«BEATA TE CHE HAI CREDUTO ALLA PAROLA »
Maria, la piena di fede
La lettura della lettera vivente che è Maria aiuta a scoprire anche qual è lo « stile » di Dio. Ella è l’esempio vivente del modo di agire di Dio nella storia della salvezza. «Non c’è nulla – scriveva Tertulliano – che sconcerti tanto la mente umana, quanto la semplicità delle opere divine che si vedono in azione, paragonata alla magnificenza degli effetti che in esse si ottengono… Meschina incredulità umana, che nega a Dio le sue proprietà, che sono semplicità e potenza!» Egli alludeva alla grandiosità degli effetti del battesimo e alla semplicità dei mezzi e dei segni esterni, che si riducono a un poco di acqua e ad alcune parole. Al contrario – notava egli – di ciò che avviene nelle imprese umane e idolatriche, dove più grande è il risultato che si vuole ottenere e l’impressione che si vuole fare, più deve essere grande l’apparato, la messa in scena e la spesa.
Cosi è stato di Maria e della venuta nel mondo del Salvatore: Maria è l’esempio di questa sproporzione divina tra ciò che si vede all’estemo e ciò che avviene dentro. Che cos’era Maria all’esterno, nel suo villaggio? Niente di appariscente. Probabilmente, per i suoi parenti e compaesani, ella era semplicemente «la Maria», una fanciulla modesta, tanto a modo ma niente di eccezionale. Bisogna ricordarsi a ogni istante di questa verità per non correre il rischio di volatizzare la figura di Maria, proiettandola – come hanno fatto spesso l’iconografia e la pietà popolari – in una dimensione eterea e disincarnata, proprio lei che è la madre del Verbo incarnato! Bisogna tenere sempre presenti, parlando di lei, le due caratteristiche dello stile di Dio che sono, abbiamo visto, semplicità e magnificenza. In Maria, la magnificenza della grazia e della vocazione, convive con la più assoluta semplicità e concretezza.
« Eccomi, sono la serva dei Signore… »
Quando Maria giunse da Elisabetta, questa l’accolse con grande gioia e, «piena di Spirito Santo», esclamò: Beata colei che ha creduto nell’adempimento delle parole del Signore (Lc 1, 45). L’evangelista san Luca si serve dell’episodio della Visitazione come di un mezzo per portare alla luce ciò che si era compiuto nel segreto di Nazaret e che solo nel dialogo con un’ínterlocutrice poteva essere manifestato e assumere un carattere oggettivo e pubblico.
La cosa grande che è avvenuta a Nazaret, dopo il saluto dell’angelo, è che Maria «ha creduto» ed è diventata cosi «Madre del Signore». Non c’è dubbio che questo aver creduto si riferisce alla risposta di Maria all’angelo: Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto (Lc 1,38). Con queste poche e semplici parole si è consumato il più grande e decisivo atto di fede nella storia del mondo. Questa parola di Maria rappresenta « il vertice di ogni comportamento religioso davanti a Dio, poiché essa esprime, nella maniera più elevata, la passiva disponibilità unita all’attiva prontezza, il vuoto più profondo che si accompagna alla più grande pienezza». Con questa sua risposta – scrive Origene – è come se Maria dicesse a Dio: « Eccomi, sono una tavoletta da scrivere: lo Scrittore scriva ciò che vuole, faccia di me ciò che vuole il Signore di tutto ». Egli paragona Maria alla tavoletta cerata che si usava, al suo tempo, per scrivere. Maria, diremmo noi oggi, si offre a Dio come una pagina bianca, sulla quale egli può scrivere tutto ciò che vuole.
Anche Maria pose una domanda all’angelo: Come è possibile? Non conosco uomo (Lc 1, 34), ma con uno spirito ben diverso da Zaccaria. Ella non chiede una spiegazione per capire, ma per sapere come eseguire la volontà di Dio. Chiede come dovrà comportarsi, che cosa dovrà fare, visto che ancora non conosce uomo. In tal modo ci mostra che, in certi casi, non è lecito voler capire a tutti i costi la volontà di Dio, o il perché di certe situazioni apparentemente assurde, ma che è lecito invece chiedere a Dio la luce e l’aiuto per compiere tale volontà.
Il « fiat » di Maria resta dunque pieno e incondizionato. Viene spontaneo mettere a confronto questo « fiat » pronunziato da Maria, con il « fiat » che risuona in altri momenti cruciali della storia della salvezza: con il « fiat » di Dio, all’inizio della creazione, e il « fiat » di Gesù nella redenzione. Tutti e tre esprimono un atto di volontà, una decisione. Il primo, cioè « Fiat lux! » è il « sì» divino di un Dio: divino nella natura, divino nella persona che lo pronuncia; il secondo, il « fiat » di Gesù nel Getsemani, è l’atto umano di un Dio: umano perché pronunciato secondo la volontà umana, divino perché tale volontà appartiene alla persona del Verbo; il « fiat » di Maria è il « sì » umano di una creatura umana. In esso tutto prende valore dalla grazia. Prima del «Sì» decisivo di Cristo, tutto quello che c’è di consenso umano all’opera della redenzione è espresso da questo « fiat » di Maria. «In un istante che non tramonta mai più e che resta valido per tutta l’eternità, la parola di Maria fu la parola dell’umanità e il suo “sì”, l’amen di tutta la creazione al “sì” di Dio» (K. Rahner). In lei è come se Dio interpellasse di nuovo la libertà creata, offrendole una possibilità di riscatto. E’ questo il senso profondo del parallelismo: Eva-Maria, caro ai Padri e a tutta la tradizione. « Eva, quand’era ancora vergine, accolse la parola del serpente e partorì disobbedienza e morte. Maria, invece, la Vergine, accogliendo con fede e gioia il lieto annuncio recato dall’angelo Gabriele, rispose: Si faccia di me secondo la tua parola» «Ciò che Eva aveva legato con la sua incredulità, Maria l’ha sciolto con la sua fede».
