La guarigione del cieco nato
ovvero: del conflitto con la verità
Gv 9,1-41
di p. Attilio Franco Fabris
Il bambino al rimprovero della mamma per una malefatta in genere risponde: “Non sono stato io!”, oppure “E’ stata mia sorella!”, oppure: “Non l’ho fatto apposta!”.
Riconoscere la verità fa male in quanto mi mette di fronte al mio limite, al mio errore. Eppure solo la verità assicura la libertà e la pienezza della vita: “La verità vi farà liberi” ha detto Gesù.
Eppure la mia coscienza teme la verità. Se ne difende. La verità fa male (una canzone dei tempi passati anni 70 diceva: “La verità mi fa male lo so”).
Si difende diventando parziale: si schiera dalla parte che fa più comodo.
La coscienza mette in modo diverse tattiche per difendersi dalla verità (razionalizzazioni, proiezioni, scissione, negazione, fissazione… ovvero tutti i meccanismi di difesa).
La controrisonanza vorrebbe piegare la verità a sé, in modo da camuffarla, reinterpretarla al proprio tornaconto.
E’ famoso l’aneddoto di Esopo chiamato “La volpe e l’uva”. Di fronte allo smacco di non riuscire ad acchiappare l’uva posta in alto, la “coscienza” della volpe non può far altro che distorcere la realtà-verità, con una scusa, per tranquilizzarsi: “L’uva è acerba”.
In fin dei conti il conflitto con la verità si traduce in rifiuto della realtà.
Intorno all’ammalato grave in genere si vive profondamente questo conflitto: non si vuole accettare la verità della malattia. La si fugge: “Vedrai che tornerai a casa presto”; “Non preoccuparti…”. Lo vive l’ammalato, lo vivono i parenti. In questo caso confrontarsi con la verità delle cose è insopportabilmente doloroso.
Vi è un rifiuto della verità anche in chi ricerca l’assoluta infallibilità: questa ricerca affannosa nasconde il rifiuto della verità di se stessi la quale deve fare i conti la propria fallibilità. Le certezze assolute ricercate ad ogni costo sono il tentativo estremo di tamponare le nostre insicurezze: sono la radice di tutti i fondamentalismi. L’arroccarsi nella propria presunta verità quando diviene intransigenza denota questo conflitto: la paura del confronto con una verità più grande di me.
* * *
- 1. Un uomo cieco dalla nascita: Gesù è appena scampato da un tentativo di linciaggio da parte dei farisei nel tempio: ha chiaramente espresso la sua identità, suscitando scandalo e rifiuto.
In questa situazione di tensione e di sofferenza interiore è Gesù che “vede” il cieco “dal ventre della madre”. L’iniziativa è sua. Pur soffrendo Gesù è capace di cogliere la sofferenza altrui: la sente propria. Di nessuno dei ciechi guariti i sinottici dicono che si trattasse di un cieco dalla nascita.
Si tratta di un povero cieco mendicante al bordo della strada (cfr. v. 8). Vive di pubblica assistenza ed è ancora legato ai suoi genitori.
Cosa significa essere ciechi dalla nascita? Cosa comporta? Come ha vissuta la sua vita? La sua infanzia? La sua adolescenza? Che opportunità gli sono state negate? Che benefici ne ha ottenuto?
Che tipo di relazioni con i genitori, i compagni…e con Dio?
Prendo atto che quando vivo situazioni di tensione e di sofferenza è difficile che mi faccia attento agli altri, vedo solo me stesso, e le mie esigenze di salvare se stesso: si salvi chi può! Ciascuno salvi se stesso! Questo per Gesù non è vero.
Come vivo il mio senso della vista? Lo vivo con consapevolezza?
Il mio è un semplice guardare o un cercare di vedere? So interiorizzare quello che guardo, ovvero lo vedo, lo accolgo in me (come fa Gesù con il cieco!). Oppure sì, gli occhi vedono, ma non vedono perché la mia coscienza è altrove, non è aperta alla concretezza della realtà, ma ai miei concetti e pre-giudizi.
