioni.

    In questa agitazione e frenesia Marta “perde se stessa”, ovvero è strappata in mille direzione che le impediscono di ritrovare se stessa. Questo non ascolto frenetico non può che avere se non una conclusione “logica”: scaricare sugli altri il suo disagio, perché la situazione è insostenibile.Scaricarlo razionalizzando il suo disagio.

    Fattasi sopra: visto che Gesù non interviene è allora Marta ad irrompere furibonda in salotto. Maria e Gesù sono seduti. Marta, in piedi incombe in atteggiamento di superiorità e di giudizio su loro due. Il rimprovero è a tutti e due.

    Signore non ti curi?: In queste parole riscontriamo una cosa importante. Marta ha un orizzonte molto limitato e tutto centrato su se stessa. Il mondo intero deve girare intorno a lei (mia sorella, mi abbia lasciata sola… mi aiuti).

    Intravvediamo che più che dell’aiuto di Maria, Marta è invidiosa dell’approvazione che il Signore dà alla sorella. Desidera che il Signore la rimproveri e così approvi lei, che sì sa cosa bisogna fare e fa ciò che sa! A Marta interessa l’approvazione implicita di quanto fa lei nella disapprovazione esplicita di sua sorella.

    La situazione di Marta è triste. Vive male. E’ come la situazione degli schiavi contenti di esserlo. Schiavi che non aspirano alla libertà, e addirittura spiano i tentativi di libertà degli altri allo scopo di ricacciarli nella schiavitù (cfr Gal 2,4).

    v. 41

    Marta, Marta: è un solerte e solenne richiamo.

    Ti affanni…ti agiti per molte cose: principio del servizio di Marta è il proprio io. Il suo voler essere al centro dell’attenzione, la sua pretesa di essere riconosciuta, che sia applaudito il suo sacrificarsi e affannarsi. Questo voler essere al centro le impedisce di trovare il centro, il punto focale e il cardine, su cui appoggiare il suo servizio e in fin dei conti la sua vita. Questo è frutto di un non ascolto!

    I suoi molti servizi nascono perciò non da una gratuità dettata dall’amore, ma da una sorgente inquinata e sono segnati perciò da turbamento e affanno. Si può arrivare fino a morire per l’altro per affermare il proprio io (cfr 22,33).

    v. 42

    di una sola cosa c’è bisogno: Maria ha compreso che il cardine su cui deve ruotare la vita, i molteplici servizi… è uno solo: l’ascolto della Parola. Qui Maria ha trovato la sua libertà. Se manca questo allora tutto diviene affanno e agitazione per la paura di perdere se stessi.

    L’uomo che non vuole “perdere se stesso” nell’Ascolto è inevitabile che cada nell’affanno e nell’agitazione illuso com’è di dover costruire da solo la propria vita e il proprio ruolo nel mondo.

    La parte buona:  è l’eredità (cfr Sal 16,5-6). E per il credente vera eredità è il Signore, la comunione con lui che scaturisce dall’ascolto. Una eredità che nulla potrà toglierci: “Marta, tu navighi, Maria è in porto” (sant’Agostino).

  • 24 Mag

    La parabola delle dieci fanciulle

    L’INDOLENZA, L’INERZIA DI QUIETE

    Mt 25,1-13


    di p. Attilio Franco Fabris


    Una telefonata da fare, un impegno da assumere, una visita da fare, un incontro a cui partecipare….

    “Vedremo… ora no. Ho altro da fare. Sono troppo stanco”. “Lo farò quando ne avrò voglia”. “in futuro forse, quando avrò tempo…”.

    Nella nostra vita si presentano tante situazioni, persone che ci interpellano e suscitano in noi risonanze in vista di passi per il futuro, ma…

    La coscienza fatica a mettersi in moto al presentarsi della risonanza.

    L’inerzia di quiete mette a tacere con mille giustificazioni (razionalizzazioni) la risonanza nella coscienza.

    La coscienza si perde di vista, disattende il momento presente.

    Questa controrisonanza è all’origine del conservatorismo perché il cambiamento scomoda.

    Perché?