Dalle parole di Elisabetta: «Beata colei che ha creduto», si vede come già nel Vangelo, la maternità divina di Maria non è intesa soltanto come maternità fisica, ma molto più come maternità spirituale, fondata sulla fede. Su ciò si basa sant’Agostino quando scrive: « La Vergine Maria partorì credendo, quel che aveva concepito credendo… Dopo che l’angelo ebbe parlato, ella, piena di fede (fide piena), concependo Cristo prima nel cuore che nel grembo, rispose: Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me secondo la tua parola». Alla pienezza di grazia da parte di Dio, corrisponde la pienezza della fede da parte di Maria; al « gratia plena », il «fide plena ».
Sola con Dio
A prima vista, quello di Maria fu un atto di fede facile e perfino scontato. Diventare madre di un re che avrebbe regnato in eterno sulla casa di Giacobbe, madre del Messia! Non era quello che ogni fanciulla ebrea sognava di essere? Ma questo è un modo di ragionare assai umano e canale.
La vera fede non è mai un privilegio o un onore, ma è sempre un po’ un morire, e così fu soprattutto la fede di Maria in questo momento. Anzitutto, Dio non inganna mai, non strappa mai alle creature dei consensi surrettiziamente, nascondendo loro le conseguenze, ciò cui andranno incontro. Lo vediamo in tutte le grandi chiamate di Dio. A Geremia preannuncía: Ti muoveranno guerra (Ger 1, 19) e di Saulo, dice ad Anania: Io gli mostrerò quanto dovrà soffrire per il mio nome (At 9, 16). Solo con Maria, per una missione come la sua, avrebbe agito diversamente? Nella luce dello Spirito Santo, che accompagna la chiamata di Dio, ella ha certamente intravisto che anche il suo cammino non sarebbe stato diverso da quello di tutti gli altri chiamati. Del resto, Simeone, ben presto, darà espressione a questo presentimento, quando le dirà che una spada le avrebbe trapassato l’anima.
Ma già sul piano semplicemente umano, Maria viene a trovarsi in una totale solitudine. A chi può spiegare ciò che è avvenuto in lei? Chi la crederà quando dirà che il bimbo che porta nel grembo è «opera dello Spirito Santo»? Questa cosa non è avvenuta mai prima di lei e non avverrà mai dopo di lei. Maria conosceva certamente ciò che era scritto nel libro della legge e cioè che se la fanciulla, al momento delle nozze, non fosse stata trovata in stato di verginità, doveva essere fatta uscire all’ingresso della casa del padre e lapidata dalla gente del villaggio (cf Dt 22, 20 s).
Noi parliamo volentieri oggigiorno del rischio della fede, intendendo, in genere, con ciò ‘ il rischio intellettuale; ma per Maria si trattò di un rischio realel Carlo Carretto, nel suo libretto sulla Madonna, narra come giunse a scoprire la fede di Maria. Quando viveva nel deserto, aveva saputo da alcuni suoi amici Tuareg che una ragazza dell’accampamento era stata promessa sposa a un giovane, ma che non era andata ad abitare con lui, essendo troppo giovane. Aveva collegato questo fatto con quello che Luca dice di Maria. Perciò ripassando, dopo due anni, in quello stesso accampamento, chiese notizie della ragazza. Notò un certo imbarazzo tra i suoi interlocutori e più tardi uno di loro, avvicinandosi con grande segretezza, fece un segno: passò una mano sulla gola con il gesto caratteristico degli arabi quando vogliono dire: «E stata sgozzata». Si era scoperta incinta prima del matrimonio e l’onore della famiglia esigeva quella fine. Allora ripensò a Maria, agli sguardi impietosi della gente di Nazaret, agli ammiccamentí, capi la solitudine di Maria, e quella notte stessa la scelse come compagna di viaggio e maestra della sua fede.
Se credere è «inoltrarsi per quella strada dove tutti i cartelli indicatori dicono: «Indietro, indietro! »; se è come « venirsi a trovare in mare aperto, là dove ci sono settanta stadi di profondità sotto di te»; se credere è «compiere un atto tale che per esso uno si viene a trovare completamente gettato in braccio all’Assoluto » (sono tutte irnmagini del filosofo Kierkegaard), allora non c’è dubbio che Maria è stata la credente per eccellenza, di cui non ci potrà essere mai l’eguale. Ella si è venuta a trovare davvero gettata completamente in braccio all’Assoluto. Ella è l’unica ad aver creduto « in situazione di contemporaneità », cioè mentre la cosa accadeva, prima di ogni conferma e di ogni convalida da parte degli eventi e della storia. Ha creduto in totale solitudine. Gesù disse a Tommaso: Perché mi hai veduto, hai creduto: beati quelli che pur non avendo visto crederanno! (Gv 20, 29): Maria è la prima di coloro che hanno creduto senza aver ancora visto.
