• 08 Mar

    LE LEGGI DEL CAMMINO

    di p. Attilio Franco Fabris

    Nelle fiabe a chi si mette in cammino per terre sconosciute vengono date sempre alcune precise raccomandazione da osservarsi scrupolosamente.

    Potremmo così enucleare anche noi alcune leggi che dovrebbero regolare il nostro cammino umano e spirituale:

    Ne accenno alcune:

    – vinci la paura

    – vinci il rimpianto

    – vinci la comodità

    – vinci la pretesa autosufficienza

    – vinci il sogno e la violenza

    VINCERE LA PAURA

    In ciascuno di noi esistono due spinte, due forze contrastanti. E’ l’esperienza che ci racconta Paolo nella lettera ai cristiani di Roma. Una forza di vita e una di morte che fratturano dolorosamente l’uomo. Possiamo chiamare queste forze:

    – il bisogno di crescere, di camminare, di progredire verso la pienezza

    – la paura di farlo che blocca il cammino.

    (Cf es. la paura di montagna…)

    Più volte nella nostra vita abbiamo sperimentato questo conflitto, tipico dell’età adolescenziale, ma che può permanere in certa misura, in chi più e chi meno, anche nell’età adulta.

    Sentiamo infatti il bisogno di migliorare, di crescere in quegli aspetti che avvertiamo carenti soprattutto nella nostra relazione con gli altri, con Dio e con noi stessi, di crescere nel cammino vero la nostra unificazione…

    Ma ecco che questo nostro desiderio viene a scontrarsi con innumerevoli ostacoli. Essi sono parte inevitabile del cammino della vita: “T’imbatti in rocce, valli, precipizi, scogli, tronchi, fiere, rettili, spine: devi tribolare per un poco ma poi li superi e vai avanti” (Basilio, sul salmo 1). Oppure sono ostacoli riconducibili alla nostra natura mortale, e di peccatori, oppure si debbono ricercare in noi stessi nelle nostre paure

    La paura ci blocca. Lasciandoci però in fondo al nostro essere una profonda insoddisfazione e nostalgia:

    “Molte volte ho studiato

    la lapide che mi hanno scolpito; una barca con vele ammainate, in un porto.

    In realtà non è questa la mia destinazione, ma la mia vita.

    Perché l’amore mi si offrì e io mi ritrassi dal suo inganno;

    il dolore bussò alla mia porta, io ebbi paura;

    l’ambizione mi chiamò, ma io temetti gli imprevisti.

    Malgrado tutto avevo fame di un significato nella vita.

    Ma adesso so che bisogna alzare le vele

    e prendere i venti del destino

    dovunque spingano la barca.

    dare un senso alla vita può condurre a  follia

    ma una vita senza senso è la tortura

    dell’inquietudine e del vano desiderio – è una barca che anela al mare eppure lo   teme” (Masters, Spoon river, “George Gray”).

    Se partiamo dalla constatazione che camminare nella vita comporta inevitabilmente il salpare verso il mare che si teme, e che ciò significa inevitabilmente distacco, una morte, non ci meravigliamo allora che incontriamo un po’ di paura…

    Sintomo della paura è la nevrosi: possiamo definire il nevrotico come colui che “vuole continuare ad essere il bambino”, essere protetto e coccolato e difeso dalle insidie della vita. Egli ricorrerà a numerose manovre di salvataggio (l’eterno studente, l’indeciso…). Denominatore comune la paura e la noia, colta questa come uno stato di sospensione, un “vorrei ma ho paura”.

    Il progredire comporta la capacità di cambiamento che  suppone un affidamento fiducioso al futuro nella speranza. Ed ecco che questo futuro ci appare sempre insicuro, incerto. In questa direzione anche Gesù nell’orto del Getsemani, come uomo, sente la paura: “Gesù cominciò a sentire paura e angoscia” (Mc 14,33).

    Per noi tante volte risulta più rassicurante rimanere ancorati a riva, nel porto.

    “Quando il faraone fu vicino, gli israeliti alzarono gli occhi: ecco gli egiziani muovevano il campo dietro di loro! Allora gli israeliti ebbero grande paura, e gridarono al Signore. Poi dissero a Mosè: Forse perché non c’erano sepolcri in Egitto ci hai portati a morire nel deserto? Che hai fatto portandoci fuori dall’Egitto? Non ti dicevamo in Egitto: Lasciaci stare e serviremo gli egiziani, perché è meglio per noi servire l’Egitto che morire nel deserto?” (Es 14,10-12).

    “Perché avete paura uomini di poca fede?” (Mt 8,26)

    “Per paura andai a nascondere il mio talento sottoterra” (Mt 25,26)

    “Tutti” i discepoli al momento cruciale della passione abbandonano Gesù e fuggono (Cf Mc 14,50).

    Ciascuno deve fare i conti con le sue paure.

    VINCERE IL RIMPIANTO

    Ciò che blocca tante volte il cammino, il cambiamento è la nostra “memoria affettiva” che ci fissa su un determinato passato, vissuto come piacevole o spiacevole, obbligandoci a ripeterlo infinitamente in noi. Ci “giriamo intorno”.

    Un bambino che perde sua madre sarà sopraffatto da un immenso dolore. Il dolore può essere represso e dimenticato. Ciononostante esso continua a influenzare la vita di questo bambino ora diventato uomo: potrà trovare difficile legarsi alle persone per paura di perderle, oppure potrà sentirsi incapace di accettare l’amore che gli viene offerto, oppure perderà gradualmente ogni interesse per la gente e per la vita in generale, perché emotivamente non s’è staccato dalla tomba di sua madre, si rifiuta di lasciarla andare via, pretende da lei un amore che non può più dargli.

    Si tratta allora di intraprendere un cammino di guarigione della nostra memoria. (A.Gentili, Dio nel silenzio, 96ss). “Sensazioni e immagini, pensieri e aneliti dello spirito confluiscono in quel “ventre dell’anima” che è la memoria (Agostino).

    Questa nostra memoria che è parte integrante di noi stessi, sedimentazione del nostro passato e che influisce sul presente e sull’avvenire. La nostra memoria è malata. nei suoi antri, nelle sue caverne, nei suoi segreti ripostigli vi sono raccolte e impresse, oltre a quelle positive, tutte le tracce negative del nostro sentire, del nostro pensare e del nostro operare. Questi ricordi rischiano di attirarci come una potente calamita impedendoci di guardare in avanti, al cammino che ci rimane da fare, alle possibilità che si aprono ogni giorno davanti a noi.

    La memoria guarisce dimenticando, sgombrando il cuore, lasciando a terra quegli inutili fardelli che rallentano o arrestano il cammino: Non ricordate più le cose passate… ecco faccio una cosa nuova…” (Is 43,18s).

    La memoria guarisce ri-cor-dando: ovvero ridando il cuore, la centralità, a Dio. E’ riporre la ricerca del volto di Dio come ragione e senso del nostro esistere.

    VINCERE LA COMODITA’

    Circe, la bellissima e crudele maga simbolo della seduzione, figlia del Sole e della ninfa Perse dimorava nell’isola Eea presso il monte Circeo. Quando Ulisse nel suo peregrinare capitò di incontrarla ella fece di tutto per distoglierlo dal cammino. Gli assicurò infatti vita e benessere per tutta l’eternità presso di lei. Lo stare troppo bene, il sentirsi soddisfatti di quello che si vive giorno per giorno può essere la tentazione di assestarsi e non camminare più. (cfr Il gabbiano Jonathan Livingston).

    E’ indispensabile che si abbia sempre dinanzi l’esigenza della sequela perché in noi c’è sempre la tendenza alla riduttività, al minimo sforzo necessario.

    Il non avvertire più la necessità di cambiare è una spia di allarme non indifferente. In questo caso l’omeostasi, la “completa soddisfazione” significa mancanza di obiettivi. Se non esiste alcuna necessità di cambiare, creare, completare, sperimentare si potrebbe alla fin fine mettere in questione la necessità di continuare a vivere. La comodità è la rinuncia a quei valori che ci pongono in una sana tensione tra quello che siamo e quello che dovremmo essere.

    Segno della scelta di comodità potrebbe essere il preteso realismo (cfr lettera circolare n.5). Il falso realista è colui che non vagheggia più possibilità inedite. Egli dimentica l’azione dello Spirito ed è velatamente ateo. “V’è di peggio che avere uno spirito perverso: è l’avere un animo abitudinario” (C. Peguy).

    La vita è ridotta a formulismo e formalismo. E’ la fossilizzazione, è l’installazione (e allora si sacralizzano le mediazioni, gli orari, modi di vita, strutture, costumi…

    Il rifugiarsi nella ripetitività della legge:  colui che sceglie tale strada cerca la sicurezza nella staticità della legge che preservi dal problema di porsi continuamente in discussione di fronte alle inevitabili novità della vita, si evita di scegliere di giudicare: “Si è sempre fatto così! E basta!; “Mi hanno sempre insegnato che…”. La legge invece di essere spinta diviene scappatoia, scusante al fine di mantenere lo status quo.

    Quante volte Gesù e Paolo apostolo si troveranno a far fronte a persone che usano la legge come scusante al cambiamento di vita. Facciamo attenzione che anche l’uso della Parola di Dio  e della regola può cadere in questo tranello.

    E’ tarpare le ali allo Spirito che continuamente vivifica e crea…

    VINCERE LA PRETESA AUTOSUFFICIENZA

    La crescita non avviene indipendentemente dagli altri, non è un processo che si può svolgere tra me e me.

    Si cresce solo e in misura in cui mi scopro come essere di relazione: il che significa nella misura in cui sono in grado di rispondere ad una chiamata che mi giunge dal di fuori. Questa legge è valida sul piano umano ma anche su quello spirituale.

    Se prendiamo il bambino ad esempio, ci accorgiamo che la sua crescita è armoniosa, solida, solo se scopre attorno a sé persone che sempre lo invitano ad operare dei passaggi progressivi, a rinunciare a sicurezze ormai acquisite per conquistarne di nuove. Sia i genitori (crescono anch’essi col bambino) che il bambino sviluppano allora quell’atteggiamento base della crescita che è la fiducia.

    Accettare il cammino in relazione significa accogliere con fede le mediazioni che il Signore mi offre: la mia famiglia, la mia comunità, le persone che incontro. E quella mediazione particolare e privilegiata che è la relazione con il padre o la guida spirituale.

    In tutte queste relazioni devo accettare che si attui ancora una morte perché possa nascere una nuova vita, è la dinamica pasquale. L’incontro con l’altro infatti fa sempre morire qualcosa di me. E questa è la condizione perché dall’incontro possa nascere qualcosa di nuovo.

    Detto in altri termini: il pormi in relazione significa dimenticarmi, divenire accoglienza, svuotarmi del mio io e dei miei bisogni per far posto in me all’altro, al fine di poterlo accogliere con amore e benevolenza. E questo porta con sé un arricchimento di crescita interiore inestimabile.

    RINUNCIARE AL SOGNO E ALLA VIOLENZA

    Il sogno: “Quanto mi piacerebbe…”; “Vorrei tanto, ma…”. Osservando attentamente lo spirito che si nasconde queste espressioni apparentemente tanto sincere e umili, scopriamo che l’illusione dei soli desideri  mi preserva dall’ adesione alle esigenze di cambiamento nella mia vita. Cerco però di fare bella figura di fronte a me stesso e agli altri, trovo giustificazioni magari pie. Ma le ipotesi di cambiamento non hanno alcuna incidenza sulla vita.

    La violenza: è l’opposto del sogno ma il fine è identico. Distruggo il reale che è base e stimolo per il cambiamento e la crescita autentica.

    Questa aggressività, ci insegna la psicologia, può assumere tantissimi aspetti.

    Quanto spesso l’aggressività rivolta al fratello, al superiore o alla struttura… è scappatoia che mi esenta dal pormi in discussione personalmente

  • 07 Mar

    La discendenza

    Seconda soluzione umana: la schiava Agar

    Gn 16,1-16

    di p. Attilio Franco Fabris

    Abramo e Sara sono ricorsi alla prima soluzione umana adottando Eliezer. Ma la promessa di Dio ha richiesto l’abbandono di tale decisione. Ma gli anni passano… e il figlio non appare all’orizzonte.

    Siamo già dieci anni dopo l’entrata nella terra di Canaan: Abramo ha ottantacinque anni  Sara settantacinque! Per quanto tempo è ancora “logico” sperare e perseverare nella fede?

    Ecco allora la coppia ricorrere ad un ulteriore espediente.

    Al centro del racconto troviamo ora due donne: Sara e Agar.

    Il problema: v. 1

    Sara “aveva (lett. possedeva) una schiava egiziana, di nome Agar”. Vengono sottolineati i diritti di proprietà. Agar è di Sara, non è schiava di Abramo.

    Sono due donne molto diverse: una moglie della stessa tribù di Abramo, ricca ma anziana e sterile. Agar, straniera, schiava, povera ma feconda e dunque giovane. Forse su data ad Abramo insieme a numerosi altri beni quando fu cacciato dall’Egitto.

    La loro diversità è motivo di incontro e di conflitto?

    Come vivo le diversità?

    L’espediente di Sarai: vv. 2-6

    Sara, che è sembrata finora sempre passiva, prende l’iniziativa. Trova il coraggio di esporsi e di giocarsi nella vicenda. Essa parla per la prima volta ad Abramo: “Ecco, il Signore mi ha impedito di partorire; deh, allora accostati alla mia schiava; forse da lei sarò costruita (trad. lett.)”. La discendenza è presentata in termini di costruzione della casa/del casato; essa ricerca il suo riscatto di fronte agli smacchi della vita.

    E’ Sara che ora detta ordini ad Abramo. Insiste non lasciandogli scelta; attribuisce la sua sterilità a Dio, e quindi decide di sua iniziativa di contrastare questa disposizione divina ricorrendo ad una soluzione umana.

    Quali risonanze spingono Sara a cercare questa soluzione? Ne è convinta? Appare un’espediente in cui si “tenta” (ma a quale prezzo) lo scopo? E’ disposta realmente a rinunciare ai suoi privilegi per un bene più grande?

    Essa agisce secondo una consuetudine dell’epoca che avrebbe almeno parzialmente realizzato la promessa: Jhwh non aveva forse detto che il discendente sarebbe stato dello stesso sangue di Abramo (15,4)? Ciò dunque non esclude che la madre possa essere un’altra.

    Abramo non dice neanche una parola. Il testo annota: “Abram ascoltò la voce di Sarai”. Dove ascoltare significa obbedire.

