Gli ebrei in Egitto:
una condizione di sofferenza e umiliazione
Es. 1
di p. Attilio Franco Fabris
E’ evidente che gli episodi narrati nei primi capitoli dell’esodo e così solennemente celebrati dalla tradizione biblica di fatto furono episodi del tutto marginali rispetto alla grande storia dell’impero egiziano durante la XIX dinastia. Alla lettura ufficiale dei fatti sfugge l’avventura di per sé apparentemente irrilevante di quel gruppo di ebrei sbandati.
Ma alla coscienza di Israele si manifesta nel fatto che proprio con questa vicenda di così scarsa rilevanza si è iniziata una storia che assumerà un significato fondamentale in ordine alla salvezza non solo di Israele, ma anche della comunità dei discepoli di Gesù e di tutti i popoli: è una storia che inizia con un atto di fede che impara a leggere nel proprio passato, nella storia, il compimento delle promesse sempre aperte e attuali di Dio.
Il racconto dell’esodo ci pone così fuori da ogni prospettiva mitologica o mitizzante. La nascita del popolo di Israele, a differenza di altre mitologie religiose, non viene fatta risalire in alcun modo ad un’origine divina e gloriosa. Né il sorgere di questo popolo viene fatto risalire ad un nucleo di personalità particolarmente brillanti. Esso ci colloca invece all’interno di una lettura teologica di una storia di oppressione e umiliazione.
Potremmo interrogarci: in quale misura la nostra fede è radicata nella storia? Nel riuscire con uno sguardo di fede a leggere negli avvenimenti la presenza e l’agire del Dio della promessa? Non corriamo forse talvolta il rischio di rinchiudere la fede in schemi mentali, in belle affermazioni teoriche, in teologie costruite in modo asettico e a tavolino ma staccate dalla vita? È il rischio di disincarnare la fede biblica, di “sciogliere” la carne di Cristo.
Una minoranza che rischia di “dimenticare”.
Gli israeliti ormai si erano da tempo ambientati nel paese straniero ospitante e fertile d’Egitto: le famiglie vi si trovano bene, aumentava il numero dei figli. Il testo abbonda di verbi per descrivere questa prosperità: gli israeliti fruttificarono, pullulavano si moltiplicarono, divennero molto forti, il paese si riempì di loro… Tutto questo è già in parte realizzazione della benedizione data ad Abramo: una delle tre promesse (quella di una discendenza numerosa: cfr Gn 12,3) si sta realizzando! Sembrerebbe quasi un’età dell’oro.
Ma proprio questa situazione racchiude in sé un pericolo mortale, un veleno micidiale: è il rischio di accontentarsi, di adattarsi che porta con sé inevitabilmente un vuoto progressivo di memori. Il ricordo del proprio passato scompare, e con essa tutto il bagaglio di esperienze spirituali e culturali accumulato pazientemente dai propri padri. Così il divario tra le generazioni si amplia sempre più trascinando con sé, in questa sorta di vuoto, una dimenticanza di sogni più grandi, la rinuncia della ricerca di una propria identità e di un proprio spazio. Un popolo senza memoria, senza radici è inesorabilmente destinato a scomparire, a dissolversi. Israele in Egitto rischia di scordarsi della stessa esperienza di Dio fatta da Abramo e delle promesse da lui ricevute. Questo fa sì che gli israeliti siano ormai un gruppo senza passato né futuro.
È un rischio sempre possibile: Ma guardati e guardati bene dal dimenticare le cose che i tuoi occhi hanno viste: non ti sfuggano dal cuore, per tutto il tempo della tua vita. Le insegnerai anche ai tuoi figli e ai figli dei tuoi figli.(Dt 4,9).
Viviamo in un contesto in cui è facile “dimenticare”, trascurare le “domande” essenziali, rinunciare alla ricerca. Questo anche nella vita delle nostre comunità e a livello individuale. Il prezzo è alto: la coscienza ne è assopita con conseguenze disastrose.