Maria, d’altra parte, ha creduto subito, all’istante; non ha esitato, non ha sospeso il giudizio. Al contrario, ha impegnato subito tutta se stessa. Ha creduto che avrebbe concepito un figlio per opera dello Spirito Santo. Non ha detto tra sé: «Bene, ora stiamo a vedere cosa succederà; il tempo dirà se questa strana promessa è vera e se viene da Dio»; non ha detto tra sé: «Se son rose fioriranno… ». Questo è ciò che ogni persona avrebbe detto, se avesse dato ascolto al buon senso e alla ragione. Maria no; Maria credette. Ché se non avesse creduto, il Verbo non si sarebbe fatto carne in lei ed ella, di lì a poco, non sarebbe stata al terzo mese, né Elisabetta avrebbe salutato in lei «la Madre del Signore».
Di Abramo, in una situazione simile, quando anche a lui fu promesso un figlio benché in tarda età, la Scrittura dice, quasi con aria di trionfo e di stupore: Abramo ebbe fede in Dio e ciò gli fu accreditato come giustizia (Gn 15, 6). Maria ebbe fede in Dio e ciò le fu accreditato come giustizia.
San Paolo dice che Dio ama chi dona con gioia (2 Cor 9, 7) e Maria ha detto a Dio il suo «sì» con gioia. Il verbo con cui Maria esprime il suo consenso, e che è tradotto con «fiat» o con « si faccia», nell’originale, è all’ottativo (génoito); esso non esprime una semplice rassegnata accettazione, ma vivo desiderio. Come se dicesse: «Desidero anch’io, con tutto il mio essere, quello che Dio desidera; si compia presto ciò che egli vuole». Davvero, come diceva sant’Agostino, prima ancora che nel suo corpo ella concepì Cristo nel suo cuore.
Ma Maria non disse «fiat» che è parola latina; non disse neppure « génoito » che è parola greca. Che cosa disse allora? Qual è la parola che, nella lingua parlata da Maria, corrisponde più da vicino a questa espressione? Cosa diceva un ebreo quando voleva dire « così sia »? Diceva «amen! » Se è lecito cercare di risalire, con pia riflessione, all’’ipsissima vox, alla parola esatta uscita dalla bocca di Maria – o almeno alla parola che c’era, a questo punto, nella fonte giudaica usata da Luca -, questa deve essere stata proprio la parola « amen ». Amen – parola ebraica, la cui radice significa solidità, certezza – era usata nella liturgia come risposta di fede alla parola di Dio. Ogni volta che, al termine di certi Salmi, nella Volgata si legge « fiat, fiat » (nella versione dei Settanta: génoito, génoito), l’originale ebraico, conosciuto da Maria, porta: Amen, amen! Con I’« amen » si riconosce quel che è stato detto come parola ferma, stabile, valida e vincolante. La sua traduzione esatta quando è risposta alla parola di Dio, è questa: «Così è e così sia!». Indica fede e obbedienza insieme; riconosce che quel che Dio dice è vero e vi si sottomette.
In questo senso lo troviamo sulla bocca stessa di Gesù: « Sì, amen, Padre, perché così è piaciuto a te … » (cf Mt 11, 26). Egli anzi è l’Amen personificato: Così parla l’Amen… (Ap 3, 14) ed è per mezzo di lui che ogni altro « amen » pronunciato sulla terra sale ormai a Dio (cf 2 Cor 1, 20). Come il « fiat » di Maria precorre quello di Gesù nel Getsemani, così il suo « amen » precorre quello del Figlio. Anche Maria è un « amen » personificato a Dio.
Un sì nuziale
La bellezza dell’atto di fede di Maria sta nel fatto che esso è il « si » nuziale della sposa allo sposo, pronunciato in totale libertà. Maria è il segno e la primizia di quelle nozze tra Dio e il suo popolo, che i profeti avevano preannunciato dicendo: E avverrà in quel giorno… A lei si applicano perciò le parole del profeta: Ti farò mia sposa per sempre… Ti fidanzerò con me nella fedeltà (Os 2, 21 s). La fede è l’anello nuziale di queste nozze e ad essa corrisponde, da parte di Dio, la fedeltà.