    Perché generalmente la risonanza emergente disturba e indispone. Mi domanda di cambiare, di fare delle scelte, di andare incontro al nuovo. “Ma chi me lo fa fare?”.

    Quali le conseguenze?

    Tante possibilità di sviluppo ed espansione della nostra vita vengono mortificate dall’indolenza della coscienza. Tante  potenzialità vengono tristemente frustrate.

    La vita mi scorre accanto senza che io abbia il coraggio di buttarmicisi dentro, fino in fondo.

    Ci può aiutare nella riflessione un testo di Masters, tratto dall’antologia di “Spoon river”, è la lapide di Geroge Gray:

    Molte volte ho studiato
    la lapide che mi hanno scolpito: una barca con vele ammainate, in un porto.

    In realtà non è questa la mia destinazione, ma la mia vita.

    Perché l’amore mi si offrì e io mi ritrassi dal suo inganno;

    il dolore bussò alla mia porta, io ebbi paura:

    l’ambizione mi chiamò, ma io temetti gli imprevisti.

    Malgrado tutto avevo fame di un significato nella vita.

    Ma adesso so che bisogna alzare le vele

    e prendere i venti del destino

    dovunque spingano la barca,

    dare un senso alla vita può condurre a follia

    ma una vita senza senso è una tortura

    dell’inquietudine e del vano desiderio –

    è una barca che anela al mare

    eppure lo teme”.

    * * *

    La parabola è una metafora dell’esistenza umana, paragonata a un “uscire per andare incontro allo sposo”.

    Tutta la nostra vita è un’“uscita”: usciamo dal grembo di nostra madre, usciamo dal caldo clima della famiglia per avventurarci del mondo, usciamo ogni qual volta la vita ci chieda di prendere posizione dinanzi al nuovo e al futuro, usciamo dalla vita al termine di essa con la speranza di incontrare l’altra vita nascosta in Cristo. Non sappiamo il giorno e l’ora di questa uscita-incontro, ma sappiamo che ogni istante è un passo in più verso quel momento.

    La parabola non vuole spaventare ma invitare a prendere posizione sull’importanza del momento presente: è l’unico che ci è dato per vivere e acquistare l’olio necessario. Il mio futuro è determinato dal modo con cui vivo e opero nel mio presente.

    La parabola vuole evidenziare un modo sbagliato di vivere il tempo: quello di non cogliere l’opportunità del momento presente, di sprecare le occasioni. In effetti troppo spesso la vita è trascinata via dall’indolenza, dall’incoscienza, dall’ozio. Davanti alla vita, al tempo, che passa può nascere in noi una domanda: perché darmi da fare? Tanto a che serve?

    In quest’ottica possiamo già leggere la nostra storia quotidiana in termini di salvezza o di perdizione.

    Il disagio di partenza è dovuto alla fatica di farmi carico di me stesso. Tento di fuggire da questo mio compito o con l’apatia o con la superattività utilizzando la strategia che dice: “Non ho tempo!”.

    Alla fine mi ritrovo chiuso, fuori dalla festa nella quale incontrare me stesso, la vita, lo sposo.

    v. 1.

    Il regno di Dio: verso cui qui, sulla terra, noi ci incamminiamo giorno dopo giorno. Un cammino che può essere compiuto responsabilmente, nella vigilanza e nell’operosità, oppure trascinato nell’indolenza, trascurato, perdendo occasioni di crescita…

    Dieci vergini: il numero dieci indica la totalità, ovvero la comunità, la Chiesa. Ma esse possono rappresentare anche la nostra coscienza chiamata a relazionarsi con la realtà che ci circonda, con le situazioni della vita.

    Prese le loro fiaccole: non sono lampade ad olio che possono essere spente dal vento, né lanterne con la luce troppo fioca. Sono fiaccole luminose adatte al corteo. Nel nostro cammino nel mondo più la nostra fiaccola è luminosa meno temiamo di perderci nel buio. Quali potrebbero essere queste fiaccole poste nelle nostre mani?