Una minoranza angariata e umiliata
Il nostro testo avverte il lettore di un cambiamento di governo in Egitto che comporta un cambiamento di politica. Il re d’Egitto – probabilmente Ramses II – “che non aveva conosciuto” Giuseppe adotta una politica molto diversa dai predecessori. L’espressione “non conoscere” equivale a non voler tener conto di tutto un passato. Per il nuovo faraone la politica adottata è di tipo ultranazionalistica, il che comporta un’opera di repressione di tutti gruppi etnici stranieri ritenuti pericolosi per l’unità dell’immenso impero.
Questo gruppo straniero minoritario inizia così ad essere visto come presenza. Si tratta di un destino comune a tutte le minoranze lungo la storia umana! La presenza di minoranze non recuperabili entro l’ambito sociale dei gruppi dominanti o entro determinati e sicuri spazi psicologici, si traduce sempre in un incubo minaccioso (1,12). L’«altro» nella sua diversità di cultura, razza, lingua, religione viene percepito come un pericolo, una minaccia per la propria sicurezza. La diversità invece di ricchezza suscita problema e la soluzione più immediata e facile è la sua eliminazione (cfr Caino e Abele, Isacco e Ismaele, Giacobbe e Esaù…i due fratelli della parabola).
Questa situazione fa sì che il gruppo degli ebrei inizi ad essere sottoposto alla prepotenza di chi ha come obiettivo il negare loro ogni loro originalità culturale e spirituale. Ci troviamo di conseguenza dinanzi ad un gruppo di minoranza umiliato (1,11), che non ha né la forza né il coraggio di reagire. Si tratta ormai di una massa lavorativa da sfruttare da parte dei potenti del momento: gli egiziani fecero lavorare i figli di Israele trattandoli duramente (1,11.13); Resero loro amara la vita costringendoli a fabbricare mattoni di argilla e con ogni sorta di lavoro nei campi; e a tutti questi lavori li obbligarono con durezza (1,14).
La prima azione repressiva nei confronti della minoranza ebraica è perciò di angariarla con lavori forzati al fine di “rendere loro amara la vita”. I verbi sono eloquenti: “schiacciare con pesi faticosi” (v. 11) “prendere in orrore” (v. 12) “asservire al lavoro con crudeltà” (vv. 13.14) “rendere la vita amara con lavori terribili” (v. 14). Un’osservazione: il verbo tradotto con “schiacciare” e “affliggere” (vv. 11.12) è anah, della stessa radice di anw o ani, povero da cui anawim: poveri, viene indicata un’esperienza di sventura, indigenza, afflizione, umiliazione caratteristica del povero che non ha alcuna difesa.
Il fine di questa politica è di porre la minoranza ebrea sotto stretto controllo e nello stesso tempo sfruttarla. Il lavoro forzato e massacrante agisce come deterrente, esso debilita, toglie energie, non concede tempo per coltivare sogni e desideri, abbruttisce solamente, pone sotto la paura di più gravi oppressioni. Si vuole ad ogni costo esattamente “rendere amara la vita”. Perché? Perché è ferma volontà dell’oppressore estirpare ogni desiderio di libertà. Troppe volte, anche oggi, il lavoro si trasforma in strumento di oppressione e sfruttamento della vita dell’altro, del povero che non può rivendicare diritti, del minore incapace di autodifendersi. Allora il lavoro, da occasione per lasciar esprimere la creatività e assicurare il diritto-dovere a procurarsi ciò che è necessario alla vita, si trasforma in schiavitù, oppressione, ingiustizia “che grida vendetta al cospetto di Dio”. Siamo in direzione opposta al significato del lavoro attribuito nei primi due capitoli della genesi, dove esso diviene occasione per esprimere la dignità di colui che partecipa all’opera divina e umana della creazione.