Il « sì» di Maria non è un atto solo umano, ma anche divino, perché suscitato, nelle profondità dell’anirna di Maria, dallo Spirito Santo stesso. Di Gesù è scritto che «con uno Spirito eterno, offrì se stesso senza macchia a Dio» (cf Eb 9, 14). Anche Maria offrì se stessa a Dio nello Spirito Santo, cioè mossa da lui. Lo Spirito Santo che le è promesso dafl’angelo, con le parole: Lo Spirito Santo scenderà su di te…. non le è promesso solo per concepire Cristo nel suo corpo, ma anche per concepirlo, per fede, nel suo cuore. Se ella è stata « ricolmata di grazia», lo è stata anzitutto per questo: per poter accogliere con fede il messaggio che stava per ricevere. Se senza lo Spirito Santo non possiamo neppure dire: Gesù è il Signore! (cf 1 Cor 12, 3), che pensare di questo « fiat » di Maria dal quale dipendeva, in un certo senso, il farsi uomo del Verbo e l’esistenza stessa del Signore? Così si compiono sempre le grandi obbedienze, a partire da quella di Cristo: Dio infonde, mediante lo Spirito Santo, nel cuore della creatura, la carità, e la carità spinge la creatura a fare ciò che Dio vuole. La carità diventa legge, la legge dello Spirito, Dio non impone la sua volontà, ma dona la carità. È stato detto a ragione che l’amore « a nullo amato amar perdona» (Dante Ahghieri), cioè non permette, a chi è amato, di non riamare a sua volta. Questo spiega l’arrendersi di Maria; ella si sente amata da Dio ed è questo amore che la spinge a darsi a Dio con tutto il suo essere. Un’esperienza simile troviamo nella vita di santa Teresa del Bambin Gesù, nel momento di offrirsi a Dio per sempre: « Fu – scrive – un bacio d’amore: mi sentivo amata e dicevo: Ti amo, mi do a te per sempre».
Eppure il « fiat » di Maria fu un atto libero, anzi il primo atto di vera libertà che ci sia stato nella storia del mondo, poiché vera libertà non è quella di fare o non fare il bene, ma quella di fare liberamente il bene; libertà di obbedire liberamente, non libertà di obbedire o non obbedire a Dio. «Non ci fu forse una libera volontà in Cristo e non fu essa tanto più libera quanto meno poteva servire al peccato?».
Mossa da Spirito Santo, parlò Maria e disse « si» a Dio. Per questo, anche il suo «si» è un atto divino e umano insieme; umano per natura, divino per grazia. La fede di Maria è dunque un atto d’amore e di docilità, libero anche se suscitato da Dio, misterioso come misterioso è ogni volta l’incontro tra la grazia e la libertà.
È questa la vera grandezza personale di Maria, la sua beatitudine confermata da Cristo stesso. Beato il ventre che ti ha portato e il seno da cui hai preso il latte (Lc 11, 27), dice una donna nel Vangelo. La donna proclama Maria beata perché ha portato Gesù; Ehsabetta la proclama invece beata perché ha creduto (pisteúsasa). La donna proclama beato il portare Gesù nel grembo, Gesù proclama beato il portarlo nel cuore: Beati piuttosto – risponde – coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano. Gesù aiuta, in tal modo, quella donna e tutti noi, a capire dove risiede la vera grandezza di sua Madre. Chi è infatti che «custodiva» le parole di Dio più di Maria, della quale è detto due volte, dalla stessa Scrittura, che «custodiva tutte le parole nel suo cuore»? (cf Lc 2, 19.51).
Non dovremmo però concludere il nostro sguardo alla fede di Maria con l’impressione che Maria abbia creduto una volta e poi basta nella sua vita; che ci sia stato un solo grande atto di fede nella vita della Madonna. Ci sfuggirebbe così l’essenziale. Le opere di Dio seguono una logica molto diversa da quella che noi siamo soliti immaginare. Non si impiantano stabilmente in un soggetto libero e sottoposto al divenire e alla fede, in modo meccanico, una volta per sempre, con una promessa iniziale, dopo la quale tutto diventa semplice e chiaro. Quello che era chiaro in un istante all’inizio, perché lo Spirito lo rendeva tale, può non esserlo più in seguito; la fede può essere messa alla prova dal dubbio; non dal dubbio su Dio, ma su di sé: «Avrò capito bene? Non avrò frainteso? E se mi fossi ingannata? E se non fosse stato Dio a parlare? ». La misteriosità dell’agire di Dio resta tale e prima di rassegnarci a vivere nel mistero, quanta agonia bisogna passare!
Quante volte, in seguito afl’Annunciazione, Maria sarà stata martirizzata dall’apparente contrasto della sua situazione con tutto ciò che era scritto e conosciuto, circa la volontà di Dio, nell’Antico Testamento e circa la figura stessa del Messia! Quante volte dovette essere Giuseppe – proprio lui! – a rassicurarla e tranquillizzarla, dicendole che non aveva peccato, che non c’era colpa in lei, che era innocente e non si era ingannata; a ripeterle, insomma, quello che lui stesso aveva appreso dall’angelo in sogno: « Non temere… quel che è generato in lei viene dallo Spirito Santo» (Mt 1, 20).
Il Concilio Vaticano Il ci ha fatto un grande dono, affermando che anche Maria ha camminato nella fede, anzi che ha «progredito» nella fede, cioè è cresciuta e si è perfezionata in essa. Camminare nella fede, per Maria, come vediamo, in piccolo, in certe anime che Dio chiama per vie speciali, comporta questo martirio della coscienza di non avere altra difesa contro l’evidenza, che la parola di Dio una volta ascoltata dentro e in seguito risuscitata solo dall’esterno, tramite intermediari umani. Giuseppe svolse con Maria, in certi momenti, un ruolo simile a quello che deve svolgere, in questi casi, il direttore di coscienza, o semplicemente un buon papà spirituale, che è quello di custodire e ripetere, a ogni crisi, la certezza donatagli un tempo da Dio, credendo e sperando, anche lui, contro ogni evidenza.