    Quali le risonanze di Abramo? Approva pienamente? Si sente costretto? …

    Nessuna parola viene invece rivolta ad Agar; non viene chiesto il suo parere ed è trattata esattamente da schiava, senza alcun diritto, come un oggetto: “Sarai, moglie di Abram, prese l’egiziana Agar… e la diede in moglie ad Abram, suo marito”.

    Apparentemente nulla cambia: Sara è sempre moglie e Agar sempre sua schiava. Tuttavia un cambiamento importante avviene: ella non è più concubina, ma moglie effettiva di Abram, esattamente come lo è Sara. Sara per “costruirsi” ha dovuto umiliarsi.

    Con quali conseguenze?

    Improvvisamente chi occupa il posto centrale ora è Agar. Infatti “restò incinta”.

    La conseguenza di questo fatto è che “quando essa si accorse di essere incinta la sua padrona non contò più nulla per lei”. La schiava è consapevole di avere ormai un vantaggio sulla padrona.

    Perché?

    L’umiliazione per Sara scotta sempre di più. Quella gravidanza da lei voluta le appare ora insopportabile. Comincia dunque non a rimproverare se stessa ma Abramo: “Il mio torto è a tuo carico”.

    Abram rimanda l’accusa a Sara: “Ecco la tua schiava è in tuo potere; falle quello che ti par bene”. Sarai non riesce ad accettare di essere lei l’origine di tutta questa difficile situazione: scarica la sua responsabilità. A sua volta Abram rigetta la palla a lei: il gioco rischia di divenire infinito e doloroso fonte di tensione e sofferenze.

    Sarai di ripicca inizia a “maltrattare” Agar rendendole la vita impossibile: con questa violenza vuole riconquistare la sua superiorità su questa.

    Queste modalità di relazione sono così lontane dalla nostra esperienza?

    Fino a che Agar esasperata “fuggì dalla sua presenza”. L’egiziana fugge come Israele fuggirà dal faraone: sono i corsi e ricorsi della storia che vedono molti capovolgimenti ironici delle sorti.

    Agar scappa, in un colpo di testa, illudendosi di conquistare la sua libertà e autonomia, vuole prendere in mano la sua vita. Ma cosa può fare una donna sola, incinta, senza appoggi in un mondo che le totalmente estraneo?

    E Abramo scoprendo la schiava fuggita che fa? Come vive il fatto? La speranza riposta in quel figlio da lei concepito sembra svanire ancora una volta. Perché non la rincorre, non la cerca?

    Ci illudiamo di conquistare la libertà fuggendo da ciò che ci fa soffrire?

    L’incontro e dialogo tra Dio e Agar: vv. 7-14

    Il racconto potrebbe finire qui. Ma esso continua prendendo una piega inaspettata.

    Agar si è diretta verso il deserto, in direzione di Sur, verso il confine dell’Egitto. Essa vuol tornare tra i suoi. Ma come attraversare il deserto senza nulla? E’ un’impresa assurda che può nascere solo da un colpo di testa sconsiderato, destinata solo al disastro.

    Ma “la trovò un angelo del Signore presso una sorgente d’acqua, nel deserto, sulla strada di Sur”.

    Agar, la schiava egiziana, è la prima persona nella Bibbia ad essere visitata da un angelo. (L’angelo non è un essere distinto da Dio, è un’immagine per parlare di Dio che si rivela a una persona in forma visibile).

    L’angelo ha trovato per caso Agar? L’ha cercata? Come si evolverà la storia?

    Il messaggero inizia un dialogo con Agar. Finalmente qualcuno parla con lei chiamandola per nome. E per la prima volta Agar prende la parola: “Da dove vieni? Dove vai?”.

    Agar dice da dove viene ma non dove sta andando, non lo sa nemmeno lei, non ha casa, sta solo fuggendo lontano.

    L’angelo le dà un’indicazione chiara: “Ritorna alla tua padrona e sottomettiti al suo potere” (cfr v. 6).

    Jhwh che vedendo più tardi l’oppressione degli israeliti sotto gli egiziani vorrà liberarli, non ha lo stesso messaggio per Agar: questo intervento dunque ci sorprende. Agar sa che tornando sarà maltrattata, ma nello stesso tempo ha la certezza che solo così suo figlio avrà una casa e di che vivere.

    Agar, come tante altre madri, sarà pronta a sacrificare se stessa, la propria libertà, per il figlio vivendo la gratuità dell’amore, fino a che punto?

    Al suo posto che faremmo?

    Ma se ad Agar viene richiesta questa “uscita” (che è un ritorno), questo distacco dai suoi progetti, l’angelo sorregge questa richiesta con due promesse: il figlio nascerà e da lui essa avrà una discendenza. Quest’ultima assomiglia a quella di Abramo: “Moltiplicherò assai la tua discendenza e non la si potrà contare”. Agar è la sola donna nell’antico testamento a ricevere delle promesse. La gravidanza di Agar anche se frutto di un espediente umano, è da parte di Dio ratificata. Egli può far rientrare e riscattare nel suo disegno di salvezza ogni realtà.

    Il Dio biblico entra in dialogo con l’uomo accettando anche i suoi tempi, fatiche, contraddizioni, incertezze.

    Il bambino sarà chiamato Ismaele che significa “Dio ha ascoltato”. Che cosa ha ascoltato? Agar non gli ha rivolto alcuna invocazione. Ha ascoltato invece la sua afflizione.

    Dopo l’ordine di Dio Agar “diede” un nome a Dio: essa è la sola persona nella Bibbia che fa questo. Lo chiama “Tu sei El Roy” che significa “Dio che vede”. Dio ha visto il dolore di Agar e l’ha ascoltato. Essa spiega il nome: “Non ho continuare a vedere (= vivere) dopo che mi ha veduta?”. La donna è meravigliata di come dopo l’incontro con Dio possa essere rimasta in vita. Vedere Dio non è morire (Es 33,20)?

    Il ritorno di Agar: vv. 15-16

    Agar ritorna, partorisce il figlio ed è Abramo che dà il nome al bambino, indicato dall’angelo.

    Il secondo espediente umano sembra coronato da successo. A ottantasei anni finalmente Abramo diventa padre.

    Si è realizzata la promessa? Non ha egli finalmente un figlio del suo stesso sangue? Sembrerebbe di sì. Abramo è felice, aperto al futuro nella speranza.

    La stessa cosa non si può dire si Sarai. Ella si sente umiliata. Il bambino non viene dato a lei ma ad Abramo. Il suo nome non compare per nulla nella scena. Di per sé il figlio doveva prima essere consegnato a lei.

    Concludendo…

    Quali considerazioni fare concludendo questo episodio?

    La decisione di sarai è data dalla paura e dalla sua disperazione. La sua decisione non nasce dalla gioia e dalla gratuità.

    Quel concepimento che dovrebbe essere motivo di gioia diviene per lei così occasione per vivere la sua rabbia nei confronti della vita e di se stessa. Non ci meraviglia che essa divenga ingiusta e violenta.

    Abram appare succube di sarai, in sua balia. Sta alle sue decisioni senza nulla obiettare. A cosa attribuire questa passività? Non è che forse nel suo animo si stia insinuando l’incertezza, la paura, la non speranza nelle promesse?

    Così ancora non sa opporsi all’ingiustizia, non fa nulla per sanarla, è come trascinato dagli eventi.

    E nemmeno Agar è perfetta. Anch’essa appare incapace di gratuità. Sfrutta la situazione per rifarsi della sua condizione, per vendicarsi della sua umiliazione. Anch’essa nei confronti di Sarai si comporta male, in modo arrogante incapace di ascoltare il dolore del cuore di Sarai.

    Jhwh sembra a sua volta seguire una scelta sbalorditiva chiedendo ad Agar di tornare ad essere oppressa. Ma è scelta che si impone con realismo: e così Dio entra nella storia umana fatta di contorcimenti, corsi e ricorsi, instaurando con l’uomo quel dialogo che lo apra alla vera libertà.

    Cosa vi è di positivo in tutto il racconto? E’ la nascita di un figlio, di Ismaele.

    Ma il prezzo è stato molto alto, come capita spesso quando l’origine delle scelte è frutto della paura, dell’amarezza, della disperazione: fonte di sofferenze per sé e per gli altri.

    Il racconto illustra anche un ulteriore aspetto: Jhwh non è solo il Dio di Abramo, ma anche di Agar l’egiziana e di tutta la sua discendenza. In Abramo Dio benedice tutte le nazioni (12,3) e abbraccia tutte le nazioni. Realmente in Abramo ebrei, cristiani, mussulmani si ritrovano uniti nella fede in quel Dio che guida la storia.

  • 06 Mar

    UN “SI’” DIFFICILE DA PRONUNCIARE

    di p. Attilio Franco Fabris


    Non sempre l’uomo riesce a pronunciare il “sì” al Dio della vita, al Dio che ci vuole aprire dinanzi il cammino della vita, facendoci uscire dalla stagnazione della schiavitù al nostro peccato.

    In questo senso l’esito del nostro cammino, della nostra crescita non è dato per scontato. Dio infatti è estremamente rispettoso della libertà da lui donata all’uomo.

    Per dire ciò la Scrittura usa, come già detto, l’immagine simbolica della scelta del cammino da compiere nella propria vita: del bivio. Vediamo così la strada che si  biforca, per Adamo e Eva, per Israele, per Gesù (cf  Mc 8,33; Lc 22,40.46), per la Chiesa (cf Ebr 10,32-39), per ciascuno di noi. E’ l’ora della scelta, della decisione.

    Due strade opposte si aprono davanti all’uomo: Dice il Signore: Ecco io vi metto davanti la via della vita e la via della morte (Ger 21,8).

    Con il peccato originale l’uomo ha subito scelto una via diversa da quella di Dio. Tutto il suo cammino potrà essere immaginato come uno “sforzo di ritornare a Dio” .

    Subito l’uomo  si è fermato a contemplare le creature: buone da mangiare e seducenti da vedere (Gn 3,6).

    Ma in questa sua scelta ha trovato solo frutti amari di sofferenza e di morte  (Gn 3,16-19).

    Da quel momento l’uomo vivrà la sua esperienza umana come desiderio insaziabile e frustrato. Apatico e deluso dirà: Tutto è vanità (Ql 1,1).

    Egli è stato colpito nella sua libertà, situazione che in lui provoca una sofferta lotta interiore. La ragione stessa è ottenebrata e il discernimento ormai reso difficile.

    Il dono della libertà che Dio fa viene usato negativamente; non è più una libertà “per” la vita, ma una falsa libertà per sottrarci “dalla” vita e dalle sue esigenze: ed è questa la realtà del peccato.

    Il peccato si presenta come rifiuto, ostacolo, inciampo nel cammino verso Dio: “Il mio popolo mi ha dimenticato; essi offrono incenso ad un idolo vano. Così hanno inciampato nelle loro strade, nei sentieri di una volta, per camminare su viottoli, per una strada non appianata” (Ger 18,15-16)

    Essa è piena di spine (Pr 15,19), tortuosa (Pr 21,8), piena d’ostacoli (Sir 32,20), oscura (Pr 4,19).

    Dio conosce il cuore dell’uomo, la sua debolezza. Sa che il suo rifiuto, l’infedeltà è sempre possibile, donando all’uomo la libertà egli ha corso questo rischio: Non hanno tardato ad allontanarsi dalla via (Es 32,8); Non vollero camminare per le vie del Signore (Is 42,24).

    Eccolo allora continuare a dare il suo ammonimento, il richiamo all’obbedienza alla sua parola di vita: “Ma se il tuo cuore si volge indietro e se tu non ascolti e ti lasci trascinare a prostrarti davanti ad altri dei e a servirli, io vi dichiaro oggi che certo perirete, che non avrete vita lunga nel paese di cui state per entrare in possesso passando il Giordano… scegli dunque la tua vita” (Dt 30,17-19).

    Ruolo della Sapienza è quello di porsi ai crocicchi delle strade per invitare ed esortare l’uomo a prendere la strada giusta, quella della vita: “La Sapienza forse non chiama e la prudenza non fa udir la voce? In cima alle alture, lungo la via, nei crocicchi delle strade essa si è posta, presso le porte, all’ingresso della città, sulle soglie degli usci essa esclama: A voi uomini io mi rivolgo, ai figli dell’uomo è diretta la mia voce” (Pr 8,1-4).

    Il cammino del ritorno a Dio, ed è il cammino dell’esodo, del deserto,  è difficile. E’ il tempo della prova che permette a JHWH di sondare il cuore del suo popolo e correggerlo. Mosè per incoraggiare a perseverare Israele invita a ricordare il cammino fatto: “Ricordati di tutto il cammino che il Signore tuo Dio ti ha fatto percorrere in questi quarant’anni nel deserto, per umiliarti e metterti alla prova, per sapere quello che avevi nel cuore e se tu avresti osservato o no i suoi comandi… Osserva i comandi del Signore tuo Dio camminando nelle sue vie e temendolo” (Dt 8,2.6).

    La paura, la comodità, la pigrizia, la frustrazione e la ricerca di immediate sicurezze agiscono da freno, rendono estremamente faticoso, se non impossibile, il porsi o il perseverare nel cammino. Se ciò accade il cammino non si attua o si arresta.

    Ma non solo, anzi… si indietreggia, ci si fissa, si regredisce. Israele scegliendo vie diverse dal comandamento di Dio, sarà dato in mano ai nemici, andrà in esilio, vedrà svanire tutte le sue attese: “Ritornerà al paese di Egitto, Assur sarà il loro re, perché non hanno voluto convertirsi” (Os 11,5).

    E’ questa l’esperienza che la Scrittura tante volte riferisce parlando delle scelte che Israele compie lungo la sua storia.

    Anche dopo aver visto e toccato con mano come JHWH voglia la sua vita, la sua liberazione, come Dio lo voglia far “uscire”… Israele si trova subito a fare i conti con la sua debolezza e poca fede. La tentazione di fermarsi, di tornare indietro è forte: “Allora tutta la comunità alzò la voce e diede in alte grida, il popolo pianse tutta quella notte. Tutti gli israeliti mormoravano contro Mosé e contro Aronne e tutta la comunità disse loro: Oh! Fossimo morti nel paese d’Egitto o fossimo morti in questo deserto! E perché il Signore ci conduce in quel paese per cadere di spada… Non sarebbe meglio per noi tornare in Egitto?” (Nm 14,1-4).

