• 24 Mar

    Il grido dell’uomo e l’ascolto di Dio

    Es 2,24-25ss

    di p. attilio franco fabris

    “Gemettero… alzarono grida….Dio ascoltò… si ricordò… guardò… se ne prese pensiero… “ sono una serie di verbi intensissimi per descrivere l’angoscia degli ebrei sotto la vessazione egiziana. Verbi che sono posti ad apertura di sipario per introdurre l’azione potente di Dio in riposta alla loro angoscia: Gli Israeliti gemettero per la loro schiavitù, alzarono grida di lamento e il loro grido dalla schiavitù salì a Dio.Allora Dio ascoltò il loro lamento, si ricordò della sua alleanza con Abramo e Giacobbe. (Es 2,24-25). Un grido di disperazione che si ripete lungo tutta la scrittura:

    «Nella mia angoscia ho invocato il Signore

    ed egli mi ha esaudito;

    dal profondo degli inferi ho gridato

    e tu hai ascoltato la mia voce (Giona 2,3).

    La sofferenza del popolo ebreo fa sì che da questi si alzi un grido, simile al grido che sale dal sangue versato di Abele ( La voce del sangue di tuo fratello grida a me dal suolo!” Gn 4,10). È lo stesso grido che da ogni ingiustizia e sopruso perpetrato nel mondo si innalza, anche in questo stesso momento, al cielo. Un grido che racchiude sempre una domanda: “Perché?”. Se ho peccato, che cosa ti ho fatto, o custode dell’uomo? Perché m’hai preso a bersaglio e ti son diventato di peso?” (Gb 7,20). È un grido incessante, quasi onde di un mare in tempesta, che attende una risposta di senso, una promessa di liberazione.

    Questo grido degli non si configura tanto come una supplica, un’invocazione che esprime una preghiera, esso è piuttosto un “gemito disperato” che diviene “grido” di dolore per la propria situazione vissuta senza sbocco. Non vi è preghiera. O terra, non coprire il mio sangue e non abbia sosta il mio grido!” (Gb 16,18);  E’ il pianto di Agar e di Ismaele spersi in mezzo al deserto che viene ascoltato da Dio, come il pianto della madre vedova che a Naim sta portando l’unico figlio alla sepoltura.

    Ci interroghiamo: quali e quante grida si innalzano in questo momento dall’angoscia che abita il cuore dell’uomo? Mi sono anch’io trovato a gridare in una sorta di preghiera la mia disperazione? Nella preghiera posso presentare a Dio, farmi voce, di queste “grida” che invocano risposta.

    Questo grido ha la forza di “salire a Dio” (cfr 2,23) di non rimanere inascoltato. Dio “ascolta” la preghiera del suo popolo, del figlio che si è scelto. Il testo afferma che Dio “guardò”: ovvero entra in rapporto, in relazione, prendendosi carico di ciò che “vede” (cfr il “vedere” di Gesù nei vangeli…). Cosicché “se ne prende pensiero” ovvero decide di operare.  Ma quale la ragione perché Dio ascolti e guardi? Essa è racchiusa ancora una volta nel cuore stesso di Dio: è la sua fedeltà alle promesse fatte: “Si ricordò dell’alleanza”. Non nasce dal fatto che Israele sia migliore, che se lo meriti, che sia diverso dagli altri, no! La fedeltà di Dio è l’eternità di un amore che non vuole venire meno a se stesso: si tratta di una dimensione fondamentale dell’amore divino (1Sm 1,20; Ez 16,60; Sal 74,2.18-22; 89,51;…).. “Ricordare” in ebraico significa non solo richiamare alla memoria ma intervenire (1Sm 25,31; Lc 1,54): dire che Dio si ricorda significa affermare che Dio sicuramente interverrà.

    Così, quando Dio distrusse le città della valle, Dio si ricordò di Abramo e fece sfuggire Lot alla catastrofe, mentre distruggeva le città nelle quali Lot aveva abitato. (Gn 19,29)

    Si ricordò della sua alleanza con loro, si mosse a pietà per il suo grande amore. (Sal 105,45)

    L’azione di Dio, nella rivelazione biblica, suppone sempre una situazione in cui l’uomo o il popolo si trovi in un vicolo cieco, senza scappatoie, soluzioni: quando l’uomo sperimenta la sua assoluta incapacità di salvarsi solo allora Dio può intervenire ed essere conosciuto come salvatore. E’ sempre la situazione di “povertà” che fa da substrato all’esperienza di salvezza.

    Notiamo che la liberazione dalla schiavitù egiziana presenta dei connotati ben diversi da quelli sostenuti da alcune moderne “teologie della liberazione”. Quando il Signore decide di visitare il popolo e di prendersi cura della sua umiliazione, gli israeliti gemono sì nella loro condizione, ma non pensano minimamente a lasciare l’Egitto. Essi si sono abituati ad essere schiavi, e non sanno immaginare una condizione differente. Tutt’al più possono aspirare a rendere più sopportabile la loro schiavitù. La libertà che il Signore offre al suo popolo farà paura. E’ il Signore, non il popolo, nemmeno un gruppetto di rivoluzionari, il primo che progetta quella liberazione.

    Dio ascolta il mio grido e guarda alla mia povertà: vivo di questa fiducia che egli non mi abbandonerà? E’ lui che per primo mi stende la mano “ricordandosi” della sua promessa perché è lui che “ci ha amato per primo”.

    Posso pregare il Sal 119.

  • 22 Mar

    Il fallimento del protagonismo di Mosè

    Es 2,11-22

    di p. Attilio Franco Fabris

    Siamo al secondo periodo della vita di Mosè che potremmo definire come “il tempo della generosità e dello scacco”. Diventato adulto (in Atti si afferma anche l’età simbolica: 40 anni!)  Mosé si sente animato da forti sentimenti di solidarietà nei confronti dei “suoi fratelli (2,11).

    Mosè il giustiziere

    Mosè “esce” due volte per “vedere” al fine di prendere atto della condizione dei suoi fratelli ebrei (vv.11.13: saranno i verbi che JHWH applicherà a sé sul Sinai). Egli compie dunque un primissimo “esodo”, un’ “uscita” dalla casa del potente faraone, e in fin dei conti da se stesso, dal suo prestigioso ma piccolo mondo di corte. Scorgiamo in questa decisione un grande impeto di generosità e una grande sete di giustizia. Non è poi così scontato prendere consapevolezza dell’ingiustizia e della schiavitù che ci circonda davanti alla quale rischiamo di passare comodamente accanto senza neppure accorgerci della sua esistenza.

    Effettivamente quel che ha in mente è bello, grande: vuole lottare per la giustizia e la libertà e per questo giunge ad esporsi fino a compromettersi. Questa è la forza degli ideali giovanili! Ha in mente un obiettivo preciso: ricostruire l’unità dei suoi fratelli, farne un popolo libero con una sua dignità. In questo sente di poter rivestire il ruolo di pioniere, del leader.

    Egli notò i lavori pesanti da cui erano oppressi (2,11).  Mosè crede di aver trovato il proprio campo di impegno improntato dai valori della solidarietà. E’ realmente assetato di giustizia come lo saranno i grandi profeti di Israele (cfr Is 5,1-24; Am 2,6-8; 5,10-13; Ez 22,1-16). La sua reazione è decisa, frutto di impetuosità virile, forte, addirittura  violenta. Giunge per essere coerente con i suoi ideali ad uccidere anche un egiziano (2,11).

    Quanti e quali ideali ci hanno spinto all’azione lungo la nostra vita? In quale misura la coerenza ad essi ci ha portato a decisioni e posizioni decise? Quali i risultati?

    Mosè si atteggia per due volte dinanzi all’ingiustizia di cui è spettatore in qualità di giudice. Egli ingenuamente, pensa di risolvere l’ingiustizia con la violenza, con l’eliminazione del cattivo, ma questa violenza non elimina la violenza, il male provocato anzi rende la situazione peggiore di prima perché sovrappone violenza a violenza in una catena infinita. Questa  giustizia di un Mosè che si autonomina giudice e liberatore è ancora chiusa dentro una logica di potere  umano e di forza. Ciò è molto lontano dal modo di vedere di Dio che invita a trovare in lui la sorgente e la forza della giustizia:

    Sta’ in silenzio davanti al Signore e spera in lui;

    non irritarti per chi ha successo,

    per l’uomo che trama insidie.

    Desisti dall’ira e deponi lo sdegno,

    non irritarti: faresti del male,

    poiché i malvagi saranno sterminati,

    ma chi spera nel Signore possederà la terra.

    (Sal 36,7-9)

    Dinanzi alla sua reazione in una lite tra due ebrei Mosè si sentirà rivolta una dura e risentita: Chi ti ha costituito capo e giudice su di noi? Pensi forse di uccidermi come hai ucciso l’egiziano ? (2,14). Ovvero: chi ha legittimato la tua vocazione di salvatore del popolo? Sono proprio i suoi fratelli che rifiutano la generosità del suo intervento perché avvertono che questa sua giustizia non potrà generare veri frutti di liberazione, ma soltanto altre violenze e ingiustizie. E poi questo Mosè che esce, nutrito e rispettato e ben vestito e istruito dalla corte egiziana, in quale modo può essere accolto dai fratelli schiavi ebrei? Egli non ha condiviso la loro sorte, non è sentito dei “propri”.

    C’è però di mezzo un “ma..”: il testo dice: “ma pensava…” (v. 25). Lo schema è semplice: Mosè fa i suoi progetti, elabora dei ragionamenti che presume e pretende si possano calare direttamente nella realtà ed essere da tutti accettati. Che cosa non ha funzionato? Semplicemente il fatto che Mosè non ha esperienza della resistenza e paura dei suoi fratelli dinanzi al progetto della loro libertà, non ci ha pensato perché non rientrava nel suo schema logico. È necessario che Mosè impari a proprie spese che nessun impegno umano, nemmeno il più generoso, può camuffarsi da impegno sacro, assumendo prerogative che competono soltanto alla chiamata che Dio rivolge a chi lui vuole.

    Mosè è certamente generoso, ma egli è forse ancora succube di una visione astratta e intellettualistica della propria chiamata. Egli soprattutto non ha capito una cosa: non basta sentirsi animati da furori rivoluzionari o da idealismi solidaristici per ritenersi depositari di una vocazione da parte di Dio. Finché Dio non chiama, ogni nostro impegno è destinato a sfumare miseramente nell’inefficacia dell’idealismo spesso di breve durata.

    Quanti furori idealistici di libertà, giustizia e coerenza si sono scontrati nella nostra esistenza con il rifiuto e il fallimento? Quanti e quali nostri progetti ritenuti buoni si sono scontrati con un “ma…” che li ha vanificati?

    Un uomo in fuga

    Per i suoi atti di giustizia violenta Mosè si ritrova con una condanna a morte sulle spalle e ricercato dalla polizia (2,15). Se ci si misura con la forza dinanzi alla vita vincerà sicuramente il più forte, il più dotato, e si rimarrà perennemente sconfitti. Mosè ha fatto fiasco con i suoi fratelli ebrei e anche dinanzi al faraone dal quale deve fuggire tagliando tutti i ponti con un mondo aristocratico prestigioso. Ma fa fiasco soprattutto nei confronti di se stesso: ora non è più nessuno: “Fuggì Mosè all’udire questa parola e divenne straniero nella terra di Madian” (v. 29).

    Ritorno ai “fiaschi” della mia vita… esperienza di fallimento e di vuoto, disorientamento perché improvvisamente ci vengono tolti quegli ideali per i quali credevamo di dover spendere la vita. Come li ho vissuti? Cosa hanno provocato nella mia coscienza?

    A Mosè non resta che fuggire. Egli deve conoscere la via della ritirata e del fallimento completo, con le umiliazioni e i silenzi che essa comporta. Prende improvvisamente consapevolezza di non essere che un uomo tra i tanti, senza tutti i suoi privilegi e ideali che sembrano non contare più nulla. La sconfitta lo mette con le spalle al muro riconducendolo a quello che realmente è. Il Mosè forte e coraggioso è scomparso, rimane un uomo in fuga invaso dalla paura.

    Importantissima la sottolineatura del testo: Mosè “divenne straniero” e sappiamo cosa significhi questo nelle culture antiche e non solo: è perdere tutti i propri diritti di uomo.  Teniamo presente che il tema della fuga è ricorrente nella sacra scrittura come situazione in cui dio può “riacciuffare” finalmente l’uomo: essa  è sempre in relazione ad un fallimento, ad un crollo di ideali umani e magari illusoriamente spirituali.
    Caino vagabondo e ramingo sulla terra (Gn 4); Giacobbe  in fuga da Esaù (Gn 27); La fuga di Elia da Getzabele (1Re 9); Giona in fuga da Dio stesso; gli apostoli nel Getsemani. Anche Mosè, uomo in fuga tra i tanti, non sarà altro che un esemplare esponente di quell’umanità sbandata, frastornata e piena di contraddizioni, che nella sua sconfitta è tuttavia disponibile a Dio, a collaborare con lui.

    Dico: «Chi mi darà ali come di colomba,

    per volare e trovare riposo?

    Ecco, errando, fuggirei lontano,

    abiterei nel deserto.

    Riposerei in un luogo di riparo

    dalla furia del vento e dell’uragano» (Sal 54,7-9)

    L’esperienza della “fuga” che può esprimersi in tanti modi fa parte dell’esperienza umana, probabilmente anche la mia. Vi sono state probabilmente situazioni che mi hanno visto in “fuga” dopo una sconfitta, un fallimento… una fuga che forse tuttavia ha permesso di andare incontro alla mia vera identità dalla quale in realtà fuggivo.

    E’ importante riflettere su questo mistero di emarginazione e persecuzione che inaugura la vicenda di Mosè e caratterizzerà la storia stessa di Israele. Qui Mosè troverà realmente e concretamente per esperienza propria e non per sentito dire il filo che lo lega al suo popolo. Questa fuga gli permette di sperimentare non in modo astratto, ma sulla sua pelle, cosa significa essere straniero, perseguitato, emarginato.

    Troppo spesso le nostre azioni, proclami, asserzioni non scaturiscono da una reale condivisione ma semplicemente da nostri costrutti mentali. Tendere la mano all’uomo comporta non elucubrare sulle varie modalità di salvataggio ma la disponibilità a scendere, a sporcarsi, a “toccare” la stessa situazione, a camminare insieme. E’ questo il metodo salvifico scelto da Dio attraverso l’incarnazione: “Infatti non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia compatire le nostre infermità, essendo stato lui stesso provato in ogni cosa, a somiglianza di noi, escluso il peccato” (Ebr 4,15)

    Un lungo cammino nel deserto

    Questa esperienza di fallimento può avere un duplice sbocco: spingere Mosè a scomparire, a ritirarsi definitivamente dichiarandosi sconfitto, oppure potrebbe permettergli, come effettivamente avverrà, di ritrovare la sua giusta collocazione.  Sempre il momento della crisi pone l’uomo dinanzi ad un bivio in cui è chiamato a scegliere in ordine al suo futuro.

    Per Mosè, fuggito nel deserto, si apre un lungo e necessario tratto di strada caratterizzato dall’ascolto e dall’attesa di cui il deserto è il luogo emblematico e privilegiato. Mosè in qualche modo percorre lui per primo le vicende che saranno del suo popolo: anche Israele dovrà fuggire nel deserto dopo l’uscita dall’Egitto e per quarantenni imparare a camminare con Dio e sulla sua parola. Per la prima volta vive lui stesso per primo l’esperienza del deserto, della vita nomade, e ritrova con questo le radici del proprio popolo che lo ricollegano con l’esperienza di Abramo e degli altri patriarchi e lo preparano nello stesso a condurvi un giorno Israele.

    Durante questa fuga nel deserto che è luogo di morte Mosè giunge ad un’oasi dove è un pozzo. Il pozzo è ricco di rimandi archetipici importanti: rappresenta la ricerca della profondità del proprio sé, dello scendere per ritrovare le sorgenti della propria “anima”. E’ un tema ricorrente anche nella sacra Scrittura.  Proprio a partire dal “pozzo” nel deserto Mosè inizia a ricostruire la propria vita su nuove dimensioni. “Fuggito dall’Egitto portandosi il vuoto terribile della sconfitta, Mosè sta andando in cerca di se stesso e di qualcosa che gli renda comprensibile il mistero della sua vita. Presso il pozzo Mosè non trova ancora la soluzione della sua ricerca, ma lì la sua fuga si arresta, perché ormai ha capito che in realtà egli sta fuggendo proprio da se stesso e dal suo mistero” (Stancari).

    Presso il pozzo incontra le figlie di Reauel delle quali si erge ancora in un impeto di generosità e questa volta con successo difensore e giustiziere. Da notare come egli è da queste chiamato con l’appellativo di “egiziano” non di ebreo: questo fatto è importante perché spinge Mosè ad una consapevolezza sempre più profonda di sé che lo porta a considerare come l’impostazione data alla sua vita fino a quel momento e il modo di intenderla faceva di lui realmente un “egiziano” (ovvero un “lontano”),  e proprio mentre egli pretendeva di farsi liberatore e interprete dei suoi fratelli ebrei. “L’essere ebreo, un fratello di quel popolo di schiavi appare quasi nella vicenda di Mosè più una conquista che un fatto assodato o garantito dalla generazione” (Spreafico, 30).

    Reuel-Jethro, presso il quale Mosè trova una casa, è pastore e sacerdote: da lui il nostro impara a conoscere il Dio dei suoi padri, El Shaddaj. Si tratta addirittura infatti di una famiglia che sembra discendere da Abramo (Gn 25,2).

    Nella terra di Madian Mosè abita a lungo ( ancora ben “quarant’anni” annotano gli Atti): è un tempo come già detto necessario di purificazione e di ricerca della propria vera identità. Egli ne ha bisogno per spogliarsi (a livello psicologico per strutturare nuovamente una persona occorre molto tempo ed energie talmente è arduo e impegnativo il compito) di tutto ciò che finora aveva fatto di lui un “egiziano”. Il compito che in questi anni si impone a Mosé verte dunque sull’affrontare anzitutto se stesso, la propria coscienza, il proprio passato, i propri errori, le proprie aspirazioni e desideri. Lo chiameremmo quasi un “noviziato”, un tempo di “iniziazione”!

    L’ultimo versetto è interessante: “Mosè si rifugiò in Madian dove ebbe due figli”: cosa c’entra questa annotazione? Mosè aveva infatti sposato nel frattempo Zippora, figlia di Raouel, dalla quale nasce un primo figlio al quale impone il nome di “Gherson” che significa: Sono un emigrato in terra straniera (2,22). Nel nome del figlio l’autore sacro offre una chiave interpretativa della presa di consapevolezza di Mosè circa la sua identità che lo rende vicino all’esperienza dei suoi fratelli ebrei. Probabilmente sta a dire che Mosè si è seduto e ha detto: Basta con le grandi idee e progetti, tutto è finito! Ho diritto anch’io a farmi una vita.  Mosè ha cercato a questo punto, dopo le sue esperienze disastrose, un angolo tranquillo al fine di dimenticare il passato e l’amarezza che lo hanno contrassegnato. Mosè rientra in un ambito di vita “normale”, ha cessato di sognare grandi imprese credendosi protagonista.

    Solo ora, crollato il suo protagonismo, può essere disponibile, su indicazione di Dio,a compiere il cammino inverso.

    La nostra riflessione può vertere sulla considerazione del mio cammino nel deserto, nella mia rinuncia finalmente alla fuga, per ritrovare la mia vera identità senza più illusori protagonismi. Questa esperienza ha toccato la mia vita?

  • 21 Mar

    Mosé: l’uomo scelto da Dio per la salvezza di Israele
    Es 2,1-22

    di p. Attilio Franco Fabris

    La figura di Mosè riveste un’importanza fondamentale nell’ambito della tradizione ebraica e biblica: gli si è  voluto attribuire tutti quei caratteri che servono a ricondurre a lui l’origine dell’intera storia del popolo di Israele: Mosè viene considerato l’autore del pentateuco, il promulgatore della Torah, l’organizzatore del popolo e del culto a JHWH, a lui vengono attribuite le prerogative di guida, di profeta, di sacerdote. Mosè è sicuramente un personaggio storico. Il suo nome suggerisce un rapporto con l’ambiente egiziano, e tutto conferma che abbia avuto un ruolo decisivo nella vicenda dell’uscita dall’Egitto di Israele e che abbia rivestito effettivamente il compito di guida e organizzatore dei gruppi di fuoriusciti ebrei. Il cap. 2 ci parla poi di particolari rapporti intercorsi tra Mosè e il popolo dei madianiti (2,15-22) che abitava la regione settentrionale della penisola del Sinai.

    Non mancano testi in cui Mosè è presentato come una figura fondamentale per la storia e la fede di Israele.

    Non è più sorto in Israele un profeta come Mosè –

    lui con il quale il Signore parlava faccia a faccia –

    per tutti i segni e i prodigi che il Signore

    lo aveva mandato a compiere nel paese di Egitto,

    contro il faraone, contro i suoi ministri, contro tutto il suo paese,

    e per mano potente e il terrore grande con cui Mosè

    aveva operato davanti agli occhi di tutto Israele (Dt 34,10-12).