Se Gesù fu tentato, sarebbe veramente strano che Maria che gli è stata così vicina in tutto – non lo sia stata. La fede, dice san Pietro, si prova nel crogiolo (cf 1 Pt 1 7) e l’Apocalisse dice che « il drago si pose davanti alla donna che stava per partorire » e che «si avventò contro la donna che aveva partorito» (cf Ap 12, 4.13). E’ vero che qui la donna che viene assalita dal drago direttamente indica la Chiesa. Ma come potrebbe Maria dirsi ancora « figura della Chiesa», se non avesse sperimentato in alcun modo, lei per prima, questo aspetto così rilevante nella vita della Chiesa che è la lotta e la tentazione da parte del Maligno? Anche Maria, come Cristo, è stata «provata in ogni cosa, a somiglianza di noi, escluso il peccato» (Eb 4, 15). Escluso solo il peccato!
II
Nella scia di Maria
Come la scia di un bel vascello va allargandosi fino a sparire e a perdersi all’orizzonte, ma comincia con una punta, che è la punta stessa del vascello, così è dell’immensa scia dei credenti che formano la Chiesa. Essa comincia con una punta e questa punta è la fede di Maria, il suo « fiat ». In tutte le altre cose nella preghiera, nella sofferenza, nell’umiltà, nella stessa carità la punta o l’inizio non può essere che Gesù Cristo, che è la primizia e il capo da cui tutto il corpo si sviluppa. Quando si risale il grande fiume della preghiera che scorre nella Chiesa, chi troviamo, giunti alle sue sorgenti? Troviamo Gesù che prega, Gesù che affida ai discepoli la sua preghiera con il «Padre nostro ». Non così quando si risale l’altro grande fiume che è la fede. Prima ancora della fede degli apostoli, ci fu la fede di Maria.
Per il solo fatto di credere, noi ci troviamo dunque nella scia di Maria e vogliamo ora approfondire cosa significa seguire davvero la sua scia. Nel leggere ciò che riguarda la Madonna nella Bibbia, la Chiesa ha seguito, fin dal tempo dei Padri, un criterio che si può esprimere cosi: «Maria, vel Ecdesia, vel anima», Maria, ossia la Chiesa, ossia l’anima. Il senso è che quello che nella Scrittura si dice specialmente di Maria, va inteso universalmente della Chiesa e ciò che si dice universalmente della Chiesa va inteso singolarmente per ogni anima credente. Attenendoci anche noi a questo principio, vediamo ora ciò che la fede di Maria ha da dire prima alla Chiesa nel suo insieme e poi a ciascuno di noi, cioè a ogni singola anima. Come abbiamo fatto anche per la grazia, mettiamo in luce prima le implicazioni ecclesiali o teologiche della fede di Maria e poi quelle personali o ascetiche. In questo modo, la vita della Madonna non serve solo ad accrescere la nostra privata devozione, ma anche la nostra comprensione profonda della Parola di Dio e dei problemi della Chiesa e questo deve fare accettare con gioia anche la difficoltà che si può incontrare in questa prima applicazione.
Anzitutto Maria ci parla dell’importanza della fede. Non c’è suono, né musica là dove non c’è un orecchio capace di ascoltare, per quanto risuonino nell’aria melodie e accordi sublimi. Non c’è grazia, o almeno la grazia non può operare, se non trova la fede ad accoglierla. Come la pioggia non può far germogliare nulla finché non trova una terra che l’accoglie, così la grazia se non trova la fede. E’ per la fede che noi siamo « sensibili » alla grazia. La fede è la base di tutto; è la prima e la più «buona » delle opere da compiere. Opera di Dio è questa, dice Gesù: che crediate (cf Gv 6, 29). La fede è così importante perché è l’unica che mantiene alla grazia la sua gratuità. Non cerca di invertire le parti, facendo di Dio un debitore e dell’uomo un creditore. Per questo essa è tanto cara a Dio che fa dipendere dalla fede praticamente tutto, nei suoi rapporti con l’uomo.
Grazia e fede: sono posti, in tal modo, i due pilastri della salvezza; sono dati afl’uomo i due piedi per camminare o le due ali per volare. Non si tratta però di due cose parallele, quasi che da Dio venisse la grazia e da noi la fede, e la salvezza dipendesse così, in parti eguali, da Dio e da noi, dalla grazia e dalla libertà. Guai se uno pensasse: la grazia dipende da Dio, ma la fede dipende da me; insieme, io e Dio facciamo la salvezza! Avremmo fatto di nuovo, di Dio, un debitore, uno che dipende in qualche modo da noi, e che deve condividere con noi il merito e la gloria. San Paolo toglie ogni dubbio quando dice: Per grazia siete salvi mediante la fede e ciò (cioè il credere, o, più globalmente, l’essere salvi per grazia mediante la fede, che è la stessa cosa) non viene da voi ma è dono di Dio perché nessuno possa vantarsene (Ef 2, 8 s). Anche in Maria, abbiamo visto, l’atto di fede fu suscitato dalla grazia dello Spirito Santo.