E’ forse il caso di invitare con semplicità a riscoprire la consapevolezza del senso della vista: colori, forme, luci…
Vivo l’esperienza della cecità?
Ovvero: nella mia vita ho o ho avuto le mie esperienze di buio…. Ho fatto l’esperienza del “non vederci chiaro”, di “brancolare” non sapendo che strada imbroccare?
Come ho vissuto quei momenti? Cosa mi ha sostenuto in quelle situazioni?
v. 2: i discepoli dissero: i discepoli esprimono l’opinione popolare che, benché confutata dall’esperienza di Giobbe, riteneva che la malattia fosse legata al peccato personale o dei genitori stessi (cfr. Lc 13,2).
E’ tutta una vita che quest’uomo cieco dalla nascita, che chiameremo Beniamino, sente questo ritornello: “Uuh! Poverino! Chissà che cosa hai fatto per meritarti questo! Tu forse non hai colpa, ma i tuoi genitori….”. “Il Signore è buono: dunque se sei castigato così un motivo ci deve essere! La colpa o è tua o dei tuoi genitori!”.
La persona di Beniamino è per la coscienza credente è un problema che interpella fortemente la fede. Perché? Perché il credente dinanzi a Beniamino è preso dalla paura; perché la fede dice che Dio è buono, ma accidenti! Se succedono queste cose, c’è da dubitare seriamente che Dio buono lo sia davvero. Allora Dio è buono o cattivo? Bisogna trovare a tutti i costi una giustificazione che tranquillizzi la mia coscienza, altrimenti siamo nei guai. Ecco allora! Se l’uomo soffre, se è colpito dalla sventura, non è perché Dio sia cattivo, ma perché l’uomo ha sbagliato, e quindi è castigato e punito, certo per il suo bene, ma punito! Dicendo che il peccato è causa della malattia discolpiamo Dio e assicuriamo la nostra coscienza che se si sente a posto di fronte alla legge può dormire sonni tranquilli.
Di fronte alla sofferenza il credente sente di dover dunque trovare una spiegazione, non per consolare chi soffre, ma per tranquillizzare se stesso, per difendere ai propri occhi la reputazione di Dio.
Ma con Beniamino, nato cieco, il problema si fa ancor più contorto e inestricabile. Un essere così perché è al mondo? Che ci sta a fare? Signore, ma perché queste cose? Come spiegarle? Occorre ancora trovare una spiegazione che mi tranquillizzi perché altrimenti sono guai… Allora? Certamente anche qui c’è peccato, se non suo, dei suoi genitori. Perché dei suoi genitori? Ma perché è cieco dalla nascita! E allora? Allora sono i suoi genitori che sono stati castigati: la causa sono loro! ”! Es 20,5 afferma: “Io sono il Signore tuo Dio, sono un Dio geloso, che colpisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione”.
Sono dunque anni, è da una vita, che la coscienza del povero Beniamino viene tartassata, martellata da queste domande. Quante volte avrà pensato e forse guidato: “Non ne posso più!”.
Come i suoi genitori vivono poi questa situazione? Quante volte si saranno fatti la domanda: “Ma dove abbiamo sbagliato per meritarci un castigo così?”. E’ dalla nascita di Beniamino che i due poveri genitori si sentono colpevolizzati a morte, e si colpevolizzano a vicenda: “E’ colpa tua!” “No! E’ colpa tua!”. In quella casa si vive un inferno.
E la gente del circondario che dice, che pensa? Non penserà: “E’ colpa loro!”.
Beniamino è cresciuto sentendosi un mostro, colpevole della sua malattia, attanagliato dal senso di colpa di aver reso infelici i suoi genitori.
Non si sarà mai ribellato? Non sarà forse un giorno esploso gridando: “La colpa della mia infelicità siete voi! Perché se io soffro, se sono ridotto in questa situazione è per colpa vostra!”. E i genitori cosa avranno risposto: “Noi? Ma è a causa tua che noi soffriamo così!”.