    Profeta in quanto è colui che si fa portavoce di JHWH stesso: profeta straordinario se Dio accorda a Mosè il dono di “parlare con lui faccia a faccia”. Il dono più grande promesso a Israele sarà un nuovo profeta “simile a Mosè”.

    Il Signore tuo Dio susciterà per te, in mezzo a te, fra i tuoi fratelli, un profeta pari a me; a lui darete ascolto. (Dt 18,15)

    In Mosè si storicizza la strategia salvifica apparsa nella figura leggendaria di Noè, e si ripete la chiamata solitaria di Abramo: a un uomo solo è affidata la liberazione di tutti.

    Il secondo e ultimo Mosè promesso dalla fede cristiana è stato riconosciuto in Cristo: il definitivo liberatore.

    La legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo (Gv 1,17)

    Egli è quel Mosè che disse ai figli d’Israele: Dio vi farà sorgere un profeta tra i vostri fratelli, al pari di me. Egli è colui che, mentre erano radunati nel deserto, fu mediatore tra l’angelo che gli parlava sul monte Sinai e i nostri padri; egli ricevette parole di vita da trasmettere a noi. (At 7,37-38)

    La persona e la storia di Mosè, come pure il dono della  Torah donata per mezzo suo, sono ritenute talmente essenziali dalle prime generazioni cristiane per giungere alla fede in Gesù Cristo e per comprendere la sua missione e la sua persona (cfr es. Matteo o Giovanni) , che lungi dal sorvolarle come una semplice “ombra dei beni futuri” meritano di essere amorosamente lette, meditate, pregate e contemplate

    La bellezza di Mosè e l’umorismo di Dio

    La nascita di Mosè accade nel momento in cui la cupa offensiva del faraone si sta scatenando più violenta nei confronti degli schiavi ebrei: Ogni figlio maschio che nascerà agli ebrei lo getterete nel Nilo (1,22).

    Nella fase più buia e drammatica un “uomo della casa di Levi prese in moglie una figlia di Levi” (2,1). Quest’uomo ha il coraggio di opporsi alla drammatica situazione e alla violenza saggia e folle nello stesso tempo del faraone. E’ un coraggio che nasce da una speranza che non vuole venga meno, nonostante tutto egli rimane aperto al futuro. In questo non arrendersi intravvediamo la spinta che scaturisce dall’azione dello Spirito santo nel cuore dell’uomo: un’azione che sollecita l’uomo, anche il più disperato, a rimanere aperto a un “qualcosa” di indefinito, ad un’attesa…di salvezza.

    Dai due nasce una figlia lasciata in vita e poi un figlio destinato ad essere gettato nel Nilo. Ma la madre vide che era bello (tov 2,2) e che doveva perciò essere sottratto al suo mortale destino. Con questo aggettivo non si vuole connotare tanto l’avvenenza o la prestanza fisica del neonato, quanto piuttosto si vuole indicare una fondamentale prerogativa teologica: Mosè è bello come sono buone e belle (tov)  le creature che escono dalle mani di Dio (Gen 1,31). La bellezza del bambino è dunque  segno che Dio sta avviando una nuova opera di creazione. Nelle tenebre fosche stese sulla terra dalla violenza omicida del faraone si apre improvvisamente uno spiraglio di luce.

    Il bambino viene tenuto nascosto per tre mesi tra l’angoscia e la gioia di averlo, ma tenerlo oltre significa la morte per tutti. Che fare? Si impone un gesto doloroso: uno stacco, una perdita sorretta da una fragile speranza. Così la morte e la vita si trovano strettamente intrecciate: per dare vita occorre saper perdere.  Dare vita comporta un saper morire all’altro e per l’altro, rinunciando alla pretesa del possesso, alla logica del trattenere ad ogni costo. Questo nostro modo istintivo di pensare porta in sé il seme della morte.

    Viviamo in un’atmosfera cupa fatta di disperazione, solitudine, violenza: eppure Dio continuamente fa scaturire segni di “bellezza” e di “speranza”. Siamo chiamati a riconoscerli, difenderli, promuoverli.

    Un paraddosale mezzo di salvezza

    L’espediente “folle” e disperato per porre in salvo il bambino è di consegnarlo “stoltamente” proprio alle acque di quel fiume portatrici di morte per tutti gli altri bambini ebrei. E’ la forza coraggiosa della disperazione. Mosè è deposto, debole e inerme,  in una “tebah”, una barchetta di papiro (Notiamo che lo stesso termine è usato solo un’altra volta in riferimento all’imbarcazione costruita su ordine di Dio da parte di Noè: Gn 6,14). Come al tempo di Noè (Gn 6-9) anche ora è in causa la salvezza del futuro popolo di Dio e questa salvezza è nuovamente affidata ad un mezzo fragile, una povera barchetta di papiro accompagnata e sorretta tuttavia dalla potenza della mano di Dio che guida gli eventi e la storia.

    In questa scena vengono ripresi antichi racconti estrabiblici (ad esempio quello che racconta la nascita del re Sargon re di Persia). In queste saghe vengono presentati spesso degli eroi che vengono da bambini affidati nella disperazione inermi e fragili al bosco, al monte o all’acqua perché siano sottratti alla morte violenta. In una lettura antropologica e psicologica si potrebbe dire che occorre che l’eroe per primo sia in qualche modo costretto ad entrare in una situazione di morte, perché solo uscendone vittorioso per virtù e provvidenza divina sarà capace di portare salvezza agli altri. Mosè ha dunque bisogno di “passare” lui per primo, quasi una sorta di iniziazione, attraverso le acque mortali del fiume prima di guidare il suo popolo in mezzo a quegli stessi flutti.

    Tutto si svolge in modo imprevedibile: affidato alle acque del Nilo, scoperto “casualmente” il piccolo susciterà il favore della figlia del faraone (2,3-6). Svezzato (ironia!) proprio dalla madre attraverso uno stratagemma, sarà poi allevato ed educato a corte e considerato come un figlio dalla figlia del faraone (2,7-10).  Il bambino è chiamato dalla figlia del faraone con il nome di “Moshéh”, un nome tipicamente egiziano, ma che tuttavia l’autore biblico vuol far risalire (indebitamente) alla radice del verbo “trarre.. sottrarre…”. Il nome vuole indicare il destino dell’uomo che lo porta: Mosè è il primo ad essere salvato, tratto, sottratto all’acqua dell’Egitto.

    Così il piccolo Mosè “figlio” della figlia del faraone riceve una solida e necessaria (in futuro) istruzione egiziana. Egli non è soltanto allattato a spese della figlia del faraone, non solo entra a far parte della sua famiglia reale adottato come figlio, ma secondo il discorso di Stefano negli Atti degli Apostoli, “venne istruito in tutta la sapienza degli egiziani ed era potente nelle parole e nelle opere” (7,22). È considerevole il fatto che “uno dei personaggi più significativi della religione di Israele sia stato educato non alla sapienza degli ebrei, ma a quella degli egiziani, che di certo nella storia non furono amici di Israele” (Spreafico). Un’idea di fondo soggiace a questo fatto: “il popolo più piccolo, più disprezzato dell’antichità è Israele, ed è per esso che invece che tutti i popoli vivono; non fanno altro che renderlo più ricco, come se fossero ordinati alla sua grandezza, alla sua persistenza; tutti i popoli gli girano intorno, tutti vivono per lui e non lo sanno” (Barsotti). Ogni cosa rientra in un progetto divino: non vi è realtà, per quanto apparentemente esterna e lontana da Dio, che non possa rientrare nel progetto di crescita del suo Regno.

    Sottolineiamo che ancora nella scena intervengono due straordinarie mediazioni deboli, sono due donne: una ebrea e l’altra egiziana.  Sono queste le protagoniste del racconto. Dio si serve realmente di tutto e di tutti!

    Un Dio che si serve di tutto e di tutti

    Si intravvede in tutto questo una sottile nota umoristica sulla modalità con cui Dio porta avanti il suo progetto.  Egli fa sì che il progetto del faraone sia capovolto, anzi la stessa corte del sovrano d’Egitto sarà il luogo in cui il liberatore degli ebrei verrà addestrato e preparato alla sua vocazione.

    Anche le acque del Nilo che dovevano inghiottire tutte le speranze di Israele, divengono strumento di salvezza per Mosè che vivrà così il suo primo attraversamento delle acque.

    Questi interventi divini e nascosti sembrano una spettacolare ironia nei confronti dei potenti della terra che si ritengono protagonisti ultimi delle vicende del mondo. Il messaggio è chiaro: Dio è capace di ribaltare proprio dall’interno le situazioni di male, egli è capace di tramutare gli strumenti di peccato in strumenti di salvezza. Il testo invece ci presenta un Dio che diffonde sulla storia umana i riflessi del suo sorriso, egli ribalta dall’interno le intenzioni malvage dei cuori umani e ne fa strumenti – spesso inconsapevoli – della propria storia di salvezza: “Ha rovesciato i potenti dai troni ha innalzato gli umili” canterà Miriam di Nazaret.  E il salmo 2 contempla il riso di Dio sulla storia:  Se ne ride chi abita i cieli, li schernisce dall’alto il Signore.

    Chiedo al Signore di poter contemplare e aver parte al suo sorriso sulle vicende umane, così ridimensionate alla luce della storia della salvezza. Chiedo la grazia di non spaventarmi dinanzi al rumore del male, ma di sorridere per il germoglio che spunta sempre tra le macerie. Speranza e sorriso sorretti dalla luce della pasqua del crocifisso risorto.

  • 20 Mar

    Il potere del Dio crocifisso

    di O. Clément

    il vero potere è quello del Dio crocifisso:
    un potere che vuole l’alterità dell’altro
    fino a lasciarsi uccidere
    per offrirgli la risurrezione.
    Perciò il potere assoluto
    s’identifica con l’assoluto del dono di sé
    ,
    con il sacrificio che comunica la vita agli uomini e fonda la loro libertà.

    RISCHI E PROMESSE DEL PLURALISMO

    Il dato di fatto del pluralismo

    Il pluralismo ereditato dal passato si è accresciuto considerevolmente nella nostra epoca a causa di grandi migrazioni economiche e politiche: si pensi al massiccio arrivo in Europa occidentale di musulmani, arabi del Maghreb, turchi, pakistani, di ebrei nordafricani (dopo quelli dell’Europa orientale) in Francia, e ancora in Europa occidentale di ortodossi russi, greci, romeni, serbi, antiocheni.

    D’altro canto, con la globalizzazione non solo economica ma anche culturale, proprio nel momento in cui la tecnica e lo stile di vita occidentali si stanno diffondendo nel pianeta, le religioni orientali (soprattutto il buddhismo) invadono l’Europa.

    Nel contempo, la lunga lotta dei “lumi” contro il clericalismo provoca un fenomeno generale di secolarizzazione (la Russia è più secolarizzata della Francia!) con una scomparsa delle “cristianità” tradizionali, sia per lenta dissoluzione (sul modello anglosassone, scandinavo, dell’Europa del nord – e ora dell’est -), sia per scissione interna (sul modello dell’Europa cattolica: Francia, Spagna, Italia…). Da cui la giustapposizione, che assume diverse forme, di cristiani più o meno impegnati e di agnostici, talvolta atei, talaltra indifferenti, altre volte anticlericali.

    Alcuni dati storici

    Mille anni di guerre di religione, i massacri degli ebrei (dall’inizio della prima crociata, ai pogrom russi, fino alla shoah), lo scontro incessante con l’Islam, mostrano con quale violenza l’Europa abbia rifiutato il pluralismo. Eppure questa istanza ha continuato a riaffiorare, anche se in modi molto diversi. Dapprima nel pluralismo non egualitario degli imperi più o meno multinazionali: coesistenza forzata e precaria nell’Impero ottomano [la dhimma, i millet] (l), giustapposizione difficile nell’Impero russo, pluralismo spesso più tollerato nell’Impero asburgico: con alcuni miracoli, sia nell’Islam quando esso non si sentiva minacciato e permetteva larghi scambi con i dhimmi – così nel Medio Oriente degli Omayyadi, e in seguito nell’ Andalusia medievale -, sia nell’ area subcarpatica, dai paesi romeni alla Bielorussia, con la corrispondente diffusione del neo-esicasmo e del neo-chassidismo, sia ancora in Austria e in Russia quando in esse si diffuse lo spirito di libera ricerca, alla fine del XIX secolo e all’inizio del XX: penso alla brillante cultura ebraica di Vienna, al ricorso dei filosofi religiosi russi alla spiritualità ebraica…

    D’altra parte, in Europa occidentale, con l’avvento dell’illuminismo, dopo la rivoluzione inglese e la rivoluzione francese, il pluralismo è stato legalizzato, le chiese hanno fatto a poco a poco 1’apprendistato della libertà, gli ebrei sono stati via via liberati da ogni statuto particolare. Nella nostra epoca i musulmani sono accolti, credenti e non credenti sono cittadini allo stesso titolo. Al crocevia di tutte queste correnti la Romania ha fatto anch’ essa, alla fine del XIX secolo e poi nella prima metà del XX, una certa esperienza di pluralismo: è sorprendente come gli ortodossi e i greco-cattolici abbiano largamente collaborato alla ritrovata coscienza nazionale e alla riunificazione del paese.

    Eppure, nel nostro secolo, il pluralismo rischia di essere compromesso in società che, mentre diventano urbane e industriali, conoscono nel contempo un certo vuoto spirituale a causa della trasformazione del patriottismo in nazionalismo, dato che la religione viene ridotta a una dimensione della cultura nazionale: da ciò deriva la scissione dell’Irlanda, il mito della giudeo-massoneria, i movimenti antisemiti in Francia, Germania, Austria e Russia, il blocco del religioso e del nazionale nelle rinascenti nazioni “ortodosse”… Le ideologie totalitarie, nazismo e stalinismo, hanno utilizzato, e per la prima volta esasperato, un antigiudaismo popolare sempre latente, mentre nel contempo squalificavano la razionalità moderna mettendola al servizio dei loro miti. Oggi, con il loro crollo e la vittoria delle concezioni democratiche, dei “diritti dell’uomo”, il pluralismo sembra avere la meglio, ma deve essere rifondato nell’inconscio collettivo. In questo consiste, forse, il nostro ruolo.

    [1] Dhimma (“protezione”) è il termine arabo con cui si indica il patto vigente tra la umma (comunità mondiale) islamica e gli appartenenti alle ahl al-Kitab (genti del Libro), vale a dire ebrei e cristiani. Con tale patto i dhimmi (cittadini protetti) ottenevano, in cambio del pagamento di un’imposta, l’autorizzazione alla residenza e la tolleranza della propria religione, anche se restava loro interdetta ogni forma di proselitismo. I millet sono invece le vere e proprie ripartizioni etniche in “nazioni” dei cittadini dell’Impero ottomano. Con la loro creazione le comunità non musulmane videro aumentare la propria autonomia, ma restarono comunità di inferiore dignità sociale rispetto alla umma islamica [N.d. T.].

    I rischi del pluralismo

    Ne vorrei sottolineare tre:

    a) le crisi d’identità;
    b) il “comunitarismo” come dissoluzione del corpo sociale;
    c) lo sviluppo dell‘indifferenza e del sincretismo.

    a) Non bisogna nascondere che il pluralismo urta la sensibilità popolare, spesso anche quella di certi teologi e responsabili di chiesa che idealizzano la società della cristianità e conservano la nostalgia di un appoggio dello stato. È particolarmente evidente per i paesi segnati dalla tradizione ortodossa, e per gli slavi occidentali segnati dalla tradizione cattolica, dalla Polonia alla Croazia. In tutti questi paesi il pluralismo appare come una delle espressioni della storia occidentale, artificialmente importata in società che non condividono un medesimo retroterra storico. È quanto ha spiegato il patriarca di Mosca Alessio II quando la recente legge sulle associazioni religiose è stata fortemente criticata in occidente: “Noi non abbiamo la stessa storia degli Stati Uniti”. Generalmente, in queste chiese dell’Europa centrale e orientale (cui la Romania, paese-crocevia, paese-frontiera, appartiene solo parzialmente), la globalizzazione, che è in fondo quella delle mentalità e dei costumi, scatena forti reazioni identitarie. Alla conferenza panortodossa che si è tenuta a Tessalonica nel maggio del 1998, cinque chiese – russa, ucraina, serba, bulgara e, naturalmente, quella georgiana, per la quale questo è già avvenuto – hanno espresso più o meno chiaramente l’intenzione di abbandonare il Consiglio ecumenico delle chiese, perché esso veicolerebbe tutto un pluralismo di contenuti moderni riguardanti tanto l’inculturazione della fede quanto le rivendicazioni delle minoranze sessuali (2). Tutto questo fa il gioco dell’estrema destra, ancora legata al vecchio mito della giudeo-massoneria, nato d’altronde nella Francia del XIX secolo.

    Il rigetto dell’altro, con la crescita del nazionalismo nei Balcani, può sfociare in guerre che assumono una coloratura religiosa, se non addirittura in fenomeni di “pulizia etnica”, dalla Turchia degli anni ‘20 alla Jugoslavia degli anni ‘90

    Anche nelle società dell’Europa occidentale l’altro è sovente sentito come il nemico. Diventa facilmente un capro espiatorio quando imperversa la disoccupazione. La memoria collettiva è lungi dall’essersi purificata da ogni antisemitismo e da ogni timore dell’Islam.

    b) Proprio in queste società dell’Europa occidentale, uno dei principali rischi del pluralismo è la dissoluzione del corpo sociale attraverso il fenomeno del “comunitarismo”. Si tratta della formazione di comunità religiose o etnico-religiose chiuse, con le loro scuole e le loro regole di diritto civile riguardanti soprattutto il matrimonio e lo statuto della famiglia. A questo si aggiunge spesso la concentrazione in un dato luogo geografico e la formazione di qualcosa di simile ai ghetti. Si tratta sovente – ma non sempre – di minoranze sfruttate che solo in questo quadro trovano conforto e solidarietà.

    I paesi anglosassoni accettano più facilmente questa situazione, mentre i paesi latini, specie la Francia, vi guardano con diffidenza perché il loro ideale resta l’integrazione. L’Islam, proprio perché non separa la realtà religiosa dalla realtà civile, tende spontaneamente al comunitarismo, ma anche certi movimenti ebraici, come quello di Lubavich, manifestano una tendenza analoga.

    Allora i valori comuni alla società non si possono più trasmettere, le reazioni prima difensive, poi aggressive, della popolazione maggioritaria si accentuano, a volte in modo molto maldestro (in Francia, il fatto del velo portato da alcune liceali musulmane).

    A questo si aggiunge il legame persistente di tali “comunità-ghetto” con paesi stranieri: Pakistan in Inghilterra, Turchia in Germania, Algeria in Francia (con tutto il drammatico peso che ne consegue), per non parlare del legame ambiguo di certi movimenti giovanili ebraici con lo stato d’Israele. La moltiplicazione delle antenne paraboliche mostra che sovente i membri di queste “comunità” hanno un radicamento culturale completamente diverso da quello che offre loro, nel bene o nel male, il paese nel quale si trovano a vivere.

    c) Le chiese, infine, temono che il pluralismo, nel contesto di una società secolarizzata, finisca per favorire lo sviluppo dell’indifferenza e del sincretismo.

    Le nostre società, è noto, sono tormentate da un desiderio di spiritualità – “spiritualità laica”, dicono anche alcuni -. Il pluralismo permette una specie di spiritualità “à la carte”, in cui ciascuno sceglie a caso incontri, letture, affinità. Gli attuali progressi del buddhismo in Europa occidentale (e del “tradizionalismo” alla Guénon (3) in Romania) non sono che aspetti di questa situazione. Essi ricordano la formazione del movimento dei quaccheri nell’Inghilterra di fine XVII secolo: dopo tanti scontri tra confessioni cristiane, il ricorso pacificante al silenzio e alla “luce interiore”. Oggi i cristiani parlano molto di amore ma o non ne danno mai l’esempio, o lo confondono con l’umanitarismo. E, in ogni caso, sembra che essi ignorino l’interiorità. Il buddhismo, invece, si presenta come una sapienza senza dogmi, come un metodo per raggiungere la pacificazione interiore e l’altruismo. Proprio esso, e altri apporti di provenienza asiatica (la “meditazione trascendentale”, per esempio) possono offrire una sorta di realizzazione inattesa al narcisismo occidentale.

    Più in generale, il pluralismo permette a molti di pensare che una cosa valga l’altra (e dunque, in un certo senso, che nulla abbia valore). La libertà responsabile, come ha sottolineato, dopo Dostoevskj, Nikolaj Berdjaev, è difficile da portare. Allora ci si butta nella religiosità fusionale delle sette e nell’ adorazione dei guru, questo surrogato di paternità in una società senza padri.

    Tutto sommato, questa situazione spaventa le chiese e accresce in molti la nostalgia di un buon potere: il potere del papa per i cattolici, il potere di uno stato sacralizzato per gli ortodossi, il potere interiorizzato del puritanesimo e del fondamentalismo per i movimenti” evangelici”…

    [2] Cf. il resoconto in SOP 229 (1998), p. 5.