L’accento è sul fatto di credere, più che sulle cose credute. Ma la fede di Maria è anche quanto mai oggettiva, comunitaria. Ella crede al Dio dei Padri, al Dio del suo popolo. Riconosce nel Dio che le si rivela, il Dio delle promesse, il Dio di Abramo e della sua discendenza. Ella si inserisce umanamente nella schiera dei credenti, diventa la prima credente della nuova alleanza, come Abramo era stato il primo credente dell’antica alleanza. Il Magnificat è tutto pieno di questa fede basata sulle Scritture e di riferimenti alla storia del suo popolo. Il Dio di Maria è un Dio dai tratti squisitamente biblici: Signore, Potente, Santo, Salvatore. Maria non avrebbe creduto all’angelo, se le avesse rivelato un Dio diverso, che ella non avesse potuto riconoscere come il Dio del suo popolo Israele. Anche esternamente, Maria si adegua a questa fede. Si assoggetta infatti a tutte le prescrizioni della legge; fa circoncidere il Bambino, lo presenta al tempio, si sottopone lei stessa al rito della purificazione, sale a Gerusalemme per la Pasqua.
Ora tutto questo è per noi di grande insegnamento. Anche la fede, come la grazia, è andata soggetta, lungo i secoli, a un fenomeno di analisi e di frantumazione, per cui si hanno ínnumerevoli specie e sottospecie di fede. I fratelli protestanti, per esempio, valorizzano di più quel primo aspetto, soggettivo e personale, della fede. « Fede – scrive Lutero – è una fiducia viva e audace nella grazia di Dio»; è una «ferma fiducia». In alcune correnti del protestantesimo, come nel Pietismo, dove questa tendenza è portata all’estremo, i dogmi e le cosiddette verità di fede non hanno quasi alcuna rilevanza. L’atteggiamento interiore, personale, verso Dio è la cosa più importante e quasi esclusiva.
Nella tradizione cattolica e ortodossa ha avuto invece, fin dall’antichità, un’importanza grandissima il problema della retta fede o dell’ortodossia. Il problema delle cose da credere prese, ben presto, il sopravvento sull’aspetto soggettivo e personale del credere, cioè sull’atto di fede. I trattati dei Padri, intitolati « Sulla fede» (De fide) non accennano nemmeno alla fede come atto soggettivo, come fiducia e abbandono, ma si preoccupano di stabilire quali sono le verità da credere in comunione con tutta la Chiesa, in polemica contro gli eretici. In seguito alla Riforma, in reazione all’accentuazione unilaterale della fede-fiducia, questa tendenza si è accentuata nella Chiesa cattolica. Credere significa principalmente aderire al credo della Chiesa. San Paolo diceva che « con il cuore si crede e con la bocca si fa la professione di fede» (cf Rm 1 0, 1 0): la «professione» della retta fede ha preso spesso il sopravvento sul «credere con il cuore».
Maria ci spinge a ritrovare, anche in questo campo, «l’intero» che è tanto più ricco e più bello di ogni singola parte. Non basta avere una fede solo soggettiva, una fede che sia un abbandonarsi a Dio nell’intimo della propria coscienza. È tanto facile, per questa strada, rimpicciolire Dio alla propria misura. Questo avviene quando ci si fa una propria idea di Dio, basata su una propria interpretazione personale della Bibbia, o sull’interpretazione del proprio ristretto gruppo, e poi si aderisce ad essa con tutte le forze, magari anche con fanatismo, senza accorgersi che ormai si sta credendo in se stessi più che in Dio e che tutta quella incrollabile fiducia in Dio, altro non è che una incrollabile fiducia in se stessi.
Non basta però neppure una fede solo oggettiva e dommatica, se questa non realizza l’intimo, personale contatto, da io a tu, con Dio. Essa diventa facilmente una fede morta, un credere per interposta persona o per interposta istituzione, che crolla non appena entra in crisi, per qualsiasi ragione, il proprio rapporto con l’istituzione che è la Chiesa. È facile, in questo modo, che un cristiano arrivi alla fine della vita, senza aver mai fatto un atto di fede libero e personale, che è l’unico che giustifichi il nome di « credente ».
Bisogna dunque credere personalmente, ma nella Chiesa; credere nella Chiesa, ma personalmente. La fede dommatíca della Chiesa non mortifica l’atto personale e la spontaneità del credere, ma anzi lo preserva e permette di conoscere e abbracciare un Dio irnmensamente più grande di quello della mia povera esperienza. Nessuna creatura infatti è capace di abbracciare, con il suo atto di fede, tutto quello che, di Dio, si può conoscere.
La fede della Chiesa è come il grande angolare che permette di cogliere e fotografare, di un panorama, una porzione molto più vasta del semplice obiettivo; Nell’unirmi alla fede della Chiesa, io faccio mia la fede di tutti quelli che mi hanno preceduto: degli apostoli, dei martiri, dei dottori. I Santi, non potendo portare con sé in cielo la fede – dove essa non serve più -, l’hanno lasciata in eredità alla Chiesa.