    Il non percorrere le vie di Dio attira sull’uomo il castigo, è un castigo in certo qual senso voluto: sarà anzitutto un ulteriore pellegrinare lungamente (per quarant’anni…) nel deserto.

    E se non ci si converte sarà quel “girare in tondo” (cf Dt 2,1), senza meta, degli stolti che rifiutano obbedienza alla legge di Dio. La inevitabile conseguenza è la vacuità dell’esistenza, l’esperienza già presente di morte. Nessuno degli Israeliti che uscirono dall’Egitto poté entrare nella terra di Caanan. Lo stesso Mosè la vedrà solo di lontano.

    In Cristo una nuova via

    La venuta di Cristo apre la nuova via, quella definitiva, si tratta dell’esodo  che effettivamente conduce al riposo di Dio. Gesù, nuovo Mosè del nuovo Israele è la guida, il trascinatore. egli chiama a seguirlo. Dirà ai suoi: “Io sono la via, la verità e la vita”).

    Ma anche qui la  proposta del cammino non è facile. Le esigenze che egli pone sono le esigenze di Dio.

    L’invito  di Gesù rivolto a Pietro di affrontare l’inusitato cammino sulle acque tempestose del lago è icona della difficile sequela. Pietro risponde subito con entusiasmo, ma successivamente la paura lo blocca, la sua attenzione è rivolta verso se stesso, nel non perdere la propria vita, non ha più gli occhi fissi sullo sguardo rassicurante del Risorto che quelle acque tempestose ha già attraversato trionfalmente. Pietro fa allora l’esperienza negativa dell’affondare: “Pietro scendendo dalla barca si mise a camminare sulle acque e andò verso Gesù. Ma per la violenza del vento s’impaurì e cominciò ad affondare…” ( Mt 14,29s).

    Ugualmente le esigenze radicali poste da Gesù per chi desidera camminare dietro lui scoraggiano e disorientano l’entusiasmo del giovane ricco. La sicurezza delle sue ricchezze gli impedisce di agire con libertà, il distacco che solo gli consentirebbe di crescere nell’amore. Lo vediamo allora, chinare il capo, rinunciare a camminare sulle orme del Maestro buono, a rinunciare a crescere. Egli sarà preda della tristezza: “Gesù gli disse: Una sola cosa ti manca: vendi tutto quello che hai, distribuiscilo ai poveri e avrai un tesoro nei cieli, poi vieni e seguimi. Ma egli, udite queste parole, divenne assai triste, perché era molto ricco” (Lc 18,22-23).

    E ancora: mentre camminavano per la strada, un tale gli disse: Ti seguirò dovunque tu vada. Gesù gli rispose: Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo. A un altro disse: Seguimi. E costui rispose: Signore concedimi di andare a seppellire prima mio padre. Gesù li rispose: lascia che i morti seppelliscano i loro morti; tu va’ e annunzia il regno di Dio. Un altro disse: Ti seguirò Signore, ma prima lascia che io mi congedi da quelli di casa. Ma Gesù gli rispose: Nessuno che ha messo mano all’aratro e poi si volge indietro e adatto per il regno di Dio. (Lc 9,57-62). Qui ci viene sottolineata anzitutto l’urgenza della sequela, un’urgenza totalizzante che non permette sguardi all’indietro. Il discepolo con Gesù è completamente proiettato in avanti verso il regno.

    Ma gli apostoli al momento della passione non seguiranno Gesù sulla via del Calvario: essi dormiranno per la tristezza. Gesù sarà solo ad incamminarsi verso la sua passione e morte.

    “Inciampare”, “girare in tondo”, “affondare”, “volgersi indietro”, “cadere nella tristezza”:  immagini e situazioni che descrivono plasticamente le conseguenze dell’uomo che rifiuta di camminare e crescere.

    Al discepolo è richiesta la fiducia nel cammino, un cammino già tracciatoci da Gesù: egli non si deve volgere indietro come Sara o come Israele nel deserto.

    Egli nella fede si rende disponibile, come Maria, a pronunciare il suo “sì” al Dio della vita nella speranza di partecipare alla comunione di vita con lui:

    Mi indicherai il sentiero della vita, gioia piena alla tua presenza” (Sal 16,11); “Le vie della sapienza sono deliziose e tutti i suoi sentieri conducono alla pace… Cmminerai sicuro per la tua strada e il tuo piede non inciamperà” (Pr 3,17.23). Guidami sulla via della vita (Sal 139,4).

    SCHEDA DI LAVORO

    * E’ difficile dire sempre di sì a Dio che mi vuol mettere continuamente in cammino. Infatti questo significa accettare di cambiare, modificare, in una sola parola significa “convertirsi”:

    – che cosa avverto in me come ostacolo/i maggiore/i nel dire di sì a Dio che mi vuole          smuovere dalle mie situazioni di morte e schiavitù? Li elenco mettendoli in ordine di          importanza.

    – in che modo e in quali ambiti concreti essi si rivelano come ostacoli?

    * La mia vita è posta sulle orme di Cristo o avverto che essa è ancora un girare a vuoto, in tondo, un correre, ma senza una meta?

    * A cosa mi sento invitato per poter rispondere positivamente alla chiamata di Dio a mettermi continuamente in cammino??

    – che cosa occorre che scelga o privilegi?

    – che cosa occorre che lasci o modifichi?

    UNA LETTURA

    Trovai il senso della vita

    Non so chi – o che cosa – pose la domanda. Non so quando sia stata posta. Non ricordo quando sia stata posta. Non ricordo che cosa risposi. Ma una volta risposi di a qualcuno o a qualcosa. A quel momento risale la certezza che l’esistenza abbia un senso e che dunque la mia vita, nella sottomissione, abbia un fine. Da quel momento ho saputo che cos’è “non volgersi indietro”, “non preoccuparsi del domani”. Guidato nel labirinto della vita dal filo di Arianna della risposta, ebbi un tempo ed un luogo in cui seppi che la vita porta ad un trionfo che è rovina e a una rovina che è trionfo, che il prezzo per la dedizione della propria vita sarebbe stato il biasimo e che la sola elevazione possibile per l’uomo si trovava nella profondità dell’umiliarsi. Poi la parola coraggio perdette il suo senso perché nulla mi poteva essere tolto. Più oltre, sulla via imparai, passo per passo, parola per parola, che dietro ogni detto dell’eroe dei Vangeli sta un essere umano e la esperienza di un uomo. Anche dietro la preghiera che il calice gli fosse distolto e dietro la promessa di vuotarlo. Anche dietro ogni parola detta sulla croce.

    Dag Hammarskjold, Linea della vita, Milano 1966, p. 142

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  • 06 Mar

    Voglio un posto ai piedi di Gesù

    il testamento di Shahbaz Bhatti: Ministro pachistano per le minoranze religiose ucciso il 2 marzo 2011 in odio alla fede


    “Il mio nome è Shahbaz Bhatti. Sono nato in una famiglia cattolica. Mio padre, insegnante in pensione, e mia madre, casalinga, mi hanno educato secondo i valori cristiani e gli insegnamenti della Bibbia, che hanno influenzato la mia infanzia.

    Fin da bambino ero solito andare in chiesa e trovare profonda ispirazione negli insegnamenti, nel sacrificio, e nella crocifissione di Gesù. Fu l’amore di Gesù che mi indusse ad offrire i miei servizi alla Chiesa. Le spaventose condizioni in cui versavano i cristiani del Pakistan mi sconvolsero. Ricordo un venerdì di Pasqua quando avevo solo tredici anni: ascoltai un sermone sul sacrificio di Gesù per la nostra redenzione e per la salvezza del mondo. E pensai di corrispondere a quel suo amore donando amore ai nostri fratelli e sorelle, ponendomi al servizio dei cristiani, specialmente dei poveri, dei bisognosi e dei perseguitati che vivono in questo paese islamico.

    Mi sono state proposte alte cariche al governo e mi è stato chiesto di abbandonare la mia battaglia, ma io ho sempre rifiutato, persino a rischio della mia stessa vita. La mia risposta è sempre stata la stessa: «No, io voglio servire Gesù da uomo comune».

    Questa devozione mi rende felice. Non voglio popolarità, non voglio posizioni di potere. Voglio solo un posto ai piedi di Gesù. Voglio che la mia vita, il mio carattere, le mie azioni parlino per me e dicano che sto seguendo Gesù Cristo. Tale desiderio è così forte in me che mi considererei privilegiato qualora — in questo mio battagliero sforzo di aiutare i bisognosi, i poveri, i cristiani perseguitati del Pakistan — Gesù volesse accettare il sacrificio della mia vita. Voglio vivere per Cristo e per Lui voglio morire.

    Credo che i cristiani del mondo che hanno teso la mano ai musulmani colpiti dalla tragedia del terremoto del 2005 abbiano costruito dei ponti di solidarietà, d’amore, di comprensione, di cooperazione e di tolleranza tra le due religioni. Se tali sforzi continueranno sono convinto che riusciremo a vincere i cuori e le menti degli estremisti. Ciò produrrà un cambiamento in positivo: le genti non si odieranno, non uccideranno nel nome della religione, ma si ameranno le une le altre, porteranno armonia, coltiveranno la pace e la comprensione in questa regione. Non provo alcuna paura in questo paese. Molte volte gli estremisti hanno desiderato uccidermi, imprigionarmi; mi hanno minacciato, perseguitato e hanno terrorizzato la mia famiglia. Io dico che, finché avrò vita, fino al mio ultimo respiro, continuerò a servire Gesù e questa povera, sofferente umanità, i cristiani, i bisognosi, i poveri.

    Voglio dirvi che trovo molta ispirazione nella Sacra Bibbia e nella vita di Gesù Cristo. Più leggo il Nuovo e il Vecchio Testamento, i versetti della Bibbia e la parola del Signore e più si rinsaldano la mia forza e la mia determinazione. Quando rifletto sul fatto che Gesù Cristo ha sacrificato tutto, che Dio ha mandato il Suo stesso Figlio per la nostra redenzione e la nostra salvezza, mi chiedo come possa io seguire il cammino del Calvario. Nostro Signore ha detto: «Vieni con me, prendi la tua croce e seguimi».  I passi che più amo della Bibbia recitano: «Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi». Così, quando vedo gente povera e bisognosa, penso che sotto le loro sembianze sia Gesù a venirmi incontro. Per cui cerco sempre d’essere d’aiuto, insieme ai miei colleghi, di portare assistenza ai bisognosi, agli affamati, agli assetati. Credo che i bisognosi, i poveri, gli orfani qualunque sia la loro religione vadano considerati innanzitutto come esseri umani. Penso che quelle persone siano parte del mio corpo in Cristo, che siano la parte perseguitata e bisognosa del corpo di Cristo. Se noi portiamo a termine questa missione, allora ci saremo guadagnati un posto ai piedi di Gesù ed io potrò guardarLo senza provare vergogna”.

  • 05 Mar

    Dall’aurora io ti cerco

    Lectio del Sal 62

    di p. Attilio Franco Fabris

    Per un desiderio, che venga appagato, ne rimangono almeno dieci insoddisfatti; inoltre, la brama dura a lungo, le esigenze vanno all’infinito… Nessun oggetto del volere, una volta conseguito, può dare appagamento durevole, che più non muti: bensì rassomiglia soltanto all’elemosina, la quale gettata al mendico prolunga oggi la sua vita per continuare domani il suo tormento. Quindi finché la nostra coscienza è riempita dalla nostra volontà; finché siamo abbandonati alla spinta dei desideri, col suo perenne sperare e temere; finché siamo soggetti del volere, non ci è concessa durevole felicità né riposo”. E’ un brevissimo testo che traggo dal filosofo tedesco Schopenauer (da “Il mondo come volontà e rappresentazione”) che ben si addice ad introdurci alla meditazione del salmo 63. Il nostro filosofo riconosce un’impossibilità nell’uomo di trovare appagamento pieno al suo desiderio che è fatto a misura dell’infinito. Ciò che cerchiamo a volte è solo spesso un’elemosina. Il salmo 63 ci invita ad un balzo straordinario di consapevolezza: il nostro riposo è solo in Dio: lui solo potrà saziare la fame e la sete che albergano sempre insoddisfatti nel profondo di noi stessi. E un salmo che produce vita, tensione, allontanandoci dal grigiore di una religiosità fredda, moralistica. Nei “Racconti dei Chassidim” si narra che il “rabbi Kobryn diceva: Pensa a ciò che Davide dice nel salmo: La mia anima è assetata di te e poi così ti ho cercato nel santuario. Davide prega Dio di concedergli di provare nel luogo santo lo stesso fervore che l’assaliva quando era nel deserto, senz’acqua, esausto. Perché prima Dio pietoso risveglia gli uomini alla santità, ma poi, quando Dio comincia a fare qualcosa, gli ritoglie quanto gli ha dato, affinchè egli agisca da solo e sa solo arrivi ad un pieno risveglio”.


    Lectio

    Vogliamo fermare la nostra contemplazione sul Salmo 63. E’ un salmo che conosciamo molto bene perché la Liturgia delle Ore ce lo propone spesso. Per questo è utile approfondirlo perché l’abitudine della recita, la ripetizione delle stesse parole, non rischi alla lunga di svuotarlo nel suo splendido contenuto.

    Diciamo anzitutto che tra gli esegeti non vi è accordo sul caratterizzare in modo preciso il genere letterario a cui appartiene il nostro salmo: per alcuni è un salmo di fiducia, per altri di ringraziamento o liturgico, per altri ancora un salmo regale. Tuttavia una sua attenta lettura dovrebbe forse portarci a considerarlo fondamentalmente come un salmo di lamentazione individuale, a cui si affiancano gli elementi degli altri generi letterari sovracitati.  L’esegeta tedesco Kraus propone un’interpretazione che ci sembra plausibile: il salmista è perseguitato da nemici (vv. 10.12). Nella prova ardentemente desidera trovare aiuto stando alla presenza di Dio (v. 2). Rifugiatosi perciò nel santuario, sentendosi protetto da JHWH (v 8), il perseguitato sente di aver finalmente raggiunto un sicuro rifugio. Tuttavia il giudizio divino di condanna contro i suoi nemici non è stato ancora pronunziato, ma l’orante, con grande fiducia, vede in anticipo la rovina definitiva dei suoi persecutori. Può dunque innalzare a Dio la sua lode e il suo ringraziamento per la salvezza ricevuta che si augura tutti possano sperimentare. Circa la data di composizione del salmo sembrerebbe da doversi collocare verso il  597 a.C., sul finire dunque della dinastia davidica, poco prima della tragica deportazione a Babilonia.