    [3] René Guénon (1886-1955), pensatore e studioso delle religioni. Il suo pensiero costituisce uno sforzo per tornare alla tradizione primordiale, sacra, fuori del tempo, e al di là delle religioni tradizionali nelle quali Guénon individua delle deviazioni. Le religioni orientali, però, secondo quest’autore, hanno mantenuto il loro attaccamento ai principi metafisici universali e possono aiutarci a ritrovarli [N .d. T.].


    Le promesse del pluralismo

    Il pluralismo ci porta ad approfondire l’evangelo, a scoprire il pieno significato della relazione, a sviluppare il paradigma di una civiltà planetaria e nel contempo plurale.

    a) Rileggiamo l’evangelo. Gesù appare come un’ esistenza fraterna e filiale nel grande soffio di vita che noi chiamiamo Spirito santo. Egli testimonia di un Dio che è in Cristo stesso comunione e fonte di ogni comunione. È questo modo di essere, questa esistenza personale in comunione il suo apporto al cuore del mondo, ed egli ce ne fa dono in germe trionfando, con la sua risurrezione, sulle forze della separazione e del nulla. Egli rifiuta ogni contrapposizione fissa tra iniziati ed esclusi, tra buoni e cattivi. Sostituisce, al fondo di noi stessi, l’angoscia della morte con la gioia della risurrezione, in modo che non abbiamo più bisogno di nemici per farne i capri espiatori delle nostre paure, e che dobbiamo, paradossalmente, “amare i nostri nemici”.

    Perciò l’evangelo pone la persona e la comunione tra le persone al di sopra di ogni sistema, di ogni idea, anche del bene. Gli ideologi invece – e soprattutto forse gli ideologi delle religioni vogliono imporre il bene con la forza, al limite con la morte. Gesù irradia, con il rispetto e con l’amore, la pienezza della vita. “Il sabato è stato fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato” (Mc 2,27). Gesù va dritto al cuore, alla persona, svela il volto al di là della maschera, la maschera del partigiano nello “zelota”, del collaboratore nel pubblicano, dell’eretico nel samaritano, dell’impurità nella donna adultera o nella samaritana che ha avuto cinque mariti e vive con un uomo che non è suo marito. Nella forza dello Spirito, l’uomo intuisce da quel momento in Cristo che gli altri esistono. Si rifiuta di strumentalizzarli, di etichettarli: “Non giudicate e non sarete giudicati” (Lc 6,37).

    b) Se l’essere in quanto tale è relazionale, se la verità s’inscrive, da persona a persona, in una relazione, dal momento che, dice Paolo, bisogna “fare la verità nella carità” (Ef 4,15), essa non può essere né posseduta, né diventare un mezzo per trasformare l’altro in oggetto che si possiede. Gli ideologi che pretendono di possedere la verità hanno giustificato e giustificano tutti i massacri. E questo fu anche il peccato, l’enorme peccato, delle sedicenti società cristiane.

    Per noi, cristiani che rileggono l’evangelo, il pluralismo non può consistere solo nel fatto di sopportare l’esistenza dell’altro, ma nel comprendere e amare ciò che costituisce il senso di quell’esistenza. La vera relazione non deve cercare la simmetria: “Se amate quelli che vi amano, che merito ne avrete?” (Lc 6,32), chiede Gesù.

    Io sono responsabile dell’ altro“, ha scritto un grande filosofo ebreo, Emmanuel Lévinas, “senza attendermi la reciprocità, dovesse anche costarmi la vita“. La reciprocità non è affar mio, ma dell’altro.

    I padri greci, riflettendo sull’ evangelo e sulle grandi intuizioni paoline, e i filosofi religiosi ortodossi della prima metà del nostro secolo, riflettendo anche sulla nozione dell’Adam qadmon nella mistica ebraica, hanno affermato che esiste un Uomo unico, nel senso più realista, in una moltitudine di persone.

    Dobbiamo cercare di vivere questa stupefacente visione. Sappiamo che lo Spirito è ovunque al lavoro e che il Verbo, come dicevano i primi apologisti, visita, ispira, sotto molti nomi, tutte le culture, tutte le religioni. La Sapienza divina è presente nelle tradizioni dell’Estremo oriente che mettono l’accento sulle teofanie cosmiche e l’interiorità del Sé. La Sapienza divina è presente nella rivelazione della Torà, parzialmente ripresa dal Corano, nella Legge che condanna l’idolatria e l’omicidio e sottrae l’uomo alle sue pulsioni contraddittorie. La Sapienza divina è presente nella volontà di coscienza critica e di libertà dell’illuminismo moderno, specie quando tali volontà si realizzano nella capacità di dialogare e di formulare ipotesi, nell’esplorazione instancabile della materia, del cosmo, della psyché. Come cristiani abbiamo bisogno di tutte queste dimensioni del mistero, e, certo, nutriamo la speranza di poter aiutare gli uomini dell’interiorità ad aprire gli occhi per vedere l’altro nella sua assoluta realtà; nutriamo la speranza di poter aiutare gli uomini della trascendenza e della Legge a comprendere, fin dentro la loro stessa sofferenza, la kenosi di Dio; nutriamo la speranza di poter aiutare gli uomini dell’umanesimo a comprendere che al confine dell’umano – dove forse ci troviamo – non vi è più che la scelta tra il nulla e l’uomo “microcosmo e mikrotheos“, per citare, con Nikolaj Berdjaev, Gregorio di Nissa. A condizione di lasciarci aiutare da tutti costoro a essere più pienamente, più lucidamente noi stessi.

    Che i cristiani si facciano garanti della fede degli altri, garanti anche della libertà di coloro che tentano semplicemente di essere umani! Che siano i custodi dell’uomo aperto, in una cultura aperta!

    Forse, nell’immediato, la condizione fondamentale per il pluralismo, in Europa, è la rinuncia da parte delle chiese a usare il potere dello stato e a lasciarsi usare da esso. Le categorie del potere non sono categorie cristiane. Un cristianesimo post-ideologico non ha nulla a che vedere con esse. La funzione dello stato, per riprendere un detto di Soloviev, non è quella di trasformare la società in paradiso, ma di evitare che essa divenga un inferno. Lo stato di diritto trova il suo significato e il suo raggio d’azione nel ridurre il più possibile la violenza, assicurando la libertà di associazione e la libertà di coscienza, e anche nel vegliare sulla trasmissione di un’etica i cui valori siano largamente biblici, e forse anche coranici (la laicità di questo punto di vista potrebbe essere, in Europa, la chance dell’lslam!).

    c) Il ruolo delle chiese, nell’elaborazione di una civiltà pluralista, è senza dubbio quello di convocare lo spirituale al cuore di tutte le forme di esistenza, come un fermento, un appello, un’ispirazione creatrice; evocarlo, proporlo, senza mai nulla imporre poiché “bisogna rendere a Dio ciò che è di Dio e a Cesare ciò che è di Cesare”. Cosi si approfondirà il pluralismo, fino a quella che un grande filosofo francese contemporaneo, Paul Ricoeur, di tradizione protestante, ha chiamato “una tolleranza senza scetticismo.

    Una professione di fede trionfalistica e gridata ai quattro venti ha un qualcosa d’impudico. Una fede maturata attraverso la lunga, gioiosa, dolorosa esperienza di una vita si esprime anzitutto nel silenzio. O a mezza voce, o nello humour, nel paradosso, nella poesia. “Una lingua dolce spezza le ossa” (Pr 25,15) dice il sapiente. E permette di testimoniare senza ferire. Scrive Michel Serres: “Dio è il nostro pudore, e noi dobbiamo proteggerlo … Ciò che egli ha d’infinito, è la sua fragilità. Perciò può essere protetto solo in ciò che vi è di più nascosto in noi”. L’incontro con le grandi religioni, nello spirito di ricerca e di dialogo di un umanesimo aperto, permetterà forse l’avvento di un nuovo paradigma per una civiltà planetaria e nel contempo plurale.

    Per concludere vorrei citare monsignor Pierre Claverie, vescovo di Orano assassinato da alcuni integralisti: “Sono giunto alla convinzione che l’umanità è solo plurale e che quando pretendiamo… di possedere la verità, cadiamo nel totalitarismo e nella discriminazione… Si può accedere (alla verità) solo con un lungo cammino … raccogliendo qua e là nelle altre culture, negli altri tipi d’umanità ciò che anche gli altri hanno acquisito, hanno cercato nel loro particolare cammino verso la verità… Dio non lo si possiede, così come non si possiede la verità, e io ho bisogno della verità degli altri” (4). Proprio questa è la rivelazione ultima: Dio è “Mistero e Amore”, “Vita” e “Luce della Vita” .

    [4] “Humanité plurielle”, in Le Monde, 4-5 agosto 1996.


    IL POTERE E LA FEDE:
    LA PERSONA NELLA SOCIETÀ

    Cercherò ora di parlare della relazione tra il potere e la fede. Dapprima mi chiederò cosa significhino queste due parole. Poi insisterò sull’apporto originale del cristianesimo. Infine, porrò la domanda su come, anche oggi, un cristiano possa tentare di esercitare e la critica e la pratica del potere.

    Quale potere, e quale fede?

    Ogni uomo, per il fatto stesso della sua esistenza, detiene un potere, è potere. Ogni uomo si afferma di fronte al nulla e di fronte all’ altro. In virtù del suo essere stesso, egli esercita un’azione sul suo ambiente e sul mondo.

    Il racconto simbolico delle origini, nella Genesi, sottolinea questo potere: “Dio disse: facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza, … e domini…” (Gen 1,26). “Dio creò l’uomo a sua immagine … maschio e femmina li creò. Dio li benedisse e disse loro: … riempite la terra, soggiogatela e dominate…” (Gen 1,27 – 2 8). Il vocabolario della sovranità non dev’essere interpretato qui nella prospettiva della nostra caduta, cioè di una violenza distruttrice, ma in una prospettiva “eucaristica , di trasfigurazione. In quel dono di un potere creatore risiede la somiglianza originaria dell’uomo con Dio. Una forza buona, vivificante, gli viene offerta. La paternità-maternità che assicura al bambino gli apprendimenti indispensabili – e innanzi tutto quello del linguaggio -, tra l’ascesi e la tenerezza, la distanza e la vicinanza; il potere nella società, per assicurare un minimo d’ordine e di pace, che permetterà la trasmissione di una cultura, di una memoria, e dunque la volontà di un avvenire comune; la conoscenza e la creatività come tensione alla bellezza e alla spiritualizzazione del mondo… tutto questo è potere, sovranità dell’essere, come il libero slancio di un cavallo o la forte stabilità di un albero. Con in più, nell’uomo, la coscienza e il linguaggio, il linguaggio come apertura della coscienza, capacità di fare del mondo un’offerta e una condivisione, un dialogo degli uomini tra di loro e con Dio.

    Ma sappiamo bene che c’è anche, come qualcosa che misteriosamente precede le nostre scelte, il mistero del male. C’è il peccato come distruzione originale e permanente del rapporto ancora più originale d’amore con Dio. Allora sopraggiunge l’orgoglio di possedere se stessi, e la potenza buona dell’essere è parzialmente vampirizzata dalla sete di dominio e di oppressione dell’altro. Separato da Dio, dunque votato alla morte, l’uomo cerca di dimenticare la sua precarietà esercitando il dominio. Egli ha bisogno di schiavi per credersi dio, cioè immortale, lui che è schiavo della morte. Nel De civitate Dei Agostino ha sviluppato questa dialettica tra l’impotenza segreta e la violenza ostentata.

    Bisogno di schiavi, bisogno dunque di nemici. René Girard ha mostrato come, nella maggior parte delle società, la violenza, che mina quando addirittura non impedisce la vita comune, sia respinta alle frontiere, esorcizzata con la messa a morte del capro espiatorio. L’uomo proietta la sua angoscia sull’ altro e lo uccide per uccidere la propria angoscia.

    Il potere, originariamente di vita, diventa così potere di morte. Fino a oggi, fino alla “monarchia atomica” del presidente della repubblica francese, la stessa definizione di potere è proprio di questo tipo: la capacità di dare la morte. Una sorta di sacralità circonda quindi il potere. “Anche un semplice agente di polizia suscita sentimenti diversi rispetto a un normale uomo in giacca” – o in jeans -, notava Nikolaj Berdjaev. E per lui l’esercizio del potere decaduto, potere di violenza e di dominio, è legato a una specie d’ipnosi nelle masse…

    Nel mondo precristiano, la divinizzazione del potere si realizzava apertamente. Si pensi all’ apoteosi dell’imperatore romano, dichiarato Divus e Pontifex maximus. Il potere che si divinizza e vuole farsi adorare è idolatrico: è la denuncia costante della Bibbia, da Nabucodonosor alla bestia dell’ Apocalisse, che allude al culto di Cesare e della dea Roma. Idolatria alla quale la modernità si è riaffacciata a partire dalla concezione hegeliana, comunemente diffusa, della manifestazione dello spirito assoluto nella storia come divenire collettivo, manifestazione che si è pienamente incarnata nei totalitarismi del nostro secolo.

    Ora, per il Nuovo Testamento e per san Paolo in particolare, le potenze demoniache sono invisibilmente ma molto realmente presenti sullo sfondo della storia. I “dominatori di questo mondo” (1Cor 2,8) non sono soltanto i sovrani terreni ma quegli angeli ambigui o chiaramente decaduti che fanno del potere idolatrico una vera possessione.

    Ormai abbiamo in mano gli anelli della catena:
    – la vertigine della morte e il potere di dare la morte;
    – il bisogno di schiavi e di nemici;
    – l’esercizio sulle masse di una sorta d’ipnosi e di possessione magica con un potere i cui stessi detentori sono dei posseduti (l’ultimo anello si ricollega al primo).

    E tutto questo si mescola con la potenza buona dell’essere, catturandone e deviandone l’energia senza però giungere a sopprimerla, perché l’uomo resta a immagine di Dio ed è proprio il dinamismo dell’immagine che, deviato, suscita il desiderio di auto-deificazione, di auto-idolatria. Il potere è così nel contempo il riflesso dell’ assoluto e la sua caricatura, la sua usurpazione demoniaca.

    Una simile deformazione coesiste con una deformazione simmetrica della fede. Nelle società arcaiche, comprese, fino ai rivolgimenti contemporanei, l’India e la Cina, la fede, gravitante sull’interiorità impersonale, cementa culture che vogliono restare immobili, che si fissano in gerarchie e caste, e fanno sentire inferiori o addirittura espellono i devianti. La storia non è arricchita, ma è negata, ridotta a un processo di degradazione dove sarebbero possibili solo delle “restaurazioni” sempre più problematiche. L’interiorità buddhista in particolare è una voragine nella quale culture intere sono state inghiottite…

    Completamente diversa è la rivelazione biblica, semitica, del Dio personale, che alimenta, sino a oggi, il dinamismo della storia universale. Nella misura in cui ignora – oppure dimentica – la distinzione tra regno di Dio e regno di Cesare, essa scatena, attraverso la fede, una violenza conquistatrice: sia per assicurare la “terra promessa” al “popolo eletto”, sia per imporre la verità agli infedeli. Islam e cristianità si sono affrontati in preda alla stessa confusione. La violenza dell’occidente, o della Russia, ha troppo sovente appoggiato la missione cristiana.

    La secolarizzazione della fede in ideologia nazionalista, nel XX secolo, esaspera ancora di più questa violenza distruttrice. Giacché la fede, quando degenera in semplice appartenenza, quando si lega al desiderio di semplificazione per questo stesso fatto non è più altro che fanatismo. Per questo oggi così spesso la si teme: la cristianità ha lasciato il ricordo dell’Inquisizione, le ideologie totalitarie quello dei campi di sterminio, il risveglio dell’Islam non avviene senza aggressività, il sionismo di destra si mostra ciecamente conquistatore, i nazionalismi religiosi, specie nel mondo ortodosso, sono i più temibili.

    La rivoluzione di Cristo

    La fede della quale vorrei ora parlare è la fede evangelica, la fede propriamente cristiana. Adesione personale a una presenza personale velata-svelata: quella del Dio misterioso, inaccessibile, che si rivela, si dona, si rende partecipabile in Gesù Cristo, senza perdere per questo il suo mistero. L’insegnamento evangelico, distinguendo il regno di Dio e il regno di Cesare, apre lo spazio della libertà dello spirito, della libertà della persona. Il regno di Cesare è insieme desacralizzato, delimitato e orientato. Legittimo nel suo ordine, è illegittimo quando pretende di farsi adorare, quando si presenta come una realtà totalizzante, pseudo-divina. Quanto al regno di Dio, “esso non è di questo mondo”, non si manifesta secondo le modalità di questo mondo, secondo il suo potere di morte. Tuttavia misteriosamente, sacramentalmente, trasformando i cuori (cioè, nel linguaggio biblico, le intelligenze), esso feconda il mondo in quanto creazione di Dio, mentre lo contesta e lo mina in quanto rete d’illusioni, di menzogne e di seduzioni.

    Nella prospettiva evangelica, il vero potere è quello del Dio crocifisso: un potere che vuole l’alterità dell’ altro fino a lasciarsi uccidere per offrirgli la risurrezione. Perciò il potere assoluto – quello di Dio, del Pantokrator -, s’identifica con l’assoluto del dono di sé, con il sacrificio che comunica la vita agli uomini e fonda la loro libertà. Il Dio incarnato è “colui che dona la propria vita per i suoi amici” e prega per i suoi carnefici.

    Il potere di Dio significa il potere dell’ amore. Per “follia d’amore”, colui che è la Vita in pienezza diventa per noi la vita al cuore della morte. “Ho il potere di offrirla (la mia vita) e il potere di riprenderla di nuovo” (Gv 10,18), dice Gesù. Di questo paradosso divino che trascende le antinomie della creazione decaduta, quella della vita e della morte, della consegna di sé e dell’ affermazione di sé, di questo paradosso che è il paradosso stesso dell’ amore, così debole nella sua sovranità, così sovrano nella sua debolezza, noi troviamo un’espressione mirabile, fortemente messa in risalto, in Paolo: “È piaciuto a Dio di salvare i credenti con la stoltezza della predicazione … perché… ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini … Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti” (1Cor 1,21-28).

    La kenosi, lo svuotamento volontario del Dio incarnato, rivela la vita stessa della Trinità. Quando Giovanni, nel prologo del suo evangelo, ci parla del Verbo pròs tòn Theon, rivolto verso il Padre, ci mostra un Dio che si apre, un Dio nel quale l’Uno non esiste senza l’Altro, nel sacrificio gioioso di ciascuno perché l’altro esista. Un Dio che si apre, un Dio che si dona: il fatto che il potere di Dio sia quello dell’ amore implica una limitazione volontaria che Dio s’impone per dare all’uomo (e all’angelo) uno spazio per la sua libertà. O piuttosto, è in questa limitazione che risiede l’autentica onnipotenza, che si esprime il mistero di Dio come dono di sé, umiltà, rispetto dell’altro fino alla croce: “L’Agnello è immolato fin dalla fondazione del mondo” (cf. Ap 5,6; 13,8).

    Per questo il mistero della debolezza di Dio è quello della sua autentica onnipotenza: mistero messo in luce con la vita, la passione e la croce di Gesù, mistero nascosto nell’ essenza profonda della chiesa, nell’ esistenza crocifissa dei santi.

    Nel corso degli attacchi che dovette subire, Gesù fu sicuramente tentato nella sua piena umanità, assunta nel contesto di un popolo e di un’ epoca ossessionati da un messianismo combattivo, di prendere di persona il potere per le vie della violenza. Fu l’ultima seduzione che egli respinse nel deserto. In Galilea, era circondato da un potente movimento popolare che voleva “venire a prenderlo per farlo re” (Gv 6,15). Fu allora che decise di concentrarsi sul “piccolo gregge” dei suoi discepoli, e di andare a portare la lotta al cuore stesso del potere: a Gerusalemme, sede del potere religioso ebraico, che si serviva di Dio per asservire l’uomo, e sede del potere politico romano, che asserviva l’uomo per farsi Dio. Allora ci furono la croce, la risurrezione, la pentecoste, l’effondersi della grazia come forza semplicemente buona, vivificante, al di là delle ambivalenze del mondo decaduto in cui non c’è mai vita senza morte, amore senza odio, forza senza violenza…

    In Cristo, sotto l’influsso dello Spirito, siamo chiamati a partecipare a questa forza, a questo potere sacrificale e salvifico. “A quanti l’hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio” (Gv 1,12). Il “se tu puoi qualcosa” del padre disperato provoca la risposta: “Tutto è possibile per chi crede” (Mc 9,22-23). Né l’uomo senza Dio, né Dio senza l’uomo: in Cristo non vi è separazione né confusione tra di loro. Per questo al “senza di me non potete far nulla” (Gv 15,5) di Cristo corrisponde il grido di giubilo di Paolo: “Tutto posso in colui (Cristo) che mi dà la forza” (Fil4,13). E ancora, leggiamo nell’ evangelo: “Qualunque cosa chiederete nel nome mio, la farò” (Gv 14,13). “Se avrete fede pari a un granellino di senapa … niente vi sarà impossibile” (M t 17,2 o).

    Alla dialettica tra l’impotenza e la violenza subentra la dialettica tra la debolezza e la forza: in Cristo, l’uomo ritrova la sua vocazione di creatore creato, teso alla manifestazione del regno già segretamente presente. “La mia potenza si manifesta pienamente nella debolezza” (2Cor 12,9).