C’è una potenza incredibile racchiusa in quelle parole: «lo credo in Dio Padre Onnipotente… ». Il mio piccolo «io», unito e fuso con quello grande di tutto il corpo mistico di Cristo, passato e presente, forma un grido più potente del fragore del mare che fa tremare dalle fondamenta il regno delle tenebre.
Crediamo anche noi!
Passiamo ora a considerare le implicazioni personali e ascetiche che scaturiscono dalla fede di Maria. Sant’Agostino, dopo aver affermato, nel testo citato sopra, che Maria «piena di fede, partorì credendo quel che aveva concepito credendo», trae da questo un’applicazione pratica dicendo: «Maria credette e in lei quel che credette si avverò. Crediamo anche noi, perché quel che si avverò in lei possa giovare anche a noi».
Crediamo anche noi! La contemplazione della fede di Maria ci spinge a rinnovare anzitutto il nostro personale atto di fede e di abbandono in Dio.
Noi siamo l’edificio di Dio, il tempio di Dio. L’impresa della nostra santificazione è come la « costruzione di un edificio spirituale» (1 Pt 2, 5); noi veniamo «edificati per diventare dimora di Dio per mezzo dello Spirito » (Ef 2, 22). Ma chi costruirebbe un edificio su un terreno, se questo terreno non gli è stato prima liberamente ceduto e se non gli appartiene? Sappiamo che un palazzo costruito, in queste condizioni, diventa automaticamente del proprietario del terreno, non di chi l’ha costruito. Dio non può costruire in noi il suo tempio, non ci può costruire come edificio santo, se prima noi non gli abbiamo liberamente ceduto la proprietà del «terreno» e questo avviene quando diamo a Dio la nostra libertà, con un atto di fede e di consenso, con un «sì» pieno e totale.
Il terreno infatti è proprio la nostra libertà, un terreno che dovrà essere prima aperto, rivoltato, scavato… Di qui l’importanza decisiva di dire a Dio, una volta nella vita, un «si faccia, fiat », come quello di Maria. Quando questo avviene, esso è un atto avvolto nel mistero perché coinvolge insieme grazia e libertà; è una specie di concepimento.
La creatura non può farlo da sola; Dio perciò l’aiuta senza toglierle la sua libertà.
Che si deve dunque fare? E semplice: dopo averci pregato, perché non sia una cosa superficiale, dire a Dio con le parole stesse di Maria: « Eccomi, sono il servo, o la serva, del Signore: si faccia di me secondo la tua parola! ». Dico amen, sì, mio Dio, a tutto il tuo progetto, ti cedo me stesso!
Ho ricordato all’inizío i tre grandi « fiat » che si incontrano nella storia della salvezza: quello di Dio nella Creazione, quello di Maria nell’lncarnazione e quello di Gesù nel Mistero pasquale. C’è un quarto « fiat » nella storia della salvezza che sarà pronunciato ogni giorno, fino alla fine del mondo, ed è il « fiat » della Chiesa e dei credenti che, nel «Padre nostro», dicono a Dio: « Fiat voluntas tua: sia fatta la tua volontà! ». Dicendo questo « fiat », noi ci uniamo, seguendo Maria, al grande « fiat » di Cristo che nel Getsemani disse al Padre le stesse parole: «Si faccia la tua volontà » (cf Lc 22, 42).
Dobbiamo però ricordarci che Maria disse il suo « fiat » all’ottativo, con desiderio e gioia. Quante volte noi ripetiamo quelle parole in uno stato d’anirno di mal celata rassegnazione, come chi, chinando la testa, dice a denti stretti: « Se proprio non si può farne a meno, ebbene si faccia la tua volontà! ». Maria ci insegna a dirlo diversamente. Sapendo che la volontà di Dio a nostro riguardo è infinitamente più bella e più ricca di promesse, di ogni nostro progetto; sapendo che Dio è amore infinito e che nutre per noi «progetti di pace e non di afflizione» (cf Ger 29, 1 1), noi diciamo, pieni di desiderio e quasi con impazienza, come Maria: « Si compia presto su di me, o Dio, la tua volontà di amore e di pace! ».
Con ciò si realizza il senso della vita umana e la sua più grande dignità. Dire « si », «amen », a Dio non umilia la dignità dell’uomo, come pensa talvolta l’uomo d’oggi, ma la esalta. Del resto, qual è l’alternativa a questo « amen » detto a Dio? Proprio il pensiero contemporaneo che ha fatto dell’analisi dell’esistenza il suo oggetto primario, ha dimostrato chiaramente che dire « amen » bisogna e se non si dice a Dio che è amore, lo si deve dire a qualcos’altro che è solo fredda e paralizzante necessità: al destino, al fato. L’alternativa filosofica alla fede è il fatalismo. Il più noto filosofo di questo secolo, dopo aver messo in luce, in una fase del suo pensiero, che l’unica possibilità assolutamente propria, incondizionata e insormontabile che resta all’uomo è la morte e che la sua stessa esistenza altro non è che un « vivere-per-la-morte», assegna all’uomo, come unico mezzo per rendere autentica la propria esistenza, quello di accettare il suo destino. La libertà dell’uomo consiste qui nel fare di necessità virtù: nello scegliere e nell’accettare come propria, la situazione di fatto in cui si è gettati e nel rimanerle fedeli. Il destino dell’uomo è fissato dalla storia e dalla comunità cui egli appartiene e non potrà essere che quello di ripetere ciò che è già stato. L’uomo raggiunge la sua completezza nell’amore del fato (amor fati), accettando, e anzi amando ciò che è accaduto e che inevitabilmente accadrà. Questo è un ritorno a quella specie di «mistica del consenso» a cui era giunto, con Cleante, la religiosità pagana prima di Cristo; con essa ci si abbandona, senza riserve, al fato e alla necessità di tutte le cose. Questa non è la voce di un filosofo isolato; tutto il pensiero esistenzialista ateo, o comunque che si colloca fuori della prospettiva cristiana come per esempio quello di Jaspers e di Sartre – approda a questo ideale terribile dell’amore del fato. La libertà che si voleva salvaguardare è diventata pura accettazione della necessità. Si è realizzata in pieno la parola di Gesù: «Chi vuol salvare ‘ la propria vita la perderà» (cf Mc 8, 35); chi vuol salvare la propria libertà, la perderà.