    Ma veniamo al testo.

    Anzitutto troviamo il titolo del salmo che, come da tutta la tradizione biblica, rimanda come suo autore al re Davide: viene precisato anche il contesto in cui egli l’avrebbe composto; esso ci riporta all’episodio in cui il futuro re di Israele, braccato dal re Saul che cercava di ucciderlo, “dimorava nel deserto di Giuda”(v.1; cfr 1Sam 22-26). Il salmista, facendo memoria di questo triste precedente, compone la sua lamentazione in cui invoca JHWH affinché, come liberò Davide, salvi anche lui dalle mani dei nemici.

    Il salmo vero e proprio inizia con un forte movimento di attesa, di desiderio e di speranza: troviamo subito all’inizio la calda invocazione del nome di Dio, con premesso l’aggettivo “mio”: “O Dio, tu sei il Dio mio” (v.2).Essa esprime una relazione intensa, nella quale sembra di risentire le parole della sposa del Cantico dei Cantici: “Il mio amato è mio e io sono sua” (2,16).

    Viene immediatamente esplicitato da parte dell’orante l’urgente bisogno di raggiungere Dio come unica roccia di salvezza: “dall’aurora ti cerco” (v.2). Anche qui il “cercare dall’aurora” assume il significato di cercare ardentemente senza perdere tempo: è la cosa più urgente da fare perché il nuovo giorno permetterà al salmista di contemplare la salvezza che Dio opererà per lui. Non per nulla la tensione verso Dio viene paragonata alla ricerca dell’acqua da parte di un uomo sperduto nel deserto (“in terra arida, assetata, senz’acqua”) che rischia di morire: “di te ha sete l’anima mia” (v.2). Come l’uomo ha bisogno dell’acqua per sopravvivere “in terra arida” così il salmista sa che solo in Dio egli potrà trovare la vita: lontano da lui andrebbe incontro inesorabilmente alla morte. La sete di Dio è lo stesso tema ricorrente che troviamo ad esempio nel salmo 41: “Come la cerva anela ai corsi d’acqua, così l’anima mia anela a te, o Dio. L’anima mia ha sete di Dio, del Dio vivente: quando verrò e vedrò il volto di Dio?” (vv.2-3). È tutto l’uomo che ha bisogno di Dio per vivere; non solo l’anima, ma anche la sua stessa carne: “Ha sete di te l’anima ( ebr nèfesch)  mia, desidera te la mia carne (ebr. basàr)”(v.2); tutto il suo essere è proteso verso il Signore sorgente di vita (cfr Ger 2,13). Nel salmo vedremo che oltre all’anima e alla carne  anche gli occhi, la bocca, le labbra, le mani sono chiamati a sperimentare la presenza “saziante e dissentante” di Dio.

    Alla gola riarsa dalla sete subentra al v.3 l’occhio: nel santuario il salmista può sperare il dono della visione di Dio. Lì si spegnerà la sua sete quando potrà finalmente “contemplare nel tempio il volto di Dio” (v.3; la forma verbale più che al passato andrebbe letta al futuro: “Nel tempio vorrei  contemplarti”). Ma che cosa precisamene spera di contemplare il salmista visto che Dio è invisibile all’occhio? Al salmista sarà accessibile la contemplazione degli attributi di Dio che sono la sua “potenza” e la sua “gloria”, dove “potenza” e “gloria” comportano la manifestazione di Dio negli eventi della storia della salvezza. Il salmo non parla dunque di una contemplazione spiritualistica di stampo platonico, ma di una contemplazione di Dio a partire da ciò che egli farà concretamente per l’orante al fine di salvarlo.

    Il v.4 riveste notevole importanza; vi si dice: “perché il tuo amore (ebr hèsed) vale più della vita”. Per l’orante la gioia di vivere sta nello sperimentare la mano amorosa di Dio. Senza questa conoscenza la vita gli apparirebbe vuota, spenta. Alla luce di questa straordinaria esperienza egli giunge a stabilire una nuova gerarchia di valori in cui l’unità di misura è l’hesed (amore) divino.  Si tratta di un’affermazione che segna un notevole progresso nella visione biblica della salvezza perché, se finora si poneva l’esistenza terrena come bene supremo, ora questo bene supremo, superiore alla vita stessa, appartiene alla sfera divina: è sentirsi raggiunti dal suo amore di fronte al quale tutto passa in second’ordine. Al salmista preme perciò maggiormente non il salvarsi dalla persecuzione e dalle minacce di morte nei suoi confronti, quanto il poter toccare con mano ancora una volta che Dio è salvatore. Come non riandare a ciò che molti secoli dopo l’Apocalisse affermerà dei martiri del nuovo Israele i quali hanno vinto per mezzo del sangue dell’Agnello e grazie alla testimonianza del loro martirio; poiché hanno disprezzato la vita fino a morire” (Ap 12,11)?

    Il versetto si conclude con il verbo “celebrare-lodare”: sono le “labbra” ora nella certa attesa della salvezza (cfr Sal 104,33). Una lode e benedizione che vengono estese per tutto l’arco della vita e che diventano la ragione stessa dell’esistenza: “Così ti benedirò per tutta la vita” (v.5).

    Alla benedizione delle labbra si accompagna anche il gesto dell’innalzare le mani al cielo, verso Dio (v.5). E’ la classica posizione dell’orante ripresa anche nelle prime comunità cristiane (cfr 1Tm 2,8) e di cui rimangono parecchie belle testimonianze negli affreschi catacombali.

    L’orante, che come detto all’inizio immaginiamo all’interno del tempio, ha la possibilità anche fisica di saziare la sua fame di comunione con Dio (v.6). Questo suo “sfamarsi” della presenza del Signore viene espresso attraverso l’immagine della sazietà delle sue “labbra gioiose” perché piene di cibo. L’aggancio concreto è sicuramente desunto dal rituale del sacrificio denominato “di comunione” in cui il grasso veniva offerto a Dio perché segno di abbondanza e benedizione, mentre la carne veniva consumata tra l’offerente e il sacerdote. Si esprimeva così attraverso il segno del banchetto sacro una comunione tra JHWH e il suo fedele. Banchetto che prefigurava la perfetta comunione con Dio promessa per i tempi messianici. Isaia in tal senso profetizza il convito escatologico e messianico imbandito da Dio stesso alla fine dei tempi: “banchetto di grasse vivande, di vini eccellenti, di cibi succulenti e di vini raffinati” (25,6) nel quale tutti sarebbero stati sfamati.

    Come possiamo constatare il salmo 63 ci aiuta ad entrare in uno stile di preghiera biblico che coinvolge tutto l’uomo e non solo la sua sfera mentale e/o affettiva interiore. L’uomo bisognoso di salvezza ci viene presentato come affamato e assetato che trova solo presso Dio l’acqua viva e il cibo sostanzioso per la sua vita (cfr Sal 36,8-10). E tutto questo attraverso un’esperienza di Dio reale, palpabile, fisica, non relegata alla sola sfera intima, individuale e invisibile.

    Nel tempio è calata ormai la notte. Sul suo giaciglio l’orante “ricorda” e “ pensa a Dio” (letteralmente “medita muovendo le labbra” v.7). Egli nel silenzio della notte “fa memoria” delle opere salvifiche di Dio che gli assicurano che non sarà abbandonato in mano dei nemici, perché il Signore è fedele per sempre alla parola data: egli “è stato il suo aiuto” (v.8).  Certo di questo sostegno il salmista non può non “esultare di gioia” (v. 8) in anticipo sentendosi “all’ombra delle sue ali” ovvero protetto da Dio (v.8; cfr Sal 17,8). È bella e tenera questa immagine delle ali che proteggono il fedele. Fu usata anche da Gesù stesso (Mt 23,37). Essa è legata alla simbologia materna che esprime la protezione premurosa sui piccoli. È una simbologia che nella bibbia viene estesa simbolicamente all’area del tempio con la figura dei cherubini che con le loro ali si stendono sull’arca quasi proteggere il popolo intero.

    Se la comunione con Dio è la cosa più importante da ricercare non ci meraviglia che tutto l’essere (nefesch) dell’orante voglia “stringersi” (v.9;  lett. “Rimanere attaccato dietro a te”) a lui, non volendosene separare per alcuna ragione. L’espressione è ricavata probabilmente dal linguaggio nuziale a cui attinge la terminologia dell’alleanza. Sia l’orante che JHWH vivono una indissolubile reciproca fedeltà, una mutua e  incrollabile adesione dettata dalla fede e dall’amore. Ciò è anche dall’immagine dell’intreccio delle mani. La “destra” (v.9) di Dio – che ha il primato – stringe saldamente la mano dell’orante, dove la mano destra è simbolo di forza, di potenza, e sicurezza (cfr Os 11). È la destra di Dio che “sostiene” il suo fedele impedendogli di abbattersi.

    Il testo liturgico purtroppo non ci propone i successivi  vv.10-11 che sono stati “censurati” (ma non dimentichiamo che Gesù stesso pregava anche queste parole!). Certamente si tratta di parole violentemente imprecatorie contenenti un augurio di morte per i nemici che dobbiamo immaginare fuori dal tempio mentre cercano in tutti i modi un espediente per “rovinare” l’orante. Il contrasto con le immagini tenere e serene espresse poco prima serve ad illuminare la fede del salmista che comporta inesorabilmente una lotta e uno scontro contro il male in tutte le sue forme. La speranza di quest’ultimo è che “gli empi siano consegnati in mano alla spada” (v.11), ovvero al giudizio insindacabile della parola di Dio. Il risultato di questo giudizio sarà la loro definitiva scomparsa ed eterna maledizione (sono menzionati gli “sciacalli” che, divorando i cadaveri, impediscono la loro sepoltura e quindi ogni speranza di sopravvivenza nello “scheol”).

    Il tutto si conclude col v. 12, anch’esso omesso nella versione liturgica, che contiene un augurio e una benedizione per il re. Probabilmente si tratta di una formula stereotipata che veniva aggiunta come finale al salmo vero e proprio e che veniva affidata alla proclamazione di tutta l’assemblea (un po’ come il nostro “Gloria”). Questa benedizione per il re è importante perché ha permesso alla tradizione sia giudaica che cristiana una lettura messianica del salmo: mentre infatti i nemici sprofondano nello “scheol” il re messia celebra la sua gioia per la vittoria finale accordatagli da JHWH.

    Si parla infine della “gloria” che sperimenta “chi giura in lui” (v.12). Per chi giura l’orante? Per Dio o per il re? Il giuramento classico è fatto nel nome di Dio. In questo caso si glorierà, ovvero sarà beato, chi si è affidato interamente al Signore. Ben diversa sarà la fine degli avversari che sono “mentitori”; differenza abissale tra chi giura nel nome di Dio credendo in lui, aderendo in lui e amandolo e chi invece, attraverso la menzogna e la malvagità, crede di sfidarlo.

    Possiamo concludendo ben dire che il salmo 63 ci appare come un salmo che canta la speranza incrollabile del credente. Speranza che trova la sua sorgente unicamente nella fedeltà di Dio che è salvatore, capace di sconfiggere definitivamente tutto il male che circonda il suo fedele.

    Collatio

    Propongo per la nostra “collatio” un esercizio per imparare a pregare i salmi che la Scrittura e la Chiesa ci offrono con abbondanza. Vi propongo quando pregate un salmo di compiere semplicemente tre passi ponendo le parole che pronunciate sulle labbra di Cristo, della Chiesa, e infine sulle nostre stesse labbra. È un metodo molto elementare ma che ci può aiutare ad approfondire, interiorizzare e attualizzare queste preghiere antichissime ma sempre nuove. È un metodo che ci insegna a pregare i salmi alla luce di Cristo superarando il rischio spesso inconsapevole ma estremamente deleterio per la nostra vita spirituale di ridurre i salmi ad una semplice… “recita”, un ripetere meccanico di parole lontane e staccate dalla vita che risultano alla fin fine incapaci di produrre frutti spirituali.

    Prima di compiere correttamente i tre passi occorre però cogliere anzitutto il genere letterario del salmo. In questa prima fase ci aiutano sia il titolo come anche la citazione biblica o patristica che nel breviario vengono premesse al testo del salmo vero e proprio. Lasciamo perciò un congruo spazio di silenzio tra un salmo e l’altro evitando la recita a… raffica! (perché ci sono tante cose da fare a parer nostro più importanti!).  Questo ci aiuterà a pregare i salmi di lamentazione applicando le loro parole a Gesù durante la sua passione, poi alla Chiesa perseguitata poi sulle labbra di chi vive persecuzione, prova e sofferenza. I salmi regali li pregheremo invece più facilmente ponendo le loro parole sulle labbra del Cristo glorioso assiso sul trono di Dio, circondato dalle schiere dei salvati. I salmi di lode e ringraziamento li potremo invece applicare a Gesù risorto il mattino di Pasqua, alle quali ci uniamo insieme a tutta la Chiesa. E così via. Ricordiamo che Gesù risorto apparendo ai discepoli nel cenacolo la sera di Pasqua li introdusse alla comprensione del suo mistero tenendo sullo sfondo, come in filigrana, non solo i testi profetici bensì anche gli stessi salmi: “Poi disse: «Sono queste le parole che vi dicevo quando ero ancora con voi: bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me nella Legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi»” (Lc 24,44). Essi perciò ci aiutano ad entrare nel mistero di Cristo.

    Cerchiamo ora di calare quanto detto al salmo 63.