    L’uomo che s’identifica al crocifisso, riceve la forza del risorto: “lo mi compiaccio negli oltraggi, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: quando sono debole, è allora che sono forte” (2Cor 12,10). Nella tradizione degli anawim, e più in particolare di Amos, di Geremia, di molti salmi, i “miti”, i “poveri”, gli “umili” dell’Antico Testamento sono chiamati “beati” nelle Beatitudini, perché fanno posto a Dio in se stessi, perché offrono uno spazio allo Spirito santo. Per questo Maria, nel suo cantico di lode, celebra gli “umili”, quelli che si sono svuotati per Dio, aperti a Dio, e che egli ha potuto innalzare proprio mentre rovescia i “potenti” dai loro troni, troppo appesantiti e troppo pieni di sé, troppo ricchi, nei quali egli non può trovare spazio.

    Il potere di Cristo, potere della fede e dell’umiltà, si esprime come servizio. Il testo decisivo, su questo punto, è quello di Lc 22,25-27: «Egli disse: “I re delle nazioni le governano, e coloro che hanno il potere su di esse si fanno chiamare benefattori. Per voi però non sia così; ma chi è il più grande fra voi diventi come il più piccolo, e chi governa come colui che serve. Infatti chi è più grande, chi sta a tavola o chi serve? Non è forse colui che sta a tavola? Eppure io sto in mezzo a voi come colui che serve”».

    Il potere “che serve” diventa, nel senso etimologico della parola, autorità; auctoritas viene dal verbo augere che significa far maturare, far crescere. Cercare di sottomettersi a ogni vita per farla crescere in pienezza.

    La vittoria di Cristo sulla morte trasforma al fondo del nostro essere l’angoscia in gratitudine. I padri della chiesa, specie i padri ascetici, rivelano che le due “passioni-madre” sono l’avidità e l’orgoglio, queste risorse del potere decaduto, e più in profondità ancora, “la paura nascosta della morte”. Ma se siamo veramente risuscitati nel Risorto, se la morte è già alle nostre spalle, sepolta nelle acque del battesimo, allora non abbiamo più bisogno né di schiavi né di nemici per proiettare su di loro la nostra angoscia e il nostro desiderio di essere Dio: Dio, noi lo siamo umilmente in Cristo, siamo cioè capaci di amare.

    Perciò ci viene manifestata tutta l’importanza del comando evangelico di amare i nostri nemici: Ma a voi che ascoltate io dico: amate i vostri nemici, fate del bene a coloro che vi odiano, benedite coloro che vi maledicono, pregate per coloro che vi maltrattano…

    Amate i vostri nemici, fate del bene e prestate senza sperarne nulla, e il vostro premio sarà grande e sarete figli dell’ Altissimo; perché egli è benevolo verso gli ingrati e i malvagi. Siate misericordiosi, come è misericordioso il Padre vostro (Lc 6,27.35-36).

    Si tratta di spezzare il circolo infernale dell’aggressione e della vendetta che, a sua volta, provoca una nuova aggressione più violenta, e via di seguito. Gesù non si è accontentato di assumere questo atteggiamento: egli ci ha resi capaci di farlo nostro grazie alla sua croce, alla sua risurrezione e al dono dello Spirito. Mediante la grazia della croce infatti, anche il fallimento, anche la morte possono far nascere il regno.

    Esercitare il potere della fede?

    Oggi i cristiani sono ovunque minoritari e non possono pretendere di guidare la società. L’ideale – raramente realizzato nella storia – del “santo principe”, del “re cristiano” che monopolizzava il sacerdozio regale del popolo di Dio, che accettava la chiesa come limite interiore e ispirazione del suo potere, infine e soprattutto, se ce ne fosse stato bisogno, che “donava la vita per i suoi amici”, questo ideale appartiene a una simbologia che ha esaurito il suo compito. O piuttosto deve essere interiorizzato, assunto da ogni cristiano, la cui vocazione è quella di essere “re, sacerdote e profeta” (cf. lPt 2,9). lo cercherò d’individuare qui tre itinerari di servizio e d’impegno.

    Comunicando al corpo “donato” da Gesù, al suo sangue “versato”, i cristiani devono mettersi in sintonia con le sue esigenze e il suo esempio profetico. Ormai il rifiuto del dominio diventa un segno distintivo della loro appartenenza a Cristo. È al cuore del pasto eucaristico che Luca pone la discussione tra i discepoli per sapere “chi è il più grande” (cf. Lc 22,24-27). Infatti il pasto eucaristico ha proprio lo scopo di suscitare tra i discepoli una nuova prassi, opposta a questo gioco d’ambizioni. Non è la grandezza quello che Gesù rifiuta, qualsiasi masochismo sarebbe di troppo. Ma: “Colui che vorrà diventare grande tra voi, si farà vostro servo” (Mt 20,26). La vera grandezza non è nel dominare, ma nel servire.

    La comunità eucaristica deve testimoniare – tentare di testimoniare -, in tutti gli ambiti questo spirito di servizio e questo rifiuto del dominio diventando, nella nostra epoca, in Europa occidentale, a misura d’uomo e permettendo una vera convivialità.

    Questo implica uno stile particolare delle relazioni interne in seno all’istituzione ecclesiale. I poteri conferiti a certe funzioni ministeriali sono altrettante ri-proposizioni del potere di Cristo, che è il potere dell’ amore. “Pascete il gregge di Dio che vi è affidato… non spadroneggiando sulle persone a voi affidate, ma facendovi modelli del gregge” (1Pt 5,1-3). In seno alla comunione prende così forma una paternità sacrificale e liberatrice, capace di orientare risolutamente senza umiliare, ma con l’intento di far crescere diffondendo lo Spirito, facendo circolare la vita. Un segno per il mondo, un modello altro: “Per voi, non è così”. Fondata sull’offerta, la comunità eucaristica dovrebbe conoscere la vanità del possesso, l’alienazione del desiderio attraverso l’avere, attraverso la moltiplicazione dei bisogni.

    Chi ci darà delle comunità nelle quali nel distacco (che si traduce concretamente nel rifiuto della corsa ai beni e al prestigio, nella semplicità e nella frugalità dell’esistenza) s’irradia la gioia dell’incontro, incontro di Dio e – cosa che ne è il segno e la posta in gioco incontro dei fratelli? … Questa gioia sarà, per tutti quelli che sono ingannati dalle fallaci promesse di una società fondata sulla modalità dell’ avere, un interrogativo su se stessi e sulla verità del loro desiderio, l’appello a una metanoia – una conversione – liberatrice (1).

    Uno stile simile esige da ciascuno un’ascesi insieme di distacco e di simpatia, il che suppone la presenza, non ai margini ma al cuore stesso della chiesa, di gente che rinuncia, di monaci che, con la loro povertà e umiltà volontarie, lascino spazio alla forza buona della grazia e assicurino ai credenti quei padri o quelle madri spirituali che testimoniano della paternità materna di Dio e ne trasmettono il Soffio. I cristiani che rinunciano anticipano il “mondo a rovescio” delle Beatitudini.

    È importante che ogni comunità cristiana – una parrocchia, un movimento, un monastero – sia un luogo di condivisione discreta ma efficace a favore dei più abbandonati, credenti o non credenti poco importa, nell’ ambito della città, del quartiere, della relazione stabilita con un certo settore particolarmente provato dei paesi dell’est o del terzo mondo.

    In Russia, oggi, le iniziative sono numerose in questo campo. È certamente più difficile per le nostre piccole comunità ortodosse della diaspara, la misura non è la stessa, spesso si rende necessaria la collaborazione ecumenica. In ogni modo dobbiamo inventare, aprire gli occhi su una miseria crescente, offrire, anche poveramente. Ci è necessario, e già alcuni lo fanno, ritrovare quel legame tra il “sacramento dell’altare” e il “sacramento del fratello”, del quale parlava Giovanni Crisostomo. Non si tratta di sostituire il sacramentale con il sociale, il che porterebbe a fare del cristianesimo una variante sentimentale dell’umanitarismo, ma di mostrare il carattere sacramentale del sociale, della diaconia, e di fondare nella comunione ecclesiale questo istinto di solidarietà, cosi forte presso molti dei nostri contemporanei, soprattutto tra i giovani.

    Collocare il politico nel giusto ambito è riconoscerne la necessità e insieme la relatività. La logica totalitaria identificava il potere con l’assoluto, il potere con un sapere che negasse ogni autonomia del politico. La logica liberale comporta, di fatto, l’identificazione quasi assoluta del potere con il denaro. Da qui nascono gli innumerevoli scandali che scuotono le nostre società e squalificano i responsabili politici. Invece di riproporre il luogo comune della politica come alienazione, del potere come fatalmente oppressivo, il nostro compito è quello di ripensare il politico, rifondare il potere politico nel suo obiettivo autentico: garantire le libertà e ostacolare la violenza distruttiva. Vladimir Soloviev diceva che il ruolo del potere non è quello di trasformare la società in un paradiso, ma di evitare che essa diventi un inferno. Vorrei citare qui due pensatori francesi contemporanei, entrambi cristiani: un economista, François Perroux, e un filosofo, Claude Bruaire. François Perroux, in Pouvoir et économie, scriveva: “La politica inizia nel punto in cui la violenza cessa”. Lo stato ha il compito di preservare, in determinate condizioni storiche, la vita e la libertà di ogni essere umano e di preconizzare un potere politico” distante dai singoli interessi, capace di orientarli e/o di fare da arbitro tra di loro”. A questo arbitro sono affidati gli obiettivi e i mezzi che non possono essere semplicemente contabilizzati, “ciò che, di conseguenza, non può avere mercato. È esso (lo stato) che, nella sua sfera, protegge gli uomini dall’invasione del mercato, li mette in condizioni favorevoli per resistere alla ‘mercificazione’ dell’ essere umano” (2).

    Claude Bruaire, in La raison politique, individuava il ruolo del politico nello scongiurare la violenza, nella misura in cui esso dà diritto e forza alla giustizia e alla libertà. “Voler abolire ogni forma di potere politico è disprezzare la libertà per instaurare la violenza, assicurandole il dominio”. Il politico non si definisce dunque da ciò che è, ma dai legami che instaura, dai valori che salvaguarda. Non compete al potere politico esprimere un sapere assoluto, creare una religione o dei sindacati, ma permettere la libertà dello spirito, l’osservanza religiosa e l’esercizio dei diritti sindacali. Compito del suffragio universale non è opprimere la minoranza. Ogni minoranza deve essere protetta dal potere e ogni opposizione legale non soltanto legittimata ma favorita per permettere la critica e il dialogo. Si delinea così l’ideale, sempre da difendere, sempre da reinventare, dello stato di diritto nel quale, diceva Bruaire, “la legge, ed essa sola, permette al potere di essere simultaneamente interno ed esterno alla società” (3) della quale è arbitro, e senza il libero consenso della quale non sarebbe nulla.

    Collocare il potere nel giusto ambito significa dunque contemporaneamente delimitarlo e ispirarlo. Il suo limite “esterno” (a proposito del quale si può parlare di “contro-poteri”) non può essere che una società civile solida, nella quale si moltiplicano comunità e associazioni autonome, dove la famiglia è incoraggiata e salvaguardata. Il suo limite “interno” potrebbe essere invece l’esistenza di un’ etica testimoniata da una, o diverse, élite di irradiamento, prive di potere concreto, ma forti di una vera autorevolezza. Con il crollo delle ideologie e dei miti, mi sembra che stiano emergendo alcune tematiche fondamentali: quella della persona irriducibile, chiave di volta inoggettivabile, non concettualizzabile, di una moltitudine di approcci, tutti necessari; ad esempio l’ homo oeconomicus, ma anche l’homo ludens e l‘homo adorans. Un’ altra tematica, con la scomparsa della civiltà contadina, è quella di un atteggiamento positivo, ormai cosciente e volontario, nei confronti della natura. O ancora il rispetto incondizionato della persona e delle complesse relazioni tra le persone costituite dalle lingue, dalle nazioni, dalle culture; un nuovo patto nuziale con la terra; la nascita di un’umanità europea e di un’umanità planetaria, non con la cancellazione, ma con la salvaguardia della loro diversità: questi sono ormai i nostri valori e i nostri compiti.

    In quest’ambito si colloca, come si può facilmente intuire, il ruolo indispensabile del cristiano come “sentinella” – in conseguenza del quale il potere della fede può manifestarsi come “contro-potere” -, ma anche come “ispiratore”, e il potere della fede può manifestarsi allora come profezia. La chiesa, o il “consiglio delle chiese”, a seconda dei tempi e dei luoghi, è chiamata a diventare a suo rischio, con umiltà e fermezza, la coscienza della società. Coscienza che propone senza imporre, a rischio di un’emarginazione manifesta, quando non addirittura di una persecuzione, più o meno scoperta. Solo la coscienza cristiana può far emergere, tener viva continuamente una tensione vivificante tra le pesanti realtà della questione sociale e la visione evangelica del potere come servizio. Il vasaio deve avere le mani coperte d’argilla, deve conoscere le regole e i gesti che gli permettono di plasmare bene, ma non farà nulla che valga senza un’ispirazione superiore.

    Per questo l’attuale ricerca di un’ etica capace di delimitare e di orientare il politico esige più che mai la testimonianza e la forza della nostra fede. Certo si può, come scriveva André Glucksmann (4), abbandonarsi al meccanismo del cinismo e del sentimento. Il sentimento occidentale, secondo lui, consisterebbe nell’ evitare il cinismo senza dimenticarne il messaggio, il suo obiettivo morale nel fuggire il male di cui ci si sa capaci sin dai tempi dell’Orestea di Eschilo (io aggiungerei, con René Girard, da quando la Bibbia ha osato chiamare assassinio l’uccisione di Abele…). Ma perché? Perché in definitiva preferire la morale di Kant alla contro-morale del “divin marchese” de Sade? Come smontare il nichilismo e il sarcasmo che regnano nelle nostre società? Certo solo la grazia, riconosciuta o semplicemente intuita, permette la libera e gratuita apertura all’ altro, a colui che è diverso da me, e l’intuizione del mistero delle cose divenute ad un tratto delle presenze. Ispirazione spirituale, o quasi-poetica, essa convince l’individuo a intraprendere le vie della trasfigurazione e della comunione. La grazia non comanda, non organizza, ma ispira. Non si tratta di una tecnica della non-violenza, che può essere anch’essa moralmente aggressiva e farisaica: si tratta di rendere operante una forza buona venuta da altrove. Per Gandhi, per esempio, questo indù rimasto sconvolto dall’ evangelo, il digiuno non era, o non tanto, un mezzo di pressione (quello che è diventato oggi), era invece un atteggiamento di preghiera, un tempo di silenzio dell’anima e del corpo, per permettere a Dio di agire nella storia. Per questo è cosi importante la presenza di piccole comunità monastiche in Europa occidentale.

    Il potere, l’umile potere della fede, attraverso milioni di anime, nutre la storia di eternità, fa incontrare costantemente la storia di Erode e di Pilato con la contro-storia delle Beatitudini, la “bestiale-umanità” con la “divino-umanità”. La pazienza, la sofferenza, assunte nella certezza che “questo mondo” non è il mondo di Dio; l’amore visibilmente o invisibilmente creatore che fa scaturire dalle tenebre le scintille dell’ottavo giorno, il giorno del regno; i piccoli gesti di bontà disinteressata di tanti giusti sconosciuti, ricostituiscono instancabilmente la trama dell’ esistenza lacerata dalle forze del nulla. La vera storia si gioca alla frontiera del visibile e dell’invisibile. Noi la conosciamo solo in modo molto parziale. Gli angeli di luce e il “principe di questo mondo” vi intervengono, la preghiera di un bambino sconosciuto ne muta il corso, o anche la dedizione apparentemente beffarda della Matriona di cui parlava Solzenicyn, ricordando che essa era uno di quei giusti senza i quali nulla starebbe in piedi: né il loro villaggio, né la terra intera.

    Il contemplativo immerso nel silenzio e ogni atteggiamento di preghiera, di apertura al mistero, provocano nella storia un’irruzione dell’eternità e permettono quelle creazioni di vita e di bellezza che, a loro volta, terranno desti i cuori. “Il suolo della storia è vulcanico”, diceva Berdjaev. Periodicamente erompono i fiumi di lava e fanno nascere nella cultura quelle immagini, quei simboli, quei thémata segreti sui quali milioni di anime fonderanno quello che Tillich chiamava “il coraggio di esistere”. Francesco d’Assisi ha reso possibile Cimabue e un primo Rinascimento nel quale l’umano si affermava senza separarsi dal divino; Sergio di Radonez ha reso possibile Rublev – e non abbiamo ancora finito di contemplare l’icona della Trinità -, direi anzi: ha reso possibili Rublev e Tarkovskij.

    Oggi la potenza dell’uomo sembra oggettivarsi al di fuori di lui, anzi contro di lui: in conoscenze scientifiche e creazioni tecniche che tendono a svilupparsi per mezzo del loro dinamismo interno, al punto che l’uomo non è più padrone della propria potenza, che anzi sembra dominarlo; si rischia allora quella che Michel Henry chiama la “barbarie”.

    Il potere della fede susciterà un nuovo tipo di uomo capace di dominare queste forze, capace di padroneggiare la propria potenza. È necessaria qui la forza nuda dello spirito animato dallo Spirito; bisogna, nella scia della fede e della contemplazione, creare un autentico stile di umile e forte sovranità. Una nuova santità, di rottura ascetica e di trasfigurazione cosmica, permetterà con l’esempio e anche con una misteriosa trasfusione un cambiamento progressivo delle mentalità e la possibilità di una cultura che serva da mediazione tra l’evangelo e la società, tra l’evangelo e il politico.

    Non si tratta, in fondo, di negare la violenza, ma di canalizzarla e di trasfigurarla, come fece la chiesa nell’ alto medioevo trasformando il guerriero selvaggio in cavaliere, il capo crudele e dispotico in “santo principe”. Qui si rendono necessarie l’ascesi e l’avventura, “la lotta interiore, più dura di una battaglia tra uomini”, il gusto di servire e di creare, l’esigenza di illuminare la vita con quella bellezza “che genera ogni comunione”, come diceva Dionigi l’Areopagita.

    E se il potere della morte, malgrado tutto, sembra in certi momenti, in certi luoghi, imbalsamare la storia, ridurla a una sorta di zoologia, si può ancora conservarla aperta attraverso il martirio, che costituisce la prima e fondamentale esperienza mistica del cristianesimo. Nel martirio, il potere che vuole farsi idolatrare è accettato nella sua legittimità, rifiutato nella sua pretesa totalitaria; esso permette così, suo malgrado, una testimonianza paradossale di morte-risurrezione che faceva dire agli antichi romani che i cristiani sono” quelli che non hanno paura della morte” .

    Ci sono molte forme di “martirio”, banali, dissimulate, quotidiane. L’essenziale è che il cristiano sia un battezzato che ha dietro di sé la Morte (con la maiuscola), dietro di sé e non più davanti a sé, non più in sé, e che quindi non la diffonda, non la trasmetta più, ma doni e trasmetta la Vita (anch’ essa con la maiuscola). Un vivente che dia la vita, anche e soprattutto quando è oppresso dalla propria croce, anche e soprattutto quando non comprende più ma si rifugia ai piedi della croce. Un vivente che dia la vita: tale è, forse, il potere della fede.

    1] C. Bendaly, “Le témoignage de la communauté eucharistique”, in SOP 101 (1985), p. 15.
    [2]
    F. Perroux, Pouvoir et économie, Paris 1983, p. 128.
    [3]
    C. Bruaire, La raison politique, Paris 1972, cc. 1 e 2 della prima parte.
    [4]
    Cf. Cynisme et passion, Paris 1981.

    POETI E PROFETI
    ALLA LUCE DEL CRISTO VENIENTE

    “Poeti e suonatori dicono: tutte le sorgenti sono in te” canta il Salmo 87. Sentiamo che comincia a sciogliersi la neve che ricopre le cose che appaiono e che queste apparenze, in realtà, sono delle epifanie. In questa prospettiva, evocherò dapprima la nuova situazione del cristianesimo che, sempre di più, mi sembra si stia delineando. Poi gli itinerari da tracciare. Per poter infine mostrare che, nella luce di Cristo che scende agli inferi perché gli inferi stessi divengano luogo della pentecoste, i veri poeti sono dei profeti.

    Ri-collocare il cristianesimo

    Il cristianesimo del XXI secolo non sarà più, non si presenterà più come una “religione” omologabile alle altre (tranne che in alcuni ghetti integristi, veri e propri “fossili viventi”). Esso si svelerà, si affermerà come la religione dello Spirito e della libertà nello spazio dell’umanità di Cristo che i filosofi religiosi russi – quei profeti – chiamavano, a partire da Vladimir Soloviev, la “divino-umanità”. La divino-umanità è la meta stessa della creazione. Il divenire del cosmo che la abbozza – come sottolineano oggi alcuni astro fisici -, e poi il dinamismo della storia: tutto si ricapitola e si apre sull’ avvenire con l’incarnazione, la croce nuovo albero di vita, la risurrezione e la pentecoste. In Cristo, sotto il soffio e i fuochi dello Spirito, l’uomo trova pienamente la sua vocazione di “creatore creato”. La divino-umanità riguarda l’umanità intera. La chiesa è la parte emersa dell’iceberg, un popolo di re, di sacerdoti e di profeti che testimoniano e pregano perché nel Cristo veniente risplendano le fiammelle ovunque presenti dello Spirito santo, Soffio che sorregge i mondi, le culture, le religioni. Noi sappiamo dov’è il cuore della chiesa, nell’evangelo e nell’eucaristia, ma non ne conosciamo i confini: essa costituisce la profondità di ogni esistenza umana ed è in essa che le costellazioni descrivono le loro orbite e i mandorli fioriscono alla fine dell’inverno.