Ed ecco che in quel giorno di primavera lungo il marciapiede dove è seduto Beniamino sente ancora una volta la tragica domanda: “Maestro, per subire un castigo così, chi ha peccato, lui o i suoi genitori?”.
Già è fatica vivere, guadagnarsi mendicando un pezzo di pane vecchio, ma sentirsi perseguitati dalla maledizione in questo ballottaggio di colpa… Basta! Non ne posso più!
Il male interpella drammaticamente la coscienza del credente perché mette in seria discussione l’immagine di Dio. Finora in che direzione ho cercato una soluzione?
Avverti nella situazione di Beniamino qualche relazione con la tua esperienza? Prova a descriverla.
Vi è uno scaricare la responsabilità del male dall’uno all’altro. Nessuno si accolla la responsabilità della sofferenza che è nell’uomo. Questo come lo vedi attuarsi in te e attorno a te?
v. 3 Rispose Gesù: Mentre Beniamino si trattiene, sperando nell’elemosina, ecco che risuona una voce nuova. Ode stupefatto parole mai udite prima: “Né lui, né i suoi genitori”.
Quale sarà la risonanza di Ruben a queste parole?… “Questo mi vuole prendere in giro in un altro modo? Non è cattiveria anche se detta in altro modo? … “. D’altra parte però Beniamino avverte in quelle parole una possibilità di guardare alla sua situazione con uno sguardo diverso. Affidarsi a quell’uomo e alle sue parole, non potrebbe essere una scelta diversa?
In quel giorno qualcosa di nuovo interviene nella vita di Beniamino. Intuisce una lettura diversa del suo dolore. Certo il problema resta: “Allora perché sono in questa situazione?”.
Gesù offre la sua lettura: una occasione propizia alla rivelazione di Dio. Dio vuole manifestare la sua “gloria” che è azione di liberazione e guarigione nell’uomo cieco in questo mondo.
Ma che vuol dire? “Per la gloria di Dio? E la mia sofferenza servirebbe per dare gloria a chi ne ha già? No!”.
Questa parola suscita in Beniamino una sorta di “sconbussolamento” interiore, nella sua coscienza. E’ da una vita che ha interpretato la sua situazione nella logica della colpa. Ma ora, se queste parole fossero vere, questo comporterebbe, una nuova “visione” della vita, di se stesso, della propria “morte”. Ora si tratta di aprirsi a questa possibilità nuova: il cieco nato accetterà di aver a che fare con quest’uomo?
Questo è il punto di partenza dell’incontro di Gesù con Beniamino.
Quale la tua risonanza, nei panni di Beniamino, alle parole di Gesù?
v. 4b-5: Dobbiamo operare: il plurale indica che vi sono inclusi anche i discepoli i quali sono così chiamati a condividere e continuare l’opera di Gesù. Quindi Gesù vuole associare alla sua missione i suoi discepoli. Il “giorno” è la vita terrena di Gesù in cui deve compiere la missione affidatagli dal Padre. L’allusione alla sua passione, e quindi alla sua morte, anticipa il rifiuto a cui egli stesso andrà incontro quando vedrà i molti negare l’evidenza del miracolo. Si tratta di un rifiuto colui che compie “le opere di Dio”. Gesù ha fretta di compiere il miracolo, non bisogna perdere tempo, la giornata volge al termine!
“Io sono la luce del mondo”: questa affermazione orienta alla rivelazione di Gesù-luce nel segno del cieco-nato. In altre parole egli afferma che senza la rivelazione di Gesù.
v. 6 detto questo egli sputò…: (cfr Mc 7,33; Mc 8,23). Un gesto strano, difficile da decifrare, all’apparenza quasi magico. Lo spalmare fango sugli occhi di un cieco non è aggiungere cecità a cecità, un sottolinearla, portandola all’esasperazione? Serve solo a peggiorare la situazione.