    Uscirono: la vita è un’uscita, un “esodo” incessante. Uscire è sempre lacerante: implica un abbandono, una rottura con il passato conosciuto, per un futuro sconosciuto atteso nella speranza.

    Per l’incontro con lo sposo: è ciò che attendiamo, ciò che speriamo dalla vita… Cosa attendo nella mia vita? Quale attese sono riposte nel più profondo del cuore?

    Per il credente è il Signore stesso che vuole unirsi indissolubilmente a noi. Il fine della vita è incontrarlo.

    v. 2.

    Cinque sagge/cinque stolte: stoltezza e saggezza sono in pari percentuale. In noi si dibattono in egual misura. Quale crescerà a spese dell’altra?

    Una contrapposizione netta che ricorda la parabola dei due costruttori (Mt 7,24-27)..

    E’ saggezza fondare la propria esistenza sull’ascolto e sulla pratica, è stoltezza ascoltare e non fare.

    v. 3.

    Le stolte prese le loro fiaccole non presero olio. Non avere ciò che da’ luce. E’ la superficialità con cui si può vivere la vita. E’ vivere al momento (“carpe diem”), ma in modo irresponsabile. E’ lasciarsi vivere, senza assumere la propria responsabilità di fronte alla vita. E’ vivere senza progettualità, o con una scarsa progettualità troppo evanescente, piena di buone intenzione, ma incapace di porre delle scelte concrete in modo che essa sia fattibile.

    v. 4.

    Le sagge presero olio in vasetti. Ogni istante di tempo è come un “vasetto”: o pieno dell’olio dell’amore o vuoto, è il ripiegamento su noi stessi. La vita che ci è data è occasione per procurarci la riserva d’olio. Quest’olio è l’assunzione delle proprie responsabilità dinanzi alla vita, una responsabilità che non devo rimandare all’infinito, ma che sono chiamato a porre esattamente in questo momento, né prima né dopo. Ora sono chiamato a scegliere e a non lasciar sfuggire l’occasione, rimandandola al futuro.

    v. 5.

    Tardando lo sposo: Vi è il rischio che il tempo che passa affievolisca la tensione dell’attesa, che si dimentichi, che si tralasci. Che l’attenzione venga distolta ad altro. E’ necessario ogni giorno riconfermare la scelta fatta, rifarla in ogni istante perché non accada che ci si “dimentichi”, solo così è assicurato l’olio alla lampada.

    v. 6-7

    A metà della notte: ecco lo sposo… uscite: è il grido che ci sorprende inatteso e che ci fa riprendere coscienza, con gioia o con rammarico e disperazione, come realmente siamo e con ciò che realmente abbiamo.

    v. 8

    dateci del vostro olio: solo ora si accorgono di essere prive di olio, la luce si spegne: “quando mai non ci siamo date da fare per procurarcelo quand’era il tempo… Abbiamo rimandato… E ora che fare?”.

    Ma se l’olio è la mia decisione che ero chiamato a prendere e non ho preso, non lo posso domandare ad altri.

    v. 9-10.

    risposero: no: nessuno ci può dare il nostro olio. Il suo acquisto non può essere delegabile, fa appello unicamente alla mia responsabilità. E’ la nostra identità e responsabilità di fronte alla vita.

    La porta fu chiusa: la morte chiude la porta del tempo utile per acquisire l’olio. La partita è finita: il risultato dipende da ciò che si è fatto prima.

    Quanto è importante al fine di capire il valore del presente: è sempre l’unico tempo realmente disponibile in cui possiamo perdere o guadagnare la vita.

    C’è il pericolo di passare la vita a pensare e rimandare ciò che si dovrà fare, per poi rimpiangere ciò che non si è fatto. O di passare la vita a rimpiangere ciò che non si è fatto lasciandosi scappare il presente.

    v. 13:

    Vegliate dunque: E’ momento di svegliarsi, di convertirsi. E’ la caratteristica peculiare del credente di fronte alla vita. Sii vigile al fine di essere pronto, per non lasciar perdere l’occasione presente di far rifornimento di quell’olio che dopo non sai se potrai ritrovare.