    Essendo un salmo di lamentazione a cui però non mancano temi di lode, benedizione e ringraziamento per la salvezza ottenuta, possiamo ben applicarlo a Gesù durante la sua passione e nella gloria della sua resurrezione all’alba del primo giorno della settimana. A questa lettura ci invita la stessa liturgia che pone il salmo 63 durante la preghiera delle lodi del mattino della domenica. Gesù anche nel terribile crogiuolo della prova è certo di gustare la salvezza promessagli dal Padre: la sua speranza è riposta unicamente nel suo amore fedele che in lui perseguitato e ucciso rivelerà la sua  “potenza” e la sua “gloria”(cfr Gv 17,1). Durante la passione tutto l’essere di Cristo, la sua ”anima” e la sua “carne”, rimane teso unicamente alla volontà del Padre. Fame e sete di Cristo sono compiere pienamente questa volontà: “Gesù disse loro: «Mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato e compiere la sua opera” (Gv 4,34); “Dopo questo, Gesù, sapendo che ogni cosa era stata ormai compiuta, disse per adempiere la Scrittura: «Ho sete»” (Gv 19,28): “ha sete di te l’anima mia, desidera te la mia carne”. Fare la volontà del Padre per Gesù vale per lui “molto più della vita”: Ora l’anima mia è turbata; e che devo dire? Padre, salvami da quest’ora? Ma per questo sono giunto a quest’ora!” (Gv 12,27) . E’ nel mattino di pasqua che Gesù sperimenta “con esultanza” che la destra di Dio “l’ha sostenuto”, che egli è “stato il suo aiuto”, rialzandolo “dal giaciglio” del sepolcro. I suoi nemici sono definitivamente condannati “dalla spada” del giudizio divino, “sprofondati sotto terra” preda di sciacalli, ovvero definitivamente annientati (cfr Ap 21,1). A lui, re e messia, Dio ha concesso la vittoria: egli può perciò eternamente “esultare di gioia” entrando “nel santuario” del cielo (cfr Ebr 9,24) in una perenne liturgia di lode e ringraziamento. Con braccia alzate al cielo non possiamo che unirci al crocifisso risorto nel suo canto di ringraziamento e di lode al Padre.

    Dopo aver compiuto questo primo passo nella preghiera, possiamo ora accedere al secondo.

    Sappiamo che il mistero pasquale di Cristo è dato da vivere anche alla Chiesa intimamente unita a lui in un vincolo strettissimo di alleanza. La Chiesa avverte il bisogno di “cercare  Dio fin dall’aurora”, di ripararsi all’”ombra delle ali di Dio”, d’essere “sorretta dalla sua destra”, perché lasciata a se stessa ha coscienza di non aver la forza sufficiente di sostenersi. Anche la Chiesa, come Cristo nella passione, non cessa d’essere minacciata e perseguitata. Essa camminando in un mondo “arido, senz’acqua”, in cui Dio spesso sembra assente o lontano, sperimenta la croce ma nello stesso tempo si alimenta alla speranza della fedeltà di Dio che non l’abbandonerà. Guardando al suo Signore essa prevede già il giudizio e la sconfitta finale del nemico. Nella speranza e nell’amore ardente la spinge ad “aderire strettamente a lui” tocca già con mano la “potenza” e la “gloria” con cui il suo Sposo crocifisso e risorto sta operando la salvezza del mondo attraverso di lei (cfr Ap 12,10). In questo faticoso cammino verso il “santuario”, il Regno di Dio, la Chiesa si nutre “con labbra gioiose” del “cibo succulento” della Parola di Dio; si disseta al calice del sangue di Cristo, saziandosi anticipatamente nel segno sacramentale al banchetto della vita eterna.

    E dopo aver applicato il salmo a Cristo e alla Chiesa possiamo applicarlo infine anche alla nostra vita. Il salmo ci invita a domandare al Signore la grazia di desiderarlo prima di ogni altra cosa “sin dall’aurora”, di avvertire “fame” e “sete” di lui nella consapevolezza che solo lui può colmare il nostro bisogno più profondo. Come consacrati chiediamo soprattutto di volerci “saziare” della sua presenza sapendo che la sua grazia (hesed) “vale per noi molto più della vita”. Come oranti vogliamo tenere “alzate le mani” al cielo come Cristo sulla croce intercedendo per il mondo intero, con le nostre “labbra” vogliamo sempre pronunciare la “lode” e la “benedizione” per quanto Dio fa per noi. Gli domanderemo infine di “sostenerci con la sua destra” affinché non soccombiamo nella tentazione, nella lotta contro tutti quei nemici, visibili ed invisibili, che vogliono la nostra rovina. Ci uniremo infine a Cristo vincitore e nostro re perché ci renda partecipi fin d’ora e per tutta l’eternità del banchetto del suo Regno in cui saziarci della sua presenza.

    Ecco dunque un piccolo esempio di come potremmo pregare i nostri salmi che la Liturgia delle Ore pone abbondantemente ogni giorno sulle nostre labbra. Impariamo soprattutto ad “unire”, come ci chiede il Concilio Vaticano II (SC n. 99) e tutta la tradizione “le labbra al cuore”: solo così potremo pregare veramente, sapendo che il Signore  “fa dono della preghiera a colui che prega” (Evagrio Pontico).

    Oratio

    Terminiamo con un testo, una preghiera, composta dal grande mistico fiammingo Jean Van Ruysbroeck (1293 –1381) che ben esprime l’ardente e “famelico” bisogno di sfamarsi di Dio:

    Signore, tu sei per me cibo e bevanda:più mangio e più ho fame,
    più bevo e più ho sete
    più possiedo e più desidero.
    Sei più dolce al mio palato di un favo di miele,
    più di qualsiasi dolcezza che sia possibile misurare.

    Sempre rimarranno in me la fame e il desiderio,
    perché sei inesauribile.

    Sei tu che mi divori, o sono io? Non lo so.
    Perché nel profondo della mia anima sento l’una e l’altra cosa.

    Tu esigi che io sia una cosa sola con te,
    e questo per me è molto difficile,perché non voglio abbandonare le mie pratiche
    per addormentarmi tra le tue braccia.
    Non posso non ringraziarti, lodarti e renderti onore:
    per me questo è la vita eterna.
    Trovo dentro di me una certa impazienza, e non so cosa sia.
    Se potessi raggiungere l’unità con Dio
    senza lasciare le mie opere,
    smetterei subito di lamentarmi.
    Dio sa ciò di cui abbiamo bisogno: faccia di me quello che vuole!
    Mi rimetto interamente nelle sue mani,
    e così attraverserò con coraggio ogni sofferenza.

  • 04 Mar

    La discendenza:
    Prima soluzione umana alla promessa: l’adozione

    Gn 15,1-21

    di p. Attilio Franco Fabris

    Finora nulla è stato detto circa la promessa della discendenza. Eppure sembra essere la più urgente, perché il tempo passa e Abramo e Sara continuano ad invecchiare.

    Come vivono Abramo e Sara il ritardo dell’adempimento della promessa del figlio?

    Si rassegnano?

    Dubitano?

    Sono sulle spine?

    L’intervento divino è incerto: Quando? Come?

    Noi cosa faremmo?

    Non ci meraviglia il fatto che, ad un certo punto, decidano di ricorrere a soluzione loro che probabilmente, nel loro intento, serva a concretizzare la promessa.

    Il testo ci presenta il dialogo tra Jhwh e Abramo.


    Introduzione: v. 1

    “In seguito a questi debharìm…“.

    Dio risponde, in seguito alle parole/fatti di Abramo, come aveva già fatto dopo il patto con Lot, con un rinnovo delle promesse.

    Gli eventi fanno sì che la coscienza di Abramo si apra sempre più progressivamente all’ascolto della parola/promessa.

    Prima parte: vv.1-5

    La parola che il Signore rivolge ad Abram comprende tre elementi.

    –         “Non temere”: il figlio arriverà. E’ una formula che invita alla fiducia, ricorrente nei racconti di annunciazione.

    –         “Io sono il tuo scudo”: usa un’immagine militare. Abramo ha potuto costatare la vicinanza di Dio in battaglia (cfr 14,20). “Abram hai toccato con mano la mia vicinanza e il mio aiuto, come lo sono stato in passato lo sarò anche in futuro”.

    –         “la tua ricompensa (lett. la paga del soldato) sarà assai grande”: si tratta ancora di un’immagine militare. A lui che, dopo la battaglia, non volle nulla Dio vuole dare in risposta infinitamente di più. Ma che cosa? Questa “ricompensa” è assai vaga.

    La risposta di Abram si struttura attorno alla domanda che gli preme sul cuore, essa rivela come Abram non viva che per veder realizzato il sogno più grande. Ecco allora la domanda di Abramo: “Mio Signore, che cosa mi donerai, mentre io me ne vado spogliato (= senza figli)?”. In altre parole: “Signore che cosa mi puoi donare di tanto grande se  poi non ci sarà un figlio che continui la mia discendenza?”.

    Abramo avanza in questa direzione la sua proposta: Abramo e Sara vogliono adottare, secondo l’uso orientale, Eliezer il servo di Damasco come figlio ed erede. Infatti hanno aspettato l’adempimento della promessa. Essa non si è realizzata. Allora perché non cercare una soluzione? E’ ancora la paura che gioca nella coscienza di Abramo. Essa getta Abramo e Sara nell’agitazione di dover trovare ad ogni costo un espediente per affrettare la realizzazione della promessa.

    Abramo aggiunge a propria scusa, e con una sottile accusa, che tutto ciò è “colpa” di Dio il quale non ha mantenuto la sua promessa: “Vedi che a me non hai dato discendenza”. Abramo fatica, tentenna, si scontra con l’accettazione del kerigma. Non è come la prima volta che obbedisce subito, senza batter ciglio.

    Quali risonanze suscita questo atteggiamento di Abramo?

    La risposta di Jhwh è categorica: “Non costui… ma colui che uscirà dalle tue viscere” (cfr Natan e Davide 2Sam 7,12). L’impossibile è presentato un’altra volta come possibile. Invita poi Abramo a contemplare le stelle (desiderio=ad sidera), a contarle se gli riesce, cosa impossibile: “Tale sarà la tua discendenza”.

    La ricompensa “assai grande” ora è chiara: sarà una discendenza innumerevole (16,10; 32,13).

    Ma quale sperequazione tra la promessa solenne e maestosa e la realtà così povera e contraddittoria.


    Gli fu accreditato a giustizia: v. 6

    Dopo la parola di Jhwh, Abramo tace.

    Che valore attribuire a questo silenzio?

    Dubbio, speranza, incertezza, abbandono fiducioso…?

    Il nostro redattore lo interpreta come un consegnarsi incondizionatamente alla promessa.

    Infatti a questo punto fa una riflessione teologica di fondamentale importanza: “Egli credette al Signore che glielo accreditò a giustizia”.

    La forma verbale implica una continuità di atti di fede: “Egli continuò a credere“. Questo comporta che Abramo accolga con la massima fiducia la promessa, dandovi piena collaborazione.

    La storia di Israele dirà quanto ciò è difficile se non impossibile per i suoi discendenti e per tutti noi (cfr Es 4,8; Dt 1,32; 9,23).

    Abramo ne è stato capace, potendo così divenire ed essere presentato come “padre dei credenti”.

    Dio riconosce il merito di questa fede. “Glielo accreditò a giustizia”.

    Abramo è convinto della Parola del Signore e del suo contenuto reale anche se ancora invisibile e senza una scadenza precisa nel tempo: Abramo decide ancora una volta tutta la sua vita giocandosi unicamente sulla fiducia data alla Parola. “La fede di Abramo è la fiducia in una promessa umanamente irrealizzabile. Dio gli riconosce il merito di quest’atto (Dt 24,13; Sal 106,31). Lo mette in conto alla sua giustizia, essendo, il “giusto”, l’uomo la cui rettitudine e sottomissione rendono gradito a Dio” (nota Bibbia Gerus.).

    Il verbo has’av può essere tradotto in vari modi: si potrebbe tradurre anche in parafrasi con: “e il Signore si prese a cuore di lui con amore”, vincolandolo sempre più a sé. In base a ciò Abramo è s’addìq, giusto, cioè amico di Dio, colui che da Dio ha ricevuto la piena misericordia: ed è a questo titolo che la tradizione islamica si rifà particolarmente.

    San Paolo si fonda su questo versetto per dire che la giustificazione, davanti a Dio, è basata sulla fede e non sulle opere della legge (Rm 4). Tuttavia si fa notare come  la fede di Abramo lo porta ad opere giuste secondo il cuore di Dio (18,19). Per cui san Giacomo può basarsi su questo stesso versetto per dire che una fede senza le opere è morta (Gc 2,14-26).

    Fede e opere: in quale rapporto sono nella nostra esperienza?


    L’alleanza: vv.7-21

    Questa sezione del brano inizia con un’autopresentazione da parte di Dio: “Io sono il Signore che ti ho fatto uscire da Ur dei Caldei”. Egli rimanda agli inizi della vicenda di Abramo, quando Terach con tutto il suo clan partì da Ur per dirigersi a Canaan. Nessuno sospettò che in quel momento vi fosse l’azione di Dio stesso che dirigeva la storia.

    Dopo aver invitato a considerare il passato, riconoscendovi la sua presenza e la sua azione, Dio invita ad aprirsi al futuro delle promesse: “per darti questo paese in possesso” (lett. in eredità). La discendenza innumerevole avrà infatti bisogno di una terra.

    Abramo reagisce come poco prima, con una domanda: “Signore mio Dio, come potrò conoscere che ne avrò il possesso (lett. che l’erediterò)?”. Come intendere tale domanda? Non esprime il dubbio, ma una richiesta di capire meglio le modalità con cui la parola potrà concretizzarsi. Abramo crede, ma vuole capire, conoscere, chiede informazioni, dei segni. Chiedere un segno è inaccettabile se questa richiesta è fatta da persona che manca di fede e cerca una prova (cfr Es 17,2.7; Dt 6,16). Ma questa richiesta è accettabile se viene fatta da un credente, il segno allora non giunge come prova ma come conferma (cfr Gdc 6,17-18; Is 38,7-8.22). Sarà questa la differenza tra la domanda incredula di un segno da parte di Zaccaria e la domanda fiduciosa di Maria.

    Il segno che Jhwh offre è una solenne alleanza con Abramo (cfr Es 6,6-8).

    Dio chiede ad Abramo di approntare il necessario per stipulare il rito di alleanza. Si tratta di spaccare alcuni animali in due. In un rituale di alleanza bilaterale i due contraenti passano poi in mezzo alle parti divise invocando su di sé la stessa sorte riservata agli animali, nel caso si mostrino infedeli al patto.

    Qui il testo annota la presenza di un rapace, rappresenta una minaccia: “l’uccello rapace calò sui pezzi”. “Abram lo scacciò”. La minaccia viene allontanata. Di quale minaccia si tratta? Si tratta di eliminare tutti gli elementi (come il servo Eliezer) che potrebbero frapporsi alla realizzazione della promessa.

    Si passa poi a descrivere il “sonno”, l'”oscuro terrore”, la “grande tenebra”: sono tutti elementi che si riassumono in ciò che è definito nel “timore del Signore”. Un timore che non è paura di Dio, il termine non ha biblicamente un’accezione negativa, ma positiva: è il rispetto, l’adorazione, la consapevolezza della trascendenza.