Il fare del fango poi è azione espressamente proibita in giorno di sabato, ma Gesù la compie lo stesso! Si potrebbe riandare alla creazione di Adamo, tratto dal fango e nelle narici del quale Dio pone il suo soffio. Qui Gesù in qualche modo opererebbe una “nuova creazione” dell’Adamo ferito, cieco, sordo e muto: la sua saliva è il soffio-ruah che egli impasta con la terra.
Quali le risonanze di Beniamino? “Non sono abbastanza cieco che questo qui mi mette ancora fango sugli occhi?”. “Ma cosa? Mi stai prendendo in giro?”. “Non bastano le umiliazioni ricevute fino ad ora perché tu voglia sottolineare il mio handicap?”.
Tuttavia quel “lasciarsi toccare” da Gesù, gli infonde una sorta di pace: finalmente qualcuno che non teme di “toccare” la mia sofferenza!
Nei panni di Beniamino come reagirei al gesto di Gesù?
E Gesù perché lo compie? Cosa vuol far intendere a Beniamino e ai presenti?
Che l’uomo prenda consapevolezza della sua cecità, non inganni la verità di se stesso. Abbia il coraggio di essere se stesso nel suo limite.
Questo sicuramente fa soffrire. Beniamino soffre al gesto di Gesù, non lo comprende ma sente che questo gli pesa, viene a marcare il suo dolore non ad alleviarlo.
Ma è questa la via della guarigione! Proprio mettendo la mano sulla piaga la si guarisce, è invece nascondendola a sé e agli altri che essa incancrenisce, portandomi alla morte.
Gesù non teme di porre la sua mano sulla ferita dell’uomo, in certo qual modo la fa sua.
v. 7 va a lavarti alla piscina di Siloe: La piscina di Siloe si trova allo sbocco del canale fatto costruire da Ezechia (2Cr 32,30; Is 8,6)), che portava l’acqua dalla fonte di Gihon all’interno della città. Sta a sud del colle orientale di Gerusalemme, all’incrocio della valle del Cedron con quella del Tiropeion. Da questa piscina veniva attinta l’acqua per la cerimonia della festa delle Capanne.
Giovanni da’ la traduzione della parola Siloe: “Inviato” (di per se è attivo: “mandante”). Si allude a Cristo stesso. E’ Cristo che guarisce, non l’acqua.
Il cieco nato è mandato all’inviato.
E’ un ordine che richiama quello di Eliseo dato a Naaman (2Re 5,10-13). Una guarigione dunque non immediata ma che esige una dilazione di spazio e di tempo (cfr Lc 17,12-15: i dieci lebbrosi sono anzitutto mandati per essere sanati).
E’ un mettere alla prova la fede?
Un ordine oneroso, la piscina è distante qualche chilometro e per un cieco è un’impresa.
Quali le risonanze di Beniamino durante il viaggio imbarazzante e sofferto?
(cfr. Naaman quando viene mandato a bagnarsi nel Giordano sette volte…).
Beniamino si sente umiliato dal gesto e dal comando di Gesù?
Dentro di sé sente gioia o imbarazzo, forse rabbia?
Avrà paura del giudizio degli altri?
Si sentirà solo nel suo cammino verso la piscina? Nessuno lo accompagna? Perché Gesù o qualcun altro non lo accompagna? Non lo fa perché Beniamino si giochi tutta la sua libertà e adesione nella fede: questa è atto estremamente libero e personale.
Non si sentirà la tentazione di fermarsi, di tornar indietro, o almeno di togliersi quel fango che lo fa ridicolo agli occhi degli altri?
Desidera il cambiamento? Lo spera? Lo teme?
In fondo alla sua coscienza, in messo a tante risonanze contrastanti, non vi è forse una luce rappresentata dalla speranza/fede che le parole di quell’uomo da poco incontrato siano vere? “Dopo tutto lui non si è limitato come tutti a parlare di me dietro le spalle, ma mi ha parlato, si è rivolto proprio a me!”. In altre parole: il comando di Gesù trova spazio e credibilità nella coscienza di Beniamino in quanto egli prima ha udito la parola.