     

  • 22 Mag

    La frode di Anania e Saffira
    Atti 5,1-11

     

    di p. Attilio Franco Fabris

    La gelosia di sé è’ la ricerca di un angolo della mia vita di cui non devo rendere conto a nessuno.

    Non voglio condividere i miei segreti, perché voglio essere io il padrone di me stesso: “Sono io che decido quanto, come, dove dare me stesso agli altri”. “Io sono mio: e basta!”. “Io mi metto in gioco tanto quanto io decido”. “Faccio entrare l’altro nella mia vita tanto quanto voglio”.

    “Ho già condiviso tutto e basta!” dove il tutto sono io che lo decido.

    Tale risonanza riguarda ovviamente e anzitutto i rapporti seri e vitali della nostra esistenza.

    Cosa distingue la gelosia di sé dalla “privacy”, o meglio al diritto alla riservatezza?

    Sicuramente la sua impermeabilità e la sua intransigenza.

    Da dove nasce questo desiderio? Esso nasce dalla paura di essere spossessati. Dal timore che l’altro possa sfruttarmi. Paura di lasciarmi invadere il territorio di cui io solo voglio essere il padrone. Ma questo territorio diventa presto un’isola in cui io mi condanno alla solitudine.

    Cosa ne scaturisce?

    Partendo dalla premessa che l’uomo è fatto per la comunione e che la comunione esige la condivisione. Allora più condivido e più vivrò la comunione, più mi sentirò la mia coscienza respirare ed espandersi.

    Se invece vivo questa controrisonanza nella mia vita allora l’evoluzione della mia coscienza si ferma, non evolve.

    Intere regioni della mia coscienza rimangono inesplorate perché non condivise. La coscienza si atrofizza in vasti settori.

    Affermare il principio della gelosia di sé è una perdita secca per la coscienza. Nego al mio io più profondo la crescita dell’interazione, mi ritrovo in un isolamento mortale.

    Quello che chiamo la mia ricchezza diviene la mia più grande povertà. Se impedisco all’altro di entrare, non mi permetto di entrare in relazione con il mio io più vero e più profondo, e dunque mi impedisco di conoscermi sempre più.

    L’interazione che avviene nell’incontro e nel dialogo è negata.

    Non bisogna mai affermare il principio della gelosia di sé ma occorre al contrario aprirsi progressivamente alla relazione nello scambio delle nostre risonanze. E’ questo l’ambito vitale in cui la coscienza respira, evolve, matura, impara a conoscersi.

    Nei vv. 32-35 del capitolo quarto degli atti Luca descrive la condivisione dei beni della comunità di Gerusalemme: “La moltitudine di coloro che eran venuti alla fede aveva un cuore solo e un’anima sola e nessuno diceva sua proprietà quello che gli apparteneva, ma ogni cosa era fra loro comune. Con grande forza gli apostoli rendevano testimonianza della risurrezione del Signore Gesù e tutti essi godevano di grande simpatia. Nessuno infatti tra loro era bisognoso, perché quanti possedevano campi o case li vendevano, portavano l’importo di ciò che era stato venduto e lo deponevano ai piedi degli apostoli; e poi veniva distribuito a ciascuno secondo il bisogno”.

    Tale condivisione è vera ed è frutto solo dell’accoglienza della buona Notizia, dell’ascolto della Parola. Altri fondamenti si rivelano molto fragili ed inconsistenti.

    Così ai vv. 36-37 viene portato l’esempio di Barnaba: “Così Giuseppe, soprannominato dagli apostoli Barnaba, che significa «figlio dell’esortazione», un levita originario di Cipro, che era padrone di un campo, lo vendette e ne consegnò l’importo deponendolo ai piedi degli apostoli”.

    A questi due quadri così edificanti ed esemplari l’autore accosta immediatamente la tragica vicenda  di Anania e Saffira. Tale vicenda viene ad offuscare il quadro così positivo sinora descritto dagli Atti.