    Il cristianesimo del XXI secolo non sarà né un moralismo, né un pietismo, ma l’annuncio – che chiama a una santità creatrice – della vittoria di Cristo sulla morte e sull’inferno. Non potremo più evitare quella che Léon Bloy chiamava “la pericolosa pedagogia dell’ abisso“. È forse la sola via che ormai possa essere insegnata agli innumerevoli eredi (anche se inconsapevoli) di Dostoevskij e di Nietzsche, agli insofferenti sempre delusi che si inoltrano nell’inferno della droga, dell’erotismo, del terrorismo, della follia. Questi uomini e queste donne, che sono discesi nelle regioni più tenebrose dell’ abisso, lacerati nella carne viva, saranno raggiunti, rianimati dai gemiti dello Spirito, dalle sue grida di gioia pasquale. Lo Spirito li farà entrare non nel mondo della “salvezza” e della morale, ma nel mondo della risurrezione e della trasfigurazione – una trasfigurazione totale dell’uomo e dell’universo -.

    Perciò saranno chiamati non a quella mistica che s’immerge nel divino come una mosca nel miele, ma a una profezia creatrice, quella del regno che, dice Gesù, è nel contempo tra di voi e in voi. Regno la cui forza, luce, parresia possono fecondare nei loro fondamenti autentici la storia e la cultura dell’umanità. Che importanza ha qui contarsi? Come ha detto Kazantzakis, in questa prospettiva, “un uomo può salvare l’intero universo“. Lo studio dei movimenti del sottosuolo c’insegna che uno spostamento di alcuni millimetri negli strati profondi della scorza terrestre provoca un terremoto in superficie! Una spiritualità creatrice – in base alla quale più ci si immerge in Dio, più si diventa responsabili degli uomini – costituisce la vera infrastruttura della storia (per riprendere, capovolgendolo, il vocabolario marxista).

    Nella divino-umanità, il divino non assorbe e non schiaccia l’umano, così come anche l’umano, per affermare se stesso, non ha bisogno di eliminare il divino. Per riprendere la grande affermazione dei padri greci, “Dio si è fatto uomo perché l’uomo possa diventare Dio” , cioè uomo in pienezza, capace di amare e di creare in pienezza. Dio si è rivelato in un volto di uomo, affinché ogni volto d’uomo possa trovare il proprio compimento in Dio. Nella divino-umanità si incontreranno l’occidente e l’oriente cristiani, il primo contraddistinto da un’ accentuazione dell’ amore attivo, del servizio al prossimo, il secondo dalla “deificazione” come autentico fine della “salvezza”. Nella divino-umanità soprattutto si incontreranno gli umanesimi, gli anti-umanesimi, le ribellioni e le scoperte che caratterizzano la modernità, così come le forme di meditazione, le teofanie, il grande appello all’interiorità dell’ oriente non cristiano, dell’oriente tradizionale. Le negazioni tipiche dell’ ateismo saranno integrate nell’ approccio negativo e antinomico al mistero. In antropologia, come in economia politica, il fattore “residuale” svelerà il carattere irriducibile della persona, il suo enigma, e infine l’uomo come “microcosmo e mikrotheos” (come diceva Gregorio di Nissa), cioè l’uomo “immagine di Dio”. I sapienti dell’oriente che a occhi chiusi s’immergono in un’insondabile interiorità potranno, senza che questa si dissolva, aprire gli occhi per scoprire, irriducibile anch’ essa, l’alterità dell’altro.

    A poco a poco capiremo che un cristianesimo del genere non è un’ideologia che aspira ad essere imposta con la forza dello stato: è invece la rivelazione della persona – in comunione -, e dell’ essere come qualcosa che sgorga dall”‘abisso senza fondo” della persona e della comunione. La laicità come libertà dello spirito è nata dal movimento messo in atto dall’ evangelo stesso. I mezzi del potere sono estranei al cristianesimo. Questo sarà sempre di più un fermento, una luce, un esempio, che non impone nulla, che si presenta nell’umiltà; una profezia capace nel contempo di contestare gli idoli e di aprire delle vie all’avvenire, testimoniando del senso, offrendo all’uomo la capacità di padroneggiare, nello Spirito, il suo stesso potere.

    Perciò nella divino-umanità, si comunicherà agli uomini il mistero della divinità che è l’amore – unità totale e diversità totale, inseparabilmente -. Dio è Mistero e Amore, diceva Dionigi l’Areopagita, quindi ogni uomo è mistero e amore, tanto più misterioso quanto più lo si conosce. Lacerati senza sosta dal nostro accecamento, unificati senza sosta da Cristo, noi uomini siamo in realtà un solo Uomo in una moltitudine di persone e quindi, poiché queste sono altrettante dimensioni delle persone, in una moltitudine di lingue, di culture, di tradizioni umanistiche o religiose. La spiritualità dell’avvenire non sarà solo divino-umana, sarà trinitaria, e continuerà a trasformare Babele in una pentecoste. Al di là dell’opposizione attuale a un’unificazione tecnica del pianeta e delle inevitabili reazioni “identitarie”, la rivelazione dell’Uni-Trinità profetizza l’unità diversificata degli uomini… e noi potremo dire, come Hadewijch di Anversa: “Allora io compresi tutte le lingue che si parlano in settantadue modi”.

    Itinerari

    È necessario tornare a interrogarsi sull’uomo – e dirgli che si può rispondere a quest’interrogativo! -. Un interrogativo, molti interrogativi.

    Perché la bellezza? Se il rosaio fosse solo una macchina efficiente, non avrebbe bisogno di tanti fiori. La bellezza è una profusione inutile, la gratuità d’essere, un sentimento trascendente della gioia di esistere. La macchia purpurea della rosa buca lo spazio, buca la luce a volte grigia e piatta, verso quale altrove?

    Perché la morte? O piuttosto perché siamo consapevoli del fatto che moriremo? Gli animali non lo sanno, la scimmia più intelligente si trascina il figlio morto, cerca di nutrirlo, fino a che questa” cosa” non le si affloscia tra le braccia. Solo l’uomo sa che morirà e intuisce la morte come qualcosa contro natura. Se la morte, per lui, non è “naturale”, è perché non ne è completamente prigioniero, perché intuisce un altro stato, una vita più forte della morte. La sua nostalgia, il suo desiderio, e persino il suo furore trasgressivo e parossistico cercano un altrove, quale altrove?

    E perché l’amore, e non solamente il sesso? Perché la passione tragica o l’umile e buona fedeltà e non soltanto, come diceva un philosophe del XVIII secolo, “l’incontro di due fantasie e il contatto di due epidermidi”? Perché la tenerezza, ogni tanto, al di là del desiderio, o le metamorfosi del desiderio nel linguaggio della tenerezza? Quale altrove paradisiaco si lascia intuire quando l’incontro dei corpi prolunga solo la comunione tremante degli sguardi?

    Scriveva John Donne:
    Ai corpi dunque ci volgiamo, che i deboli
    possano contemplare rivelato l’amore:
    i misteri d’amore crescono nelle anime
    ma il nostro corpo è il libro dell’amore.

    Tuttavia non ci sono soltanto domande, ci sono anche risposte. L’altrove viene a noi, si rivela. L’amore al di là del desiderio, la bellezza al di là dell’utile, il carattere innaturale della morte ci aprono alle rivelazioni dell’ altrove.

    Sarà dunque importante approfondire, alla luce dello Spirito santo, il significato dell’ eros, del cosmo, della morte.

    Di fronte alla miserevole banalizzazione dell’eros, alla smania di mostrare tutto e di vedere tutto, ricorderemo che l’eros può diventare il linguaggio di un vero incontro tra due persone.

    Forgeremo una poetica rinnovata per l’amore e per la donna. Scriveva Rilke: Un giorno, la donna sarà. E questa parola “la donna” non significa più soltanto il contrario dell’uomo, ma qualche cosa di particolare, che ha valore in sé. Non più un semplice complemento, ma una forma completa della vita, la donna nella sua autentica umanità. (Allora, aggiunge il poeta, l’amore diventerà) due solitudini … che s’inchineranno l’una davanti all’altra.

    Per quel che concerne il cosmo, svilupperemo le intuizioni di san Francesco d’Assisi e della “contemplazione della natura” nell’ascesi dell’oriente cristiano, contemplazione, dice Isacco il Siro, “dei segreti della gloria di Dio nascosta negli esseri e nelle cose”. Nella divino-umanità, lo Spirito ci permetterà di scoprire l’essenza spirituale delle cose, non per appropriarcene, ma per offrirle gli uni agli altri e, insieme, offrirle al Dio della vita, dopo averle “chiamate per nome”, cioè dopo aver lasciato su di esse l’impronta del nostro genio creatore.

    Infine diremo, testimonieremo la vittoria pasquale sulla morte, vittoria sempre presente, sempre rinnovata. Ormai la morte biologica è una “pasqua”, un “passaggio” verso una luce molto dolce e nel contempo molto penetrante nella quale noi discerniamo, nella quale noi entriamo mediante la grazia della croce – che, dice Massimo il Confessore, è il “discernimento della giustizia” – in un processo di guarigione, di cicatrizzazione, nella comunione dei santi che combattono e pregano per la salvezza universale. Dio infatti non è né l’autore della morte, né il responsabile del male, egli è il crocifisso dal male che soffre con noi per aprirci le vie della risurrezione.

    Poeti e profeti

    È compito del poeta – e attraverso questo indubbiamente egli profetizza – provocare un risveglio. I vecchi asceti dicevano che il più grande dei peccati è l’oblio: quando l’uomo diventa opaco, insensibile, talora indaffarato, talaltra miseramente sensuale; quando diventa incapace di fermarsi un istante nel silenzio, di meravigliarsi, di vacillare davanti all’abisso, per l’orrore o per il giubilo; quando diventa incapace di ribellarsi, di amare, di ammirare, di accogliere lo straordinario negli esseri e nelle cose; quando insomma diventa insensibile alle sollecitazioni segrete, anche se cosi frequenti, di Dio.

    Allora interviene il poeta, e citerò per primo il grande, il tragico Pier Paolo Pasolini:
    Per me c’è un vuoto nel cosmo
    un vuoto nel cosmo
    e da là tu canti.
    Questo può urlare, un profeta che non ha
    la forza di uccidere una mosca – la cui forza
    è nella sua degradante diversità.

    O ancora, in modo più pacificato (apparentemente), Stéphane Mallarmé:
    Balbetto, ferito: la Poesia è l’espressione, attraverso il linguaggio umano ricondotto al suo ritmo essenziale, del senso misterioso dell’esistenza. Essa conferisce quindi autenticità al nostro soggiorno sulla terra e costituisce l’unico compito spirituale.

    Perciò la poesia – più in generale l’arte – ci risveglia. Essa ci cala più in profondità nell’ esistenza. Fa di noi degli uomini e non delle macchine. Rende solari le nostre gioie e laceranti le nostre ferite. Ci apre all’ angoscia e alla meraviglia.

    La poesia profetica di domani, nell’irradiante luce della croce pasquale, non sarà più quella volontà di auto-deificazione, di auto-trasfigurazione, di conquista prometeica del Wonderland (Paese delle meraviglie) che ha segnato l’«alchimia della parola» in occidente dal romanticismo tedesco fino al surrealismo: “Il vero poeta è onnisciente” diceva Novalis, “il filosofo poetico è nelle condizioni di un creatore assoluto… la poesia è il reale assoluto”. E Rimbaud: “Svelerò tutti i misteri: … morte, nascita, avvenire, passato, cosmogonie, nulla. Sono maestro in fantasmagorie”. E Nietzsche: “Da quando l’uomo si è perfettamente identificato con l’umanità, esso mette in movimento la natura intera… sono io stesso il fato e, dall’ eternità, sono io che determino l’esistenza”. Ma il mito del Wonderland si è dissolto nelle camere a gas di Bitler, nelle nevi della Siberia dove tanti cadaveri sono stati abbandonati, con una targhetta di legno alla caviglia. Un filosofo tedesco ha potuto dire che dopo Auschwitz non avrebbe potuto più esserci poesia. Eppure ora noi sappiamo che molti scampati alla shoah hanno resistito recitando a se stessi dei poemi, recitandoli ai loro amici: poemi del Wonderland, di tanto in tanto, ma spogliati del prometeismo, restituiti alla loro nostalgia fondamentale. Poemi anche di quei “traghettatori”, di quegli stalkers (nel senso che Tarkovskij ha dato a questa parola) tra i bagliori della parusia da una parte e la bellezza e l’orrore del mondo dall’ altra. Penso per esempio a Baudelaire, Eliot, Mandel’stam, Pasternak e la Achmatova.

    Echi della liturgia in Pasternak:
    Ma ogni carne dopo mezzanotte
    improvvisamente farà silenzio.
    La primavera diffonderà la notizia
    che dalla prima schiarita
    la morte sarà alla mercé
    del grande grido di Pasqua.

    Umiltà dell’ultima rosa in Achmatova:
    Signore, tu vedi quanto sono stanco
    di risuscitare, di morire e di vivere.
    Prendi tutto, ma di questa rosa rossa
    possa sentire ancora la freschezza.

    In seconda istanza, spero che in futuro si sviluppi una poesia liturgica illuminante che, pur attingendo alla grande tradizione d’oriente e d’occidente quale viene conservata nei monasteri benedettini o esicasti, ricorderà che Cristo continua a scendere agli inferi e che il nichilismo occidentale, planetario nel prossimo futuro (gli integrismi che pretendono di resistergli in realtà non ne sono che lo specchio), sì, che proprio il nichilismo è certamente oggi l’unico luogo possibile della risurrezione. Una poesia liturgica di questo tipo si staglierà come un’ alta montagna dove l’azzurro si condensa nella neve, che fa nascere i ruscelli, i torrenti, le praterie, i frutteti.

    Perciò sta nascendo, al di là del Wonderland, al di là anche del sarcasmo e dell’ironia contemporanei, una poetica umile e austera delle cose, delle sostanze, che parte dalla concretezza del loro apparire per scoprirvi la trans-apparizione della Sapienza, quella Sapienza, dice la Bibbia, che continuamente gioca con Dio nella creazione. Ogni cosa contemplata con l’occhio del cuore, si apre allora su orizzonti infiniti. Semplicità così profonda di un Giorgio Mazzanti, ne Il canto della Madre:

    – Oh il vento
    sulle foglie degli olivi,
    oh la luce dei mattini
    terreni –
    lo splendore dei tramonti.

    Poetica delle cose, avvenire dei volti, giacché il mondo, il mondo di Dio e dell’uomo, il mondo di Dio fatto uomo e dell’uomo chiamato a deificarsi, esiste solo nello spazio dell’incontro tra gli sguardi, della comunione tra i volti. L’arte astratta di Kandinskij ha permesso al suo amico Alexej von Jawlensky di accedere al mistero del volto, alle sue strutture segrete, al suo lik, dicono i russi, cioè alla sua potenziale icona (per distinguerlo da licina, che significa maschera):

    Sentivo il bisogno di trovare una forma per il volto, perché avevo compreso che la grande pittura è possibile solo se si ha un sentimento religioso, e questo potevo esprimerlo solo attraverso il volto umano.

    Tanti accenni in un Berdjaev, un Athenagoras, più recentemente in Emmanuel Lévinas, annunciano questa poetica dei volti e ogni tanto, anche alla televisione, in mezzo a tante facce, raffinate o bestiali, s’impone un volto di verità, di santità, come Veronica nella scena della passione di Hieronymus Bosch… Allora l’essere profondo dell’uomo si mette in movimento, ogni cosa, ogni persona sembra un miracolo.

    Una poesia di questo tipo è profetica. Non che essa indovini o predica l’avvenire. Nella sua umiltà, nella sua spoliazione, nella sua gloria segreta, essa non decifra l’avvenire, lo rende possibile. Pro-feta significa “colui che parla a favore di”. Colui che parla a favore di ciò che più è segreto, più inosservato, più disprezzato, più debole – quel Dio che Elia intuisce non nella tempesta, né nel terremoto, ma in un mormorio “al confine con il silenzio” -.

    Dobbiamo allora perseverare. Oggi tutto ciò che è essenziale sembra sotterraneo, come la grotta della natività, come la grotta del cuore. Bisogna che lo sia. Bisogna che il Dio della libertà e della gioia s’incontri con l’uomo “postmoderno”, che è adulto e nel contempo non accetta di esserlo, che è potente e insieme disperato, nel punto più segreto della sua angoscia e del suo desiderio.

    È il grido profetico di Dmitrij Karamazov condannato al bagno penale, a lavorare nei sotterranei, anche quelli dell’ anima, condannato per un crimine che ha consumato senza commetterlo, come tutti noi: Se si scaccia Dio dalla terra, lo incontreremo sotto la terra… Allora noi, gli uomini sotterranei, intoneremo nelle viscere della terra un inno tragico al Dio della gioia. Viva Dio e la sua gioia! Io lo amo!

  • 19 Mar

    C’è ancora speranza?

    Gn 11,27-32

    di p. Attilio Franco Fabris


    Il testo di capitale importanza per l’inizio del nostro discorso è Gal 3,18-29.

    Esso è infatti importante in vista dell’evangelizzazione in vista di un recupero del concetto biblico di promessa.

    Il vocabolario dell’evangelizzazione è già infatti presente in modo esplicito (es. deuteroisaia) e implicita già nell’antico testamento.

    La continuità lessicale comporta che vi sia una Buona Notizia già nell’AT. Essa si riassume nella categoria fondamentale della promessa.

    Chi è il destinatario della Buona Notizia? Ovvero qual è il retroterra antropologico (Il kerygma infatti suppone sempre delle premesse antropologiche) che suppone una promessa da parte di Dio?

    Nel NT questo retroterra è costituito da un’antropologia nella quale l’uomo appare condannato alla solitudine: è sordo, cieco, muto.

    Nell’antico testamento qual è questo retroterra?

    Per scoprirlo è fondamentale rifarsi all’esperienza di Abramo: qual è il retroterra della promessa fattagli da parte di Jhwh?

    Questo retroterra lo ritroviamo nei primi undici capitoli del Genesi, e poi in modo più distinto dal v. 24ss.

    Abramo è presentato come l’uomo sul quale il Signore fa terminare la narrazione della creazione. Nel progetto divino l’uomo è stato chiamato a completare l’opera della creazione, e per far ciò il Signore lo aveva ricolmato della sua benedizione (cfr 1,28).

    La risposta dell’uomo a questa vocazione e collocazione è stata da lui rifiutata. Nel mondo perciò si assiste ad una crescita e sviluppo di male: Adamo ed Eva (3,1-19); Caino e Abele (4,3-15); la discendenza di Caino (4,16-24); Lamec (4,23-24); corruzione degli esseri celesti (6,1-7); Cam (9,22-25); la torre di Babele (11,1-9). Questo il frutto del rifiuto della benedizione di Dio.

    In Gn 11,27ss la situazione è analoga anche se apparentemente meno drammatica. Tuttavia anch’essa appare senza via di uscita. E’ una umanità chiusa in se stessa, senza futuro e dunque senza speranza, in cui ciascuno tenta di salvare se stesso.

    Aran il figlio più giovane di Terach muore prima del padre, realtà già “scandalosa” che segna drammaticamente con una morte prematura il dominio del male, lasciando però una discendenza: Lot.

    Abram il primogenito di Terach si sposa con Sarai; egli è il primo destinatario della continuità del clan patriarcale. Il futuro del clan è legato a lui. Ma la sterilità incombe: morire è non avere figli, ovvero non poter dare continuità alla vita. Ed è la morte non solo di Abram , di Sarai, di Terach ma di tutti.

    A Terach non rimane che Lot: il futuro del clan non può essere riposto che in lui  a meno che…

    • Abram ripudi Sarai
    • Sarai accetti il servizio della schiava
    • Abram rinunci alla primogenitura
    • Terach prenda una decisione per il bene di tutti.

    Ma niente di questo accade.

    La storia ci dice che da parte di nessuno di questi  vi è la volontà di uscire da un circolo vizioso. Vi è una incapacità di assumersi le proprie responsabilità ponendo al primo posto la missione per il bene comune. Nessuno è capace di “perdersi” per il bene comune.

    Il porre prima il bene comune e poi il mio interesse si chiama gratuità.

    La via dunque appare chiara. Ma riscontriamo paure, tergiversazioni, compromessi, scarichi di responsabilità, parole senza fine per non arrivare a nulla…

    Nessuno dei tre possiede una gratuità disponibile al bene comune. E’ un circolo vizioso che conduce a quella sterilità di fondo da parte di tutti che è la mancanza di gratuità.