L’uomo, dicevo, non può vivere e realizzarsi senza dire « amen » « sì » a qualcuno e a qualcosa. Ma come è diverso e opprimente questo « amen » pagano, rispetto all’«amen » cristiano, detto a uno che ti ha creato, che non è fredda e cieca necessità, ma amore. Come è diverso l’abbandono al fato, dall’abbandono al Padre espresso in questa preghiera di Ch. de Foucauld: «Padre mio mi abbandono a te. Fa’ di me ciò che ti piace. Qualunque cosa tu faccia di me, ti ringrazio. Sono pronto a tutto, accetto tutto, perché la tua volontà si compia in me e in tutte le tue creature. Non desidero altro, mio Dio. Rimetto la mia anima nelle tue mani. Te la dono, mio Dio, con tutto l’amore del mio cuore, perché ti amo. Ed è per me un’esigenza d’amore il donarrni e il rimettermi nelle tue mani senza misura, con una confidenza infinita, perché tu sei il Padre Mio».
“ Il mio giusto vivrà di fede »
Tutti devono e possono imitare Maria nella sua fede, ma in modo particolare deve farlo il sacerdote e chiunque è chiamato, in qualche modo, a trasmettere ad altri la fede e la Parola. «E mio giusto – dice Dio – vivrà di fede» (cf Abacuc 2, 4; Rm 1, 17): questo vale, a un titolo speciale, per il sacerdote: Il mio sacerdote – dice Dio – vivrà di fede. Egli è l’uomo della fede. Il peso specifico di un sacerdote è dato dalla sua fede. Egli inciderà nelle anime nella misura della sua fede. Il compito del sacerdote o del pastore in mezzo al popolo, non è solo quello di distributore di sacramenti e di servizi, ma anche quello di suscitatore e testimone della fede. Egli sarà veramente uno che guida, che trascina, nella misura con cui crederà e avrà ceduto la sua libertà a Dio, come Maria.
Il grande essenziale segno, ciò che i fedeli colgono immediatamente in un sacerdote e in un pastore, è se «ci crede»: se crede in ciò che dice e in ciò che celebra. Chi dal sacerdote cerca anzitutto Dio, se ne accorge subito; chi non cerca da lui Dio, può essere facilmente tratto in inganno e indurre in inganno lo stesso sacerdote, facendolo sentire importante, brillante, al passo coi tempi, mentre, in realtà, è anche lui, come si diceva nel capitolo precedente, un uomo «vuoto». Perfino il non credente che si accosta al sacerdote in uno spirito di ricerca, capisce subito la differenza. Quello che lo provocherà e che potrà metterlo salutarmente in crisi, non sono in genere le più dotte discussioni della fede, ma la semplice fede. La fede è contagiosa. Come non si contrae contagio, sentendo solo parlare di un virus o studiandolo, ma venendone a contatto, così è con la fede.
La forza di un servitore di Dio è proporzionata alla forza della sua fede. A volte si soffre e magari ci si lamenta in preghiera con Dio, perché la gente abbandona la Chiesa, non lascia il peccato, perché parliamo parliamo, e non succede niente. Un giorno gli apostoli tentarono di cacciare il demonio da un povero ragazzo ma senza riuscirvi. Dopo che Gesù ebbe cacciato, lui, lo spirito cattivo dal ragazzo, si accostarono a Gesù in disparte e gli chiesero: Perché noi non Abbiamo potuto scacci . arlo? E Gesù rispose: Per la vostra poca fede (Mt 17, 19-20). Ogni volta che, dinanzi a un insuccesso pastorale o a un’anima che si allontanava da me senza essere riuscito ad aiutarla, ho sentito affiorare in me quella domanda degli apostoli: « Perché noi non abbiamo potuto scacciarlo? », ho sentito rispondermi anch’io nell’intimo:«Per la tua poca fede! ». E ho taciuto.
Il mondo, abbiamo detto, è solcato, come il mare, dalla scia di un bel vascello, che è la scia di fede aperta da Maria. Entriamo in questa scia. Crediamo anche noi perché quel che si avverò in lei si avveri anche in noi. Invochiamo la Madonna con il dolce titolo di Virgo fidefis: Vergine credente, prega per noi!
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