    Il loro peccato è presentato come il “peccato originale” nella nuova comunità. Drammaticamente esso pone il problema della sussistenza del male anche all’interno della comunità dei discepoli di Gesù: questa non può ritenersi al riparo dal peccato. Nel gesto di Anania che introduce la menzogna e la bramosia del denaro dentro la comunità dei discepoli, quasi fosse il peccato originale della comunità, è all’opera la potenza menzognera si satana stesso.

    E’ significativo che il peccato per cui ci si esclude dalla comunità dei discepoli prenda il volto della menzogna e della bramosia di denaro. Due vie privilegiate per fare alleanza con il padre della menzogna e il divisore.

    Dunque una “buona notizia” che inizia con due morti?!

    E’ una storia che mozza il fiato.

    Chi sono i protagonisti?

    Sono due sposi. Da quel che appare se l’intendono bene e viaggiano di comun accordo.

    Forse senza figli.

    Sono in uno stadio avanzato nel loro itinerario di fede: sono giunti alla proposta della sequela radicale del Signore rivolta al giovane ricco: “Vendi tutto, da’ il ricavato ai poveri, poi vieni e seguimi”, dunque quasi al culmine del cammino di fede (=la proposta dei consigli evangelici).

    vv. 1-2. L’introduzione descrive il raggiro perpetrato dai due coniugi nei riguardi della comunità, al fine di presentare una bella figura senza perdere il vantaggio della proprietà. Si tratta di un atteggiamento ipocrita.

    Che cosa ha agito nella coscienza dei due per giungere a tale decisione? Come ci sono arrivati? Che giustificazioni avranno portato per razionalizzare la loro scelta? (“Chi mi dice che anche gli altri e lo stesso Barnaba non abbiamo agito come vogliamo fare noi?”). (drammatizzazione).

    La condivisione del denaro che doveva essere segno di fraternità, condivisione, comunione diventa occasione invece per essere gesto di prestigio, cioè fonte di divisioni fondate sulla menzogna.

    Perché accade ciò? Perché essi condividono con la comunità solo un’immagine costruita di sé stessi, che porta a desiderare di corrispondere a determinati parametri che in realtà sono ancor ben lontani dal vissuto reale della propria coscienza (illudersi di fare i passi più lunghi della gamba; volermi far vedere più bravo di quel che veramente sono).

    Vi è sicuramente spirito di competizione e di rivalità nel loro atteggiamento: farsi vedere esemplari, ligi e coerenti ma solo esteriormente.

    Grave scelta questa perché la fede e la comunità vengono strumentalizzate in vista della loro autorealizzazione. Si giunge a vivere in uno stato di menzogna più o meno cosciente.

    La strategia che Anania e Saffira mettono in atto è quella del finto-abbandono, e questo è frutto di un mancato e serio ascolto della Parola.

    E’ una vita impostata in un circolo vizioso di cui rimango io stesso vittima, un circolo vizioso che mi porta a non condividere realmente la vita, a giocare tenendo per me dei segreti: l’obiettivo: essere l’unico padrone della mia vita.

    vv. 3-4... Forse prima di vendere la proprietà Anania aveva formalmente e solennemente destinato il ricavato alla comunità (Dt 23,22-24).

    Ma Pietro di fronte al gesto di Anania risponde mettendolo in guardia contro tale falsità. Egli scopre l’inganno di Anania come il profeta Eliseo lo scoprì nei confronti del suo servo Giezi (4Re 5,26) ricevendone adeguata punizione. In chiari termini Pietro ammonisce: “Ti sei trattenuto parte del denaro”: un’espressione che troviamo solo altre due volte nell’AT in relazione alla colpa commessa dal popolo dopo  dopo la morte di Mosé quando giunse alla terra promessa (Gs 7,1ss).

    Il responsabile della comunità in questo momento sta compiendo un importante servizio della Parola: nella vicenda di Anania e Saffira, Pietro ha il coraggio di compiere tale servizio fino in fondo, ben sapendo che la Parola è spada a doppio taglio che può ferire ed anche uccidere (cfr Ebr 4,12-13). Lo fa certamente con timore e tremore perché sa bene che chi annuncia la Parola è anch’egli sottoposto allo stesso suo giudizio.