    Segue la profezia da parte di Jhwh: viene rinnovata la promessa di una discendenza e della terra ma  si aggiunge che questa discendenza dimorerà schiava lontano dalla terra, dopo ne uscirà per riprendere possesso della terra. La storia che Dio ha fatto percorrere ad Abramo prefigura la storia della sua stessa discendenza. Ma l’esperienza d’Israele che esce dall’Egitto sarà a sua volta quella di una nuova generazione che uscirà da Babilonia al ritorno dall’esilio. La storia deve ripetersi generazione in generazione. Uscita – esodo – pasqua: sono passaggi obbligatori.

    Perché vi è la necessità di ripercorrere queste uscite (=pasque)?

    Dopo la profezia si passa al rituale vero e proprio. La parola proclamata ha rivelato il significato di ciò che sta per accadere ora.

    Fumo e fuoco sono simboli che manifestano la presenza di Dio. Dio passa attraverso gli animali squartati. Stipula in tal modo, solennemente, l’alleanza.

    Ma il presente rituale contiene un’anomalia: esso non è bilaterale. Chi passa è solo Jhwh. Abramo sta fermo, il contratto non gli impone alcun obbligo. Dio solo si impegna nei confronti di Abramo: “In quel giorno il Signore tagliò il patto con Abram”.

    L’iniziativa spetta solo a Dio. E’ lui che si impegna nei confronti di Abramo e non viceversa. Ancora una gratuità sconcertante per l’uomo che vorrebbe rivaleggiare con Dio.

    La discendenza non sarà dunque frutto di una espedienti umani come Abramo e Sara stavano per fare, ma sarà dono di Dio. Dio non si limita qui a prometterlo, ma s’impegna solennemente con un patto.

    Una allenza tra Dio e l’uomo nella quale Dio non domanda nulla se non di affidarsi alla sua parola: che risonanze suscita?

  • 03 Mar

    L’uomo: viator e peregrinus

    di p. Attilio Franco Fabris

    Il poeta G. Gibran, nel suo libro più famoso intitolato, Il Profeta scrive: Noi gli erranti sempre alla ricerca della strada più solitaria, mai iniziamo un giorno là dove ne abbiamo terminato un altro, ed ogni levare di sole non ci trova là dove abbiamo ammirato la luce del vespro. Anche quando la terra dorme viaggiamo”.

    L’uomo è presentato come un pellegrino , un pellegrino del tempo. Un tempo inarrestabile, che scorre senza che possa essere afferrato mai, l’uomo non ne è il padrone.

    Ma è proprio questa “drammaticità” del tempo che scorre che colloca l’uomo sempre in posizione nuova nei confronti del suo passato e del suo futuro. E’ il tempo che permette un cammino, un progresso, una crescita, una progettualità.

    Il camminare perciò è stato assunto nelle diverse culture come una simbolica primaria per esprimere lo scorrere del tempo e della vita. Basti pensare a tutta la simbologia legata al viaggio, al pellegrinaggio, alla salita, alla traversata… Bene perciò il filosofo G. Marcel definisce l’uomo come viator, viaggiatore.

    L’uomo dunque immagina, simbolizza se stesso, come un essere in cammino. Ma verso dove? Quale significato dare all’ineffarrabile scorrere del tempo e della vita? Si tratta di darvi un significato.

    Certamente si vuol camminare verso la pienezza della vita e della gioia. Tutto l’uomo è teso a questa meta anche se sullo sfondo si delinea l’orizzonte del fiume Lete con la barca di Caronte pronta a far transitare, per l’ultimo viaggio!, l’anima nel luogo dell’oblio dato dal non tempo.

    Ma dentro di sé la nostalgia del desiderio di vita e di gioia permane, non si può soffocare: “esule o pellegrino, in fuga o in marcia, l’uomo è spinto da una nostalgia struggente. Un disagio lo rende inquieto; un dolore lo porta a tornare alla sua vera casa. In nessun luogo trova la patria stabile del suo desiderio. Per questo è essenzialmente un camminatore” (S. Fausti).

    Il cammino della vita e della storia suggerisce il progredire, il crescere. Dunque il cammino presuppone la durata nel tempo, la pazienza, l’accettazione dell’inevitabile fatica e del rischio, il ravvivare in noi la consapevolezza del cammino stesso e della meta da raggiungere, onde evitare il rischio di percorrere la strada in modo distratto, superficiale e in fin dei conti insensato e inconsapevole.

    Senza durata non vi è vita né storia, non vi è crescita. E l’uomo non si trova già bell’e fatto all’inizio, quando esce dal grembo della madre, esso si costruisce giorno per giorno, epoca per epoca: occorre una vita per costruire l’uomo e … non basta!

    L’esistenza dell’uomo (e come individuo e come società)  ha bisogno perciò della storia. Solo l’uomo è capace di storia (Heidegger parlerà di geschicthe: storia vivente).

    Ma questo dato di fatto forse ovvio per noi non bisogna darlo poi per scontato: esso è il frutto, possiamo affermarlo a pieno diritto, di una rivelazione.

    Se guardiamo alle civiltà arcaiche (all’antica Grecia per esempio o anche alle filosofie orientali) restiamo colpiti dal fatto che il tempo è svuotato in un certo senso di rilevanza. In esse è viva l’angoscia della vita che sfugge sia a livello di individuo come di cosmo… occorre sfuggirvi ad ogni costo. Lo strumento è la visione mitica di un tempo ciclico,  ovvero di un eterno ritorno e incessabile ripetersi delle cose: e questo rende possibile il recupero di tutto ciò che sembra vada irrimediabilmente perduto. Forse il viaggio di Ulisse ne è l’emblema più significativo.

    Ovvio che per far questo sia indispensabile sganciarsi dal valore della continuità degli eventi quotidiani; essi assumono significato solo alla luce di un proiettarsi al di là di essi, in un tempo mitico che solo è reale.

    Sulla stessa linea, ma con motivazioni diverse, le filosofie dei secoli passati, tralasciando l’insegnamento biblico, posero l’accento e l’attenzione sugli aspetti immutabili dell’uomo: ovvero sulla sua essenza, sulla sua natura, sulla sua anima. La sua storicità passava in second’ordine. Non interessava più di tanto perché ciò che è più vero e più importante è ciò che è al di là del tempo, ciò che è eterno.

    Per la storia rimaneva uno sguardo di commiserazione e rassegnazione: una povera valle di lacrime dalla quale occorre sfuggire al più presto.

    La filosofia esistenzialista porterà al centro proprio l’uomo, in questo figlia del rinascimento e dell’illuminismo, nel suo collocarsi nel mondo e nella storia. L’esistenza appare come un “cammino”, un “compito da assolvere”. Si è compreso, reagendo alla visione precedente che guardava alla’essenza e all’eterno, che l’esistenza umana è esistenza temporale, che non si realizza in un solo momento, ma in una continua successione di tempi, strettamente vincolati tra loro. Ed è così che si approda ad una visione di uomo “adulto”, trasformato dalla storia che vive ma altresì capace di trasformare la storia stessa.

    In questa linea nuove correnti filosofiche accentueranno che ormai l’unico protagonista della storia è l’uomo e solo lui. (Si pensi al marxismo, alle correnti storicistiche, ad autori esistenzialisti come J.P. Sartre). Per essi: “L’uomo sarà in seguito, e sarà quale si sarà fatto… l’uomo non è altro che ciò che si fa”.

    Uno sguardo alla nostra cultura rivela un ulteriore accostamento alla storia.

    L’uomo di oggi ha scelto di rinunciare alla storia per ripiegarsi sull’istante. Il momento attuale va vissuto con la massima intensità (di piacere) possibile. La nostra cultura vede la ricerca affannosa, angosciata di una moltiplicazione di istanti, che vorrebbero tentare di riempire il vuoto lasciato da una mancata progettualità, e da una mancanza “di memoria” per il proprio passato. Disancorato dal passato e dal futuro l’uomo di oggi si ritrova sospeso sull’istante, ma sospeso sul vuoto. E nessuno è più perso di colui che non sa dove andare.

    Ma la rivelazione biblica si parla di un Dio personale e creatore, che intesse un dialogo con l’uomo. Un Dio che ha dato un inizio alla storia e al quale questa appartiene. Con la rivelazione nasce il concetto di storia come luogo teologico, in cui si intesse un rapporto, una storia di alleanza che apre la storia continuamente al futuro di Dio, impedendo al credente di ricadere sia in una visione ciclica della storia stessa, come nel suo svuotamento di significato.

    La nostra società umana e ciascuno di noi si colloca in un punto preciso del tempo, con una tensione aperta a diverse possibilità.

    Ci vediamo situati in una tensione tra un passato già realizzato e un futuro sempre aperto.

    Siamo certi che è possibile intervenire nel divenire storico attraverso le nostre decisioni, il nostro lavoro e la nostra testimoniaza fattiva di credenti.

    Siamo altresì consapevoli che il nostro cammino deve essere assunto come compito da svolgere responsabilmente sia verso se stessi ma anche verso gli altri. Non è indifferenti che io porti o no a compimento il mio viaggio: esso non sarà compiuto da nessun altro. Esso è rimarrà unico.

    Per ciascuno il presente è l’aspetto predominante, l’unico realmente posseduto. Un presente però che si estende sia nelle radici del passato come nella progettualità del futuro. Il passato è passato in quanto rimane nel presente come “memoria”, fondamento del mio attuale esistere. Il futuro appare futuro perché già ora, nel presente è anticipato come appello, compito, progetto di crescita. L’uomo è soggetto di speranza.

    Si tratta dunque di un presente teso dinamicamente tra passato e futuro. Se ciò non fosse sarebbe ridotto ad un semplice istante sospeso nel vuoto, nel nulla.

    Con queste considerazioni vogliamo prendere coscienza che di fronte alla vita, a questo nuovo millennio che ci si apre dinanzi, non possiamo assumere atteggiamenti errati.

    Essi potrebbero essere sintetizzati così:

    –          il fatalismo e la rassegnazione: è una forte tentazione in questa fase storica di passaggio in cui ci  sembra  spesso di brancolare del buio.

    –          L’alibi: il cercare giustificazioni per non assumersi la resposabilità del proprio e altrui cammino

    –          Il ripiegamento sull’istante privo di “memoria” e di “speranza”, e di progettualità.

  • 03 Mar

    MISTERO PASQUALE CAMMINO DI CRESCITA

    di p. Attilio Franco Fabris


    La destinazione del nostro pellegrinaggio nella fede ha un unico scopo: renderci sempre più conformi a Cristo sino a giungere alla piena maturità e vita: Ci ha predestinati – ricorda san Paolo – ad essere conformi all’immagine del Figlio suo (Rm 8,29).

    Si tratta di una conformità che è progressiva trasfigurazione, in un lento divenire e crescere (“Lui deve crescere e io diminuire”, “Non sono più io che vivo ma è Cristo che vive in me”) e questo attraverso l’indispensabile azione vivificante dello Spirito. Accogliendo in noi l’azione dello Spirito ci inseriamo nel mistero di Cristo che è mistero pasquale di morte e resurrezione.

    Questa divina conformazione fa sì che noi possiamo rinascere ad una vita nuova nello Spirito, come Gesù dice a Nicodemo nel vangelo di Giovanni.

    Si tratta per usare il linguaggio dei mistici di una “divina rinascita” (cfr. Paolo della Croce parla di “morte mistica” e “divina natività”). E’ una rinascita che trasforma l’uomo peccatore in “uomo nuovo”, ovvero spirituale, cristianizzati. Scrive san Paolo: “Dovete rivestire l’uomo nuovo creato secondo Dio nella giustizia e nella santità vera”.  Questo testo vuole affermare che l’uomo deve rivestirsi della sua vera immagine, quella originaria, e ciò è possibile in Cristo nuovo Adamo.

    E ancora: “Dovete camminare in una vita nuova” (Rm 6,4). Afferma la Gaudium ed Spes: “Colui che segue Cristo, uomo perfetto nel mistero redentivo della sua passione, morte e resurrezione si fa lui pure più uomo”.

    Ma non  ci può essere entrata nel riposo di Dio, nel Regno, nella gloria se non passando per la via stretta indicataci da Gesù, che è il suo mistero pasquale di morte e resurrezione. E’ il percorso da lui tracciato nella sua Pasqua, nel suo esodo da questo mondo al Padre: “Gesù camminava verso Gerusalemme” (Lc 13,22).

    Ci è dato perciò l’itinerario e il passaggio obbligato: “Chi mi vuol  seguire prenda la sua croce ogni giorno e mi segua”.

    LA SEQUELA DELLA CROCE

    Non siamo soli a percorrere la strada, davanti a noi c’è Gesù; il nostro compito è la sequela: “Gesù camminava davanti ai suoi discepoli” (Mc 10,32).

    Il prendere la croce dietro a Gesù è condizione per la sequela cristiana.

    Se ci domandiamo in cosa consiste la sequela, la croce, che ci porta a rinascere alla vita di uomini nuovi, la risposta che troviamo nei vangeli è molto chiara: la sequela, la croce, è il dono di noi stessi fatto a Dio e al nostro fratello sino alla fine (cfr. Gv 13,1)

    L’uomo adulto in Cristo, l’autentico discepolo, si riconosce dalla capacità di amore e di dono di sé: “Da questo conosceranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri”.

    Cammino seguendo Gesù quando mi pongo nella stessa disponibilità di Gesù a fare della mia vita un sacrificio a Dio e al prossimo, quando mi pongo nell’atteggiamento del “servo”, dell’”ultimo”, del “piccolo”.

    E’ convinzione cristiana che ogni amore umano che non è dono di sé e non è seguito almeno implicitamente dal segno e dal sangue della croce, non è che una caricatura dell’amore” (A. Feuillet)

    Il nostro cammino per essere autenticamente cristiano deve procedere perciò dalla conformazione, dall’intima partecipazione, al mistero pasquale di Gesù: “Camminate nella carità nel modo che anche Cristo vi ha amato e ha dato se stesso per noi” (Ef 5,2).

    Con ciò si vuole dire che la nostra crescita cristiana si misura sulla disponibilità ad accogliere in noi la “stoltezza della croce”.

    Sembra assurdo che la vita, la nostra crescita, debba passare attraverso la morte per divenire autentica ed eterna. Ma il mistero pasquale si è rivelato come legge imprescindibile di vita e di crescita “Se il chicco di frumento caduto a terra, non muore, resta solo. Ma se muore porta frutto. Chi ama la sua vita la perde e chi odia la propria vita in questo mondo la conserverà per la vita eterna” (Gv 12,24-25).