Una considerazione: il comando morale se non trova ragione nella credibilità data dalla parola non regge da solo, la coscienza vi si ribella o vi si soggiace servilmente.
Andò, si lavò, tornò che ci vedeva: una laconica conclusione per esprimere il capovolgimento nella vita di quest’uomo. Una serie di verbi telegrafici che descrivono succintamente ciò che avvenne.
Non rimane che immedesimarci nelle risonanze di un uomo che inizia a vedere il mondo per la prima volta.
Prima reazione: curiosità e superficialità
8-9. non è l’uomo…?: la lunga discussione che segue al miracolo non ha intenzioni apologetiche al fine di mostrare l’autenticità del miracolo, ma ha lo scopo di far emergere le diverse posizioni nei confronti della verità. Ci saranno infatti diverse reazioni e posizioni nei confronti della verità.
(Ci confronteremo con queste diverse reazioni al fine di far una sorta di “esame della vista”: scorgeremo e verificheremo la nostra capacità di accogliere la verità.).
La prima reazione è della folla: c’è incertezza e perplessità dinanzi alla verità. Fatica a riconoscere in Beniamino la stessa persona che giaceva mendicante alla porta del tempio.
Dopo il miracolo la folla è dubbiosa, titubante. Perché?
Strano! Non accade come dopo i miracoli raccontati dai sinottici a cui segue l’entusiasmo, la lode a Dio e la gioia di tutti (cfr. Lc 9,43; Mc 5,20). Davanti a una sorte di tal miracolo dovrebbe esserci un’accoglienza strabiliante, unanime talmente è evidente.
Qui è diverso: potremmo definire la folla come la personificazione dei “superficiali”: dinanzi ai fatti non si impegnano, non sono capaci di andare oltre la loro modestissima inchiesta.
Certo confrontarsi con quest’uomo prima immobile, impotente, dipendente e ora capace di muoversi, di essere autonomo e di prendere iniziative è impegnativo, scalza tante nostre certezze: “Mah! Che bello!” è la loro tipica espressione a cui però non segue nulla di concreto, nessun schierarsi per la verità.
Alla folla interesserà la superficie dell’episodio: come? Chi? E’ lui o non è lui? Ma non saprà andar oltre. Siamo nella linea della curiosità e del pettegolezzo.
Sarebbe ovvio rivolgersi in primo luogo all’interessato, dialogare con lui: ma questo avviene solo alla fine. Prima c’è un confabulare, uno “spettegolare” e basta. Prima di interpellare l’interessato, il che sarebbe la cosa più ovvia, ci si crea un’opinione dall’esterno che poi sarà confermata, o “smentita” (ma si sarà d’accordo su questo?).
10-11 Come? Chi ? L’interrogatorio dei curiosi continua: “Come è successo?”.
Queste domande sono solo tese a soddisfare il prurito della curiosità della folla, la ricerca infatti si arena nella pura cronaca. Saputo che è stato un certo Gesù e saputo come ha agito la folla è accontentata. Il miracolo non suscita in essa un serio interrogativo di fede!
La folla è costituita dalle persone che si fermano alla soglia del fatto, senza cercare di andarne alla radice. Sono coloro, direbbe san Paolo che “sentono il prurito della novità” (cfr 2Tm 4,3-4), novità che cessa di essere tale nel momento stesso in cui si presenta, scatenando il prurito di altre novità, condannate a un uguale effimere esistenza.
E’ una constatazione che fanno ad esempio molte persone nell’accostarsi al “mondo del soprannaturale”. Vi è una corsa insaziabile alla ricerca di fenomeni straordinari, che apparentemente dicono il desiderio della fede, ma che, se osservati più in profondità, denotano una scarsa volontà di un ascolto profondo, di una interiorizzazione dei fatti. Non ci si gioca infatti sino in fondo su ciò a cui ci si accosta. Ci si illude di farlo! La vita poi riprende come prima, e nulla cambia.