    Ci domandiamo: oggi nelle nostre comunità sappiamo porgere al fratello il servizio della Parola, anche quando può ferire? Oppure “pro bono pacis” si fa finta di niente. Ma in questo modo tradiamo il servizio al quale il Signore ci chiama. E se non lo facciamo non sarà forse perché tutti noi siamo un po’ come Anania e Saffira con i nostri “gruzzoletti” nascosti da difendere? Ma in questo modo non si fa servizio alla verità della Parola e le nostre paure fanno da signore sulla nostra vita.

    v. 5. Al termine del discorso di Pietro troviamo solo la confusione, l’indurimento del cuore, il silenzio di Anania. Egli non risponde nulla alle sue domande.

    Si tratta di un vero e proprio indurimento nei confronti della Parola, pur tanto ascoltata.

    In verità il peccato dei due coniugi non si risolve solo in un po’ di vanità e di menzogna, ma in un affronto e attentato contro la santità e l’integrità della fede in Cristo e della vita della comunità. La menzogna è nei confronti di Dio e della sua famiglia (5,4).

    Anania (e Saffira) vuole rimanere l’unica autorità della sua vita, senza doverne rendere conto ad alcuno. E’ geloso di sé, e non permette a Dio né tantomeno alla comunità di aver a che fare con la sua vita. E questo atteggiamento di Anania esprime il suo effettivo isolamento, logica conseguenza della sua scelta.[1] L’isolamento è in fin dei conti la sua morte, il tagliasi fuori dalla logica vita della condivisione. Anania crolla ai piedi dell’apostolo spirando.

    Il giudizio di Dio non può non essere drastico e improvviso, e Pietro, con tremore, ne è testimone e interprete autorevole.

    Nella comunità si fa largo un senso di paura e di timore di fronte a questo tragico fatto.

    * I cristiani lì presenti  prendono consapevolezza che nella comunità è presente ed agisce lo Spirito del Signore.

    * La comunità comprende che la Parola di Dio è in grado di discernere la comunione vera da quella inficiata dalla  paura di perdere e dalle  controrisonanze.

    * La comunità si sarà domandata: “Che ne è della garanzie offerte dalla spontaneità nel vivere la carità?”. Troppo fragili nei loro progetti e nelle loro buone intenzioni, gli uomini hanno anche bisogno che in mezzo a loro gli Apostoli siano i segni della potenza di Dio che viene in aiuto alla loro debolezza..

    vv. 7-10 Saffira assume il medesimo atteggiamento/peccato del marito. E dunque anche la conclusione è identica. La Parola agisce immancabilmente con il suo giudizio.

    La vita vissuta nella logica della paura di perdere e nella menzogna è contagiosa.


    [1] La regola di Qumram prescriveva nei suoi ordinamenti: “Se tra loro si trova un uomo che mente a proposito dei beni, ed egli ne è conscio, lo escluderanno di mezzo alla purificazione dei molti per un anno (=esclusione dai riti quotidiani di purificazione, il che significa portare con sé l’impurità) e sarà privato di un quarto del suo pane” (1QS VI,24-25).

     

  • 21 Mag

    GIOVANNI BATTISTA: SI’ ANCHE PIU’ DI UN PROFETA
    Matteo: 11,7-11

     

    a cura di p. Attilio Franco Fabris

    7 Mentre questi se ne andavano, Gesù si mise a parlare di Giovanni alle folle: «Che cosa siete andati a vedere nel deserto? Una canna sbattuta dal vento? 8 Che cosa dunque siete andati a vedere? Un uomo avvolto in morbide vesti? Coloro che portano morbide vesti stanno nei palazzi dei re! 9 E allora, che cosa siete andati a vedere? Un profeta? Sì, vi dico, anche più di un profeta. 10 Egli è colui, del quale sta scritto: Ecco, io mando davanti a te il mio messaggero che preparerà la tua via davanti a te”. 11 In verità vi dico: tra i nati di donna non è sorto uno più grande di Giovanni il Battista; tuttavia il più piccolo nel regno dei cieli è più grande di lui.