    Perché? Quali dinamiche impediscono queste soluzioni?…

    Terac e la famiglia escono da Ur per dirigersi a Canaan. Ma anche questo progetto è destinato a spegnersi. Terac e il suo clan si fermeranno a Carran.

    Terach muore: come?

    Tutte le sue attese sono deluse. Si sente sconfitto nella speranza

    Deluso da Abramo che non ripudia Sarai Deluso di se stesso perché incapace di aver optato per le scelte adatte al bene del clan. Al momento giusto non ha avuto il coraggio di fare quello che sentiva di dover fare. Forse cercava il consenso, per cui demandava, attendeva.

    Sentendo tutto questo come maledizione da parte degli dei.

    Come Abramo vive la sua situazione?

    Abramo vive con un profondo senso di colpa nei confronti del padre e del clan, è un capo di nome ma non di fatto. Sarà un capo migliore di Terach?

    Date le premesse si direbbe di no: il futuro del clan è lasciato al gioco delle convenienze. Il clan ha coscienza di essere un popolo senza speranza, incapace di costruire il suo futuro.

    Questa sterilità è di tutti: ed è l’incapacità di perdersi per gli altri. .

    Ancora: quale sarà stata l’esperienza religiosa di Abramo prima di questa Parola? Sarà stata forse caratterizzata dall’esperienza religiosa della contemplazione del creato, dell’ascolto della propria coscienza, dell’indagine dell’intelligenza, da un deposito culturale legato alla sua tradizione. Un Dio legato alla ciclicità della natura, alle stelle che non riserva sorprese.

    Potremmo dire che nei vv. 11,27-32 sono racchiusi tutti i presupposti dell’antropologia veterotestamentaria e della promessa.

    1.      La realizzazione dell’uomo è il suo futuro. Ciò che dà senso alla vita è la speranza, l’attesa.

    2.      Questa tensione viene tranciata dall’inevitabile confronto con la morte. La proiezione verso il futuro è stroncata drammaticamente

    3.      Il futuro dell’uomo sta nel generare la vita. Il futuro, la continuità,  si realizza nel generare la vita .

    4.      L’amore umano non è capace di garantire all’uomo questo futuro. Giacché non basta generare figli. Terach, Abramo e Sarai esprimono questa incapacità dell’uomo e dell’amore di farsi carico del futuro non solo proprio ma di tutti.

    A questo assunto si può giungere solo attraverso una presa di coscienza e di ascolto, non basta l’enunciazione (che viene il più delle volte rifiutata!).

    L’uomo è libero di decidere totalmente della sua vita nella gratuità? L’esperienza dice di no.

    A questo punto occorre invitarci all’ascolto della nostra coscienza per scoprire nella mia esperienza questo retroterra antropologico. Non si può infatti presumere una coscienza di fede che prescinda da una seria coscienza antropologica.

    La presunta “fede” non deve portare a dribblare la coscienza che deve portare a porci dinanzi alle autentiche problematiche che attraversano il cuore dell’uomo e la sua esistenza. Una fede che prescindesse da tale retroterra sarebbe una fede teista, impermeabile alla promessa e alla sua verifica.

    La preistoria dell’umanità (Gn 1-11) termina dunque in un vicolo cieco. Logico allora domandarsi al termine di questa presentazione: Ma per l’umanità c’è ancora speranza? A questa domanda risponde il racconto della vocazione di Abramo.

    Dio non può abbandonare l’umanità in una situazione di morte: lui l’ha creata e voluta per la vita. Egli vuole in un certo senso ripartire da capo, con una nuova creazione.

    Per far questo ha bisogno di un uomo e di una donna. Un uomo concreto al quale riproporre il suo progetto di benedizione, costituito dalle sue promesse.

    E’ scelto un uomo umile e oscuro, un pastore arameo, un beduino che vive in Mesopotamia nel XVIII sec. a.C. Non è scelto un re forte, un impero potente, un sapiente o un veggente. Sono le stranezze delle scelte di Dio! “Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto per confondere i forti e ridurre al nulla le cose che sono” dice Paolo.

    Un uomo che sperimenti a nome di tutti la fedeltà e la gratuità delle promesse di Dio. Egli è scelto perciò a nome e a beneficio di tutti noi. Ha un compito da svolgere, un servizio da adempiere, essere strumento della continuazione-riinizio della creazione come “storia di salvezza“.

    – Abramo come è la tua vita prima dell’incontro con la Parola? Come vivi la tua situazione … gli anni passano, sei senza figli, hai mancato di responsabilità nei confronti del tuo clan… Probabilmente vivi male dentro di te anche se non ti manca nulla. Quante volte ti sarai detto: “Ma qui cosa ci faccio? Che senso ha la mia vita?”… provo a far risuonare in me queste risonanze.

    –         Speranza nel futuro assicurato dalla vita: un’esperienza che nella vicenda di Abramo e del suo clan viene meno: è una situazione che si riaggancia a tanti aspetti della nostra vita e della nostra situazione culturale. Siamo anche noi in un circolo vizioso? C’è bisogno di un “Abramo” per riiniziare?

  • 18 Mar

    Una storia che continua

    Gn 24,1-25,11


    di p. attilio Franco Fabris


    Siamo giunti quasi al termine del ciclo della storia di Abramo.

    Contro ogni speranza umana, Abramo, ha visto la discendenza nel figlio Isacco, anche se non vede la moltitudine che Dio gli ha promesso. Un segno fragile: questo figlio vivrà, sarà forte, avrà la gioia di generare? Abramo muore possedendo solo due piccoli appezzamenti di terreno, lui al quale Dio ha promesso tutto il paese. Ha potuto constatare più d’una volta d’essere benedizione per coloro che l’hanno accolto, ma ha anche sperimentato il suo limite nell’incapacità di assicurare salvezza per Sodoma.

    Egli ha sperimentato sì il Dio della promessa anche se la realizzazione di queste è risultata parziale. Ciò è dovuto proprio alla pedagogia del Dio della promessa il quale vuole abilitare l’uomo ad aprirsi ad una fiducia e ad una speranza sempre più grandi, una spinta che un giorno sarà capace di scavalcare il limite tragico della morte.

    Il matrimonio di Isacco con Rebecca

    Abramo vuole trovare una moglie per Isacco, senza la quale non ci sarà ulteriore discendenza.

    Il testo sottolinea l’importanza di trovare una moglie ideale per il figlio della promessa.

    “Abramo era vecchio, avanzato negli anni”: una formula che introduce le ultime azioni e parole di un personaggio importante.

    Egli ricorre ai servigi di un servo fedele, uomo saggio e di esperienza: si tratta forse ancora di Eliezer? Dal risultato della missione dipende la continuazione o il fallimento di tutte le promesse.

    Abramo chiede un giuramento solenne al servo: e quest’atto sottolinea l’importanza della missione. Il contatto con le parti genitali, sede della vita, imprime una forza particolare al giuramento, vi è forse un richiamo alla circoncisione e quindi un riferimento indiretto all’alleanza di Jhwh.

    Egli non dovrà prendere una moglie “tra le figlie dei cananei, in mezzo ai quali io abito”. La cercherà invece “al mio paese tra la mia parentela”.

    Abramo non chiede di trovare la moglie nella casa di suo padre, tuttavia accadrà proprio questo: la moglie sarà del suo stesso sangue. La discendenza sarà così armoniosamente configurata.

    Il servo obietta la possibilità di un fallimento: la moglie potrebbe non accettare di trasferirsi. Che fare allora? Dovrà condurre Isacco alla terra di origine da cui Abramo era partito? Si tratterebbe di un ritorno al punto di partenza: tutto il cammino di Abramo sarebbe allora stato inutile. Per la promessa della discendenza occorrerà forse sacrificare la promessa del paese?

    Abramo si troverebbe perciò a dover scegliere; ma lui non entra nella questione. La sua risposta è categorica ed è una proibizione assoluta: “Guardati dal ricondurre colà il mio figliolo”, e qui ripete

    parola per parola la promessa di Jhwh: “Il Signore mi ha parlato alla tua discendenza darò questo paese”. Ciò che Dio ha dimostrato vero nel passato lo sarà anche per il futuro: Abramo è sicuro dell’assistenza di Dio in questo nuovo passo da fare: “Egli stesso manderà il suo angelo davanti a te, cosicché tu possa prendere di là una moglie per il mio figliolo”.

    La storia cominciata non può essere un ritorno ma un cammino sempre in avanti.

    E’ sorprendente il cammino di maturazione nella fede compiuto da Abramo: egli  non ricorre più a strategie umane per risolvere i problemi come in precedenza aveva fatto, sa che il Signore è fedele alla parola. Non si sente più costretto ad agire in base alla paura e all’ansia della vita: è un uomo che si è affidato totalmente alla parola.

    La missione del servo riesce pienamente, e al di là delle prospettive: addirittura la moglie è della parentela di Abramo.

    Il cammino iniziato con Abramo può proseguire ed aprirsi a nuovi orizzonti: è il rilancio della promessa.

    Nuovo matrimonio di Abramo: vv. 25,1-6

    Abramo si risposa: la nuova moglie si chiama Chetura. Gli nasceranno nuovi figli, ben sei: la promessa dunque opera ancora! Abramo è ancora capace di generare.

    Da questi figli nasceranno dieci nipoti: sono i capostipiti di popoli dell’Arabia.

    L’eredità: vv. 5-6

    “Abramo diede tutti i suoi beni a Isacco”. E’ lui il figlio della promessa al quale è dato “tutto”. Agli altri figli Abramo “diede loro doni”, partecipano ovvero ai beni di Abramo.

    Al termine della sua vita Abramo è circondato da figli e nipoti: è divenuto padre di una moltitudine

    La morte di Abramo: vv. 7-11

    Abramo muore all’età di “centosettanatacinque anni”. E’ partito da Carram che ne aveva 75. Il cammino di Abramo con Jhwh è dunque durato cento anni.

    Il figlio Isacco è nato quando Abramo è centenario. Ha assistito al quindicesimo compleanno dei suoi nipoti (25,26).

    “Morì dopo una felice vecchiaia, vecchio e sazio di giorni e fu riunito ai suoi antenati”.

    Isacco e Ismaele si ritrovano per seppellire il loro padre nella caverna di Macpela. Isacco è nominato per primo anche se Ismaele è più anziano di lui: perché è lui il figlio della promessa.

    Conclusione

    “Dopo la morte di Abramo Dio benedisse il figlio di lui Isacco”.

    La storia prosegue sotto la benedizione di Jhwh che dal padre passa al figlio. Il Signore è fedele alle sue promesse, non le ritirerà mai più.

    Ora, dopo Abramo, tocca a Isacco iniziare il suo cammino sotto la guida di Dio.

    La storia della salvezza è avviata: e in questa storia il Signore si rivelerà come il Signore della vita e della benedizione. Vita e benedizione che spesso a causa della diffidenza e sfiducia dell’uomo non saranno accolte. Ma la pedagogia di Dio è sapiente egli saprà educare con somma pazienza l’uomo alla fiducia, proprio come ha fatto con Abramo.

  • 17 Mar

    Vangelo ed esistenza monastica oggi

    di Ghislain Lafont  *

    Svolgerò il tema assegnatomi come una meditazione, da fratello verso altri fratelli e altre sorelle con cui ormai da anni mi trovo in confidenza, e lo farò per così dire, da cuore a cuore, prima di toccare l’intelligenza della mente. In questa vostra Consulta il nostro comune cuore monastico si confronta con le tre parole del titolo – il vangelo, l’esistenza monastica, l’oggi – che rappresentano tutto il proposito professato, in quanto sono la carne e il sangue della nostra vita.

    1. Vangelo

    La parola è semplice, ma il contenuto infinito. Per ciascuno di noi la parola «vangelo» ha una risonanza propria. Ad esempio, per Lutero la parola «vangelo» era equivalente a «giustificazione del peccatore mediante la fede in Gesù Cristo», cosicché la grazia per lui diventava il principio interpretativo di tutta la Scrittura. Altri cristiani sono colpiti dall’inizio del vangelo di Marco: «Convertitevi e credete al vangelo; il regno di Dio è vicino».

    Dovendo fare anch’io la mia scelta, la parola «vangelo» mi conduce direttamente ai due comandamenti del Signore, che riprendo dal vangelo di Marco giunto ormai alla fine, prima della passione. Qui trovo la medulla di tutta la Scrittura, molto efficace nella versione di Marco dove lo scriba, che aveva fatto la domanda a Gesù su quale fosse il primo di tutti i comandamenti, è soddisfatto della risposta e la riprende quasi alla lettera, ricevendo alla fine la lode dello stesso Gesù: «Vedendo che egli aveva risposto saggiamente, Gesù gli disse: “Non sei lontano dal regno di Dio“» (Mc 12,34).

    In più, solo in Marco, qualche versetto dopo, segue la storiella della povera vedova con la sua piccola offerta al tempio che rappresenta tutti i suoi quattrini. Allora Gesù dice ai suoi discepoli: «In verità io vi dico: questa vedova, così povera, ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri. Tutti infatti hanno gettato parte del loro superfluo. Lei invece, nella sua miseria, vi ha gettato tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere» (Me 12,43-44). Qui finisce la vita pubblica di Gesù con l’esempio di una donna ebrea che non sa niente di Gesù e si reca ad un tempio che di li a qualche anno sarà distrutto. Potremmo dire: una che non è sulla strada giusta, non capisce niente, ma dà tutto! Mi colpisce il vangelo di Marco che si conclude con questa donna che non ha alcuna formazione teologica e non è nemmeno un’ebrea discepola di Gesù, ma che ha capito che per il tempio di Dio deve dare tutto.

    Riprendo la domanda centrale dell’intera rivelazione di Dio: che significa amare secondo il vangelo? Per Gesù nessuno ama di più di quando dà la vita propria per gli amici. Amare non è un sentimento, né una benevolenza o beneficenza, ma è qualcosa di più: un dare totale che suppone un ricevere totale. Riguarda la «propria» vita: in che senso? Stiamo tutti cercando oggi questo, cristiani battezzati o monaci?

    Per cominciare a rispondere, penso che tutti noi abbiamo grandi desideri, specialmente quando mettiamo in gioco i nostri interessi umani. Ciascuno di noi ha un desiderio d’infinito che non basta tutta la vita a soddisfare (come si sperimenta quando ci si avvicina con gli anni al traguardo finale … E vi dico che non mi dispiacerebbe la reincarnazione, perché ci sono tante cose che non ho avuto il tempo di fare!). Voglio dire: un uomo senza desideri non è un uomo, perché gli manca la spinta per una vita autentica. Bisogna sempre ricominciare ad aprire il cuore e l’intelligenza, in quanto è possibile comprendere di più grazie al desiderio di una identità personale sempre più grande e ricca.

    Eppure, il desiderio umano non può essere soddisfatto, e non solo per i limiti umani, ma perché accanto a me ci sono altri uomini e donne che hanno pure i loro desideri. Si verifica una interruzione del mio desiderio, al punto che mi piace formulare una specie di definizione (ormai alcuni di voi già la conoscono dato che la ripropongo in vari interventi!): «L’uomo è un desiderio infinito interrotto dal desiderio dell’altro». In effetti, è un’esperienza comune che non c’è posto per la soddisfazione di due desideri nello stesso momento: uno deve fare posto a quello dell’altro perché possa svilupparsi. Faccio spesso un esempio, che è riportato nel mio intervento uscito in questi giorni sul numero della vostra rivista camaldolese. Quando qualcuno chiama – e oggi il telefono funge quasi sempre da sostituto delle comunicazioni! -, significa che sono disturbato nel mio Io. Un altro, un estraneo, viene ad interrompere il mio desiderio: «Non ti aspettavo». Non so che cosa sta per dire la persona che chiama o che entra. Il cerchio dei miei desideri in cui ero contento e sviluppavo il mio essere è spiazzato. L’altro viene a manifestarmi il suo desiderio che attraversa la mia vita, perché ha bisogno di me per andare avanti.

    Ho l’impressione che, in un mondo dove c’è un eccesso di comunicazioni, dire «Pronto!» al telefono, oppure «Avanti!» a chi bussa alla porta, diventino delle frasi insensate, o addirittura ipocrite se dette malvolentieri. Comunque, ogni volta che uno si rivolge all’altro, la sua parola è già una richiesta che esige la mia disponibilità ad ascoltare il suo volere, specie se dico: «Che vuoi?». Il suo desiderio mi interrompe, ancor prima che lui mi chieda, ad esempio: «Dammi una mano!». Così l’altro che si rivolge a me può farlo perché mi conosce. Ma non è sempre così, perché altre volte anche verso di me potrebbe parlare con più prudenza.

    Com’è possibile tralasciare ciò che si sta facendo per ascoltare la domanda dell’altro? Più che il desiderio del mio adempimento, è in gioco una relazione più profonda: il nostro adempimento. Mediante la dinamica della parola capisco che l’altro fa parte di me e che la cosa importante è la nostra vita. Il mio desiderio è modificato nel nostro desiderio perché l’esistenza è costellata di un continuo scambio di invocazioni, di domande, di azioni comuni, giungendo finalmente alla scoperta che, mediante la rinuncia al mio desiderio, si gode insieme la pienezza del «noi». Qui nasce la comunione che costituisce la comunità.

    Facendo un passo in più, possiamo dire che l’esperienza ci fa capire che l’amore è «morte», piccola se volete: abbandonando il mio desiderio, devo morire a quanto facevo per vivere ad un altro livello. Certo, una morte che non è distruzione, ma interruzione in vista, per così dire, di un «risorgere». Lo diceva anche la spiritualità classica di «morire a se stessi», ma la dinamica costante legata al desiderio riflette più la sensibilità contemporanea o, meglio, quella che vi offro io, per mettere in luce una differenza importante: mentre nel linguaggio classico morire a se stessi è ancora egotico, cioè una cura di me stesso per diventare più perfetto, nella prospettiva del desiderio interrotto dalla parola dell’altro diventa centrale l’ascolto per creare una comunione. Questa è la cellula costitutiva dell’amore.

    Come già dicevo in altre occasioni, un amore di questo tipo implica un uomo e una donna ricchi di sensibilità, cioè capaci di percepire tutti gli appelli che possono provenire dall’esterno. Possiamo chiudere tutti i sensi, ma, per quanto ci sforziamo, con l’orecchio non è possibile farlo del tutto. Ciò significa che siamo fatti per ascoltare e, pur sapendo quanto sia difficile lasciare che la parola dell’altro entri davvero in me prima di rispondere, soprattutto senza aver fretta di trovare le mie parole, mi sento di affermare che l’uomo è fondamentalmente ascolto. Infatti già l’ascolto è una rinuncia: il mio orecchio, la mia intelligenza, il mio cuore è così orientato verso l’altro che è una perdita di me stesso.

    Allora l’amore perfetto di cui parla Gesù nel vangelo – amare con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutta la mente, con tutte le forze – è un ascolto della parola, sostenuto da un desiderio di essere in comunione con l’altro, a qualunque prezzo. Se questo ascolto riesce, l’amore c’è, come pure la mia identità vera: finalmente scopro che non posso essere io senza l’altro e viceversa. Amare Dio secondo il vangelo significa ascoltare Lui quando per primo ci bene-dice: «Ti voglio bene». Un ascolto della parola di un Dio che dona, non che domanda o comanda.

    In origine non c’è dunque l’interruzione del mio desiderio, ma l’offerta di un dono da ricevere, il che è per noi sempre faticoso, perché è ancora una morte a noi stessi: accettare che l’altro mi ricordi il mio limite, una mia relativa incapacità, per aprirmi a lui e diventare una comunione. Se Dio Padre dona tutto invitandoci a dargli tutto, noi possiamo avere le vertigini, immersi in una circolazione infinita dove nessuno possiede niente, ma tutto è ricevuto e scambiato.

    Finora non ho introdotto la parola «peccato». Potremmo pensare che il discorso sia troppo «paradisiaco»: nel giardino di Eden l’uomo e la donna si volevano bene prima del peccato, quando le rinunce non costavano e l’armonia era sempre goduta. In questo stesso paradiso Dio pronuncia una parola di domanda, che, come le vere domande, sono una sorpresa, perché non sono mai ragionevoli: «Non toccare quell’albero perché ti farà male». Se l’uomo non l’avesse toccato, il rapporto con Dio sarebbe stato libero, avrebbe amato secondo la dinamica di morte-risurrezione, che in tal modo non è legata al peccato, come vado dicendo da un po’ di tempo. È importante infatti non vedere dappertutto il male e il peccato, ma capire che le persone, anche quando sono esigenti, lo sono in vista di una comunione, da ritrovare persino dietro quelle parole di domanda che non sono sempre gradevoli.

    Da tutto ciò anche la morte-risurrezione di Gesù non è prima di tutto legata al peccato, ma all’amore. Gesù era una persona che sapeva amare, in ascolto di ogni parola del Padre e di ogni uomo, sempre pronto a rispondere. Ma siccome il peccato ha portato un disordine che ferisce profondamente tutti, la dinamica di morte-risurrezione diventa molto più temibile, senza tuttavia perdere la sua essenza originaria di comunione che Gesù ha vissuto anche prima della passione. E se diciamo con san Giovanni che «Dio è amore», ci riferiamo ad un Dio trinitario che è Dono, dove il Padre genera sempre tutti e tutto, il Figlio è rendimento di grazie (il «Si» al Padre, secondo san Paolo) e lo Spirito Santo è il desiderio permanente che spinge alla comunione. Dicendo Dono, vuol dire che in Dio non c’è alcuna proprietà.