Seconda reazione: il “problematicismo” (vv. 13-17)
13. La folla conduce dai farisei il cieco guarito. Cosa cerca? Per quale motivo? Curiosità ulteriore? Godersi un ulteriore spettacolo? …
14-16. L’incontro con i farisei si risolve in un ulteriore diatriba. I farisei rappresentano la categoria di coloro che si interrogano sul fatto senza arrivare ad una conclusione univoca, perché condizionati dai loro pregiudizi, e da un atteggiamento di problematicismo cronico (che è in fin dei conti una difesa, una fuga dal doversi porre in modo responsabile di fronte alla realtà).
I farisei non riescono, o meglio non vogliono, conciliare il fatto miracoloso indubitabile e il precetto sabbatico.
Come fa Gesù a compiere miracoli trasgredendo i precetti di Dio? Impastare fango è azione espressamente proibita (delle 39 azioni proibite l’impastare fango sta al secondo posto!). Non vi è l’indicazione di Dt 13,1-5 che afferma che anche un operatore di prodigi non deve essere creduto se contraddice la legge, e perciò deve essere messo a morte?
E’ meglio preferire l’uomo o il sabato? Per Gesù non esistono dubbi! Per i farisei sì!
Gesù non osserva il sabato: l’uomo infatti non era in pericolo di vita e dunque Gesù poteva benissimo aspettare un altro giorno.
E’ un problema che esige un porsi in gioco, uno sbilanciamento, un mettersi da una parte. Tra i farisei è una discussione accanita, si creano due schieramenti: “Quest’uomo non viene da Dio perché non osserva il sabato” dicono alcuni; “Come può un peccatore operare tali prodigi?” dicono altri.
La loro “teologia” non riesce a conciliare il binomio miracolo-trasgressione del sabato.
Si crea una spaccatura (schisma). Non si riesce ad uscire dal dilemma. Allora perché non far riferimento ancora al miracolato?
17. E’ un profeta: L’uomo guarito non ha dubbi, l’evidenza dei fatti si impone: “E’ un profeta!”.
Elia ed Eliseo non compirono forse gli stessi miracoli?
Ha il coraggio di schierarsi, di apparire diverso dal pensare comune, cosa che gli costerà molto cara. Ma è questo coraggio che gli permetterà di incamminarsi verso l’incontro con la luce che è Cristo.
Terza reazione: la vigliaccheria (vv. 18-23)
v. 18: Non credettero… La strada giusta che è quella di prendere in considerazione il fatto per arrivare a Gesù viene così ulteriormente abbandonata. Ci si rifugia in quella ben più larga e comoda delle idee prefabbricate.
I fatti, per i farisei, non contano! Gli avvenimenti non scalfiscono minimamente le loro convinzioni.
L’autorità dei fatti non viene presa in considerazione: in quale misura i fatti interpellano la nostra vita, mettono in discussione le teorie? La rigidità dei pregiudizi, gli schemi mentali precostituiti sono un forte impedimento alla resa alla verità.
Ora, la perplessità circa la persona di Gesù non trova sbocco, perciò non rimane che contestare i fatti, negare l’evidenza, i fatti. Intestardirsi nelle proprie idee contro l’evidenza dei fatti, anzi, negarli per dare spazio ai pregiudizi, è atteggiamento che caratterizza i “vigliacchi”.
Parte di questa vigliaccheria rientra anche nei genitori del miracolato, che qui rientrano come rappresentanti che credono in certo qual modo al miracolo, ma che non sono disposte a testimoniarlo per le reazioni negative che li possono colpire (è la controrisonanza della paura degli altri).
v. 19. I genitori sono chiamati a rispondere a tre domande precise:
Identificano il miracolato con il loro figlio?
Garantiscono che è nato cieco?
Come spiegano il cambiamento avvenuto?
v. 20-21. Alle prime due rispondono senza difficoltà. Ma alla terza inizia l’incertezza, l’evasività: si tratta di sbilanciarsi! Fare il nome di Gesù significa compromettersi, essere messi al bando dalla sinagoga, segnati a dito. La risposta dunque non può che essere evasiva: “Come poi ci veda non lo sappiamo, né sappiamo chi gli ha aperto gli occhi; chiedetelo a lui, ha l’età, parlerà lui di se stesso!”