    E ancora: al discepolo è necessario anzitutto il  morire nel momento in cui egli riconosce il suo peccato, la sua via larga lontana da Dio, la sua pretesa  d’imboccare la strada dell’orgoglio e dell’autosufficienza.

    La ricerca, l’amore per la vita comporta l’accettare paradossalmente che essa passi attraverso la morte, la sua perdita, il suo dono: e si tratta di un distacco doloroso.

    Un bene maggiore si trova rinunciando ad uno minore, senza per altro che questo venga perso, anzi… verrà ritrovato centuplicato.

    L’itinerario del discepolo passa dunque obbligatoriamente dal Calvario e dalla tomba ormai vuota: sono i due termini pasquali, i due momenti di un unico mistero che si apre ad un orizzonte infinito di vita.

    Il  movimento pasquale di morte-risurrezione ritma la più umile esistenza cristiana (e probabilmente ogni esistenza)… Arrivano per ciascuno momenti in cui tutto sembra perduto e svanito nel nulla senza ragione, tutto appare come tenebra e assurdo. Proprio in questi momenti all’uomo si apre la possibilità di una pasqua, di un passaggio che attraversi la valle tenebrosa, la palude di morte che sembra tutto inghiottire.  Questa possibilità si ancora alla fede in Gesù risorto. Allora la disperazione per una perdita totale viene trasformata dalla speranza; noi ci lasciamo afferrare da quella mano sempre tesa verso di noi nella notte che invita con dolcezza e forza: “Alzati e cammina”(Mt 9,5).

    Comprendiamo che questo gesto comporta una rottura battesimale, allora la pace, la forza, il rinnovamento pasquale ci pervadono. Le lacrime di amarezza diventano lacrime di gratitudine.

    Solo la fede nel Risorto è in grado di annunciare l’evangelo all’uomo spesso incapace di leggere il passaggio pasquale come parola, occasione, kairòs, di salvezza e di vita.

    Il passaggio della croce se accolto positivamente ed oblativamente apre a nuovi spiragli di vita, a ulteriori orizzonti ricchi di inattese vitalità e creatività. Per il discepolo “il mondo non è più una prigione, ma un passaggio oscuro, passaggio attraverso il quale passare, passaggio da decifrare in uno scritto più ampio, e in questo scritto tutto ha un senso, ciascuno è importante, ciascuno è necessario. Uno scritto che noi scriviamo insieme a Dio” (O. Clement).

    IL BATTESIMO


    Il battesimo ci ha inseriti nel vortice vivificante del mistero pasquale. Siamo stati immersi nella morte di Cristo per risorgere con lui alla vita nuova. Rimane a noi il ravvivare tale dono di Dio.

    Questa dimensione battesimale deve avvolgere, permeare, indirizzare, dare senso a tutto il nostro essere, operare e pensare. Deve essere dimensione costitutiva del nostro cammino di battezzati. Ne dobbiamo fare memoria ogni giorno.

    Questo significa ricominciare ogni giorno, un cammino mai concluso qui su questa terra; proteso a quel passaggio battesimale definitivo che è la nostra morte che nel Risorto viene trasformata in porta di accesso alla vita vera.

    Vivendo già questo passaggio nella quotidianità e sperimentando l’amarezza del calice amaro di “Thanatos”, ci è dato tuttavia di pregustare in certo qual modo la gloria della resurrezione. I “cieli e la terra nuovi” si profilano già  soffusi all’orizzonte.

    E’ un cammino che non compiamo da soli: siamo membra vive di un unico corpo che cammina e cresce, la Chiesa pellegrinante verso il Regno. Nella Chiesa il discepolo trova la testimonianza, la forza, l’aiuto sacramentale per attuare nella vita il suo passaggio pasquale. Nella misura in cui ciascuno lo compie fa sì che tutto il corpo mistico progredisca nel suo itinerario di fede.

    Non è indifferente allora che io accetti o meno l’invito a camminare verso la conformità a Cristo. La mia conformazione mi rinsalda, mi unisce, non solo a Cristo ma anche, nella comunione dello spirito, con tutte le altre membra del suo corpo.


    SCHEDA DI LAVORO

    1. Il mio cammino di sequela di Gesù passa inevitabilmente per la croce:

    – quali croci sono stato chiamato ad attraversare (e/o attraverso)? Le nomino.

    2. La croce di Gesù è totale dono sacrificale di sé al Padre e ai fratelli:

    – che significato concreto do a questa espressione teologica?

    – cerco di vivere questo atteggiamento nella mia vita?

    – se sì, come si manifesta? Dove si concretizza?

    – Mi accorgo forse di non riuscire a viverlo fino in fondo:

    – in quali situazioni concrete? Le nomino.

    – che atteggiamenti concreti mi trovo allora a vivere alternativamente? Li descrivo.

    3. Raggiungo il più profondo di me stesso, là dove aspiro a camminare con Dio seguendo Gesù suo Figlio:

    – a cosa mi sento invitato per poter attuare questa ispirazione?

    – che cosa occorre che io scelga o privilegi concretamente per rispondere a questo invito?

    – che cosa sento di dover lasciare o di dover modificare nella mia vita per rispondere a tale invito?

    LETTURA

    Ogni chiamata di Cristo conduce alla morte

    La croce non è disagio e duro destino, ma il dolore che colpisce solo a causa del nostro attaccamento a Gesù Cristo. La croce non è un dolore casuale, ma è necessario. La croce non è il dolore insito nella nostra normale esistenza, ma dolore che dipende dal fatto di essere cristiani. La croce, in genere, non è solo essenzialmente dolore, ma soffrire ed essere respinti; e anche qui nel vero senso di essere respinti per Gesù Cristo, non per un qualche altro comportamento o un’altra fede. Una cristianità che non prendeva più sul serio l’impegno di seguire Gesù, che aveva fatto del vangelo solo una consolazione a buon prezzo, e per la quale, del resto, la vita naturale e quella cristiana coincidevano senza alcuna differenza, doveva vedere nella croce il disagio quotidiano, la difficoltà e l’angoscia della nostra vita naturale. Si era dimenticata che la croce significa sempre allo stesso tempo essere respinti, che l’onta del dolore è parte della croce. Una cristianità che non sa distinguere vita civile da vita cristiana, non può più comprendere il segno essenziale del dolore della croce, cioè l’essere nel dolore espulsi, abbandonati dagli uomini, come il salmista lamenta senza fine. Croce significa soffrire con Cristo, passione di Cristo. Solo chi è legato a Cristo, come accade per chi lo segue, si trova sul serio sotto la croce. “… Prenda la sua croce”: essa è già pronta, sin dall’inizio, basta prenderla. Perché nessuno pensi di doversi cercare da sé una croce, Gesù dice che per ognuno è pronta la sua croce, quella a lui destinata e commisurata da Dio. Ognuno porti la misura di dolore e di abiezione a lui destinata. La misura è diversa per ognuno… Ma è sempre quell’unica croce. Viene imposta a ogni cristiano. Il primo dolore per amore di Cristo che ognuno deve sperimentare è la chiamata che ci invita ad uscire dai legami di questo mondo. E’ la morte del vecchio Adamo nell’incontro con Gesù Cristo. Chi si incammina con Gesù si dà alla morte di Gesù, pone la sua vita nella morte; è così sin dall’inizio; la croce non è la terribile fine di una felice vita religiosa, ma sta all’inizio della comunione con Gesù Cristo… La chiamata a seguire Gesù, il battesimo nel nome di Gesù, è morte e vita. La chiamata di Cristo, il battesimo, pone il cristiano nella lotta quotidiana contro il peccato e il diavolo. Perciò ogni giorno, con la tentazione a cui il discepolo è esposto per via della carne e del mondo, reca al discepolo nuovi dolori in Gesù Cristo. Le ferite che vengono inferte, e le cicatrici che restano al cristiano dopo il combattimento sono segni viventi della partecipazione alla croce di Gesù.

    Dietrich Bonhoffer, Sequela, Brescia 1971, pp. 69-72

  • 02 Mar

    La benedizione

    Gn 14,1-24

    di p. Attilio Franco Fabris

    Il testo narra, come il precedente, il rapporto tra Abramo e Lot, in una situazione difficile di guerra in cui Abramo apparirà come strumento di benedizione da parte di Dio.

    Lot si è stabilito a Sodoma (13,12; 14,12) e Abramo alla Quercia di Mamre presso Ebron (13,18; 14,13).

    La piaga di una guerra interminabile: vv. 14,1-4.4-12

    Il testo biblico allarga i suoi orizzonti, a “tutto il mondo”. Vi si narra di una coalizione di quattro re d’oriente. Il primo viene da Sennaar, regione in cui fu tentata la costruzione della torre di Babele (Gn 11,2) Questi re decidono di entrare in guerra per occupare la terra di Canaan. E’ la prima volta che questo termine compare nella bibbia, e non sarà l’ultima se anche l’Apocalisse ne parlerà. La guerra d’ora in poi accompagnerà la storia dell’umanità. Da cosa è causata? Bramosia, ingiustizia, vendetta. In una catena di violenza interminabile e insensata. Chi ne va di mezzo non sono i potenti, ma i poveri, i deboli che debbono sottostare alla decisione del forte.

    Questi quattro re ingaggiano guerra contro cinque re di Canaan tra cui i re di Sodoma e di Gomorra, i quali portano nomi significativi: Bera (=nel male), e Birse (=nella malvagità). Tutti questi re abitano la valle del Giordano e la zona del Mar Morto.

    In questa guerra sono coinvolte tutte queste terre. Una maledizione per tutti!

    L’oppressione dura “dodici anni”, cifra perfetta, ma alla fine i popoli occupati non ne possono più. Essi insorgono al “tredicesimo anno”, ma l’anno dopo la situazione ricadrà ancor più disastrosa su di loro. La storia di questa guerra si aggrava ancor più. Essa infatti si estende anche ad altri popoli (v.5-7).

    Al termine della nuova guerra la coalizione dei re dell’ovest viene sconfitta e distrutta. Gli aggressori “presero tutte le possessioni di Sodoma e Gomorra e tutti i loro averi e se ne andarono” (v.11).

    Qui il testo aggiunge: “Andandosene presero anche Lot, figlio del fratello di Abram, e i suoi beni. Egli risiedeva appunto a Sodoma” (v.12).

    Lot ha dunque compiuto veramente una pessima scelta separandosi da Abramo garante di benedizione, lui che aveva creduto separandosene di accaparrarsi il meglio.

    Fortunatamente un fuggitivo corre a dare la notizia ad Abramo che ad Ebron, guarda caso, è al riparo dalla guerra distruttrice.

    Abramo bendizione per tutti: vv. 13-16

    Abramo entra ora in scena divenendo il protagonista del racconto.

    Alla notizia del sequestro di Lot, della sua famiglia e dei suoi beni, Abramo, come reagirà?

    Noi come reagiremmo?

    Abramo non avrebbe potuto dire a ragione: “Ben gli sta! Peggio per lui! Ora si arrangi!”.

    Abramo non ha questa reazione.

    Per lui Lot, in virtù dell’alleanza, è “fratello”, non può rimanere indifferente.

    Eccolo allora all’inseguimento dei quattro re dell’est fino a Dan, il punto più a nord della terra di Canaan (da Dan fino a Bersabea per indicare i confini: cfr Gdc 20,1), con 318 volontari combattenti. Abramo sembra non ragionare: come sconfiggere con un piccolo manipolo di soldati un esercito di quattro sovrani? E per chi correre questo rischio spropositato? Per quel “disgraziato” di nipote che gli ha soffiato la terra migliore.

    Cosa diremmo noi ad Abramo, cosa gli suggeriremmo?

    Ma Abramo prosegue nell’impresa, “sbaraglia” i quattro re e riesce a fare ciò che cinque re non erano riusciti a compiere. Egli “recupera tutta la roba e anche Lot e tutti i suoi beni”.

    Il seguito del racconto specificherà che la missione di Abramo non è al fine di arricchirsi, ma unicamente per ristabilire una situazione di giustizia.

    Il testo vuole esplicitamente fare riferimento alla promessa delle benedizione che Abramo rappresenta per tutti i popoli. Egli è presentato quale mediatore di salvezza.

    Abramo nuovamente benedetto: vv. 17-24

    Al termine della battaglia Abramo incontra il re di Sodoma nella valle dei re, vicino a Gerusalemme.

    Accanto al re di Sodoma troviamo un nuovo personaggio: Melchisedek.

    Il suo nome può avere diversi significati: il dio Milku è giusto, il mio re è giusto. Il nome fa perciò riferimento alla giustizia. Egli è re di Salem che la tradizione giudaica identifica con Gerusalemme (Sal 76,3). La parola Salem sta indicare pace (= shalom). La pace e la giustizia, doni di Dio, sono dunque simbolizzati da questa misteriosa figura.

    Oltre ad essere re, Melchisedek è anche sacerdote di El Elion, il Dio Altissimo. E’ il primo sacerdote menzionato nella Bibbia.

    Egli va incontro ad Abramo: “uscì facendo portare pane e vino”. E’ un gesto tipicamente orientale di accoglienza. Non offre solo pane e acqua, ma pane e vino pasto degno di un re (1Sam 16,20).

    Egli benedice Abramo (3 vt) in quanto mediatore di salvezza per tutti. Egli ha sconfitto il nemico ristabilendo la giustizia e la pace. Egli è stato strumento nelle mani del Dio Altissimo. Viene riconosciuto pubblicamente dinanzi a tutti in questa sua missione

    Al termine della benedizione Abramo gli consegna la decima di tutto ciò che è stato recuperato in guerra. Manifesta così la sua gratitudine a Dio. Riconosce che ciò che ha compiuto è stato possibile solo grazie all’intervento di Dio. Non si inorgoglisce, non decanta le sue capacità strategiche, non sfrutta la sua posizione a suo vantaggio.

    Quanto interviene il re di Sodoma dicendogli: “Dammi le persone  e prendi per te i beni” Abramo esprimerà nuovamente un atteggiamento nuovo e sorprendente. Egli alza la mano in giuramento verso il Dio Altissimo (El Elion) riconoscendo la sua dipendenza da lui. Rifiuta di accaparrarsi i beni di cui avrebbe diritto come bottino di guerra. Non vuole arricchirsi sulle spalle delle sofferenze altrui.

    Ma nello stesso tempo sa di poter parlare solo per se. Ai compagni si dia pure quel che si vuol pattuire.