    Provando a concludere questo primo punto, la parola amore significa che l’identità si trova nella perdita e che il «se stesso» si trova «nell’altro», Dio o il prossimo. Il vangelo dunque come buona novella è la rivelazione dell’amore che possiamo offrire a tutti per entrare in dialogo (comunitario, ecclesiale, interreligioso … ). È la prima e ultima parola che dà senso a tutto, sempre ché sia intesa sul modello di morte-risurrezione. Un proverbio dell’Africa meridionale dice che l’amore è come l’acqua calda: se non mettiamo la legna sul fuoco, si raffredda, cioè il sentimento di generosità non basta se non c’è la legna del dare-ricevere.

    2. Esistenza monastica

    Ciò che ho detto finora vale per la vita cristiana e quindi anche la vita monastica è governata dal principio-amore che si ritrova nelle beatitudini come programma di vita per tutti. Ora, per cercare lo specifico della vita monastica, bisogna ricollegarsi al fatto che, rispetto al tempo in cui io sono diventato monaco più di sessant’anni fa, la Chiesa del concilio Vaticano II e dell’immediato periodo successivo ha modificato il posto, diciamo, della vita religiosa. La Costituzione dogmatica Lumen gentium, semplificando un poco, tratta i religiosi dopo i laici, cosicché, dentro il cap. 2 sul popolo di Dio, c’è il seguente ordine: gerarchia laici religiosi, mentre in passato c’era una scala discendente: gerarchia religiosi laici. Sappiamo quanto è ancora difficile far seguire un cambiamento di mentalità, specialmente sulla figura del laico che rischia di essere definito secondo il «non»: non è un prete, non è un religioso.

    Ora, per tornare al compito assegnatomi, in base a questi presupposti mi chiedo che cos’è la vita monastica. Riprendendo l’immagine del paradiso, là ci sarebbe stato posto per dei monaci? Una domanda del genere non se la ponevano i miei confratelli negli anni in cui ero novizio, in quanto tutto ruotava attorno al peccato, quale eredità dello spirito medievale, che vedeva nella vita monastica una scelta per ritrovare la strada giusta, diciamo in modo sicuro, rispetto al cammino secolare considerato molto pericoloso. La mia risposta alla domanda sul posto dei monaci nel paradiso terrestre è chiara: «Si, è possibile!». Lo è perché un/a monaco / a è chiamato/ a dedicare direttamente la propria vita a Dio e ai fratelli e alle sorelle, senza sentirsi attratto/ a dal matrimonio, ove, sempre con la stessa qualità dell’amore secondo il vangelo, c’è la mediazione del corpo in vista di una famiglia. È possibile che nel paradiso, dove tutti obbediscono alla parola di Dio e si ascoltano a vicenda, ci sia qualcuno chiamato ad un dono esclusivo per Dio solo, restando disponibili per tutti gli altri, non già per negare alcunché. Ci troviamo in entrambi i casi, matrimonio e verginità, nel mistero di Dio: ci crediamo e basta. Se ci sono troppe spiegazioni, si può perdere di vista la medesima direzione di comunione universale.

    Con questa risposta positiva per Dio solo e per i fratelli, si comprende meglio la dialettica tra l’eremita e il cenobita, da sempre presente nella tradizione monastica, ma che è proposta con forza nell’esperienza camaldolese. Nella vita di solitudine viene ancor più sottolineata l’esclusività per Dio solo, il che è molto difficile perché non si deve spegnere la spinta al dono verso gli altri; c’è il rischio infatti che l’eremita diventi egoista oppure perda l’equilibrio umano. Per questo oggi il silenzio viene proposto in forme diverse, più mitigate, per salvaguardare l’ascolto della parola di Dio insieme con alcuni fratelli o sorelle con cui si fa comunità. Poi, oggi, la stessa vita fraterna, rispetto a cinquant’anni fa, si apre molto di più all’accoglienza e all’ospitalità.

    Questa visione della vita monastica secondo i tre livelli di amore – solitudine, cenobio, ospitalità – è molto semplice, nel senso che non ci sono tante cose da fare oltre che stare con Dio, con i fratelli e con quanti bussano alle nostre porte. Auspico di ritrovare nelle nostre comunità una specie di «grado zero» della vita cristiana. Ovviamente, si tratta di una linea di tendenza che attraversa lo spessore della tradizione e delle varie forme istituzionali e che richiede molto discernimento su che cosa conservare e su che cosa tralasciare, anche quando si è accettata la diversità di linguaggi e di culture.

    3. L’oggi

    In Europa il calo delle vocazioni religiose maschili in quarant’anni (1965-2005) risulta del 34%. In pratica siamo un terzo in meno, e credo che almeno la metà di coloro che rimangono siano oltre i sessant’anni di età. Le previsioni non sono rosee, perché nel giro di vent’anni si rischia di diminuire, se si va di questo passo, ancora di un altro terzo. Che significa tutto ciò, almeno in Occidente?

    Di solito si fa il confronto con il resto del mondo dove non si registra il calo, specialmente dove la civiltà europea non ha prevalso. Dovremmo concludere che la scelta religiosa è legata al tipo di civiltà e che quindi la modernità non è il terreno adatto per lo sviluppo di certe scelte? Domande complesse per risposte difficili, almeno per me! L’eventualità di una morte potrebbe affacciarsi, anche per la situazione attuale del mondo sotto ogni profilo. Condivido l’opinione di coloro che dicono che siamo ad un momento un po’ cruciale della storia, quando qualcosa sta morendo e qualcos’altro sta nascendo.

    Che cosa sta morendo? La cultura occidentale, fin dalla filosofia platonica, è stata contrassegnata più dal paradigma della verità che da quello dell’amore (ma la cosa si trova anche nella civiltà indiana e altrove). Se il mondo deve tornare sotto il segno della verità, vuol dire che i sensi c’ingannano e ci conducono ad una vita falsa, non autentica. Quindi la vera vita va cercata altrove, sempre «al di là», perché altrimenti siamo nella menzogna o nella sofferenza. La fuga dal mondo e dai desideri del corpo diventa il cardine di questo modello che sostanzialmente conduce alla staticità e alla atemporalità.

    L’inizio del cristianesimo ha visto l’assorbimento di questa cultura per troppi aspetti, soprattutto per trovare la stabilità e l’identità vera combattendo strenuamente contro «ciò che è» a favore di «ciò che dovrebbe essere». Lo scopo è stato di passare dall’imperfetto, sempre colpevole, al perfetto. Ma già in santa Teresa d’Avila, secondo la quale Dio è dappertutto ma non altrove, possiamo vedere l’invito a correggere la concezione precedente: Dio è qui non solo come Padre misericordioso che manda il Figlio a correggere tutti i nostri difetti, ma come colui che dona una persona vera al nostro essere personale, comunitario, politico. Invece di cercare la verità al di là, siamo chiamati a trovarla qui, ora.

    Applicando tale visione alla vita religiosa, essa è da intendere non quale rimedio ai difetti del tempo, ma quale ricerca dei valori positivi che permettano al mondo di vivere cosi come è. Testimoni di questo cammino di morte-risurrezione quali sono stati Dietrich Bonhoeffer (pastore evangelico) e Etty Hillesum (ebrea non praticante), partono dal presupposto che il mondo è buono, anche se poi i difetti vanno osservati. Ma è diverso se lo si fa nella prospettiva di un ottimismo di base: per esempio, ci sono delle lettere inviate da entrambi dal lager (segnalo anche quelle di Etty Hillesum che sono meno note … ), in cui, pur vedendo tutto il male atroce dello sterminio, è conservata la meraviglia per la bellezza-bontà del mondo.

    Come dicevo all’inizio, se Dio è amore, è molto più che un essere di misericordia, che è ancora troppo legata alla miseria umana. Prendiamo la Messa. Tutto quanto viene offerto è già segno della grazia in me e negli altri se proviene dall’amore. Il rendimento di grazie eucaristico comincia qui, non dal peccato che purtroppo nelle nostre preghiere conserva ancora il primato. Si tratta dunque di mettere un ordine diverso in cui la preoccupazione per il peccato e per la penitenza sia vissuta alla luce dell’amore, che è la sorgente dell’atto di fede.

    Anche la presenza di Dio è messa in questione dato che Lui non si vede, come pure il bene, che non fa notizia nei mass media, troppo pieni di informazioni su catastrofi, disgrazie, guerre. Ma se invece guardo con occhi diversi a ciò che le persone fanno per stare al mondo con dignità, lottando anche contro tante difficoltà, allora posso trovare il modo di ringraziare Dio perché la gente fa quello che può e quindi va incoraggiata. La speranza può sorgere e risorgere come primato dell’amore qui, oggi: mentre in altri tempi ci si rifugiava nell’al di là, nel cielo, oggi si cerca il futuro perché nell’indomani è sempre possibile fare qualcosa. Non lo penso solo come teologo; infatti anche nella cultura filosofica, sociale e politica le previsioni più catastrofiste hanno avuto il contrappeso di altre visioni più aperte ad una discussione sulle potenzialità che tengono in piedi il mondo.

    Le conseguenze per la vita religiosa, o meglio per la vita monastica, quali potrebbero essere? La forma attuale dei monasteri sparirà, forse all’80%, e non so quale sarà quella che verrà perché non ci sarò più … Comunque, pur in questa morte, i giovani hanno bisogno di sentirsi incoraggiati, dentro e fuori la vita religiosa, a costruire una civiltà basata sul principio-amore che, come dicevo nel primo punto, è il Dono di un Dio unico sempre in comunicazione. E nel pensare alla riforma a largo respiro dei nostri eremi e cenobi, il cardine deve essere la manifestazione della bontà del mondo, mediante, da un lato, una conversione dei singoli ad una visione della vita non più angosciata dal peso del peccato e della morte, e dall’altro, un’attenzione premurosa di tipo umanistico ai fermenti culturali, alimentata dalla speranza di scoprire «se stessi come un altro» (Paul Ricoeur).

    Una sfida grossa per la vita religiosa che, radicandosi nell’immagine di Dio Amore presente in tutti, si pone al servizio di tutto ciò che è buono del mondo, senza più lamentarsi del male e della miseria. Sarebbe forse la prima volta nella storia dell’umanità!

    * Monaco dell’abbazia francese di La Pierre-qui-Vire, è professore emerito di teologia dogmatica al Pontificio Ateneo Sant’Anselmo e alla Pontificia Università Gregoriana di Roma. Per desiderio dell’A., che ha rivisto il testo tratto dalla registrazione magnetica, l’articolo mantiene il tono colloquiale dell’intervento tenuto a Camaldoli il 3 ottobre 2008, in occasione della Consulta della Congregazione camaldolese dell’Ordine di san Benedetto.

    (da Vita Monastica, n. 243, luglio-dicembre 2009)

  • 17 Mar

    La terra:  L’acquisto di un sepolcro

    Gn 23,1-20

    di p. Attilio Franco Fabris


    L’ultimo racconto si riaggancia al tema iniziale: quello della promessa della terra.

    Sara muore e Abramo deve pensare al luogo della sua sepoltura.

    Il nostro testo è minuzioso nel riportare le varie trattative giuridiche per l’acquisto di un terreno.

    La morte di Sara: vv.1-2

    La morte di Sara è collocata immediatamente dopo la vicenda del sacrificio di Isacco, e la tradizione talvolta ha voluto collegare i due fatti: una Sara che muore di crepacuore dinanzi all’accaduto del figlio amato.

    Essa muore all’età di centoventisette anni, dunque trentasette anni dopo la nascita di Isacco, e tre anni prima del suo matrimonio con Rebecca. Muore in terra straniera e per lei la promessa della terra non si è avverata. Il testo infatti ricorda che Abramo e Sara vivevano nella terra dei cananei, essi sono ancora pellegrini, ospiti di una terra non loro.

    Abramo «entra» nella tenda dove giace il corpo di Sara e lì «fa lutto per lei e la piange».

    La richiesta di un terreno: vv. 3-6

    La richiesta di un terreno si svolge in tre fasi: la richiesta, la scelta, l’acquisto.

    Ora l’acquisto di un terreno era affare delicato. La gente era molto attaccata alla sua terra e non era propensa a cederla facilmente ad altri, ancor più se stranieri.

    Abramo è consapevole della difficoltà: “io sono forestiero tra voi”, avanza perciò una richiesta molto limitata: “sicché io possa portar via il mio morto e seppellirlo”. Una richiesta questa che rende difficile un rifiuto.

    Tuttavia la proprietà sepolcrale del terreno richiesto assume un carattere perenne, essa servirà per la sepoltura della futura discendenza (cosa che accadrà).

    La risposta degli hittiti è benevola e rispettosa: “O signore! Tu sei principe eccelso in mezzo a noi!”. Lo considerano come un capotribù, al loro pari. La loro offerta appare molto dignitosa: Abramo può seppellire Sara nel migliore dei loro sepolcri, ovvero esitano però a cedere per sempre un terreno ad Abramo: “Sì, ti vogliamo bene, ma rimani ospite, rimani forestiero”.

    A questo punto Abramo deve insistere: “si alzò, s’inchinò” nell’atteggiamento umile di colui che sente di dover fare una richiesta importante: egli indica la caverna di Macpela come possibile luogo per farvi il suo sepolcro. Chiede solo un pezzetto di terra “all’estremità del campo di Efron” il che implica la sua decisa volontà di  rispetto del diritto di passaggio sul resto del terreno al proprietario. Infine si dice pronto a pagare.

    Abramo domanda solo la caverna, Efron gli offrirà anche il campo: non resta che concludere legalmente il contratto alla presenza della popolazione.

    Ad Abramo basterà un pezzetto di terra, come gli è bastato Isacco.. Quel pezzetto di terra sarà segno e pegno, caparra e anticipazione della promessa della terra.[1]

    L’acquisto del terreno: vv. 12-18

    Efron accetta la proposta e avanza il prezzo di quattrocento sicli d’argento (“che cosa è fra me e te?”) cosa da lui ritenuta a buon mercato. Tuttavia si tratta di una cifra esorbitante (la Samaria è valutata in seimila sicli: 1Re 16,24). Al che sembrerebbe che Efron sia un approfittatore. Ma per Abramo quel terreno è troppo importante per stare a questionare sente di dover fare quel passo a qualunque prezzo.

    L’acquisto viene dunque ufficializzato con un vero e proprio atto notarile.

    Sara è seppellita: vv. 19-20

    Ora Abramo possiede un terreno in terra di Canaan nel quale egli vede anticipata la realizzazione della promessa della terra. E’ un sepolcro nel quale saranno posti oltre a Sara, Abramo stesso, Isacco e Rebecca, Giacobbe e Lia.

    Sara muore in terra straniera ma non sarà sepolta in terra di Canaan: è sepolta nella terra promessa. . Potranno alla loro morte riposare nella propria terra e non in una tomba hittita.

    Questa proprietà non è che un piccolo inizio, un seme per una promessa ancor più grande.[2]

    Ora Abramo ha un pozzo e un sepolcro

    “Per chi crede, per chi ha giocato la sua vita sulla Parola di Dio, anche un piccolo segno, anche un’anticipazione, che agli occhi degli altri appare poco, è una gioia immensa, perché questo poco è la caparra dell’amore di Dio che promette tutto” (C.M. Martini).



    [1] Atti 7:5 ma non gli diede alcuna proprietà in esso, neppure quanto l’orma di un piede, ma gli promise di darlo in possesso a lui e alla sua discendenza dopo di lui, sebbene non avesse ancora figli.

    [2] L’esperienza cristiana e la promessa della vita non scaturisce forse anche per noi dall’umile segno di un sepolcro nuovo ormai vuoto?

  • 16 Mar

    Fondamenti di Vita Monastica

    una guida spirituale

    P. Placide  Deseille


    PROLOGO

    Regola fondamentale – e in certo senso unica – del monaco è l’Evangelo, che egli si impegna a mettere in pratica radicalmente in una vita profetica. Dovrà cercare in tutto di seguire l’esempio e l’insegnamento del Signore Gesù, che si è fatto volontariamente il servo di tutti, mite e umile di cuore. Dovrà lasciarsi penetrare dallo spirito delle beatitudini e del discorso della montagna;  alla conformità ad essi ci conduce, nel profondo del nostro cuore, lo Spirito santo che è stato riversato in noi e che ci vuole plasmare a immagine del Figlio diletto del Padre.

    1.  LA VITA MONASTICA

    È per unirsi a Dio con cuore indiviso e per vivere di Lui solo che il monaco ha lasciato il mondo, rinunciando alle sue gioie più legittime. Il timore di Dio, un amore radicale, la profonda conoscenza della sua grandezza e della sua santità, e al tempo stesso della sua sconvolgente vicinanza, ispireranno tutte le scelte e le decisioni del monaco e unificheranno la sua vita.

    2.  LA PREGHIERA CONTINUA

    Il monaco ha rinunciato a formarsi una famiglia, si è liberato dalle occupazioni del mondo per esprimere con tutto il proprio essere – anima e corpo – la sua consegna piena e radicale al Signore. La potenza del Cristo risorto l’ha raggiunto, l’ha strappato alle condizioni normali dell’esistenza umana, per consentirgli di vivere in una comunione cosciente e il più possibile continua con la santa Trinità. La sua vita è una profezia vivente della Gerusalemme celeste, nella quale entrerà tutta l’umanità salvata dopo la risurrezione finale. Per questo la preghiera – in chiesa o in cella – sarà la sua prima occupazione; consacrerà lunghi momenti alla lode di Dio e all’intercessione per tutti gli uomini, e si sforzerà di trasfigurare anche le sue occupazioni più materiali facendone una liturgia interiore.

    3.  IL COMBATTIMENTO INVISIBILE

    Il deserto è il luogo nel quale Dio si rivela all’uomo e parla al suo cuore, ma è anche l’arena dove ci si consegna a un’aspra lotta contro tutte le tendenze sregolate che portiamo in noi. Nella solitudine queste tendenze si manifestano più facilmente, sotto forma di “pensieri“, cioè di suggestioni, impulsi, fantasie malvagie. Il monaco potrà resistere soltanto se instancabilmente supplica Cristo, vincitore di Satana, di risvegliare in lui, mediante il dono dello Spirito santo, impulsi e desideri buoni, capaci di elevarlo al di sopra delle tentazioni. “Signore Gesù Cristo, Figlio di Dia, abbi pietà di me, peccatore!“.

    4.  LE PASSIONI

    La tradizione monastica ci ha consegnato il catalogo delle otto principali tentazioni, dei “pensieri” malvagi, che muovono guerra all’uomo gola, lussuria, amore per il denaro, tristezza, collera, acedia, vanagloria, superbia.  Questa lista dei nemici della vita spirituale può aiutarci a restare vigilanti e a smascherare i loro assalti.

    5.  IL DISCERNIMENTO

    La legge di Cristo non consiste semplicemente in un codice esteriore di precetti, ma si identifica con la presenza interiore dello Spirito santo che trasforma i nostri cuori, donando loro il senso e il desiderio di ciò che piace a Dio. Il monaco dovrà dunque essere quanto mai attento alle ispirazioni e alle mozioni dello Spirito di Dio.  Satana però è molto abile nel trasformarsi in angelo di luce; occorre dunque discernere l’origine delle ispirazioni che riceviamo e la reale natura delle nostre motivazioni. Da questo dipende la qualità spirituale dei nostri atti e non soltanto la loro rettitudine esteriore. Ogni azione buona in se stessa può essere viziata da una motivazione impura. Questa vigilanza su di sé non deve essere confusa con un’introspezione minuziosa e soffocante;  saranno piuttosto l’umiltà del cuore e una serena attenzione alla divina presenza a consentire all’anima di percepire come d’istinto ciò che è in dissonanza con lo Spirito di Dio.

    6.  IL RICORSO AL PADRE SPIRITUALE

    Nessuno è buon giudice di se stesso.  Per questo motivo normalmente ci è necessario l’aiuto di un altro, per vagliare i nostri desideri e discernere le decisioni da prendere nella nostra vita. Il vero discernimento degli spiriti è un carisma che generalmente è accordato solo a chi ha un cuore profondamente rappacificato. E così i padri hanno sempre insistito sulla necessità della manifestazione dei pensieri a un padre spirituale.

    7.  L’UMILTÀ

    L’umiltà di cuore è l’anima di ogni forma di ascesi nella vita monastica.  L’ascesi non è altro che un mezzo per esprimere – anche con il proprio corpo – e per radicare profondamente dentro di noi una rinuncia vera alla nostra pretesa autosufficienza, all’affermazione e all’esaltazione del nostro io, alla nostra sete di onore e di stima, e tutto questo affinché non siamo più noi stessi a vivere in noi, ma il Cristo (cf: Gal 2,20), che è l’amore, e che ha donato se stesso al Padre e agli uomini.

    8.  L’OBBEDIENZA

    La tradizione monastica ha considerato l’obbedienza come la migliore espressione dell’umiltà vera e non illusoria. Chi obbedisce, infatti, non si ritiene superiore agli altri; rinuncia a imporre le sue idee, i suoi gusti, le sue preferenze; egli non ricerca il proprio interesse, ma quello degli altri e – a imitazione del Signore – preferisce servire piuttosto che essere servito.