Angariare col lavoro significa schiavizzare. Cosa significa essere schiavi? Significa essere privati della libertà di vivere e di essere se stessi e di decidere della propria vita. E’ sentirsi sacrificati violentemente contro la propria volontà dal più forte, sentirsi privati dei propri talenti, delle proprie forze a beneficio unico di altri che non ti vedono come persona ma come merce. E’ non poter rivendicare in alcun modo i propri diritti fondamentali. E’ perciò una non-vita perché è negata la stessa possibilità di aspirare ad un futuro, è negato il diritto fondamentale e più prezioso della vita stessa che è la libertà dono prezioso di Dio all’uomo. E’ una drammatica esperienza di morte: maledette le città in cui sono stati schiavi i tuoi figli, maledetta colei che li ha trattenuti (Br 4,32).
La seconda azione repressiva consiste in una violenta imposizione di limitazione delle nascite. I figli maschi devono essere immediatamente sterminati. Questa crudele decisione assume una valenza drammatica che investe non solo la vita del nascitura ma quella dello stesso popolo. Eliminare il figlio maschio significa troncare non solo la vita del piccolo, ma anche tutta la futura discendenza. Uccidere il figlio è troncare la speranza della vita che è riposta i lui, è per l’uomo antico il figlio rappresenta l’unica alternativa per sconfiggere la morte. Questa azione repressiva è diametralmente in contrasto con la promessa fatta ad Abramo di una numerosa discendenza. La potenza del male vuole vanificare, rendere in-credibile la promessa di Jhwh.
Queste decisioni del faraone appaiono sagge! Ma è sempre la paura che impone le sue decisioni “sagge” (“comportiamoci saggiamente” proclama il faraone al suo popolo v. 10) dettate dalla preoccupazione e dall’ansia per la vita. A livello politico forse “sagge” lo sono effettivamente, ma nell’ottica della storia della salvezza questa paura e la persecuzione che ne consegue segnano il rifiuto della benedizione di Dio che passa attraverso Israele. Commenta il salmo 104: “E Israele venne in Egitto, Giacobbe visse nel paese di Cam come straniero. Ma Dio rese assai fecondo il suo popolo, lo rese più forte dei suoi nemici. Mutò il loro cuore e odiarono il suo popolo, contro i suoi servi agirono con inganno” (vv. 23-25)
Il senso del primo capitolo è chiaro: Israele sta vivendo una situazione impossibile, una esperienza progressiva di morte e di non speranza. Eppure proprio nella sofferenza e nella schiavitù si realizzerà la salvezza del popolo di Dio e, per prima cosa, nascerà l’uomo che sarà strumento nelle mani di Dio per questa salvezza.
Ci interroghiamo: quante situazioni oggi di ingiustizia, di sopruso, di diffidenza e di rifiuto dell’altro. A livello internazionale, nazionale ma anche di quartiere e in … casa nostra. Le dinamiche delle risposte “sagge politicamente” (ne mettiamo sempre in atto) solleticano una soluzione facile, ma è quella di Dio? In questa complessità e confronto come agire da credenti?
E a livello personale: dove sperimento questa situazione di oppressione e umiliazione? Qual è il “faraone” che mi schiaccia e mi vuole annientare? E dove invece rischio di assumere le fattezze del “faraone” nei confronti dell’altro che avverto come una minaccia? Quali strategie utilizzo?
Il “timor di Dio” dei semplici
Nei primi quattordici capitoli del libro dell’esodo la figura del faraone più che ad un preciso riferimento storico di un personaggio viene a simbolizzare una sorta di ipostatizzazione di tutte le forze negative e oppressive che si schierano in opposizione al progetto di Dio. In tal modo il racconto descrive il realissimo e perenne scontro storico che sempre pone sulla scena della storia due posizioni inconciliabili: da un lato sta la violenza autoritaria di un potere che si auto divinizza rappresentato dal faraone dall’altro la resistenza a questa pretesa assoluta da parte di coloro che credono in Dio e che la bibbia denomina “timore di Dio” (1,17.21). E’ la resistenza degli anawim, di Azaria Misaele e Anania che non si prostrano dinanzi alla statua di Nabucodonor, dei fratelli Maccabei, di coloro che rifiutano di adorare “la Bestia” (cfr Ap)- Qui la resistenza è rappresentata è data da due povere donne che trovano il coraggio di opporsi all’autorità del faraone e che osano disobbedirgli: Ma le levatrici temettero Dio e non fecero come aveva loro ordinato il re (1,17).