    E a Lot non dirà: “Adesso ritorna con me, vedi che cosa ti può capitare. Facciamo una coalizione tra noi”. No, ma come il padre della parabola ridà tutto a Lot: la sua libertà e i suoi beni. Decida lui del suo futuro.

    Il racconto all’inizio sembrava estraneo al ciclo di Abramo, mentre alla fine si rivela importante. Sviluppa infatti il tema della promessa fattagli da Dio di essere benedizione per tutti.

    Il comportamento qui da lui tenuto contrasta fortemente con quello da lui tenuto in Egitto.

    Non pensa a salvare se stesso, non vuole approfittare per arricchirsi: Abramo sembra poter vivere di una gratuità inaspettata. Da dove tutto questo?

    La risposta è una sola: Abramo sta sperimentando l’unica sua vera sicurezza e ricchezza che è la promessa di Dio. Questo gli basta, non ha bisogno di nient’altro. “Sei tu Signore, l’unico mio bene, mia parte di eredità”.

    Ecco gli effetti del Kerigma sulla vita. Ricchi della promessa di Dio veniamo liberati dalla paura di perderci, dalle avarizie, dalle grettezze, rivendicazioni, invidie.

  • 01 Mar

    La terra

    Gn 12,10-13,18

    di p. Attilio Franco Fabris

    Sembrerebbe che l’adempimento della promessa della discendenza sia il più urgente. Abramo e Sara invecchiano! Quindi non c’è tempo da perdere.

    Ma ecco che il testo prende tutt’altra direzione, lasciando in sospeso quest’aspetto così essenziale.

    L’abbandono della terra: 12,10-13,1

    Il testo biblico menziona un grave problema: la carestia. E proprio in quella terra che dovrebbe essere quella promessa. Il tema dominante è dunque quello della terra. Come vive questo Abram? Come una smentita? Cosa fare in un frangente tanto grave?

    Abram “discese”, si tratta di una nuova partenza che terminerà alla fine con una risalita (13,18).

    La discesa in Egitto: v.10


    Abramo non discende in Egitto per solo comprarvi di che sopravvivere, ma per soggiornarvi. Il verbo sta a dire l’intenzione di stabilirsi lì come immigrato, forse per sempre (cfr Gn 47,4).

    Questa scelta mette seriamente in discussione l’adempimento della promessa. Abram non parte seguendo un invito da parte di Dio. Prende una decisione in base alle circostanze in cui si viene a trovare.

    Il discorso di Abramo: vv. 11-13


    Tutto il contesto è imperniato sulla bellezza di Sara (75 anni!). Bellezza che è gioia per l’uomo e orgoglio per la donna. Ma questo dono ora diventa pericoloso, e il pericolo provoca paura.

    Ecco allora la proposta di Abram di dichiarare Sarai sua sorella.

    Quel che le chiede è di rinnegare la sua stessa identità, di vivere nella menzogna. E Abramo chiede questo per il proprio interesse, per la propria vita. Di ciò che accadrà a Sara non si preoccupa.

    Si sente depositario delle promesse ma le vuole difendere con la propria paura, e attraverso direzioni ambigue.

    Quel che dice Abram è ancor più grave: Quel “a causa tua” si potrebbe tradurre con “Al prezzo di te”. Vuole addirittura ricavar profitto economico dalla sua menzogna.

    La donna diviene oggetto di cui ci si serve e ci si approfitta, di cui si dispone e ci si sbarazza.

    Abramo mette ancor più in pericolo la promessa della terra abbandonando la terra e mette in pericolo la promessa della discendenza consegnando Sara agli egiziani.

    A causa dell’azione di Abram l’impossibile si rende ancor più certamente impossibile. Si è cacciato in un vicolo cieco da cui non si sa come uscirne.


    L’arrivo in Egitto: vv. 14-16


    Sara è oggetto degli sguardi degli egiziani, degli ufficiali che non trovano di meglio che decanatare (a quale scopo?) la bellezza di Sara al faraone. Lo sguardo allora non basta più; Sara “fu presa”.

    Sara non è più chiamata per nome, è “la donna”. Non è altro che oggetto di desiderio e di piacere. Ricchi e potenti possono appropriarsi delle donne che vogliono, abusarne, per poi scaricarle.

    Anche Davide non sfugge alla tentazione (Cfr. 2Sam 11,2-4).

    La storia continua che Abram “fu trattato bene per causa di lei”. Non solo si abusa di Sara, ma il marito si arricchisce a spese sue, come si arricchiscono i protettori delle prostitute.

    L’intervento del Signore: v. 17


    L’intervento di Dio è breve, ma determinante nell’evolversi del racconto, e ne costituisce la svolta. Colpisce “con piaghe” (cfr Es 7,8-11,10) il faraone e la sua casa.

    Per quale motivo interviene?

    Il testo dice: “per il fatto (dbr) di Sara”. Dbr può essere inteso come per l’accaduto, la faccenda, ecc. ma significa anche parola. Il senso potrebbe anche perciò essere che Dio interviene “per la parola di Sara”.

    Una preghiera, una supplica, forse un grido di disperazione da parte di questa donna (cfr Es 2,23: “Ho udito il grido…”).

    Per JHWH Sara è e deve essere moglie di Abramo. Non è la “sorella”, né “la donna”: ella è la “moglie di Abramo”, dell’uomo benedetto da Dio.

    La maledizione riservata ai nemici di Abramo ricade dunque sugli egiziani che ne subiscono le conseguenze a loro insaputa. E’ il tema della benedizione.

    Certo è il comportamento di Abramo che non diviene benedizione per gli egiziani.

    Il discorso del faraone: vv. 18-19


    Ora tocca ala faraone muoversi. La sua parola è un’accusa, una scusa e un ordine.

    L’accusa è di averlo ingannato: “Perché?”

    Non si capisce come il faraone sia giunto a scoprire la cosa: ha fatto un’inchiesta? Ha interrogato Sara? Ha avuto una rivelazione?…

    L’atteggiamento assunto dal faraone è stato dovuto comunque all’inganno di Abramo: “in modo che io me la sono  presa in moglie”. Ecco la sua scusa. Ma chi si scusa si accusa. Il faraone ha preso Sara invaghito della sua bellezza e in forza del suo potere e della sua forza, perché è il re. Il fatto che Sara sia sorella o moglie non gli dà alcun diritto su di lei. (cfr Davide e Uria: 2Sam 11,14-15).

    Segue l’ordine: “Vattene!”. Parole che esprimono rigetto e disgusto.

    Ma questo ordine perentorio rimette in moto il cammino di Abramo e il progetto di Dio! Una parola che assomiglia molto all’ordine iniziale di Dio dato ad Abramo: “Vattene” (12,1).

    Il Faraone, colpito dalle piaghe, non accetta il giudizio divino e rifiuta il mediatore. Perché le piaghe, come “segno” vogliono richiamare il re a riconoscere l’opera di Dio e la sua presenza: ovvero un appello alla fede. Qui il Faraone riconosce l'”effetto”, ma non la causa, e si chiude. Qui la mediazione di Abramo resta senza effetto.

    Questo racconto ci mette dinanzi all’ambiguità della coscienza dell’uomo. Un racconto iniziale poco incoraggiante! Un’armonia iniziale che viene disturbata, deturpata dalla paura, dal sospetto, dall’interesse dell’uomo. La paura di Abramo lo porta a mentire e a mettere in pericolo la promessa della discendenza e della terra, che lui vuole salvare attraverso meschine strategie umane in quanto si sente solo lui depositario delle promesse e non Sara. Ma questo non è il pensiero di Dio.

    Un comportamento comunque inescusabile.

    Abramo non ne viene castigato a differenza del faraone, ma non per questo ne esce indenne. E’ talvolta più facile accettare il castigo che vivere con le conseguenze dei propri atti criminosi. Un castigo dà per lo meno la consapevolezza di aver “espiato”, “pagato” per il reato liberando dal complesso di colpa. Senza castigo la coscienza viene logorata.

    Abramo ha ripreso sua moglie Sara: ma come salvare ora, dopo simili trascorsi, la relazione tra i due irrimediabilmente compromessa? Cosa si saranno detti? Che scuse e accuse vicendevoli?

    L’offerta del paese: 13,2-18

    Ci aspetteremmo che ora l’autore proseguisse con il racconto della promessa della discendenza, quella più urgente. Non è così. Il tema trattato continua ad essere quello della terra.

    Verso Betel: vv. 2-5


    Abramo torna alla terra arricchito dall’Egitto. Vi era andato attanagliato dalla carestia. L’ebraico usa lo stesso termine: la carestia “era pesante” sul paese, ora Abramo torna “pesante” di ricchezze.

    In ritorno, risalita, avviene esattamente in senso inverso alla discesa.

    Abramo torna a Betel, il luogo più vicino in cui trovare un altare da lui costruito, e come la prima volta qui “Abramo invocò il nome del Signore”. Cosa avrà detto Abramo al Signore? Il testo non lo dice. Proviamo ad immaginarcelo.

    Ciò che è sicuro è che Abramo vuole ritrovare il rapporto con Jhwh, il suo Dio.

    Si parla ora di Lot, anche lui disceso in Egitto con Abramo e tornato anch’egli arricchito. Ma si sa, quando si tratta di averi si vuole sempre più e il sodalizio sta per aver fine.

    Il racconto verte sulla relazione tra Abramo e nipote.

    La lite: vv. 6-7


    Il territorio non basta più ad entrambi “perché avevano beni troppo grandi per poter abitare insieme”.

    Il verbo “abitare” è la parola chiave del brano (cc 6.7.12.18). Assistiamo ad un capovolgimento strano. Prima i due non potevano abitare il territorio a causa della carestia, adesso non lo possono fare perché troppo ricchi. Va sempre male! Come mai? Una volta non c’è abbastanza, un’altra c’è troppo? Dove sta il problema? Nelle cose che non ci sono e che sono o nel cuore dell’uomo incapace di condividerle?

    Una simile situazione inevitabilmente sfocia in conflitti e così accade tra i pastori di Abramo e Lot.

    La soluzione proposta: vv. 8-9


    Come risolveremmo noi il problema? Saremmo forse portati a risolverli con la forza.

    Non è questa la scelta di Abramo. La lite non viene risolta con le armi ma attraverso un’intesa pacifica, un’alleanza (21,27.32; 26,28; 31,44).

    Dal momento in cui si stipula l’alleanza Lot è chiamato “fratello” di Abramo e non più nipote: il loro è un patto di fratellanza, tra pari.

    Si opta per la divisione del paese. Ma come dividerlo? Con quale criterio? Vi sono zone fertili e altre brulle? Che fare?

    Con stupore vediamo Abramo, il più anziano, il depositario della promessa, lasciare a Lot la scelta.

    E’ un capovolgimento! In Egitto Abramo aveva pensato solo al proprio interesse a scapito degli altri, qui si mostra generoso, liberale, disinteressato.

    Potrebbe essere lui a scegliere pere primo: “Non sta davanti a te tutto il paese?”

    La scelta di Lot: vv. 10-13

    Il testo sottolinea che la scelta di Lot è un atto puramente umano.

    “Alzò gli occhi” il che significa desiderare, bramare di possedere. “Osservò” “scelse” il testo dice “per sé”. Per poi passare subito all’azione “risiedette”.

    Cosa lo spinge? E’ solo la bramosia. “Osservò tutta la valle del Giordano, perché era tutta irrigata… scelse per sé tutta la valle del Giordano”. Egli in fin dei conti cuole riconquistare “il giardino del Signore” tutto irrigato (cfr Gn 3,23-24). Quel che vede Lot gli ricorda “il paese d’Egitto”.

    Quale il suo principio di vita? Tutto e il meglio per me!

    Un atto molto simile a quello di Eva nel giardino dell’eden (cfr 3,6), del faraone nei confronti di Sara (12,15).

    Queste scelte manifestamente egoistiche allontanano da Dio e conducono al male. Sarà così per Lot che passo passo andrà incontro al male. Lot ha preso la direzione dell'”oriente” che è una direzione pericolosa: è la direzione di Adamo ed Eva (Gn 3,42), quella di Caino (Gn 4,16) dopo il peccato, dei costruttori di Babele (Gn 11,2).

    Lot crede di scegliere la parte migliore mentre sceglie la propria rovina. La coscienza di Lot ha avuto un cambiamento radicale, finora è stato l’uomo “con Abramo”. Da questo momento allontanandosi da lui si allontana dal portatore delle promesse: ha scelto la sua strada non rimproverato da nessuno.

    La promessa ad Abramo: vv. 14-17


    Il Signore parla ad Abram “dopo che Lot si fu separato da lui”.

    Il parallelo tra l’invito fatto ad Abram e l’atteggiamento di Lot è degno di nota: “Alza gli occhi, e… spingi lo sguardo”. E’ un invito da parte di Dio e non frutto di bramosia umana.

    Tutto il paese Io lo darò a te”. La terra promessa, ricorda Abram, è dono non una conquista umana!

    Poco importa che Lot abbia scelto tutto per sé, perderà tutto e tutto sarà dato ad Abramo.

    Il dono di Dio è “per sempre”.

    Questo rinnovo delle promesse avviene dopo il gesto disinteressato e generoso di Abram. E Dio precisa ancor più le sue promesse: “Tutto il paese che tu vedi, io lo darò a te e alla tua discendenza per sempre“.

    Promessa dunque non solo della terra, ma di una discendenza con cui Dio farà alleanza per sempre.

    Verso Ebron: v. 18


    “Abram acquistò il diritto di pascolare e di andarsi a stabilire alla Quercia di Mamre, che è ad Ebron, e vi costruì un altare al Signore”. Ripete i gesti compiuti a Sichem e a Betel. Ad Ebron Abram possederà il suo primo pezzetto di terra e lì saranno seppelliti tutti i patriarchi e le matriarche.

    Il brano dunque pone la sua attenzione sulla promessa della terra.

    Abram ha accettato il rischio di lasciare la scelta all’altro. Si è dimostrato generoso e fiducioso nella promessa di Dio. Accetta di perdere quella terra promessa che ha appena raggiunto. Questa situazione assomiglia molto al racconto del sacrificio di Isacco il primogenito (Gn 22).

    Abram è pronto a sacrificare le promesse. E’ stato difficile ad Abram lasciare dietro di sé il suo passato (12,1), ma è ancor più difficile e impegnativo sacrificare l’avvenire.

    Si tratta di un vero e proprio “sacrificio del paese”.

    Il paese e il figlio risultano veramente quali dono di Dio e non frutto di espedienti umani: da ciò il permanere del dono.

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