Impossibile pensare che fossero all’oscuro di un miracolo avvenuto proprio al loro figlio. Le notizie corrono…. “il paese è piccolo e la gente mormora”. La loro dunque è solo una mossa strategica per non cacciarsi nei guai. Sono paralizzati dalla paura, non manifestano neppure la gioia per il figlio guarito! Non esprimono il minimo di gratitudine nei confronti di Gesù. Si trincerano dietro un riserbo che è colpevole silenzio.
In loro sono personificati tutti coloro che rifiutano di prendere posizione quando bisogna pagare di persona, coloro che hanno paura d’essere diversi dagli altri, non allineati. Meglio l’affinità ipocrita, ma tranquilla, con tutti gli altri, piuttosto che una diversità scottante.
Quarta reazione: la violenza e l’ingiuria come rifiuto della verità (vv. 23-34)
v. 24. Ora i farisei si presentano senza maschera presentando un’ulteriore categoria: il rifiuto violento della verità, la negazione dell’evidenza.
Lo fanno addirittura invocando l’espressione biblica di giuramento di chi esorta alla verità e alla sincerità. Vogliamo tirare Dio dove noi vogliamo, utilizzarlo ai nostri miseri scopi.
I farisei ora pretendono dal miracolato una chiara e precisa confessione-dichiarazione che Gesù è un peccatore. Si nascondono dietro l’aulico “Noi sappiamo…”: l’autorità che vuole far sentire il suo peso sulla coscienza dell’uomo.
E’ scomparsa l’incertezza e l’ambivalenza iniziale: la soluzione è trovata! Una soverchiante maggioranza impone al nostro miracolato l’allineamento: Gesù è un peccatore e non si discuta più!
v. 25-27. Ma il fattore maggioritario qui non funziona. L’ex cieco non si lascia avviluppare dalla loro serie di fasulle argomentazioni. Egli si rifà costantemente ai fatti non alle interpretazioni. Arriva a fare ironia quando si accorge della prevenzione che esiste dall’altra parte, prende atto della non volontà di ascolto e di dialogo.
A questo punto le carte si scoprono, non è più possibile barare.. Il contrasto si fa acido e insostenibile. Da ambe le parti si fa verità di ciò che è nel cuore.
Il rifiuto da parte dei farisei di prendere atto dei fatti e da questi rileggere tutta la tradizione porta alla cecità, alla schiavitù di principi umani. La legge a questo punto uccide!
Bisogna difendersi dalla tentazione dell’orgoglio che mira a mettere al centro se stessi e non la verità e il bene. E’ indispensabile che si impari a porsi domande profonde, che sappiano spingerci al di là della superficialità e del conformismo dilagante.
vv. 30-33. L’ex cieco espone le sue argomentazioni velate di amara ironia che egli detrae non da una teologia studiata a tavolino, ma da quella che scaturisce dalla vita, dal confronto con la realtà nella quale egli scorge la presenza di Dio. Da ciò che gli ha sperimentato concretamente nella sua vita. Nessun nato cieco è mai stato guarito al mondo.
Egli pur non conoscendo ancora Gesù in profondità è disposto a pagare di persona il suo mettersi dalla parte della verità.
v. 34. La reazione dei farisei è feroce. Ora il peccatore non è più solo Gesù ma è il miracolato stesso. E’ una attribuzione della sua ex cecità al peccato in cui è nato, cosa smentita già all’inizio da Gesù stesso.
Ormai le argomentazioni dei farisei sono contraddittorie e quando queste non bastano più eccoli passare all’insulto, al disprezzo, come ultima arma
Vogliono far sentire tutto il loro peso derivante dalla loro collocazione culturale, sociale, religiosa: Tu… Noi…. Ma a ragion del vero questo corrisponde alla realtà dei fatti: tra loro esiste ormai un divario insanabile.