Il popolo di Dio non nasce gloriosamente da esperienze di vittorie politiche, culturali, sociali di successo, esso viene scandalosamente partorito da Dio in una situazione di umiliazione profonda e quando esso si vede contestato il diritto fondamentale di esistere (1,15-22).
Questo fatto posto agli inizi della storia di Israele ha un significato preciso: perché nasca un popolo di credenti, Dio utilizza le persone umanamente più insignificanti, senza peso politico diremmo in questo caso. E’ questa una dimensione essenziale all’economia della salvezza rivelata dall Scrittura: Sta scritto infatti: Distruggerò la sapienza dei sapienti e annullerò l’intelligenza degli intelligenti. Dov’è il sapiente? Dov’è il dotto? Dove mai il sottile ragionatore di questo mondo? Non ha forse Dio dimostrato stolta la sapienza di questo mondo? (1Cor 1,19-20). I disegni della Provvidenza non si attualizzano mediante strumento forti e potenti.
Queste due donne assumono un ruolo profetico: per via misteriosa l’opposizione nascosta che la gente povera contrappone al potere oppressivo del potere, fosse anche in quello spazio ristrettissimo ma fondamentale che è la propria coscienza, acquista sempre la funzione di una profezia per il bene di tutti, essa rivendica sempre la dignità, il valore e il diritto di ciascuno.
Il frutto di questo coraggio motivato dal “timor di Dio”, è la benedizione di Dio stesso: “diede loro una numerosa famiglia” (1,21). Da notare che “loro” è usato alla forma maschile e quindi non si riferisce tanto e solo alle due donne, quanto piuttosto a tutto il popolo: è tutto Israele che tramite queste due donne riceve da Dio il beneficio di una “numerosa famiglia”, ovvero il dono della speranza.
Ma anche se derisa da questo raggiro la cattiveria del faraone non disarma, anzi!: ogni figlio maschio che nascerà agli ebrei lo getterete nel Nilo, lascerete vivere ogni figlia” (1,22). Quindi non più sole le figlie dovranno essere eliminate ma anche i neonati maschi. Questa è volontà di estirpare ormai la radice dell’esistenza di Israele: è una prima “soluzione finale”. Il male non si arrende, percorre sempre tutte le possibili strade pur di contrastare il disegno di Dio. È una vicenda che si ripete lungo la storia (ritornerà a proposito della strage dei bambini di Betlemme “dai due anni in giù” dettata dal disperato tentativo di Erode il Grande di eliminare inutilmente il suo concorrente: il re-messia). Ancora una volta, come con Caino e Abele, la convivenza delle diversità appare impossibile: uno dei due dovrà per forza essere eliminato perché l’altro si senta al sicuro e più forte.
Ci interroghiamo: la coscienza delle due donne levatrici di Israele è più forte della paura. Il loro coraggio è attinto dal “timore di Dio”. Riconosco la mia debolezza nei momenti in cui la paura ha avuto il sopravvento sulla voce di Dio che risuonava nel sacrario del mio intimo.
Ringrazio il Signore per quelle volte in cui ho saputo ascoltare quella stessa voce trovando la forza di operare scelte secondo la volontà di Dio.
Ringrazio infine il Signore per il dono della testimonianza di tutti coloro, che soprattutto nel nascondimento e nel silenzio, senza alcun applauso da alcuno, lungo la storia hanno saputo seguire il dettame della coscienza “voce di Dio di fronte alla prepotenza e alla prevaricazione del male e della menzogna.