    9.  LA CARITÀ

    Sostentati dal medesimo pane eucaristico, dissetati dallo stesso Spirito, i cristiani sono una sola cosa nel corpo di Cristo. L’amore vicendevole è così la legge fondamentale della loro vita, un amore che esige l’incessante dono della vita per gli altri attraverso le molte rinunce – umili ma spesso assai dolorose – che la vita quotidiana porta con sé. La comunità monastica è un luogo privilegiato per esercitarsi in questo amore che, attraverso la morte a noi stessi, ci fa entrare nella vita e nella gioia dell’indivisibile Trinità.

    10.  L’OSPITALITÀ

    L’amore cristiano è universale. La carità del monaco non può dunque limitarsi, anche sul piano della sua realizzazione pratica, agli orizzonti della comunità. Essa deve rimanere aperta e saper accogliere ospiti e pellegrini attraverso i quali Cristo viene a visitarla. I monasteri saranno così dei luoghi di preghiera e di vita spirituale per tutti quelli che cercano Dio. Per molti una breve visita al monastero, l’accoglienza di un fratello, la partecipazione a un Ufficio, saranno l’occasione per intravedere, oltre la dura scorza della vita quotidiana, la presenza segreta del regno di Dio su questa terra.

    11.  IL SILENZIO

    Il silenzio è una condizione indispensabile per una preghiera profonda ed è al tempo stesso un frutto di questa preghiera. Deve tuttavia essere praticato con discernimento, e non avrà alcun valore spirituale se non è accompagnato dal silenzio del cuore, al quale si giunge soltanto con una strenua lotta contro le divagazioni dello spirito, contro le preoccupazioni inutili e contro la ruminazione interiore dei desideri frustrati, delle tristezze, delle gelosie e dei rancori.

    12.  LA POVERTÀ

    La rinuncia ad appropriarsi i beni materiali e l’abitudine ad accontentarsi di poco costituiscono, per il monaco, un mezzo per esprimere e per realizzare un perfetto spossesso di sé. Mediante questa povertà evangelica egli rinuncia a chiudersi nella propria autosufficienza e nel proprio individualismo, per entrare più pienamente in comunione con Dio e con gli uomini. La povertà testimonia la preferenza che accordiamo ai beni del regno di Dio rispetto ai beni terreni, il nostro abbandono filiale al Padre celeste e il nostro amore per il prossimo.

    13.  L’AUSTERITÀ DI VITA

    Nell’uomo, anima e corpo sono uniti a tal punto che il comportamento esteriore è il segno e il coadiutore efficace degli atteggiamenti interiori, che dispongono il cuore ad accogliere la grazia o che sono il frutto di questa accoglienza. Per questo il monaco deve unire, alla lotta contro i pensieri e alla pratica delle virtù evangeliche, l’ascesi del corpo. Essa gli consente di attualizzare, in una maniera veramente personale e che lo impegna con tutto il suo essere, il mistero della morte e della risurrezione al quale è stato iniziato attraverso il battesimo.

    14.  IL DIGIUNO E IL DOMINIO DI SÉ

    In un racconto di grande portata simbolica il Libro della Genesi ha descritto il peccato d’orgoglio di Adamo e di Eva come una disobbedienza a un divieto concernente il cibo. E gli Evangeli mostrano nel digiuno di Cristo nel deserto uno dei primi gesti significativi mediante il quale egli manifestava che suo cibo era fare la volontà del Padre suo ed esprimeva la sua dipendenza filiale nei suoi confronti, prefigurando così l’offerta di sé sulla croce. In tutta la Scrittura il digiuno intende esprimere l’umiltà del cuore, la supplica insistente e l’attesa di Dio.  L’obbedienza alle regole del digiuno e la sobrietà riguardo al cibo aiuteranno il monaco a spogliarsi del suo egoismo, del suo “io” carnale e diventeranno simbolo della trasfigurazione progressiva del suo essere per opera dello Spinto santo.

    15.  LE VEGLIE

    La silenziosa oscurità della notte favorisce il ritorno al cuore e la preghiera. D’altra parte, nulla meglio delle veglie è in grado di esprimere la vigilanza dell’anima attenta a non lasciarsi vincere dal torpore spirituale, e il desiderio di incontrare Dio nella preghiera e nell’ascolto della Parola, nell’attesa del suo ritorno.

    16.  LE METANÌE

    Stare in piedi, chinare il capo, prostrarsi costituiscono gli atteggiamenti tradizionali della preghiera cristiana. Mentre la posizione eretta esprime la gioia pasquale, la piena confidenza con la quale ci rivolgiamo al nostro Padre celeste, l’inchino del capo e la prostrazione simbolizzano l’adorazione, la coscienza della nostra piccolezza e della nostra fragilità dinanzi alla santità divina e la compunzione che nasce al ricordo dei nostri peccati. Questi atteggiamenti favoriscono il risveglio della nostra sensibilità spirituale profonda.

    17.  IL LAVORO

    Ogni giorno il monaco deve consacrare diverse ore a un lavoro, che gli consenta di guadagnarsi la vita e di aiutare gli altri. Questo lavoro sarà contemporaneamente un esercizio di ascesi e un fattore di equilibrio e di realismo spirituale. Dovrà essere adempiuto in un clima di preghiera e di carità fraterna, con coraggio e generosità, ma evitando l’eccessiva agitazione e l’attivismo.

    18.  AGIRE NEL SEGRETO

    Il monaco deve fare tutto quello che dipende da lui, per testimoniare Cristo e non causare scandalo a nessuno. Il desiderio di essere gradito agli uomini o il timore di non esserlo, la ricerca della loro stima e della loro considerazione, non dovranno però mai trasformarsi nelle motivazioni di fondo del suo comportamento. Desideroso di vivere soltanto per Dio, sotto il suo sguardo, si sforzerà piuttosto di nascondere tutto quello che potrebbe attirare su di lui l’attenzione o metterlo in mostra. Niente è più contrario allo spirito dell’Evangelo che il rispetto umano e il fariseismo.

    19.  UMILE FIDUCIA

    La nostra salvezza non può venire dall’uomo, ma da Dio solo. La condizione fondamentale del progresso spirituale è non sperare nulla da se stessi e sperare tutto da Dio. Per diverse vie il Signore ci può condurre alla convinzione intima, reale della nostra debolezza e della nostra impotenza. Può permettere a questo fine dei lunghi periodi di aridità interiore, dei ‘fallimenti’ dolorosi e perfino la ricaduta negli stessi peccati. L’importante è non scoraggiarsi, non rinunciare a perseguire uno scopo apparentemente inutile, ma restare al proprio posto e ricominciare senza stancarsi la lotta, supplicando il Signore dal profondo del cuore di venire in nostro aiuto. Si dovrà forse attendere a lungo, prima che la fiducia in noi stessi – profondamente radicata in noi – venga estirpata. Ma Dio è fedele, e il suo intervento è altrettanto certo quanto il sorgere dell’aurora dopo la notte.

    20.  IL DONO DELLO SPIRITO SANTO

    Il cristiano è rinnovato dallo Spirito santo nel battesimo e gli altri sacramenti accrescono in lui questo dono iniziale. Ma esso sfugge alla sua coscienza, non dà ordinariamente l’esperienza di Dio. Perché l’uomo prenda coscienza della presenza intima di Cristo, perché acquisti il gusto e il senso profondo di Dio e delle cose di Dio ed esperimenti così un rinnovamento interiore decisivo, sono necessarie nuove effusioni dello Spirito. Questi doni che aprono la nostra vita spirituale all’esperienza e che segnano l’ingresso nella piena maturità cristiana, sono totalmente gratuiti; non sono legati a un sacramento, non sono accordati abitualmente se non a quelli il cui cuore è stato purificato da una lunga lotta spirituale, condotta con l’aiuto segreto della grazia. Nel mondo monastico, gli uomini che ne sono favoriti si sono generalmente mostrati avari di confidenze su tal genere di esperienze. Soltanto chi ha gustato può conoscere il sapore; parlarne sarebbe esporsi all’incomprensione e rischierebbe di eccitare l’immaginazione di quelli che non hanno ancora avuto accesso a tali esperienze e di farli sprofondare nell’illusione. Quello che ci lasciano intravedere dei doni di Dio, tuttavia, è in grado di ravvivare il nostro fervore e ci fa meglio comprendere il senso del nostro sforzo spirituale.

  • 16 Mar

    “DI INIZIO IN INIZIO…”

    FASI DEL CAMMINO E SUO SVILUPPO

    di p. Attilio Franco Fabris


    Scrive Allport nel suo studio su L’individuo e la sua religione: “A somiglianza di un tessitore di arazzi, l’uomo è obbligato a lavorare dietro al disegno che crea. Tenendo i fili separatamente ed inserendoli con cura, può soltanto sperare che il modello da lui formato sia intero quando lo vedrà dalla parte anteriore. Da dietro  il telaio l’intrico di fili appare sconcertante. Strutturare un modello integrale è compito la cui durata comprende una vita intera ed anche più”.

    Nella vita l’uomo si pone un progetto dinanzi, delle tappe da raggiungere, nella speranza che alla fine tale progetto si realizzi pienamente. Così anche nella vita spirituale bisogna aver chiaro quale è l’ideale che ci viene posto dinanzi dalla Parola di Dio. Questo fa sì che si abbia chiaro quale sia il filo conduttore ed unificatore di tutto il nostro cammino.

    Per evitare abbagli ci viene rassicurato dalla teologia spirituale che non si tratta di un ideale di  perfezione ontologica, ovvero del raggiungimento (impossibile) della perfetta misura della grazia santificante (ciò fu possibile solo in Gesù e in Maria sua madre). Non si tratta di un ideale di perfezione ascetica in conformità alle virtù. Tutto ciò sarà, ma solo come conseguenza del vero e autentico scopo della vita spirituale che è l’orientamento e la tensione di tutto noi stessi ad un dialogo di fede con il Padre, dialogo che si attua con Cristo e per Cristo nella forza dello Spirito d’amore nella Chiesa.

    Guida e modello del nostro cammino è Gesù: “Io sono la via, la verità e la vita”, al quale siamo chiamati a conformarci.

    Tale orientamento dovrebbe idealmente essere il più possibile armonioso: ossia dovrebbe dipanarsi e svilupparsi nella totalità della persona e in tutte le sue dimensioni. Nei trattati di teologia spirituale ritroviamo degli itinerari ben delineati e precisi in questo senso.

    Ma sappiamo bene che ciò, il più delle volte, non può avvenire: l’esperienza dice che il ritmo di crescita non vede quasi mai un progresso strettamente parallelo tra le varie dimensioni presenti nell’uomo.

    In tal senso, detto per inciso, un obiettivo parallelo a quello fondamentale di carattere teologico, o meglio una conseguenza, è il poter giungere ad una sempre maggiore unificazione del nostro essere (i santi ci appaiono persone unificate e perciò pacificate). Questo tenendo conto che il peccato originale ha sovvertito l’ordine e l’equilibrio che erano dati all’uomo; l’unificazione e pacificazione appaiono uno dei frutti del cammino spirituale soprattutto di conversione.

    Non possiamo così aspettarci che il cammino spirituale sia piano e dritto. Esso segue invece ritmi alternati, imprevedibili, diseguali ( s. Ignazio parla di tempi di desolazione e di consolazione!). Esso infatti è “molto più vivo, mobile, imprevedibile, misterioso, ricco della vita biologica” (Thrular). Esso non procede meccanicamente quasi assommando i nostri meriti, ma in modo discontinuo a seconda dell’intensità delle nostre operazioni spirituali. Ed è altrettanto vero che è “sempre Dio che fa crescere”, ovvero che il progredire dipende direttamente da Dio e soltanto indirettamente dall’uomo.. In questi agisce, si muove e opera lo Spirito santo che “soffia dove vuole”(Gv 3,8).

    Forse l’immagine di cammino spirituale risulta generica ed imprecisa: essa rimanda infatti, in certo qual senso, solo a cambiamenti di luogo  più che a progressive trasformazioni interne della persona stessa. Qualche autore spirituale propone una visione spaziale più complessa: la spirale. La linea a spirale avanza e sale, ma nel medesimo tempo torna su se stessa se pur a livelli sempre superiori al precedente, incontra sì gli stessi punti di riferimento ma su un altro piano. Fuori di metafora quel che si vuol dire è un concetto importante: il progresso spirituale non consiste tanto e in primo luogo l’apprendimento di realtà nuove diverse dalle precedenti, (i paesaggi che cambiano), quanto invece sul tornare sulle nostre medesime realtà interiori ma viste con uno sguardo diverso, a diversa profondità, con una fede diversa (così ad es. la nostra vocazione, la nostra storia, il nostro limite, il nostro peccato…).

    Forse anche l’immagine della crescita organica e psichica della nostra natura umana è la più adeguata a descrivere il tipo di crescita spirituale: l’organismo attraversa varie fasi, cambia, si trasforma pur rimanendo sempre lo stesso.

    Nella storia della spiritualità si sentì subito la necessità di una riflessione sistematica sul progredire della vita cristiana. Già s. Paolo ad es. comincerà a distinguere cristiani “bambini” bisognosi di latte e “adulti” capaci di cibo solido.

    Furono tentate diversissime sistematizzazioni basate ad es. sui gradi della carità, sui gradi dell’ umiltà (RB)… La suddivisione di origine patristica fu quella maggiormente accolta essa distingueva tre fasi: la purificazione l’illuminazione e l’unione.  Nei secoli seguenti essa fu ripresa vista però con i termini di:  fase dei principianti, dei proficienti dei perfetti.

    Gli incipienti.

    Sono coloro che intraprendono deliberatamente la via interiore, generalmente  motivato da una prova o da una illuminazione, le quali generano un desiderio di una perfezione più alta e di una vita cristiana più autentica. Si verifica conciò una vera e propria conversione all’interiorità. Nell’intraprendere questa discesa in sé stesso l’incipiente percepisce gli ostacoli e le ripugnanze verso la vita soprannaturale: il primo esercizio è l’esame di coscienza, la pratica delle virtù, la penitenza. Scopo di questo periodo è principalmente la purificazione dell’anima sempre più in profondità. I dinamismi della persona (mente, cuore, affetti) sono sempre più indirizzati a Dio.

    I Proficienti.

    Qui l’anima sperimenta una fase spirituale più pacificata. L’illuminazione spirituale è più intensa e quasi nulla è concesso al peccato anche veniale. Sarà importante conservare la tensione del fervore dello Spirito perché il progresso divenga continuo. La maggior parte si arrestano qui. Nel grado dei proficienti si cerca la conformazione a Cristo. Cristo diviene l’oggetto di un amore personale, il che implica la custodia del cuore e il raccoglimento dello spirito. Tutte le creature ormai non sono più considerate in se stesse, ma in relazione alla volontà di Cristo per la gloria del Padre. Le virtù preponderanti sono l’abnegazione di sé affinché Cristo possa crescere in noi e l’umiltà. scopo di questo grado è l’illuminazione della mente e la conformità a Cristo nell’azione, grazie all’eucaristia e alla familiarità col vangelo.

    I Perfetti.

    Questo terzo grado non indica uno stato senza possibilità di ulteriore progresso, ma piuttosto uno stato in cui le condizioni per un progresso continuo sono possedute in modo permanente e stabile. Qui l’uomo spirituale è ormai abitualmente docile alle ispirazioni dello Spirito Santo e la sua vita è tutta permeata dalla virtù teologale della carità.

    Come non ricordare il cammino classico proposto dal grande mistico Giovanni della Croce: la vita spirituale interpretata come salita al Monte Carmelo verso la cima “dove abitano soli l’onore e il piacere di Dio”. Lungo la salita l’anima andrà incontro alla purificazione dei sensi, il cui scopo è di sottometterli alla ragione sorretta dalla grazia, procede poi la purificazione dello spirito, grazie al quale questo si sottomette all’azione dello Spirito santo.

    Sulla linea della teologia narrativa verrà proposto ad es. l’itinerario simbolico della ricerca del santo Graal in cui il battezzato deve mettersi in cammino per partecipare alla pienezza del mistero. I cavalieri devono passare successivamente per i tre luoghi dell’iniziazione per giungere alla vera conoscenza – il castello di Corbenye, la Nave di Salomone, la città di Sarraz.

    Interessante anche “Il viaggio del pellegrino” di John Bunyan, il grande scrittore allegorico inglese del ‘600. Il suo racconto narra, in forma di sogno, le vicende di Bunyan-Cristiano che fugge, col suo pesante fardello dalla città della Distruzione in cerca di salvezza verso la Città Celeste. Nel suo pellegrinaggio Cristiano passa attraverso la Palude dello Sconforto, la Valle dell’Umiliazione, il Colle del Lucro, la Valle dell’Ombra della Morte, il Castello della Disperazione, la Fiera della vanità… e incontra decine di personaggi che ora lo ostacolano, ora lo distraggono, ora lo accompagnano: Fedele, Vergogna, Poca-Fede, Speranzoso, Chiaccherone, il Gigante Disperazione, il Demone Apollion che raffigurano vizi e virtù che abitano in ognuno di noi.

    Più vicina a noi vediamo Teresa di Lisieux. In lei vediamo un’alternativa nell’intraprendere il cammino spirituale: piuttosto che spendere le proprie forze per camminare o per scalare la montagna, l’anima preferisce essere portata. In questo cammino  di carattere “passivo” i simboli sovrabbondano. Teresa percepisce la sua vita come una attraversata verso la riva del Cielo. Ella usa l’immagine della “Navicella”: “quando ero triste – ci dice – ripetevo le parole che mi facevano sempre rinascere nel cuore la pace e la forza: La vita è la tua nave e non la tua dimora. Già da piccolissima queste parole mi restituivano il coraggio; ancora adesso, nonostante gli anni che cancellano tante impressioni di pietà infantile, l’immagine della nave affascina ancora la mia anima e l’aiuta a sopportare l’esilio…La Sapienza stessa non dice forse che “La vita è come il vascello che solca i flutti agitati senza lasciare alcuna traccia del suo rapido passaggio”?”.  Ella vede la montagna da scalare, la sua salita al Carmelo, il sentiero del Nulla: non le sembra però possibile inerpicarvisi per la sua debolezza. Ella dunque si industrierà a ricercare “una piccola via dritta dritta, corta corta, una piccola via tutta nuova”: si tratterà di farsi piccola per farsi portare e “l’ascensore che deve innalzarmi fino al cielo sono le vostre braccia o Gesù”.

    Perché questo bisogno di sistematizzazione, simbolizzazione del cammino spirituale? Perché in modo particolare l’uomo deve raffigurarsi le diverse tappe e soprattutto i pericoli che incontrerà?  “Se il tempo fosse semplicemente sinonimo di continuità, basterebbe incamminarsi fiduciosamente sulla via spirituale;: essa ci condurrebbe al termine prefissato. Ma i Maestri che ci hanno preceduto sanno che il percorso di questa via è lungo, incerto, insidioso: di qui la tentazione di tornare indietro: Ne conoscono l’angustia, mentre ampie sono le vie che conducono alla perdizione o al fallimento: Ecco perché ci hanno spesso narrato il loro faticoso cammino, il cui esito felice non può non incoraggiare il  discepoli: Alcuni, con maggior precisione ancora, hanno voluto tracciare un itinerario tipico: chi potrebbe ancora temere di smarrirsi?” (A: Bernard).

    Nel parlare di progresso spirituale forse è meglio evitare di parlare di tappe della vita spirituale: la tappa indica l’acquisizione definitiva di un tratto di strada per iniziarne uno del tutto nuovo che non ha nulla a che fare né col precedente né col successivo. E’ preferibile parlare di fasi: ovvero di momenti forti, di situazioni (cfr Rahner) decisive per la crescita. Le fasi si prestano a confini più sfumati, esse si possono mescolare, frapporre, saltare sia per iniziativa di Dio sia per il possibile interferire di eventi esterni o interni significativi.

    La meta del cammino spirituale qui in terra non sarà mai pienamente raggiunta. La nostra santità può  essere semplicemente una santità in via. “Da un inizio ad un altro inizio fino all’inizio senza fine della vita eterna” (Gregorio Niss.). Questa santità ha una caratteristica sua, tipicamente evangelica: non si tratta come già detto di perfezione ontologica o ascetica in cui siamo noi, per sola nostra iniziativa che vogliamo e possiamo essere santi.

    Prendiamo invece coscienza che la santità non è raggiunta attraverso i soli nostri sforzi, una santità ricercata volontaristicamente è destinata a rivelare prima o poi la sua illusione. Proprio perché santità in via si tratta di una santità “non più desiderata nella ricerca della nostra perfezione, ma vissuta nell’offerta della nostra povertà” (R. Voillaume).

    Essa trova la sua dinamica nella carità: nella comunione vitale con Dio e i fratelli. E sarà proprio l’amore la misura e la meta della vera perfezione e il criterio di discernimento.

    Dobbiamo perciò fare molta attenzione sul come percepiamo e pensiamo la santità, mettendo al bando quelle immagini standardizzate e molto idealizzate (per non dire disincarnate) di santità cristiana.

    Sarà utile ripercorrere il proprio cammino; segnalarne le tappe significative… dare loro un nome e un significato…

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