Non esiste più possibilità di comunicazione, cosa che si radicalizza e si concretizza nell’espulsione dalla sinagoga. Scacciare l’intruso, colui che può mettere in dubbio le loro certezze è l’ultimo maldestro tentativo di difendere la “loro” verità.
Ora il nostro Beniamino si ritrova più che mai solo. Ha perso ogni aggancio a livello sociale e religioso. Anche il rapporto con i genitori si è incrinato. Non è più legato alla sua fede, ma non è ancora cristiano. La situazione è tremendamente sospesa, inconclusa.
Ha pagato per la verità ma questa verità non ha ancora un nome, un volto. Occorre un’ulteriore passo.
Quinta reazione: La ricerca della verità ricompensata (vv 35-41)
Il cieco guarito rappresenta la categoria di coloro che hanno il coraggio di mettersi dalla parte della verità anche a costo di pagare di persona, di essere segnati a dito, calunniati e allontanati.
Beniamino è l’uomo che si pone in ascolto dei fatti e da essi trae la coerenza di porsi dalla parte della verità. Ma questa scelta l’ha posto nella solitudine, potrebbe far sua tante espressioni dei salmi in cui si racconta tale situazione e abbandono.
L’episodio ci dice una grande verità a riguardo della vita: la fatica,la sofferenza che deriva dal tentativo di schierarci dalla parte della verità. Sempre la storia ci racconta della persecuzione di coloro che si sono posti dalla parte della verità.
E’ Gesù che ricerca e incontra l’ex cieco. Non è un incontro casuale, fortuito. Il testo dice meglio: “trovatolo”. Da parte di Gesù c’è la precisa volontà di incontrarlo. Egli conosce la situazione in cui si trova a sa di dover far fare a Beniamino un altro e decisivo tratto di strada, ovvero a dare un nome alla verità per cui ha sofferto.
Gesù intende dunque fargli un dono ancor più grande della guarigione fisica, vuole aprirlo alla fede in lui. Il miracolato ha percorso già un bel tratto di strada in questa direzione: la sua coscienza è ormai aperta ad accogliere la rivelazione. (egli è passato dall’affermazione di Gesù “uomo”, a “profeta”, a “da Dio”, a “Signore”).
E’ stata una strada difficile e sofferta nella quale Beniamino si è dimostrato sempre più capace di accogliere la rivelazione.
v. 35. “Tu credi nel figlio dell’uomo?”. Gesù rivolge all’uomo una domanda che cerca la disponibilità di andar oltre le apparenze, per scoprire in Gesù l’inviato di Dio. (Figlio dell’Uomo: titolo messianico che fa riferimento al ruolo di giudice escatologico del Messia. Qui Gesù opera un giudizio decisivo tra chi è nella luce e chi è nelle tenebre).
v. 36 “E chi è?”. La disponibilità in Beniamino esiste, pone una domanda molto pratica come è nel suo stile e che esprime il desiderio di camminare ancora verso la verità.
v. 38 “Io credo Signore!”. All’autorivelazione di Gesù segue l’adesione piena e incondizionata dell’uomo: “Io credo, Signore!”. Un’adesione sottolineata anche attraverso la sua corporeità: la sua prostrazione è adorazione, riconoscimento. Siamo al vertice del racconto.
Gesù porta luce ai non vedenti e l’accecamento per i vedenti. La Parola per coloro che credono di vedere diviene sorda e tenebrosa. Ma rimane aperto il suo invito all’ascolto, alla visione: Ascolta!
A Beniamino quanto tempo sarà occorso per fare questo itinerario?
A noi quanto ne occorrerà per compiere questo cammino catecumenale dalle tenebre alla luce, dalla menzogna alla verità? Ognuno avrà i suoi ritmi e le sue tappe.
Quanto saremo disposti a pagare per rinascere alla luce della verità che è Cristo?
Non saremo forse tentati da ripiegamenti, compromessi, tergiversazioni? Ma la Parola a cosa ci invita?
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