    Se da lato la sequela esige uno stile di vita contemplativo, dall’altro essa richiede lo stile deciso e sicuro della coerenza morale di cui Giovanni Battista può essere benissimo l’emblema.

    Perché si attui la testimonianza autentica, la sequela ha bisogno di una duplice esperienza:

    1.l’ascolto

    2.la conversione (la tensione ad una conformazione sempre più piena alla parola ascoltata).

    Per Giovanni l’incontro con Gesù è avvenuto prima ancora di poterne comprendere tutta la portata. C’è un sussulto, un sobbalzo di gioia: non c’è né cecità, né lacrime, né sguardi, né parole. C’è una sintonia, una immedesimazione, un’adesione viscerale, una intuizione…

    Per Giovanni si viene a creare un incredibile senso di appartenenza: egli viene al mondo per il Messia. La sua esistenza è tesa a  Colui che deve venire. La sua consapevolezza vocazionale avvolge la sua vita sin dall’inizio. Egli inizia la sua missione fin dal seno materno.

    Egli vivrà di quest’attesa nostalgica fino al momento del battesimo di Gesù al Giordano. Allora tutto sarà compiuto per lui: la sua vita ha svolto la sua missione. Giovanni vive per quell’ora, in cui egli potrà dire al mondo: Ecco l’agnello di Dio, ecco colui che deve venire.

    Gesù dirà di Giovanni che “tra i nati da donna non è sorto uno più grande di Giovanni Battista”: egli ha adempiuto e riassunto in sé tutta l’attesa per l’incontro con il Messia.

    Diviene testimone di Cristo e prepara il suo incontro con l’umanità quando il suo primo incontro con lui assume la dimensione di una scelta di vita e di una scelta per tutta la vita. Giovanni si lascia toccare da lui, abbracciare, decisamente e definitivamente.

    Allora ogni legame gli diventa pesante. Gli basta miele selvatico e una povera tunica di pelle. Ormai ha colto altrove il significato della mia vita… Questo incontro lo ha reso estremamente libero… Può dire senza timore la verità, senza paura di perdere niente…

    E’ costituito profeta poiché la sua vita fa riferimento, dipende costantemente da Dio, e lui vivo per Lui…. Vive le attese di Dio e le annuncia….

    Per questo Giovanni è grande.

    CONFRONTANDOMI

    Gesù mi addita Giovanni come modello di coerenza. Egli diviene per me un modello straordinario di coerenza alla propria vocazione di discepolo del Signore.

    L’incontro con Gesù, se è vero, fa di me un profeta. La sequela di Cristo diventa così proposta di libertà “da” e di libertà “per”.

    Libertà da tutto quanto non serve alla mia sequela. Libertà da ciò che può apparire ricchezza. Libertà dalla mia carne. Dalla mia preoccupazione di riuscire e di essere al centro. Libertà dal protagonismo…

    Libertà per un’appartenenza a Cristo sempre più profonda, perché dal mio essere di Cristo fiorisca in me una nuova vita di salvato e di mandato a salvare… Libero di diventare un dono e un sacrificio…

    La verifica della mia crescita spirituale sta proprio nella misura della mia appartenenza e testimonianza… se mi viene spontaneo, naturale, ricordare agli uomini la bellezza e la verità del progetto di Dio su di noi… Se trovo naturale additare Gesù come esperienza umana pienamente realizzata… se le opere scaturiscono ovviamente dal mio ascolto e conversione…

    In una parola: se la mia vita diventa progressivamente trasparenza di Cristo. “Lui deve crescere, io diminuire”.

    DI CONSEGUENZA

    Due conseguenze importanti:

    1. una vita nella coerenza

    2. una vita a servizio della parola.

    Quali le correzioni di rotta da operare?

    Quale il mio rapporto con le cose, con gli altri?

    Quali aspetti faticano in me a diventare operativi nella traduzione morale della sequela di Gesù?

    Come sto vivendo il servizio della Parola?

    Come realizzo la mia testimonianza?

    A mio parere posso dire che vedendo me gli altri siano facilitati a vedere la presenza vitale di Cristo che agisce in me?

« Previous Entries